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28/01/2012 14:36 | |
Cari Amici, visto che l'approfondimento a questo spinoso argomento ha avuto largo consenso e vasto interesse da parte di tutti voi (e ci hanno scritto anche alcuni sacerdoti ringraziandoci per questo impegno non facile), abbiamo deciso di aprire una pagina nuova in modo da lasciare l'altra: CRISI DEL SACERDOZIO? Cerchiamo di capire le ragioni .... sempre in collegamento e pronta per la meditazione....
Invitiamo i lettori a premunirsi della Corona del Santo Rosario e di adottare uno o più sacerdoti nella Preghiera.... affinchè la lettura di questi spazi non scivoli solo in una semplice curiosità o per affermare le proprie opinioni, dobbiamo vedere il Sacerdote in quel Prossimo da amare, amare e amare con la Preghiera innanzi tutto e poi anche materialmente dove fosse necessario! I Sacerdoti sono un dono prezioso per noi! Solo per mezzo di loro il Signore ci porta la Salvezza.... preghiamo per loro e aiutiamoli, amiamoli, adottiamoli....e lodiamo per loro il Signore Gesù e la Vergine Santa!
Vi ricordiamo di approfondire la pagina dedicata al Santo Curato d'Ars ; il Magistero del Papa ai Sacerdoti e Seminaristi ; in sostanza, sfogliate con calma tutta la Sezione dedicata al Sacerdote ....
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Preti pedofili? No, omosex
di Roberto Marchesini 28-01-2012
«I casi di abuso dei minori da parte di preti hanno poco a che vedere con la pedofilia, molto di più con l’omosessualità». E’ quanto afferma lo psicoterapeuta olandese Gerard van den Aardweg, rileggendo criticamente i dati delle ricerche compiute per conto della Conferenza Episcopale statunitense dal John Jay College of Criminal Justice. Van den Aardweg è autore di numerosi studi sull’omosessualità, in italiano è stato pubblicato dalla editrice Ares un suo volume, “Omosessualità e speranza”.
Professor van den Aardweg, lo studio del John Jay College offre spunti interessanti per comprendere il problema degli abusi sui minori da parte dei preti. In particolare mostra come la maggior parte degli abusi non hanno niente a che vedere con la pedofilia. Ci sono due rapporti distinti del John Jay College (JJR), Il primo rapporto (JJR 1), del 2004, presenta statistiche sulle accuse di molestie a minori attribuite a sacerdoti e diaconi tra il 1950 e il 2002. Il secondo rapporto (JJR 2), del 2011 era mirato ad analizzare la personalità dei presunti molestatori e le circostanze esterne che potrebbero averne favorito la condotta, prendendo in esame il periodo dagli anni ’60 fino al 1985, quando le accuse di abusi sono già in diminuzione. Spesso però si dimentica che tutti i dati contenuti nei JJR sono relativi perché non è mai stato verificato quante di queste accuse si sono poi rivelate vere o false. Se anche un 10% delle accuse fossero state smentite, i risultati della ricerca sarebbero tutti da rivedere. Le statistiche sulla pedofilia erano già presenti nel primo rapporto, ma gli estensori non spesero troppe parole per dire che il principale problema non era la pedofilia. Nel secondo rapporto questa conclusione viene detta in modo molto più chiaro. Allo stesso tempo però sarebbe esagerato anche dire, al contrario, che la pedofilia non c’entra nulla con le accuse di molestie. Pedofilia significa contatti sessuali di adulti con bambini prima della pubertà, che in generale si assume arrivi attorno agli 11 anni.
Quali sono i dati principali contenuti nel JJR 1 riguardo al comportamento pedofilo dei preti? Il 12% di tutti i casi tra il 1950 e il 2002 coinvolgeva bambini minori di 11 anni, cosa che viene quindi classificata come pedofilia omosessuale; il 6,6% dei casi riguardava invece le bambine sotto gli 11 anni, quindi pedofilia eterosessuale. Vale a dire che in meno del 20% dei casi totali si trattava di pedofilia. Certo, se consideriamo che ci sono una percentuale di ragazzi fra gli 11 e i 14 anni che non hanno ancora raggiunto la pubertà, possiamo ipotizzare che anche una parte di questi casi sia da classificare come pedofilia, in ogni caso non si supererebbe il 30% dei casi totali. Ma questo è un calcolo teorico, e comunque anche in questo caso il principale problema non è la pedofilia. Inoltre parliamo di “casi” di pedofilia, non di percentuali di preti pedofili. Infatti nel JJR 1 troviamo che il 3% dei preti accusati erano responsabili del 26% di tutti i casi denunciati tra il 1950 e il 2002. Curiosamente il rapporto non dice l’età e il sesso dei minori molestati da questo 3%. Ma anche se una parte di questi preti fosse pedofila, la percentuale dei preti pedofili tra quelli accusati di molestie è certamente molto al di sotto del 26%. Per questo il JJR 2 ha dovuto ribadire che è sbagliato definire pedofili tutti i preti accusati di abuso dei minori. Se poi siano il 5 o il 10% o cos’altro, nessuno può dirlo, i due rapporti non lo hanno chiarito.
Ma se il problema principale non è la pedofilia, qual è allora il problema nella sessualità della maggioranza dei preti coinvolti? L’82% di tutte le presunte molestie consumate tra il 1950 e il 2002 aveva come vittime dei maschi: il 12% sotto gli 11 anni, come abbiamo visto, il restante 70% tra gli 11 e i 17 anni. Il che vuol dire che la grande maggioranza dei casi ha a che fare con l’«ordinaria» omosessualità. In generale i pedofili non si rivolgono a bambini dello stesso sesso, e certamente neanche gli eterosessuali. Inoltre, è innegabile che una rilevante parte di uomini con orientamento omosessuale sia attratta dagli adolescenti e preadolescenti. Secondo una ricerca, circa il 20% dei maschi omosessuali attivi preferisce adolescenti e preadolescenti, un altro 20% preferisce ragazzi nella tarda adolescenza e giovani adulti. Quindi circa il 40% di maschi omosessuali ha un’attrazione per gli adolescenti, che viene chiamata efebofilia.
Una buona notizia è che dagli anni ’80 il numero di casi denunciati di molestie ha iniziato a diminuire, il che sembra coincidere con le misure preventive prese nel 1981 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger. Sì, questo documento vaticano può avere aiutato, soprattutto se lo vediamo come parte di sforzi congiunti durante il pontificato di Giovanni Paolo II per mettere mano alla confusione morale e dottrinale causata dal dissenso nella Chiesa del post-Concilio, che senza dubbio è stato uno dei fattori più importanti nell’abbassare la resistenza di molti preti ai propri impulsi sessuali, omo o eterosessuali che fossero. Ma sicuramente ci sono stati altri fattori a giocare un ruolo in questa diminuzione di casi. Ad esempio, in alcuni paesi a causa dell’abbandono di tanti preti e religiosi, molte scuole e istituzioni educative hanno dovuto chiudere. La frequenza in chiesa dei ragazzi è diminuita drasticamente: in altre parole sono venuti meno quei luoghi dove alcuni preti con problemi potevano avvicinare i ragazzi. Non dobbiamo però credere che sia calato allo stesso modo il comportamento omosessuale dei preti. Una visione più liberal riguardo al comportamento omosessuale era già penetrata in profondità nella Chiesa. E contemporaneamente molti giovani con orientamento omosessuale erano entrati nei seminari e diventati sacerdoti. Inoltre l'età dei partner sessuali di seminaristi e preti omosessuali si sposta in avanti man mano che il comportamento omosessuale viene sempre più apertamente tollerato e normalizzato.
Eppure il JJR 2 non tira le conclusioni. Anzi, sposta l’attenzione su una rigida educazione moralistica ricevuta in famiglia come causa di comportamenti scorretti, e comunque non rileva alcuna differenza sostanziale tra i preti accusati di abusi e gli altri sacerdoti. Come mai queste conclusioni, peraltro non suffragate da nessun dato oggettivo? Sicuramente questa è una parte molto debole del rapporto, io credo per due motivi essenzialmente: il primo è che i ricercatori del John Jay College sono incompetenti quanto a investigazioni “psicologiche”. Secondo motivo, sicuramente più importante, è il tentativo di coprire l’evidente “impronta” omosessuale in tutta la faccenda: questo è un tabù che deve essere protetto. Per questo si è evitato di cercare e presentare i dati come una seria ricerca, non viziata da pregiudizi, dovrebbe fare: dividendo tutti i casi in categorie molto ben individuate: quelli che hanno abusato di maschi minori di 11 anni, quelli che hanno abusato di femmine sotto gli 11 anni, quelli che hanno abusato di maschi tra gli 11 e i 13 anni, le femmine della stessa età, e così via. In questo modo la verità emergerebbe con chiarezza.
Quindi le conclusioni del JJR 2 sono fuorvianti… Lo sono perché cercano di nascondere la realtà, accreditando una delle parole d’ordine del movimento gay: gli omosessuali non hanno una maggiore inclinazione alle molestie rispetto agli eterosessuali. Così si arriva a fare contorsioni linguistiche per non dire ciò che appare evidente. Ad esempio il JJR 2 rifiuta con sdegno “la diffusa speculazione… che l’identità omosessuale è legata agli abusi… soprattutto a causa dell’alto numero di vittime di sesso maschile”. Speculazione? Quasi l’85% delle vittime sono adolescenti maschi e loro pensano di poter liquidare tranquillamente il fattore omosessuale? Questa è cecità voluta. Nessuno che abbia familiarità con il problema delle molestie subite da parte di insegnanti, in istituti, nelle famiglie adottive e così via, può dubitare delle motivazioni omosessuali che sono all’origine della maggioranza dei casi. Piuttosto è la conclusione del JJR 2 secondo cui i preti che abusano di minori non sono distinguibili dagli altri preti a essere pura fantasia. Questo vorrebbe dire che ci sarebbe stato qualche migliaio di normali preti eterosessuali che hanno cercato gratificazione sessuale con ragazzi invece che con ragazze. E’ una cosa priva di senso, chi può darvi credito? *********** ricordiamo un passo della Lettera del Papa qui integralmente postata in apertura thread :4. Negli ultimi decenni, tuttavia, la Chiesa nel vostro Paese ha dovuto confrontarsi con nuove e gravi sfide alla fede scaturite dalla rapida trasformazione e secolarizzazione della società irlandese. Si è verificato un velocissimo cambiamento sociale, che spesso ha colpito con effetti avversi la tradizionale adesione del popolo all'insegnamento e ai valori cattolici. Molto sovente le pratiche sacramentali e devozionali che sostengono la fede e la rendono capace di crescere, come ad esempio la frequente confessione, la preghiera quotidiana e i ritiri annuali, sono state disattese. Fu anche determinante in questo periodo la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento proposto dal concilio Vaticano ii fu a volte frainteso e in verità, alla luce dei profondi cambiamenti sociali che si stavano verificando, era tutt'altro che facile valutare il modo migliore per portarlo avanti. In particolare, vi fu una tendenza, dettata da una buona intenzione ma errata, a evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari. È in questo contesto generale che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell'abuso sessuale dei ragazzi, che ha contribuito in misura tutt'altro che piccola all'indebolimento della fede e alla perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti.
Solo esaminando con attenzione i molti elementi che diedero origine alla presente crisi è possibile intraprendere una chiara diagnosi delle sue cause e trovare rimedi efficaci. Certamente, tra i fattori che vi contribuirono possiamo enumerare: procedure inadeguate per determinare l'idoneità dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa; insufficiente formazione umana, morale, intellettuale e spirituale nei seminari e nei noviziati; una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità e una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali, che hanno portato come risultato alla mancata applicazione delle pene canoniche in vigore e alla mancata tutela della dignità di ogni persona. Bisogna agire con urgenza per affrontare questi fattori, che hanno avuto conseguenze tanto tragiche per le vite delle vittime e delle loro famiglie e hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione.
[Modificato da Caterina63 28/01/2012 14:41] Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine) |
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30/01/2012 14:15 | |
S.E. Rev.ma Mons. MARIO OLIVERI , AI SACERDOTI AI DIACONI Lettera sul Motu Proprio "Summorum Pontificum" del Papa Benedetto XVI Sulla celebrazione della Santa Messa
Cari Sacerdoti e Diaconi,
è con molta amarezza d'animo che ho dovuto constatare che non pochi di Voi hanno assunto ed espresso una non giusta attitudine di mente e di cuore nei confronti della possibilità, data ai fedeli dal Motu Proprio "Summorum Pontificum" del Papa Benedetto XVI, di avere la celebrazione della Santa Messa "in forma straordinaria", secondo il Messale del beato Giovanni XXIII, promulgato nel 1962.
Nella "Tre Giorni del Clero" del settembre 2007, ho indicato con forza e chiarezza quale sia il valore ed il vero senso del Motu Proprio, come si debba interpretare e come si debba accogliere, con la mente cioè aperta al contenuto magisteriale del Documento e con la volontà pronta ad una convinta obbedienza. La presa di posizione del Vescovo non mancava della sua pacata autorevolezza, avvalorata dalla sua piena concordanza con un atto solenne del Sommo Pontefice. La presa di posizione del Vescovo era fondata dalla ragionevolezza del suo argomentare teologico sulla natura della Divina Liturgia, sulla immutabilità della sostanza nei suoi contenuti soprannaturali, ed era altresì fondata su rilievi di ordine pratico, concreto, di buon senso ecclesiale.
Le reazioni negative al Motu Proprio ed alle indicazioni teologiche e pratiche del Vescovo sono quasi sempre di carattere emotivo e dettate da superficiale ragionamento teologico, cioè da una visione "teologica" piuttosto povera e miope, che non parte e che non raggiunge la vera natura delle cose che riguardano la fede e l'operare sacramentale della Chiesa, che non si nutre della perenne Tradizione della Chiesa, che guarda invece ad aspetti marginali o per lo meno incompleti delle questioni. Non senza ragione, avevo, nella Tre Giorni citata, fatto precedere alle indicazioni operative ed ai principi guida di azione una esposizione dottrinale sulla "Immutabile Natura della Liturgia".
Ho saputo che in alcune zone, da parte di diversi Sacerdoti e Parroci, vi è stata anche la manifestazione quasi di irrisione verso fedeli che hanno chiesto di avvalersi della facoltà, anzi del diritto, di avere la celebrazione della Santa Messa in forma straordinaria; e pure espressione di disistima e quasi di ostilità nei confronti di Confratelli Sacerdoti ben disposti a comprendere ed assecondare le richieste di fedeli. Si è anche opposto un diniego, non molto sereno, pacato e ragionato (ma ben ragionato non poteva essere) di affiggere avviso della celebrazione della Santa Messa in "forma straordinaria" in determinata chiesa, a determinato orario.
Chiedo che sia deposta ogni attitudine non conforme alla comunione ecclesiale, alla disciplina della Chiesa ed alla obbedienza convinta dovuta ad importanti atti di magistero o di governo.
Sono convinto che questo mio richiamo sarà accolto in spirito di filiale rispetto ed obbedienza.
Sempre con riferimento agli interventi del Vescovo in quella 'Tre Giorni del Clero" del 2007, debbo ancora ritornare sulla doverosa applicazione delle indicazioni date dal Vescovo circa la buona disposizione che deve avere tutto ciò che riguarda lo spazio della chiesa che è giustamente chiamato "presbiterio". Le indicazioni "Circa il riordino dei presbiterii e la posizione dell'altare" sono poi state riportate nell'opuscolo "La Divina Liturgia", alle pagine 23-26.
Quelle indicazioni, a più di quattro anni di distanza, non sono state applicate ovunque e da tutti. Erano e sono indicazioni ragionevoli, fondate su buoni principi e criteri di ordine generale, liturgico ed ecclesiale. Ho dato tempo affinché di esse i Sacerdoti e soprattutto i Parroci ragionassero con i Consigli Parrocchiali Pastorali e per gli Affari Economici, e si tenesse anche opportuna catechesi liturgica ai fedeli. Chi avesse ritenuto le indicazioni non opportune o di difficile applicazione, avrebbe potuto facilmente trattarne con il Vescovo, con animo aperto ad una migliore comprensione delle ragioni che hanno spinto il Vescovo a darle, affinché fossero messe in pratica in modo il più omogeneo possibile in tutte le chiese della Diocesi . Esse non sono certamente contrarie alle norme ed anche allo "spirito" della riforma liturgica che si è attuata nel post-Concilio e partendo dal Concilio Vaticano II. Se qualcuno avesse avuto fondati dubbi avrebbe potuto esprimerli con sincerità e con apertura al sereno ragionamento, e con la volontà rivolta all'obbedienza, dopo che la mente avesse avuto maggiore illuminazione.
Stimo che ormai sia trascorso ampio tempo di attesa e di tolleranza, e quindi sia arrivato il momento dell'esecuzione di quelle indicazioni da parte di tutti, in modo da giungere alla prossima Pasqua con tutti i presbiterii riordinati, od almeno con lo studio di riordino decisamente avviato, là dove il riordino richieda qualche difficoltà di applicazione.
Va da sé che la non applicazione delle indicazioni, nel tempo che ho menzionato, non potrebbe che essere considerata come un'esplicita disobbedienza. Ma ho fiducia e speranza che ciò non avvenga.
Mi affligge non poco l'avervi dovuto scrivere questa Lettera, assicurandovi che la riterrò come non scritta, se essa avrà avuto buona accoglienza e positivo effetto.
Lo scritto porta con se tutto il mio desiderio che esso giovi ad un ravvivamento e ad un rafforzamento della nostra comunione ecclesiale e della nostra comune volontà di adempiere al nostro ministero con rinnovata fedeltà a Cristo ed alla sua Chiesa.
Vi chiedo infine molta preghiera per me e per il mio ministero apostolico, e di gran cuore Vi benedico.
Albenga, 1° gennaio 2012 Solennità della Madre di Dio.
Monsignor + Mario Oliveri, vescovo
Fonte (per testo e foto): sito ufficiale della Diocesi di Albenga-Imperia
*** Nostre personali considerazioni: "Bene Scripsisti de quibus, Mario"
Quelle di Mons. Oliveri sono toni insolitamente duri per un Vescovo paterno e di altissimo profilo teologico e diplomatico -anche nel senso tecnico del termine, visto il cursus honorum di Oliveri- quel egli è. Ma si vede che "ogni limite ha una pazienza e anche i diplomatici si arrabbiano", per parafrasare il Principe della risata. A detta di molti, Sua Eccellenza rarissimamente volte aveva usato parole così severe e mai aveva rimproverato esplicitamente, per di più in una lettera pubblica, i suoi sacerdoti , tacciandoli di miopia teologica e pastorale, di arrogante disobbedienza (a lui e al Santo Padre) e superficialità! Per quel poco che noi, per diretta esperienza personale, abbiamo potuto sperimentare, possiamo assicurare che l'intransigenza del Vescovo e la sua severissima lettera di richiamo all'ordine sono tristemente giustificate ma necessarie. Figuriamoci quindi quanti altri e seri motivi a noi sconosciuti ha avuto Mons. Oliveri per arrivare a scrivere questa infuocata lettera!
Senza tema di essere smentiti, perchè più volte le abbiamo potuto personalmente riscontrare, possiamo confermare le pecche, colpite dalle bacchettate episcopali, di non pochi sacerdoti della Diocesi di Albenga-Imperia, in particolare di alcuni Vicariati Foranei (Oneglia, in primis, salvo tre o quattro rare -e giovani- eccezioni) e addirittura del capitolo della stessa cattedrale di Porto Maurizio di Imperia, canonico prevosto compreso. (Accanto quindi a sacerdoti di eccellenza -ad. es. Cattedrale di Albenga, Vicariato di Porto Maurizio, a Laigueglia, ad Alassio- ci sono anche preti disobbedienti, per usare le parole del Vescovo). Per quel che conta, noi non possiamo far altro che condividere la lettera di Mons. Oliveri, complimentarci con Sua Eccellenza per l'intransigenza, la coerenza e la forte determinazione e per il suo esplicito richiamo alla filiale obbedienza da parte del suo clero, e, soprattutto condividiamo i suoi intenti e le basi teologiche ed ecclesiologiche che ne stanno alla base.
Siamo certi che i sacerdoti fin ora arroganti o troppo spavaldi, memori dell'obbedienza promessa nelle mani del rispettivo Vescovo consacrante, mantengano i voti presi e, abbassando la cresta, obbediscano al loro Vescovo e al Papa, anche per scongiurare impliciti e conseguenti sanzione o provvedimenti canonici e non, nei loro confronti. In questo modo, ce lo augiriamo, potranno dare il buon esempio ai Sacerdoti (e ai Vescovi!) delle due diocesi vicine: Ventimiglia-San Remo e Savona-Noli. I nostri complimenti a Mons. Oliveri!!! Dio La benedica! Ad multos annos, Eccellenza! Roberto
*****
ci associamo a questo giubilo e ringraziamento, supplicando i Sacerdoti ad essere obbedienti, umili e rispettosi delle Leggi della Chiesa, così da essere per noi laici veri e santi testimoni di ogni virtù....
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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05/03/2012 14:00 | |
Postiamo volentieri quanto segue da messainlatino perchè anche noi ci ritroviamo nelle parole del parroco..... buona riflessione!
Pubblichiamo la mail di un sacerdote, nostro lettore, che ha inviato a VitaPastorale per esporre le sue critiche con parole chiare e per chiedere quindi di non ricevere più la rivista. Noi non possiamo che sottoscrivere e condividere appieno il punto di vista e le considerazioni del sacerdote! Se molti altri sacerdoti e fedeli abbonati seguissero l'esempio, forse la Redazione (su cui scrive don Sirboni!) inizierebbe a farsi delle domande, e a rendersi conto forse di aver preso una bella sbandata che dura ormai da troppo tempo.
Gentilissimi redattori del blog "messainlatino",
vorrei segnalarvi la mail che ho mandato poco fa alla redazione di vita pastorale in cui chiedo di disdire l'abbonamento (che non ho mai effettuato tra l'altro...) spero possa esservi utile come incoraggiamento e, se ne ritenete utile la pubblicazione, anche di esempio per altri. [certamente! speriamo che moltri altri sacerdoti seguano il suo esempio! N.d.r.] Credo che se ci si sforza tutti insieme possiamo diminuire la tiratura di questo mostro cartaceo.
w la Tradizione! un parroco.
Ecco il testo della lettera:
"Gentile redazione di "vita pastorale"
la nostra parrocchia, anzi le nostre parrocchie dato che sono parroco di tre, riceve ogni mese "vita pastorale". Con la presente mail vorrei disdire questo abbonamento da noi mai sottoscritto (forse lo mandate a tutti i parroci?) perchè, per dirla senza giri di parole, lo riteniamo un vero e proprio spreco di carta. E non solo perchè ne arrivano tre copie per un solo sacerdote, ma proprio per i contenuti.
E' da mesi che vorrei scrivervi ma finora non sono riuscito, anche perchè ritenevo utile leggere ciò che gli altri pensano,anche se questo non corrisponde (per niente) al mio pensiero. Poi avendo tra le mani l'ultimo numero (n° 3 marzo 2012) mi sono convinto che la misura sia colma, e che per me non ci sia più niente di istruttivo nel leggervi, dato che certi articoli e lettere mi causano ogni volta rabbia e delusione. Mi piacerebbe spiegarvi che la Chiesa non è ferma agli anni '70, che i veri nostalgismi non sono più quelli tridentini ma i vostri della nuova chiesa del postconcilio (che non ha assolutamente nulla a che vedere con la vera Chiesa del Concilio nè tantomeno con la tradizione bimillenaria) e che, a Dio piacendo, arriverà il tempo di vedere chi ha ragione e chi torto.
La rabbia che provo a leggere certe cose pubblicate (ne citerò poi alcune) viene poi mitigata dal sorriso, sapendo che almeno il 70% dei seminaristi di qualunque diocesi e di qualunque istituto comincia a ridere delle vostre teorie liturgiche. Che è più grande la vostra rabbia e il vostro livore verso la Tradizione che la nostra nel leggervi. Che è chiaro che si tratti del vostro "canto del cigno" che, spero, un giorno sarà solo un (brutto) ricordo.
Vorrei citare alcune bestialità contenute nel nuovo numero:
1_ la lettera di mons. Papamanolis: trovo stridente che da un lato ci sia da parte sua un grande interessamento verso il baratro economico della Grecia e il tempo di scrivere certe idiozie (parlavamo di livore? come volevasi dimostrare). Che senso ha il suo intervento? perchè ha ricevuto un tale avvallo solo perchè è un vescovo? come si permette di criticare le liturgie romane? Come si permette di giudicare 1500 anni di storia liturgica?
2_ l'elogio a "don" Gallo: parliamoci chiaro, quello è un vecchio eretico. La sua età ci può solo rassicurare che tra poco sarà tutto finito. Solo due esempi, se avessi tempo ne troverei decine. Preciso: liberissimi di scrivere ciò che volete, i soldi e la carta sono vostri. Liberissimo io di non leggervi, chiaramente. Però ritengo che le tre copie che ricevo mensilmente non debbano più far parte della vostra tiratura. Ho sconsigliato e sconsiglierò i periodici S. Paolo dalla mia parrocchia, molti parroci ormai sono convinti di ciò. Se don Alberione potesse parlare!
cordialmente,
lettera firmata"
A PARROCI E PARROCCHIANI INVITIAMO AD ADERIRE AL IL TIMONE ..... COME ALLA RIVISTA LITURGIA CULMIN ET FONS DI DON ENRICO FINOTTI ....
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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13/03/2012 09:56 | |
Presa da AlternativaFutura per l'Italia del 03.12.2011, vi proponiamo una mirabile riflessione sulla dignità (sacramentale ed ontologica) del sacerdote cattolico, densa di definizioni teologiche e citazioni di altissimo profilo religioso. Come mai diamo spazio a queste righe, che dopo tutto non fanno altro che ripetere quanto consacrato da secoli dalla Dottrina Cattolica sul ministero del sacerdote? Perché non solo è ottima cosa ricordare quello che in questi ultimi 60 anni sembra dimenticato, o caso mai, sbiadito al sole della superficialità e delle interpretazioni errate dello "spirito-del-concilio", ma perchè a scrivere queste cose è un seminarista di un seminario "diocesano" (e non quindi t"radizionalista").
E a noi non sembra cosa da poco. A quel seminarista, se da quel 03 dicembre 2011 non è stato radiato dal seminario a causa di questo scritto, auguriamo buon cammino di formazione e di continuare in questa forma mentis che sembra ben chiara e solida.
Roberto
"Pensiamoci un pò, povero prete! Se il prete per una volta parla dieci minuti in più: "Non è che un parolaio!". Se possiede un'auto personale: "E' un capitalista mondano". Se non ha un'auto personale: "Non riesce ad aggiornarsi". Se visita i fedeli in parrocchia: "Gironzola dappertutto". Se rimane in casa: "E' distaccato, non ama nessuno". Se parla di offerte e chiede qualcosa: "Non pensa che a guadagnare". Se non chiede niente: "Lascia cadere la chiesa". Se è in confessionale e si attarda: "E' interminabile". Se va in fretta: "Non è capace di ascoltare". Se incomincia la Messa puntuale: "Il suo orologio va avanti". Se ha un piccolo ritardo: "Fa perdere tempo alla gente". Se abbellisce la chiesa: "Getta via soldi inutilmente". Se non lo fa: "Manda tutto in malora". Se è giovane: "Non ha esperienza". Se è vecchio: "E' rimbambito e non sa adattarsi ai tempi". Se muore: "Non c'è nessuno che lo sostituisca".
Chi è che ci prepara l’Eucaristia e ci dona Gesù? È il Sacerdote. Se non ci fosse il Sacerdote, non esisterebbero né il Sacrificio della Messa, né la S. Comunione, né la Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli, E chi è il Sacerdote? "È l’uomo di Dio” (2 Tim. 3, 17). Difatti, è solo Dio che lo sceglie e lo chiama da mezzo agli uomini, con una vocazione specialissima (“Nessuno assume da sé questo onore, ma solo chi è chiamato da Dio”: Ebr. 5, 4), lo separa da tutti gli altri (“segregato per il Vangelo”: Rom. 1, 1), lo segna con un carattere sacro che durerà eternamente(“Sacerdote in eterno”: Ebr. 5, 6) e lo investe dei divini poteri del Sacerdozio ministeriale perché sia consacrato esclusivamente alle cose di Dio: il Sacerdote “scelto fra gli uomini è costítuito a pro’ degli uomini in tutte le cose di Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Ebr. 5, 1-2).
Con la Sacra Ordinazione il Sacerdote viene consacrato nell’anima e nel corpo. Diviene un essere tutto sacro, configurato a Gesù Sacerdote. Per questo il Sacerdote è il vero prolungamento di Gesù; partecipa della stessa vocazione e missione di Gesù; impersona Gesù negli atti più importanti della redenzione universale (culto divino ed evangelizzazione); è chiamato a riprodurre nella sua vita l’intera vita di Gesù: vita verginale, povera, crocifissa. È per questa conformità a Gesù che egli è “ministro di Cristo fra le genti” (Rom. 15, 16), guida e maestro delle anime (Matt. 28, 20). S. Gregorio Nisseno scrive: “Colui che ieri era confuso col popolo, diventa suo maestro, suo superiore, dottore delle cose sante e capo dei sacri misteri”.
Ciò avviene ad opera dello Spirito Santo, poiché “non è un uomo, non un angelo, non un arcangelo, non una potenza creata, ma lo Spirito Santo quegli che investe del Sacerdozio” (S. Giovanni Crisostomo). Lo Spirito Santo configura l’anima del Sacerdote a Gesù, impersona Gesù in lui, di modo che “il Sacerdote all’altare opera nella stessa Persona di Gesù” (S. Cipriano), ed “è padrone di tutto Dio” (S. Giovanni Crisostomo). Non ci sarà da meravigliarsi, allora, se la dignità del Sacerdote viene considerata “celestiale” (S. Cassiano), “divina” (S. Dionisio),“infinita” (S. Efrem), “venerata con amore dagli stessi Angeli” (S. Gregorio Nazianzeno), tanto che “quando il Sacerdote celebra il Sacrificio Divino, gli Angeli stanno vicini a lui, e in coro intonano un cantico di lode in onore di colui che si immola” (S. Giovanni Crisostomo). E ciò avviene ad ogni S. Messa!
Sappiamo che S. Francesco d’Assisi non volle diventare Sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. Venerava i Sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi “Signori”, poiché in essi vedeva solamente “il Figlio di Dio”; e il suo amore alla Eucaristia si fondeva con l’amore al Sacerdote, il quale consacra e amministra il Corpo e Sangue di Gesù. In particolare, venerava le mani dei Sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione; e anzi baciava anche i piedi e le stesse orme dove era passato un Sacerdote. La venerazione per le mani consacrate del Sacerdote, baciate con riverenza dai fedeli, è da sempre nella Chiesa. Basti pensare che durante le persecuzioni, nei primi secoli, un oltraggio particolare ai Vescovi e ai Sacerdoti consisteva nell’amputare loro le mani, perché non potessero più né consacrare né benedire. I cristiani raccoglievano quelle mani e le conservavano come reliquie fra gli aromi. Anche il bacio delle mani del Sacerdote è una espressione delicata di fede e di amore a Gesù che il Sacerdote impersona. Più si ha fede e amore, più si è spinti a prostrarsi dinanzi al Sacerdote e a baciare quelle mani “sante e venerabili” (Canone Romano) fra cui Gesù si fa amorosamente presente ogni giorno. “O veneranda dignità del Sacerdote - esclama S. Agostino - nelle cui mani il Figlio di Dio si incarna come nel seno della Vergine!”. E il S. Curato d’Ars diceva: “Si dà un gran valore agli oggetti che sono stati deposti, a Loreto, nella scodella della Vergine Santa e del Bambino Gesù. Ma le dita del Sacerdote, che hanno toccato la Carne adorabile di Gesù Cristo, che si sono affondate nel calice, dove è stato il suo Sangue, nella pisside dove è stato il suo Corpo, non sono forse più preziose?”.
Forse non ci abbiamo mai pensato, ma è così. E gli esempi dei Santi lo confermano. Il sacerdote secondo il mondo di oggi, non è più una figura di riferimento e d’esempio. Nel corso degli anni soprattutto nel XX secolo, l’uomo ecclesiastico è cambiato come persona, in particolare nel vestiario dopo il grande Concilio Vaticano II. Oggi sentiamo molto parlare di scandali all’interno della Chiesa, come la pedofilia e altre cose del genere, di conseguenza il mondo esterno percependo questi esempi del tutto negativi si sottrae alla dottrina della Chiesa, ignorando molti sacerdoti e non, che fanno del bene a tanta gente! Ormai è diventata una tendenza del momento criticare e insultare i preti e il Santo Padre, ma principalmente questi atteggiamenti sono rivolti all’Istituzione di cui essi ne sono partecipi.
Noi cattolici dovremmo far riflettere questi soggetti sull’importanza della Chiesa, accoglierli e non emarginarli, rammentandoli un passo del Vangelo di Matteo: “ Non giudicate e Dio non vi giudicherà. Egli infatti vi giudicherà con lo stesso criterio che usate voi per giudicare gli altri. Con la stessa misura con la quale voi trattate gli altri, Dio tratterà voi. Perché stai a guardare la pagliuzza che è nell’occhio di un tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? ” (Mt 7,1-3)"
Sem. Antonio Picca Molfetta (Bari)
Mons. Athanasius Schneider (*) è l'instancabile pellegrino al servizio della liturgia tradizionale che fa il giro del mondo per incoraggiare fedeli e sacerdoti ad avere il vero spirito della Chiesa nella celebrazione della Santa Messa. Secondo lui, la liturgia della Chiesa è ferita da cinque piaghe che sono come le Cinque Piaghe del Corpo di Gesù.
Ecco alcuni brani della sua recente conferenza:
La prima piaga, la più evidente, è la celebrazione del sacrificio della messa in cui il prete celebra volto verso i fedeli, specialmente durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro dell'adorazione dovuta a Dio. Questa forma esteriore corrisponde per sua natura più al modo in cui ci si comporta quando si condivide un pasto. Ci si trova in presenza di un circolo chiuso. E questa forma non è assolutamente conforme al momento della preghiera ed ancor meno a quello dell'adorazione.
La seconda piaga è la comunione sulla mano diffusa dappertutto nel mondo. Non soltanto questa modalità di ricevere la comunione non è stata in alcun modo evocata dai Padri conciliari del Vaticano II, ma apertamente introdotta da un certo numero di vescovi in disobbedienza verso la Santa Sede e nel disprezzo del voto negativo nel 1968 della maggioranza del corpo episcopale.
La terza piaga, sono le nuove preghiere dell'offertorio. Esse sono una creazione interamente nuova e non sono mai state usate nella Chiesa. Esse esprimono meno l'evocazione del mistero del sacrificio della croce che quella di un banchetto, richiamando le preghiere del pasto ebraico del sabato. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa d'Occidente e d'Oriente, le preghiere dell'offertorio sono sempre state espressamente incardinate al sacrificio della croce.
La quarta piaga è la sparizione totale del latino nell'immensa maggioranza delle celebrazioni eucaristiche della forma ordinaria nella totalità dei paesi cattolici.
La quinta piaga è l'esercizio dei sevizi liturgici di lettori e di accoliti donne, così come l'esercizio degli stessi servizi in abito civile penetrando nel coro durante la Santa Messa direttamente oltre lo spazio riservato ai fedeli . Quest'abitudine non è giammai esistita nella Chiesa, o per lo meno non è mai stata la benvenuta. Essa conferisce alla messa cattolica il carattere esteriore di qualcosa di informale, il carattere e lo stile di un'assemblea piuttosto profana.
Conferenza completa di Mons. Schneider su Chiesa e Post Concilio (*) Mons. Schneider è Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Santa Maria d’Astana, Segretario della Conferenza dei vescovi cattolici del Kazakhstan
[Modificato da Caterina63 15/03/2012 20:10] Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2012 12:16 | |
Se è bello vedere che alcuni nostri Vescovi esprimono solidarietà e comprensione delle dolorose situazioni familiari e sociali che la crisi in atto determina, ci sembra che le loro espressioni lascino il tempo che trovano. Qualche piccolo aiuto della Caritas non risolve nulla. Così i micro-crediti. Se manca il lavoro e aumentano le tasse, come si sostiene la situazione?
Le raccomandazioni di incontrarsi tra le parti sociali e quindi di dialogare, più che fare scioperi e danneggiamenti vari, potrebbero stare meglio sulla bocca di Giorgio Napolitano, che non in quella dei Pastori della Chiesa. Non dovrebbero forse questi santi Ministri di Dio darci il senso religioso delle amare vicende che stiamo vivendo tutti? Non dovrebbero forse farci alzare lo sguardo implorante misericordia all’Unico che può salvare tutto: lavoro, economia e società? Sembra invece, che essi non riescano a sollevarsi dal piano puramente socio-politico e orizzontale, quasi abbiano timore di fare alzare gli occhi a politici, imprenditori e lavoratori. Chi di questi infatti, lo fa più? Quanti di questi ormai si ricordano di essere alla mercé del Nemico del bene, perché bestemmiano e non pregano più, non onorano il giorno festivo, non rispettano il matrimonio né la proprietà, non parlano con verità, non mantengono la parola data, fanno continui sprechi e lussi, non rispettano il patrimonio, non lavorano onestamente, non danno buoni esempi ai figli, si drogano di calcio e televisione, sono insensibili ai bisogni dei più miseri, etc. Divorzi, pedofilia, pornografia, omosessualità, traffici illeciti … fanno il Boom! E il caos e il malessere aumenta.
I Vescovi non si chiedono come mai in cinquant’anni le proporzioni dei frequentatori della Messa domenicale si sono invertite: ieri 85 % praticanti; 15 % non praticanti (1961); oggi: 15 % vanno in chiesa la domenica in Italia; 85 % no. Cosa ha fatto uscire in massa i fedeli dalla chiesa? Questa è la domanda cruciale, che non dovrebbe dare requie a nessun Pastore amante del gregge di Cristo.
Noi una risposta l’abbiamo. Crediamo che nelle chiese, in troppe chiese si è spento il fuoco: sono fredde. Si è spento il fuoco dell’amore a Gesù. Si è spenta la luce della fede. Tutti vogliono più benessere e soldi, più tempo per divertirsi e telefonini, più tempo per sé che per Dio. Per questo le chiese sono rimaste desolate. In molte ore del giorno e della notte non c’è nessuno dentro a tenere acceso il fuoco del fervore e dell’amore verso quell’unico che può risolvere tutti i problemi: Gesù-Dio fatto uomo, vivo nel Sacramento dell’Eucaristia, presente in tutti i tabernacoli del mondo. In compenso, pub e discoteche, pizzerie e bar, stadi di calcio e sale Bingo fanno il pieno. Oltre un terzo degli italiani gioca almeno una volta la settimana (Lotto, Gratta e vinci, Totocalcio, etc.); quelli che vanno regolarmente da maghi e fattucchiere sono il 20 % degli italiani (più di quelli che frequentano la chiesa la domenica!). Il Governo Monti sta cercando di eliminare la Festa domenicale, aprendo i negozi 24 ore su 24 …
Tutti i cristiani oggi hanno altro da fare che stare davanti al Dio fatto Uomo per amore e crocifisso per noi; tutti, compresi preti, suore e Vescovi. Tante chiese si aprono solo per la Messa, per circa un’ora; finita la quale, una immancabile voce solerte a chiudere, lo ricorda chiaramente ai pochi fedeli che ancora si attardano tra i banchi: “E’ ora di chiudere!”. Ci risuona alle orecchie il lamento di Cristo: “Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). Questo vogliamo dire come un pungolo ai fedeli. Proposta: Fare ore di adorazione in ogni chiesa, perché qualcuno ritorni ad accendere il fuoco del fervore e dell’amore verso Gesù e verso il prossimo.
Padre Giuseppe Tagliareni
Caro Padre Giuseppe, concordo con lei.... e diciamolo francamente in primis i Vescovi, il Clero, gli stessi Parroci.... frequento spesso due chiese e sovente, almeno una volta al giorno non vedo mai Gesù Sacramento da solo, c'è sempre un LAICO IN GINOCCHIO quando entro e quando esco.... ad orari differenti... e la domenica il nostro buon Cappellano, è lì un'ora in ginocchio davanti a Gesù esposto per l'ora di Adorazione... ma altri preti non ne vedo, nè ho MAI VISTO un Vescovo se non nelle celebrazioni ufficiali! Il Popolo di Dio DEVE VEDERE anche con gli occhi del corpo l'esempio... Cari Vescovi e cari Sacerdoti, dateci questo esempio: ritornate a farvi vedere, IN TALARE, IN GINOCCHIO DAVANTI AL TABERNACOLO, in silenzio, l'unico attivismo sia il SILENZIO DELLA ADORAZIONE, lo sgranare di un Rosario..... e i fedeli torneranno....
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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27/03/2012 11:02 | |
CARI SACERDOTI!! DIFFIDATE DI ENZO BIANCHI!! VOI SIETE MOLTO DI PIU', VOI POTETE MOLTO DI PIU'.......è CRISI anche quando il Sacerdote non sa come rispondere ai FALSI PROFETI.... Vi invitiamo a leggere tutto interamente quanto segue..... Da La Bussola di Antonio mons. Livi 17-03-2012 http://www.antoniolivi.com/it/?page_id=3
Enzo Bianchi si presenta come il priore della Comunità di Bose, che i cattolici ritengono essere un nuovo ordine monastico, mentre canonicamente non lo è, perché non rispetta le leggi della Chiesa sulla vita comune religiosa. I cattolici lo ritengono un maestro di spiritualità, un novello san Francesco d’Assisi capace di riproporre ai cristiani di oggi il Vangelo sine glossa, ma nei suoi discorsi la Scrittura non è la Parola di Dio custodita e interpretata dalla Chiesa ma solo un espediente retorico per la sua propaganda a favore di un umanesimo che nominalmente è cristiano ma sostanzialmente è ateo.
Ecco, ad esempio, come Enzo Bianchi commentava il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto: «Gesù non si sottrae ai limiti della propria corporeità e non piega le Scritture all’affermazione di sé; al contrario, egli persevera nella radicale obbedienza a Dio e al proprio essere creatura, custodendo con sobrietà e saldezza la propria umanità» (Avvenire, 4 marzo 2012). Insomma, un’esplicita negazione della divinità di Cristo, i quale è ridotto a simbolo dell’etica sociale politically correct, l’etica dell’uomo che – come scriveva Bianchi poco più sopra – deve «avere il cuore e le mani libere per dire all’altro uomo: “Mai senza di te”» (ibidem).
Grazie al non disinteressato aiuto dei media anticattolici, Enzo Bianchi ha saputo gestire molto bene la propria immagine pubblica: quando si rivolge a quanti si professano cattolici, Enzo Bianchi veste i panni del “profeta” che lotta per l’avvento di un cristianesimo nuovo (un cristianesimo che deve essere moderno, aperto, non gerarchico e non dogmatico, cioè, in sostanza, non cattolico); quando invece si rivolge ai cosiddetti “laici” (ossia a coloro che hanno smesso di professarsi cattolici oppure non lo sono mai stati ma desiderano tanto vedere morire una buona volta il cattolicesimo), Enzo Bianchi si presenta simpaticamente come loro alleato, come una quinta colonna all’interno della Chiesa cattolica (se non piace la metafora di “quinta colonna” posso ricorrere alla metafora, ideata da Dietrich von Hildebrand, di “cavallo di Troia nella Città di Dio”).
Ora, che i media anticattolici (il Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, L’Espresso) ospitino volentieri i sermoni del profeta della fine del cattolicesimo (così come ospitano i sermoni di tutti i piccoli e grandi intellettuali, cattolici e non, che auspicano una Chiesa cattolica senza più dogma, senza morale, senza sacramenti, senza autorità pastorale) non desta meraviglia, visto che si tratta di gente che porta acqua al loro mulino; invece, che i media ufficialmente cattolici si prestino (da almeno dieci anni!) a operazioni del genere fa comprendere fino a qual punto di confusione dottrinale e di insensibilità pastorale si sia arrivati nella Chiesa, almeno in Italia (anche se forse negli altri Paesi di antica tradizione cristiana le cosa stanno pure peggio).
Ho parlato di “insensibilità pastorale”, perché è evidente che organi di informazione che sono istituzionalmente al servizio della pastorale (penso a Famiglia Cristiana, che fu fondata da chi voleva promuove l’apostolato della “buona stampa” e che per decenni è stata diffusa soprattutto nelle chiese; penso ad Avvenire, quotidiano voluto da Paolo VI e gestito dalla Conferenza episcopale) non dovrebbero contribuire alla diffusione di ideologie che sono per l’appunto l’ostacolo massimo che oggi la pastorale si trova davanti. La pastorale infatti è costituita essenzialmente dalla catechesi e dall’evangelizzazione, ossia dall’offerta della verità e della grazia di Cristo a chi già crede e a chi ancora deve arrivare alla fede. Come si fa a portare la verità e la grazia di Cristo agli uomini (quelli di oggi, non diversamente da quelli di ieri) se si nasconde loro che Cristo è il Salvatore, cioè Dio stesso fatto Uomo per redimerci dal peccato e assicurarci la salvezza eterna? Come si fa ad avvicinare gli uomini all’Eucaristia, fonte della vita soprannaturale, se agli uomini di oggi si nasconde il mistero della Presenza reale, se non li si educa allo spirito di adorazione, se si annulla la differenza tra l’umano e il divino, se la “comunione” di cui si parla non è principalmente con Dio ma esclusivamente con gli altri uomini (e “comunione” vuol dire solo solidarietà, accoglienza, “fare comunità”).
Come si fa a far amare la Chiesa di Cristo, «colonna e fondamento della verità», se viene messo in ombra il carisma dell’infallibilità del magistero ecclesiastico, se viene esaltato lo spirito di disobbedienza e la critica demolitrice della legittima autorità stabilita da Cristo stesso? Insomma, non è certo segno di sensibilità pastorale orientare il criterio dottrinale dei propri lettori (per definizione si suppone che siano cattolici) con i discorsi bonariamente eretici di Enzo Bianchi. Il quale, peraltro, non fa mistero della sua piena condivisione delle proposte riformatrici di Hans Küng, che con il linguaggio tecnico della teologia dogmatica ha enunciato e continua a enunciare le medesime eresie che Bianchi enuncia con il linguaggio retorico della saggistica letteraria. Nessuno si è sorpreso infatti leggendo sulla Stampa di Torino un recente articolo di Enzo Bianchi (13 marzo 2012) nel quale il priore di Bose ribadisce il suo sostegno alle tesi di Hans Küng, prendendo occasione da una nuova edizione italiana del suo Essere cristiani.
Hans Küng, che è il più famoso (meglio si direbbe famigerato) di tutti i falsi teologi che hanno diffuso nella Chiesa cattolica, a partire dalla seconda metà del Novecento, le ideologie secolaristiche che oggi costituiscono quell’ostacolo alla pastorale del quale parlavo. Lo esalta presentandolo come una specie di “dottore della Chiesa” ingiustamente inascoltato, guardandosi bene dal ricordare (ma lo sanno persino molti lettori della Stampa) che il professore svizzero ha sempre negato la verità dei dogmi della Chiesa e il fondamento teologico della morale cattolica, disconoscendo sempre la funzione del magistero ecclesiastico (a partire dal libro intitolato Infallibile?). Küng non è stato scomunicato né è stato messo a tacere (peraltro, tutti gli editori più importanti dell’Occidente scristianizzato hanno pubblicato e diffuso le sue opere), e non c’è ragione alcuna per la quale egli debba presentarsi ed essere presentato come una vittima della repressione da parte della gerarchia ecclesiastica.
Per disegnargli intorno alla testa l’aureola della santità, Enzo Bianchi parla di Küng come di un protagonista del Vaticano II, facendo finta di ignorare che un concilio ecumenico è un’espressone solenne del magistero ecclesiastico (protagonisti ne sono soltanto i vescovi, e i documenti approvati al termine dei lavori hanno un eminente valore per la dottrina della fede in quanto convocato, presieduto e convalidato dai Papi) e non un convegno internazionale di teologi (Hans Küng, come “perito”, non ha avuto nel Concilio né voce né voto). Insomma, Enzo Bianchi vorrebbe far credere che Küng, malgrado i suoi meriti teologici, non avrebbe ottenuto dall’autorità ecclesiastica la benevolenza e i riconoscimenti che gli spettavano; addirittura, insinua Bianchi, alla Chiesa conveniva mettere Küng, piuttosto che il suo collega Ratzinger, a capo della congregazione per la Dottrina della fede.
Sono assurdità che possono andar bene solo per i lettori della Stampa (quotidiano di collaudata tradizione massonica), ai quali non importa nulla della fede cristiana ma sono ben contenti di vedere la Chiesa cattolica in preda a una profonda crisi dottrinale e disciplinare, sperando che tutto ciò affretti la sua definitiva scomparsa dalla scena sociale e politica. Ma Bianchi è ospitato anche dalla stampa cattolica, e in quella sede l’assurdità di cui parlavo dovrebbe essere percepita da qualcuno.
Qualcuno dovrebbe rinfacciare a Bianchi l’ipocrisia di presentare come vittima del potere ecclesiastico senza dire che il teologo svizzero non ha mai voluto riconoscere la legittimità (cioè l’origine divina) di questo potere, che ad altro non serve se non alla custodia fedele e alla interpretazione infallibile della verità che salva. Bianchi si guarda bene dal riferire tutte le contumelie e gli insulti che Hans Küng è solito scrivere (anche in italiano, sul Corriere della Sera) contro quei papi (soprattutto Paolo VI e Giovanni Paolo II) che non gli hanno dato ragione (e come avrebbero potuto?).
SE LO SAI.... LO EVITI....
Le tesi di Fratel Bianchi http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-le-tesi-di-fratel-bianchi-4872.htm
Caro direttore, ho letto con attenzione quanto scritto da monsignor Antonio Livi a proposito di Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose. E ho trovato conferma alle sue critiche in un articolo pubblicato il 20 marzo dal giornale diocesano di Pescara, La Porzione, che sintetizza un intervento dello stesso Bianchi in un incontro pubblico a Pescara. Credo non ci sia bisogno di ulteriori commenti. Buona lettura (si fa per dire).
Lettera firmata
LA NECESSARIA "UMANIZZAZIONE" DEI CRISTIANI
Banchi pieni, navate stracolme, confessionali occupati da giovani ascoltatori muniti di taccuino. Così Pescara ha accolto, ieri, nella chiesa dello Spirito Santo del centro cittadino, fratel Enzo Bianchi, il priore del monastero di Bose. Non è il primo anno che il piccolo e tenace monaco raggiunge la città adriatica, ma, evidentemente, l’esigenza di “umanizzazione” tocca ancora il cuore dei fedeli e i loro bisogni primari.
Banchi pieni, navate stracolme, confessionali occupati da giovani ascoltatori muniti di taccuino. Così Pescara ha accolto, ieri, nella chiesa dello Spirito Santo del centro cittadino, fratel Enzo Bianchi, il priore del monastero di Bose. Non è il primo anno che il piccolo e tenace monaco raggiunge la città adriatica, ma, evidentemente, l’esigenza di “umanizzazione” tocca ancora il cuore dei fedeli e i loro bisogni primari. «Bisogna rendersi conto – ha esordito il carismatico priore – che la crisi è di fede e fiducia a livello di società prima che di una crisi di fede e fiducia in Dio. Gli uomini devono ripigliare ad aver fiducia nella terra, nel futuro, nella società, tra di loro. Perché se non c’è fiducia nell’uomo che si vede, come si può aver fiducia nel Dio che non si vede?».
La “grammatica umana” è essenziale anche per attraversare la più tacita, ma evidente crisi della e nella Chiesa. «I cristiani che sono nella Chiesa – ha continuato Bianchi – sono in questo mondo, sono in questa società e quando appare una crisi come quella attuale che è una crisi globale, non solo economica, ma culturale, morale, etica dei valori, anche nella Chiesa se ne sentono le conseguenze. Siamo in un momento di trapasso, per la società e per la Chiesa, in un momento in cui abbiamo lasciato dei lidi e siamo a metà del guado del fiume e non sappiamo bene dall’altra parte quale sarà la forma anche della nostra vita cristiana. Tuttavia in questo orizzonte il cristiano ha la fede, quella bussola per il millennio che Giovanni Paolo II indicava nel Concilio Vaticano II. Si tratta per noi di saper rinnovare quella eredità attraverso uno spirito di profezia che guardi in avanti, con simpatia, agli uomini e alla società di oggi e di saper tramette la notizia del Vangelo anche in una realtà secolarizzata».
Avvicinato prima della relazione, fratel Enzo ha analizzato anche l’anelito conservatore di alcuni fedeli. «Ci sono stati qua e là dei nostalgici che fanno passare la messa prima della riforma come una identità culturale. Questo non è bene né per la messa, né per la liturgia e non è secondo le intenzioni del Papa che voleva dare maggiore unità alla Chiesa e richiamare alla comunione quelli che ne erano usciti».
Nonostante la riapertura di armadi impolverati di sagrestie, non c’è “preoccupazione”. Poche sono le celebrazioni “preconciliari”. I problemi sono assolutamente altri. «È sotto gli occhi di tutti – ha analizzato fiducioso Bianchi – che c’è un calo non solo nella pratica, ma nell’interesse verso il cristianesimo. L’indifferenza, oggi, è sempre più attestata. Lo si nota in molte maniere; non c’è la contestazione di un tempo, ma sovente la gente lascia la Chiesa anche senza fare rumore. Ci sono migliaia e migliaia di persone che passano dal tralasciare la pratica, al tralasciare poi una appartenenza di fede; ciò che è accaduto in Francia, in Austria, in Germania sta accadendo da noi negli ultimi quattro cinque anni».
La consapevolezza di essere minoranza fa certamente paura, a volte rabbia, e si rischia di preferire lo sgranar rosari a riparazione dei peccati al confronto e all’incontro tra persone, con i loro dubbi, le loro difficoltà, le loro sofferenze.
«Più che un cristiano arrabbiato c’è un cristiano impaurito – ha spiegato Bianchi, rispondendo alla provocazione e analizzando un editoriale di laPorzione.it che tanto ha fatto discutere – e la paura è cattiva consigliera. Di conseguenza porta a posizioni difensive, a posizioni in cui ci si chiude in una cittadella e anziché dialogare con gli altri si finisce per avere posizioni indurite, sia di identità che di atteggiamenti. Questo succede sempre, soprattutto quando si prende coscienza che si passa in uno stato di minoranza, quando si vede avanzare la presenza di altre religioni, altre etiche. La paura va razionalizzata e come cristiani non dobbiamo aver paura nel dialogo con altri religioni e con uomini non cristiani. Proprio perché il cristianesimo ha nel centro non solo Dio, non tanto il fenomeno religioso, ma l’uomo, luogo dell’incarnazione di Dio».
Insomma, per far sintesi, «quando noi parliamo di fede – ha concluso il “profeta dell’umanizzazione” – dobbiamo riprendere quei concetti che appartengono alla grande tradizione perché la fede è innanzitutto un atteggiamento e esercizio umano su cui poi si innesta il dono di Dio e della fede teologale. Ma se non c’è questo humus nemmeno Dio può innestare la fede in una persona, la quale non ha fiducia in se stessa e negli altri. Dobbiamo predisporre tutto per il dono della fede, cominciamo, allora, a predisporre la fiducia tra gli uomini, perché senza fiducia neanche l’umanizzazione è possibile».
Al Bianchi possiamo rispondere con la Sacra Scrittura non manipolata dalle sue idee moderniste:
Questo dice il Signore:"Maledetto l'uomo che confida nell'uomo....(Ger. 17,5)
...quell’uomo “maledetto” di cui ci parla Geremia significa che, confidando nell’umano, si “pone nella carne il suo sostegno, e il cui cuore si allontana dal Signore”, per questo è "male-detto" cioè "detto-male" poichè la nostra fiducia non può che essere in Dio. Quando si dice avere fiducia in Cristo Gesù, non è una fiducia in un uomo che ha dei poteri eccezionali, ma nel Dio di cui Egli afferma essere: io e il Padre siamo una cosa sola; chi ha visto me ha visto il Padre; nessuno va al Padre se non per mezzo del Figlio... e così via. In senso contrario, vengono subito in mente le parole del Salmo 1, “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia sulla via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte”. Dunque la nostra vera fortuna, o buona sorte, o per uscire da ogni crisi è confidare in Cristo-Dio, meditare la sua legge giorno e notte, metterla in pratica, mettere in pratica tutti e dieci i Comandamenti, e allora si seguire, come suggerisce san Paolo, gli uomini che agiscono correttamente verso Dio e "abbandonare i reprobi" ossia, i peccatori incalliti che rifiutano di seguire Gesù....
e...ciliegina sulla torta: Oggi parliamo dell'autonominato priore di Bose:
http://satiricus.wordpress.com/2012/03/18/eretico-o-erotico-purche-sia-fratelenzo/
Lettera aperta di Antonio Livi http://www.formazioneteologica.it/index.php?categoria=12&sezione=15
a Marco Tarquinio, Direttore di Avvenire
Il 23 marzo scorso Lei sul Suo giornale mi ingiunge di vergognarmi per quello che avevo scritto su La Bussola Quotidiana a proposito di Enzo Bianchi, accusandomi di aver orchestrato squallide manovre diffamatorie basate sulla menzogna. Siccome alcuni lettori (anche se non tutti) e i cattolici italiani in generale possono aver pensato che queste accuse (che costituiscono – queste sì – denigrazione e diffamazione nei miei confronti) siano fondate, mi vedo costretto a fornire loro pubblicamente alcune spiegazioni.
1. Io non ho scritto contro Enzo Bianchi come persona ma contro la sua “fama di santità”, ossia contro la presentazione che se ne fa come di un vero mistico, di un autorevole interprete della Scrittura, di un venerato maestro di dottrina cristiana, di un eroico combattente per la riforma della Chiesa e per l’ecumenismo. Io vorrei invece richiamare l’attenzione di chi ha responsabilità pastorale sul fatto che i suoi scritti e i suoi discorsi – che certa stampa utilizza come se potessero essere dei validi sussidi per la catechesi ― sono inficiati di un’ideologia neognostica, incentrata sul progetto di una religione universale a carattere etico (la Welthethik), secondo la prospettiva del suo autore di riferimento, che è Hans Küng.
2. Per questo preciso motivo ho deprecato lo spazio e il rilievo che il Suo giornale ha dato a una meditazione biblica di Bianchi, pubblicandola in un paginone a colori di “Agorà” della domenica. Io l’ho visto distribuito in alcune chiese di Roma assieme ai foglietti della Messa, e mi è sembrato assurdo che quel commento di Bianchi al Vangelo della prima domenica di Quaresima fosse presentato ai fedeli quasi come un sussidio per la pastorale liturgica. Quale approfondimento della dottrina cristiana e quale edificazione nella fede eucaristica – mi domandavano – possono venire da discorsi che presentano Gesù come un modello (umano) di quella morale umanitaria che ritiene di poter prescindere dalla grazia del Redentore? Il mondo è pieno di gente che parla di Gesù in termini che sono più propri dell’umanesimo ateo che del dogma cattolico: non è questo che mi turbava: mi turbava i fatto che ancora una volta fosse presentato come un autorevole maestro della fede, con l’autorevolezza che può conferire il “giornale dei vescovi italiani”, un personaggio che, a mio avviso, la vera fede non contribuisce affatto a diffonderla. Non si tratta di un problema personale o ideologico, ma di un problema esclusivamente pastorale, e io come sacerdote lo considero l’unico problema importante.
3. Lei, Direttore, non ha ragione quando scrive che io avrei potuto criticare Bianchi o altri collaboratori di Avvenire «su ciò che è opinabile: valutazioni storiche e socio-culturali, opinioni artistiche, scelte lessicali, giudizi politici…», mentre invece mi sarei «azzardato» a «porre in dubbio la fede altrui e l’altrui indiscutibile adesione alla buona dottrina cattolica su ciò che è opinabile non è». Lei non ha ragione perché io critico appunto il modo di commentare il Vangelo in un giornale ufficialmente cattolico, e in questa materia nella Chiesa c’è sempre stata e sempre ci sarà il diritto di critica (la teologia cattolica e lo stesso dogma nascono dal confronto critico con i diversi modi di presentare il contenuto della rivelazione divina). Ciò che per un cattolico «opinabile non è» è solo il dogma enunciato dalla Chiesa con il suo magistero solenne. Le interpretazioni del dogma e la sua presentazione catechetica, così come le scelte pastorali, sono invece materia di libera discussione. Non c’è nulla di criminoso e di vergognoso nel fatto di aver voluto manifestare la mia opinione circa l’inopportunità pastorale di presentare alla meditazione dei fedeli dei discorsi, come quelli di Bianchi, così ambigui rispetto al dogma cattolico. Da quando è diventato «indiscutibile» il fatto dell’«adesione alla buona dottrina cattolica» da parte dei collaboratori dell’ Avvenire? Basta la parola del Direttore? È un nuovo caso di «Roma locuta, quaestio finita»?
4. Nel fare quei rilievi dottrinali e pastorali, peraltro, io non ho minimamente voluto «porre in dubbio la fede altrui», cioè di Enzo Bianchi. Sembra che Lei, dottor Tarquinio, non abbia presente la fondamentale distinzione tra la fede come atto interiore del soggetto che aderisce con tutto se stesso a Cristo e alla sua dottrina (e di questo atto interiore è consapevole solo il soggetto stesso) e la fede come enunciazione esteriore (professione di fede, proclamazione della fede, catechesi, evangelizzazione, teologia); io so bene di non dover giudicare la sincerità e la fermezza della fede degli altri (della coscienza di ciascuno di noi è giudice solo Dio, il quale «scruta i reni e il cuore» degli uomini), ma so anche che ho il dovere di giudicare la rispondenza di un discorso sul Vangelo alle verità fondamentali contenute nella dottrina della Chiesa: è un dovere che in primis spetta al collegio episcopale, con a capo il Papa, ma spetta, per partecipazione sacramentale, anche a un semplice sacerdote come me, impegnato da sempre nella formazione cristiana dei fedeli con il mio lavoro pastorale e con la docenza nell’«Università del Papa». Certo, il mio giudizio – di approvazione o di critica – è soggetto a errore dal punto di vista dottrinale, e anche dal punto di vista della prassi può risultare meno opportuno o conveniente: ma è pur sempre un atto legittimo, anzi doveroso, quando uno come me ritiene in coscienza che il bene comune della comunità ecclesiale lo richieda.
5. Lei scrive che il mio è «un testo feroce, nel quale si procede con metodi degni della peggiore “disinformatsja”: estrapolando frasi, selezionando concetti, amputando verità, distillando veleni». In realtà, le frasi dello scritto di Bianchi che ho citato sono testuali, e in un breve scritto non potevo certamente riprodurre tutto il testo pubblicato nel paginone di Avvenire (chi no crede alla sintesi che io ho fatto potrà confrontarla con l’originale); sono però frasi emblematiche, che nemmeno il contesto può contribuire a “salvare” (anzi, a me sembra che tutto il discorso che Bianchi fa sul potere e sul denaro ha senso solo presupponendo che Gesù sia solo un modello morale, un uomo esemplare). Nessuno scrittore dei primi secoli, nessun letterato cristiano moderno, nessun teologo intenzionato a rispettare il dogma si è mai sognato di parlare di Gesù come di una «creatura», di un uomo cioè che insegna agli altri uomini come si deve rispettare Dio, che è il Creatore. Bianchi è un biblista: ma dove mai si trova nella Bibbia la definizione di Gesù come «creatura»? Che cosa avranno pensato quei fedeli che hanno letto il testo di Bianchi sull’Avvenire e poi a Messa hanno recitano il Credo, dicendo di Gesù che Egli è «Dio da Dio» e che è «generato, non creato»? Devono pensare che la professione di fede della Chiesa è una formula antiquata e che è meglio credere alle spiegazioni moderne e aggiornate di Bianchi? Questo è il vero problema: un problema che interessa necessariamente chi ha sensibilità pastorale e si sente responsabile dei messaggi dottrinali che vengono proposti da personaggi che (non sempre meritatamente) godono di credito presso i fedeli, soprattutto se sono veicolati dalla stampa che si presenta come la voce (almeno ufficiosa) della Chiesa italiana. GRAZIE MONS. LIVI GRAZIE DI CUORE....
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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30/03/2012 12:52 | |
Monsignor Francesco Moraglia, da pochi giorni Patriarca di Venezia (nelle foto alcuni momenti del suo insediamento di domenica scorsa, prese dal Flickr del Patriarcato) conferma le positive aspettative sul suo conto. Certo non perde tempo e al primo discorso rivolto oggi ai preti della diocesi non rinuncia a parlare in modo chiaro.
"Amiamo più le nostre reti e le nostre barche che non il pescare, la fatica e l’impegno della pesca. Fuori di metafora, si rischia d’amare più le opere, i titoli accademici, le nostre pubblicazioni, le strutture che abbiamo costituito e ci circondano e servono alla nostra attività pastorale che non il fine per cui quelle cose sono state costituite, ossia le anime. Il rischio è essere organizzatori, impresari, docenti, intellettuali, psicologi, assistenti sociali e non pastori. Altri atteggiamenti che configgono con la carità pastorale sono quelli che fanno in modo che il pastore si serva del pulpito per dire qualcosa che non ha o ha poco a che fare col Vangelo: per esempio parlare di sé, “togliersi dei sassolini dalle scarpe”; con il desiderio di correggere l’errore, si finisce invece per offendere l’errante. Insomma ogni pastore, proprio in nome della carità pastorale, deve interrogarsi se il suo silenzio è di comodo o addirittura colpevole e se il suo parlare è mancanza d’amore, di pazienza o di fortezza o, ancora, espressione di malumore interiore. Questo esame di coscienza franco, sereno, con un po’ di misericordia nei nostri confronti, ci aiuta a comprendere se siamo uomini e preti liberi; tale revisione potrebbe iniziarsi chiedendo aiuto a un confratello del quale abbiamo stima e che sappiamo persona capace di dire la verità con amore e che sa amare con verità (...)" il testo integraleIl presbitero o ministro ordinato, al di là del particolare ufficio che svolge nella Chiesa, esprime il suo essere specifico - ossia, il suo essere immagina di Cristo-capo a servizio della Chiesa - attraverso la carità pastorale. Sì, la carità pastorale sulla quale con voi desidero riflettere in questo nostro incontro che, per la prima volta, ci vede insieme in un momento di preghiera. Che cos'è la carità pastorale? Qual è il significato della carità pastorale? In che cosa si caratterizza rispetto al vincolo della comune carità che, ovviamente, il presbitero condivide con gli altri membri del popolo di Dio? La carità pastorale è una forma specifica d’amore, se preferite un modo particolare d’amare proprio del sacerdote ordinato.
Si tratta di un dono di sé che inerisce, vale a dire si radica, nella realtà sacramentale in cui il presbitero viene costituito nel momento dell’ordinazione; la carità pastorale deve intendersi in tale modo; e il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, proprio circa la carità pastorale, si serve di queste parole: «costituisce il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività pastorali del presbitero e, dato il contesto socio-culturale e religioso nel quale vive, è strumento indispensabile per portare gli uomini alla vita della Grazia» (n. 43). Quindi ogni gesto, ogni parola del presbitero devono essere segnati da questa carità pastorale, in modo tale che egli giunga al dono totale di sé , andando oltre la dedizione di quanti anche con grande generosità s’impegnano nella loro attività lavorativa o professione. La carità pastorale non è qualcosa che s’improvvisa nella vita del presbitero o una conquista che si raggiunge una volta per sempre; piuttosto è qualcosa che inerendo allo stato sacerdotale non è destinata a venir meno anche quando, per motivi di salute o età, si viene sgravati - per il bene proprio e della comunità a cui fino ad allora si è servito - da determinati, concreti incarichi pastorali (cfr. n. 43); muterà, piuttosto, il modo d’esercitarla.
Il pensiero riguardante la carità pastorale si chiarisce se si legge quanto il Direttorio afferma a proposito del funzionalismo che corrisponde e bene esprime una logica propria della nostra società, del nostro tempo, della nostra cultura. Quindi il presbitero, che ovviamente è uomo immerso nella società, nella cultura del suo tempo, è facilmente esposto a pensare il proprio sacerdozio e vivere il ministero e la vita in maniera funzionale. Una vita intesa secondo i parametri dell’efficientismo del mondo, un’esistenza sotto il segno del “mordi e fuggi”, perché intanto quello che vale oggi domani sarà già superato; ciò che conta, infatti, è l’apparire e l’essere visti. Così, mentre si esercita una professione, ossia si fa il medico, il magistrato, l’operaio o l’impiegato, diversamente preti lo si è e lo si è per sempre; quindi non è corretto domandarsi: che cosa fa il prete? Ma, piuttosto: chi è il prete? Quindi non che cosa fa? Ma: chi è il prete? La prospettiva cambia in modo radicale. Anche una domanda può esser posta in modo più o meno pertinente e da essa dipende una risposta; certo è lecito domandarsi anche: che cosa fa il prete? Ma sempre alla luce dell’altra domanda fondante, che deve rimanere sullo sfondo: chi è il prete?
Proprio secondo questa elementare ma chiarificatrice domanda - non cosa fa il prete? Ma chi è il prete? - leggiamo il n. 44 del Direttorio a proposito del funzionalismo: «La carità pastorale corre, oggi soprattutto, il pericolo d’essere svuotata del suo significato dal cosiddetto funzionalismo. Non è raro, infatti, percepire, anche in alcuni sacerdoti, l’influsso di una mentalità che tende erroneamente a ridurre il sacerdozio ministeriale ai soli aspetti funzionali. ‘Fare’ il prete, svolgere singoli servizi e garantire alcune prestazioni d’opera sarebbe il tutto dell’esistenza sacerdotale. Tale concezione riduttiva dell’identità e del ministero sacerdotale, rischia di spingere la vita di questi verso un vuoto, che viene spesso riempito da forme di vita non consone al proprio ministero. Il sacerdote che sa d’essere ministro di Cristo e della sua Sposa troverà nella preghiera, nello studio e nella lettura spirituale la forza necessaria per vincere anche questo pericolo» (n. 44).
Così la carità pastorale è intesa come “amore”, ossia dono di sé, ma sempre a partire dal sacramento dell’ordine e, conseguentemente, dalla realtà concreta del ministero che, appunto, attraverso l’ordinazione presbiterale, si connette intrinsecamente e indelebilmente alla realtà sacramentale. Insomma il modo d’amare, di servire, di pazientare, di perdonare, non potrà mai prescindere dall’essere presbiteri, ossia chiamati a servire i fratelli, rendendo loro presente attraverso parole e gesti di Cristo e della Chiesa, il Signore Gesù. Un padre, una madre amano il figlio in forza della loro paternità e maternità, in quanto appunto sono padre e madre e perché quel bambino è loro figlio; essi lo amano non perché egli si merita il loro amore e se anche il figlio si meritasse il loro amore, il padre e la madre lo amerebbero prima e a prescindere da questo suo merito e dalle sue doti. Io lo amo - sarebbe la risposta di quel papà e di quella mamma -, perché sono suo padre, perché sono sua madre; lo amo perché è mio figlio; anzi più un figlio è fragile e in difficoltà più i genitori, proprio per questa fragilità o per le sue difficoltà, lo amano di più.
Risaliamo all'inizio del ministero ordinato, ossia a quando Gesù trasmette il suo servizio/potere di Risorto alla Chiesa; il Vangelo di Giovanni narra la conferma del conferimento del primato - la pienezza del servizio/potere sacerdotale - a Pietro sulle rive del lago di Tiberiade (Gv 21, 15-23). Conosciamo il testo giovanneo; per ben tre volte Gesù si rivolge a Pietro e condiziona il conferimento del servizio/potere di pascere le pecore alla risposta di Pietro che per tre volte risponde alla domanda di Gesù: sì, Signore ti amo; solo la terza volta Gesù lo costituisce suo vicario nel compito di pascere il gregge che è la Chiesa. Così, alla fine, è proprio l’amore che dice la genuina appartenenza del sacerdote ordinato al ministero del Signore, il buon pastore, cioè alla persona di Gesù capo, al quale serviamo “rendendolo presente” - questo è lo specifico sacerdotale -; così, alla fine, è ancora l’amore a dire la nostra evangelica appartenenza alle persone alle quali siamo stati mandati. Il vangelo di Giovanni (cfr. Gv 10, 1-18) delinea le caratteristiche del buon pastore e quelle del mercenario. Le pecore ascoltano la voce del buon Pastore che le guida una a una e le conduce; il buon pastore, poi, offre la vita per le sue pecore. Invece il mercenario, cui le pecore non appartengono, vede venire il lupo e scappa. La carità pastorale è quindi un amore che si lega strettamente e si esprime a partire dal sacerdozio ordinato e si vive nel proprio ministero quotidiano e conduce non dove vogliamo noi ma dove siamo mandati. Un amore che mette in campo una volontà di dono totale, una dedizione e una capacità di sacrificio che, di volta in volta, si esprimono a partire dal nostro essere sacerdotale. Il presbitero, al momento dell’ordinazione sacerdotale, s’impegna liberamente a questo tipo di amore, non a qualcosa di meno, non a qualcosa di diverso. Ricordiamo: il nostro modo d’amare, da quando siamo diventati preti non può prescindere, non può non modellarsi o misurarsi sulla carità pastorale.
Verifichiamo tale caratteristica fondante del nostro sacerdozio; facciamolo sotto la guida di un confratello che sia guida saggia, uomo veramente spirituale; infatti anche i preti e i vescovi hanno bisogno della direzione spirituale. Quello che è un impegno assunto liberamente dinanzi a noi stessi, a Dio, alla Chiesa è, innanzitutto, conseguenza strettamente connessa al sacramento dell’ordine. Cerco di spiegarmi, e lo faccio citando la Pastores dabo vobis, laddove Giovanni Paolo II annota: «In quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non soltanto nella chiesa ma anche di fronte alla chiesa. Il sacerdozio, unitamente alla parola di Dio e ai segni sacramentali di cui è al servizio, appartiene agli elementi costitutivi della chiesa. Il ministero del presbitero è totalmente a favore della Chiesa; è per la promozione dell’esercizio del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio; è ordinato non solo alla chiesa particolare, ma anche alla chiesa universale (Presbyterorum Ordinis, 10), in comunione con il vescovo, con Pietro e sotto Pietro. Mediante il sacerdozio del Vescovo, il sacerdozio di secondo ordine è incorporato nella struttura apostolica della chiesa. Così il presbitero come gli apostoli funge da ambasciatore per Cristo (cfr. 2Cor 5, 20). In questo si fonda l’indole missionaria di ogni sacerdote» (n. 16).
Per vivere le promesse dell’ordinazione si richiede, allora, una precisa disposizione del cuore insieme a una testimonianza chiaramente percepibile e ben visibile; infatti, il prete, come ogni uomo, è fatto d’interiorità e di esteriorità. L’amore pastorale chiede di occuparci dell’altro, degli altri, della comunità a prescindere dai motivi umani e a farcene carico con amore. Ciò avviene anche attraverso azioni esteriori che, talvolta, però, potrebbero finire per esercitarsi non più per quell’affetto intimo del cuore che chiamiamo il desiderio delle salvezza della anime, ma per altri motivi che possono essere - di volta in volta - per alcuni abitudine, per altri esteriorità giuridica, timore d’essere criticati o rimproverati, desiderio di essere considerati dagli altri, voglia di primeggiare, o per interesse personale o perché, per determinate questioni, si può avere una propensione personale (ci piace farle). Dobbiamo chiederci, allora, quale è il motivo ultimo, il motivo vero del nostro operare pastorale. Talvolta si deve constatare che non soltanto viene meno il motivo interiore, ma anche l’esercizio esteriore del nostro operare. Ad esempio quando noi - ordinati sacerdoti per il servizio pastorale, a servizio della Chiesa - a un certo punto “pretendiamo” per un incarico particolare o ci dichiariamo inabili, incapaci, stanchi o non adatti ad un determinato servizio. Ci dichiariamo inabili, incapaci, stanchi, non adatti perché quel servizio impone un impegno faticoso e una logorante dedizione nella predicazione, nell'ascoltare le confessioni, nella pastorale giovanile; in più infine ci viene richiesto attenzione e responsabilità. Così, poco alla volta, se non vigiliamo su di noi, finiamo per autocostruire - prima nel pensiero e poi con atti apparentemente innocenti - il programma della nostra vita sacerdotale, dove se non ci si lascia portare, c’è molto di nostro, del nostro gusto personale e sempre meno di quello spirito di servizio, di dedizione, d’amore, di offerta di noi stessi da cui il nostro sacerdozio era partito e di cui forse si è svuotato. Questo, concretamente, è il modo in cui ci distogliamo dapprima e poi ci sottraiamo alla carità pastorale abbandonando il nostro posto. Ciò può avvenire anche rimanendo formalmente all’interno del servizio che ci è stato richiesto, del compito che ci è stato assegnato. In genere lo si interpreta - si dice - in modo più originale, poi si finisce per adattarlo al proprio tranquillo compiacimento e non siamo più disposti ad adattarci alle esigenze dell’ufficio ma è l’ufficio che deve adattarsi a noi; e si finisce per autoconvincerci che è bene così!
Mi servo di un esempio che appartiene alla terminologia evangelica con cui Gesù parla del ministero ordinato ai primi chiamati: amiamo più le nostre reti e le nostre barche che non il pescare, la fatica e l’impegno della pesca (cfr Lc 5, 9). Fuori di metafora, si rischia d’amare più le opere, i titoli accademici, le nostre pubblicazioni, le strutture che abbiamo costituito e ci circondano e servono alla nostra attività pastorale che non il fine per cui quelle cose sono state costituite, ossia le anime. Il rischio è essere organizzatori, impresari, docenti, intellettuali, psicologi, assistenti sociali e non pastori. Altri atteggiamenti che configgono con la carità pastorale sono quelli che fanno in modo che il pastore si serva del pulpito per dire qualcosa che non ha o ha poco a che fare col Vangelo: per esempio parlare di sé, “togliersi dei sassolini dalle scarpe”; con il desiderio di correggere l’errore, si finisce invece per offendere l’errante. Insomma ogni pastore, proprio in nome della carità pastorale, deve interrogarsi se il suo silenzio è di comodo o addirittura colpevole e se il suo parlare è mancanza d’amore, di pazienza o di fortezza o, ancora, espressione di malumore interiore.
Questo esame di coscienza franco, sereno, con un po’ di misericordia nei nostri confronti, ci aiuta a comprendere se siamo uomini e preti liberi; tale revisione potrebbe iniziarsi - come detto - chiedendo aiuto a un confratello del quale abbiamo stima e che sappiamo persona capace di dire la verità con amore e che sa amare con verità; le due cose sono essenziali al presbitero; un presbitero dovrebbe essere capace di parlare di tutto con tutti senza offendere nessuno, pur proferendo parole di verità. Sono certo, e spero di poterne fare presto esperienza, che nel nostro presbiterio esiste una diffusa e radicata carità pastorale, sia nei giovani sacerdoti, sia negli anziani; forse, però, non ne abbiamo sempre la dovuta consapevolezza. Quando c’è vera carità pastorale non c’è situazione che possa diventare ostacolo insuperabile, anche l’età avanzata, la salute declinante, una prova imprevista, la richiesta di un’obbedienza impegnativa non ostacolano la carità pastorale ma, al contrario, la evidenziano. E la carità pastorale, per ogni presbitero, rappresenta una vera benedizione e una grande ricchezza per lui e per la sua comunità.
Interrogarsi se tra le pieghe della nostra anima qualcosa limiti o blocchi la nostra personale carità pastorale è ciò su cui ognuno di noi - anche a proposito di ciò che non è stato detto - deve riflettere di fronte al Signore. Proprio, il curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, ci viene incontro con la sua gigantesca carità pastorale; Lui che non aveva troppi doni e doti personali e che visse anni, quelli della prima metà dell’ottocento, dopo la rivoluzione francese e gli anni di Napoleone, problematici e dolorosi per la Chiesa in Francia.
+ Francesco Moraglia Patriarca di Venezia [Modificato da Caterina63 30/03/2012 19:47] Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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06/04/2012 10:07 | |
SANTA MESSA DEL CRISMA NELLA BASILICA VATICANA, 05.04.2012
Alle ore 9.30 di oggi, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali. La Messa del Crisma è concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi ed i Presbiteri - circa 1600, tra diocesani e religiosi - presenti a Roma. Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti rinnovano le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi vengono benedetti l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi e il crisma. Riportiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle!
In questa Santa Messa i nostri pensieri ritornano all’ora in cui il Vescovo, mediante l’imposizione delle mani e la preghiera, ci ha introdotti nel sacerdozio di Gesù Cristo, così che fossimo “consacrati nella verità” (Gv 17,19), come Gesù, nella sua Preghiera sacerdotale, ha chiesto per noi al Padre. Egli stesso è la Verità. Ci ha consacrati, cioè consegnati per sempre a Dio, affinché, a partire da Dio e in vista di Lui, potessimo servire gli uomini. Ma siamo consacrati anche nella realtà della nostra vita? Siamo uomini che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo? Con questa domanda il Signore sta davanti a noi, e noi stiamo davanti a Lui.
“Volete unirvi più intimamente al Signore Gesù Cristo e conformarvi a Lui, rinunziare a voi stessi e rinnovare le promesse, confermando i sacri impegni che nel giorno dell’Ordinazione avete assunto con gioia?”
Così, dopo questa omelia, interrogherò singolarmente ciascuno di voi e anche me stesso. Con ciò si esprimono soprattutto due cose: è richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo.
Che non domandi: che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e così per gli altri? O ancora più concretamente: come deve realizzarsi questa conformazione a Cristo, il quale non domina, ma serve; non prende, ma dà – come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi?
Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore.
La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di un vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?
Ma non semplifichiamo troppo il problema. Cristo non ha forse corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio? Sì, lo ha fatto, per risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio, alla sua parola sempre valida. A Lui stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili. E infine: Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada.
Lasciamoci interrogare ancora una volta: non è che con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione? No. Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore.
Cari amici, resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento. Ma forse la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa. Per questo ha provveduto a “traduzioni” in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi.
Proprio per questa ragione, Paolo senza timidezza ha detto alle sue comunità: imitate me, ma io appartengo a Cristo. Egli era per i suoi fedeli una “traduzione” dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire. A partire da Paolo, lungo tutta la storia ci sono state continuamente tali “traduzioni” della via di Gesù in vive figure storiche. Noi sacerdoti possiamo pensare ad una grande schiera di sacerdoti santi, che ci precedono per indicarci la strada: a cominciare da Policarpo di Smirne ed Ignazio d’Antiochia attraverso i grandi Pastori quali Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, fino a Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Giovanni Maria Vianney, fino ai preti martiri del Novecento e, infine, fino a Papa Giovanni Paolo II che, nell’azione e nella sofferenza ci è stato di esempio nella conformazione a Cristo, come “dono e mistero”.
I Santi ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape. Cari amici, vorrei brevemente toccare ancora due parole-chiave della rinnovazione delle promesse sacerdotali, che dovrebbero indurci a riflettere in quest’ora della Chiesa e della nostra vita personale.
C’è innanzitutto il ricordo del fatto che siamo – come si esprime Paolo – “amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) e che ci spetta il ministero dell’insegnamento (munus docendi), che è una parte di tale amministrazione dei misteri di Dio, in cui Egli ci mostra il suo volto e il suo cuore, per donarci se stesso.
Nell’incontro dei Cardinali in occasione del recente Concistoro, diversi Pastori, in base alla loro esperienza, hanno parlato di un analfabetismo religioso che si diffonde in mezzo alla nostra società così intelligente.
Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti. Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola.
L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia. Lo troviamo naturalmente in modo fondamentale e primario nella Sacra Scrittura, che non leggeremo e mediteremo mai abbastanza. Ma in questo facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore. Questo aiuto lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono gli strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo. Ogni nostro annuncio deve misurarsi sulla parola di Gesù Cristo: “La mia dottrina non è mia” (Gv 7,16).
Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non stia saldamente ancorato ad essa. In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino: Che cosa è tanto mio quanto me stesso? Che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile.
Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso. Il Curato d’Ars non era un dotto, un intellettuale, lo sappiamo. Ma con il suo annuncio ha toccato i cuori della gente, perché egli stesso era stato toccato nel cuore.
L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo.
Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena. E come sacerdoti naturalmente ci preoccupiamo dell’uomo intero, proprio anche delle sue necessità fisiche – degli affamati, dei malati, dei senza-tetto. Tuttavia noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo.
Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore.
Amen. L'ASSURDA PRETESA DEI PRETI RIBELLI....
Il Papa affronta direttamente il tema della disubbidienza interna alla Chiesa. I preti "ribelli" austriaci lo ringraziano così come il card. Schoenborn e aggiungo: quanta desolazione e quanta tristezza!!!
Non si aspettano sanzioni, questo Papa non ne vuole dare, ma è davvero perverso e diabolico pensare che il Papa li stia approvando o approvi le loro stesse richieste, come fanno capire gli intervistati, compreso Schonborn che è arrivato alla frutta... magari fosse "incapade di intendere" sarebbe giustificato!! qui c'è dolo, e dolo perverso, pensano che il Papa stia cedendo o cederà alle loro pressioni, al "fatto compiuto"... non hanno capito che il TEMPO DELLA MISERICORDIA potrebbe finire.. e se è vero che la pazienza del Signore è sconfinata, non è affatto vero che essa non preveda la Sua Giustizia per i danni che si compiono...
Crux fidélis, inter omnes arbor una nóbilis! http://www.gloria.tv/?media=275754 Nulla talem silva profert fronde, flore, gérmine. Dulce lignum, dulces clavo dulce pondus sústinens! Buon Venerdì Santo a tutti ! Cristo ci salvi! Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/05/2012 17:27 | |
VERGOGNA!!!! Loreto/ Non si confessa, c'è lo 'strizzacervelli'...Lunedì, 21 maggio 2012 - 14:50:00 di Matteo Castagna, portavoce del Circolo cattolico Christus Rex
“QUI NON SI CONFESSA” a caratteri cubitali e “Qui non confessioni, ma dialogo e ascolto”, sono i cartelli appoggiati sulla balaustra della “Cappella Slava” nel Santuario di Loreto, che vedete in foto qui a lato. Poi, ancora, un tabellone con ritratto della Madonna titolato “PUNTO DI ASCOLTO” e la scritta “IN ASCOLTO CON MARIA” davanti alla balaustra, che potete vedere assieme alle altre foto in fondo all’articolo. Di fronte all’altare, a pochi metri dalla Santa Casa della Sacra Famiglia, c’è un tavolino con due sedie contrapposte e altre dietro, come una sorta di sala d’attesa.
Non c’è il classico lettino da clinica psicanalitica, ma gli orari delle “visite” non mancano: dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 18.00. La Casa di Nazareth fu qui miracolosamente traslata il 10 Maggio 1291. Milioni di pellegrini in tutti questi anni hanno lasciato la loro testimonianza in questo Santuario, dove si sono verificati molti e grandiosi miracoli, mirabili conversioni. La preghiera e la penitenza di tante persone hanno trovato dopo la Confessione Sacramentale il vero conforto cristiano, attraverso l’intercessione della Santa Vergine Maria, alla quale hanno affidato le loro angoscie, le loro sofferenze e tribolazioni. Questa è una delle Meraviglie della Misericordia e dell’Amore di Dio per i peccatori contriti dal dolore e desiderosi del perdono che si impegnano a non più offenderLo.
Il Sacramento fondamentale della Confessione, che salva dalle pene eterne dell’inferno e attraverso le parole dei sacerdoti dona al penitente sincero i suggerimenti necessari per il grande e unico conforto spirituale in Cristo, attraverso la Sua Parola, attraverso l’esempio dei Santi e dei Martiri, con le istruzioni del Magistero Perenne della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, che fornisce ogni mezzo spirituale per accrescere la Fede, per perseverare nella Speranza e non cadere nella disperazione dei momenti difficili, per praticare la Carità, viene oggi messo sullo stesso piano di un fantomatico “punto di incontro per il dialogo e l’ascolto”, addirittura in una cappella del Santuario, cui si giunge dopo aver paradossalmente attraversato un corridoio fatto solo di antichi e inutilizzati confessionali lignei.
L’antropocentrismo che rifiuta la Grazia e misconosce lo spirito soprannaturale, la “religione del dubbio” codificata dai nemici interni della Chiesa nel Concilio Vaticano II per contrapporla alla Rivelazione del Dogma, la giustificazione dell’ agnosticismo, secondo lo spirito modernista di Assisi, la psicologia, la sociologia hanno forse sostituito l’inestimabile valore e la straordinaria efficacia del Sacramento? Se queste cose avvengono in un grande Santuario Mariano, con tutta la Sua tradizione di devozione, non sa forse di sacrilegio?
E allora, abbiamo chiesto delucidazioni ad un chierico del Santuario di Loreto, non poco imbarazzato di fronte alle domande. A che cosa serve aver cambiato la “destinazione d’uso” di quella splendida cappella a pochi passi dalla Santa Casa? “E’ un luogo dove possono accedere tutti indistintamente, parlare, discutere, eventualmente sfogarsi” - ci viene risposto- “ma senza che questo sia assolutamente una confessione”! L’ultima frase viene sottolineata con enfasi. E, allora, a che cosa serve la Confessione? “Mica tutti la chiedono e la desiderano. Ci sono persone che vogliono solo essere ascoltate da qualcuno”. Beh, se si tratta di una semplice chiacchierata, uno la può fare in canonica, per strada, a casa propria, perché una cappella ad hoc? “Oggi molta gente preferisce così. Abbiamo esaudito il desiderio di chi ce l’ha chiesto”. Ecco, quindi, un’altra perla di quella “Chiesa” auspicata fin dai tempi di Giovanni XXIII, che scende a patti con i desideri del mondo, che, però, troppo spesso, non hanno nulla a che fare o che sono contrapposti alla “Casa di Dio”. Il semplice dialogo è deresponsabilizzante e sicuramente meno vincolante e impegnativo di una Confessione Sacramentale, ove occorrono sincero pentimento e ravvedimento. In più, in tal caso, non c’è neppure il vincolo del segreto da parte di chi ascolta i discorsi della persona che si accosta al tavolino. A prescindere dal fatto che troviamo strano che un sacerdote non desideri almeno proporre la Confessione Sacramentale, cosa che dovrebbe essere peculiarità del suo ministero per il bene e la salvezza delle anime, è opportuno che un luogo di culto che si dice ancora Cattolico venga adibito a questo scopo specifico? “Perché no, dimostriamo di essere aperti a tutti”. Ma essere sacerdoti e custodi di un Santuario significa lavorare come si fosse degli psicologi? Quando si va dal prete si cerca lo “strizzacervelli” o l’uomo di Dio che impartisce i consigli principali in Confessionale? Questo “colloquio alla luterana” (lo chiamiamo così adesso, col chierico ci siamo limitati alla parola “colloquio”) è una procedura Cattolica? “Anche cattolica. Le ho già detto che qui vengono tutti per dialogare”. Questa conciliarissima parola ha sostituito quella bimillenaria e seriamente Cattolica, che è convertirsi! Con chi dialoga un laico qui dentro? “Con preti e anche tante suore; ce ne sono tante sa?” Anche con medici specializzati, psichiatri o psicologi? “Magari ci fossero anche medici! Non ne abbiamo ancora trovati”. Confessare i propri peccati non è mai facile perché se ne prova vergogna, tanto che il Demonio cerca sempre di porre qualche ostacolo al fine di procastinare i tempi di una buona riconciliazione con Dio, come hanno scritto e predicato tutti i grandi Santi, Mistici e Padri della Chiesa. Con la vostra iniziativa di “dialogo psicanalitico” e, forse, anche sincretista ed ecumenico, non si aiuta un tantino il Serpente nella sua nefasta volontà di far perire le anime? “Siamo tutti figli di Dio, che perdona tutti, abbiamo tanto bisogno di parlare e di ascoltare per capirci”. Bah! Ci scusi, ma non essendo pratici né avendo mai visto niente di simile in una chiesa, la “seduta” (diciamo così) ha un costo? “Guardi, non lo so, per approfondire deve rivolgersi al Rettore”…
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COSA INSEGNA LA CHIESA A PROPOSITO?
da Norme Pastorali circa l'assoluzione sacramentale:
IV. Disponibilità dei sacerdoti Gli Ordinari di luogo e, per quanto li riguarda, anche i sacerdoti, sono obbligati in coscienza ad adoperarsi perché non diventi insufficiente il numero dei confessori per il fatto che alcuni sacerdoti trascurano questo nobile ministero,(5) mentre attendono ad occupazioni secolari o ad altri ministeri non egualmente necessari, soprattutto se tali compiti possono essere svolti dai diaconi o da laici idonei. è vero che il Documento NON affronta l'argomento nei termini postati dal chierico interpellato, ma questa Norma sopra sottolinea che compito del Sacerdote E' CONFESSARE.... e di delegare ai diaconi o ai laici competenti altri compiti non finalizzati alla Confessione... e poi ci chiediamo perchè c'è la CRISI DELLA FEDE?davvero questi sacerdoti dentro il Santuario di Loreto credono di risolverla in questo modo? Perchè non ci mettiamo anche un piano-bar? non è forse più comodo e più UMANO dialogare davanti ad un caffè o ad una buona birra? Fraternamente CaterinaLD
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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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28/06/2012 17:13 | |
Chiesa cattolica: il “caso” del Vescovo argentino Bargallò(di Mauro Faverzani da Corrispondenza Romana)
È proprio vero, una volta di più si ha conferma di come “lex orandi lex credendi”: i modi e le forme del pregare determinano cioè i contenuti del credere. La riprova la si è avuta col “caso” di mons. Fernando Maria Bargalló, il Vescovo della Diocesi di Merlo-Moreno e Presidente della Caritas per l’America Latina, di cui ha parlato la stampa internazionale, perché sorpreso da una televisione argentina assieme ad una donna su di una spiaggia caraibica in atteggiamenti decisamente imbarazzanti ed inopportuni. Prima un improbabile e goffo tentativo di autodifesa, poi le scuse, quindi la “confessione” davanti ai sacerdoti della sua Diocesi, infine la notizia delle sue dimissioni nelle mani del Nunzio Apostolico, mons. Emil Paul Tscherring. Si credeva, così, di sapere tutto della vicenda. Invece non è così. Ciò che giornali, radio, tv, blog, siti Internet, agenzie non hanno valutato sono altre foto, dal contenuto per certi versi ancora più scandaloso di quelle che han fatto il giro del mondo. Ovvero quelle che ritraggono mons. Bargalló, mentre celebra la S. Messa. Immagini, che purtroppo ben poco mantengono dei concetti di Sacro e di Mistero intrinseci al Sacrificio eucaristico, lasciando immaginare più una tavola imbandita che altro, con tanto di sgargiante tovaglietta da picnic, cesti del pane e di frutta ‒ probabilmente tracce di un estemporaneo offertorio ‒, palloncini ed, alle spalle, l’orchestrina da balera con le immancabili chitarre. Sciatti, anzi praticamente inesistenti gli stessi abiti liturgici, la stola è l’unico segno che lascia intuire chi sia il sacerdote concelebrante, per il resto trasandato con indosso una polo grigia e pantaloni beige. Ora, alla luce di questa foto, risulta più semplice comprendere la deriva spirituale ed etica di certo clero, deriva che conduce anche ad “inciampi”, come quello di cui tutti han parlato. Se non si ha rispetto nemmeno della Liturgia, che rappresenta il culmine della sacralità, figuriamoci di tutto il resto! Non a caso già l’allora Card. Ratzinger, nel libro-intervista Rapporto sulla fede, affermò: «Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia ci sono modi diversi di concepire la Chiesa, dunque Dio e i rapporti dell’uomo con Lui». E in La mia vita si disse «convinto che la crisi ecclesiale, in cui oggi ci troviamo», dipenda «in gran parte dal crollo della liturgia». Qual è il problema? E’ molto chiaro: sta nel ritenere la liturgia frutto «della nostra fantasia, della nostra creatività» ‒ come scrisse ancora l’allora Card. Ratzinger in Introduzione allo spirito della liturgia ‒, qualcosa di umano insomma, una sorta di «grido nel buio o una semplice autoconferma» comunitaria, che vorrebbe abbassare Dio al nostro livello, anziché far salire noi verso di Lui. Celebrazioni, quali quelle presiedute da mons. Bargalló, rendono evidente – purtroppo ‒ tutto questo. E danno ragione a Benedetto XVI, quando nella lettera di accompagnamento al Motu Proprio Summorum Pontificum, ha denunciato chiaramente «deformazioni arbitrarie della Liturgia al limite del sopportabile». Poi, però, tutti i nodi vengono al pettine. Fatti come quello di mons. Bargalló mostrano quali ricadute concrete abbia la sciatteria liturgica in termini di costumi morali e di pratiche pastorali. Il giornale argentino “Clarin” più volte aveva dato spazio alle posizioni del prelato, impegnato ‒ come Presidente della Caritas per l’America Latina ‒ a discettare di disuguaglianze sociali e di giustizia di classe. È lo stesso giornale che pochi giorni fa ha diffuso invece il nome della donna sorpresa con lui. Forse il Vescovo non avrebbe fatto male a dedicare più tempo alla preghiera e ad una celebrazione dignitosa della S. Messa che ad assumere estemporanei ruoli da “sindacalista”. Per non parlare d’altro. Insomma, davvero: dimmi come celebri e ti dirò chi sei. (Mauro Faverzani)
e ancora l'altro caso, italiano:
| I fondatori della Comunità Missionaria di Villaregia |
Dopo lo scandalo che ha coinvolto i fondatori della celebre comunità missionaria chioggiotta (don Luigi Prandin e Maria Luigia Corona), arrivano i provvedimenti da Roma... In data 22 maggio 2012, il Pontificio Consiglio per i Laici, dopo approfondita indagine, ha decretato la rimozione dalla carica di presidenti dei fondatori della Comunità Missionaria di Villaregia, padre Luigi Prandin e Maria Luigia Corona, e ha disposto la loro dimissione da membri dell’Associazione con l’ingiunzione di non risiedere in futuro in nessuna casa della medesima. Il provvedimento è avvenuto a seguito di numerose denunce firmate, pervenute al Pontificio consiglio per i laici, riguardanti gravi comportamenti immorali perpetrati nel passato da padre Luigi Prandin nei confronti di alcune missionarie maggiorenni.
Tale azione disciplinare colpisce anche la fondatrice, Maria Luigia Corona, perché, pur essendo a conoscenza dei fatti, ha coperto e mentito. Il Dicastero, con il suo intervento, ha inteso assolvere a un dovere di giustizia e dare una risposta fedele alle ripetute esortazioni del Santo Padre Benedetto XVI, che chiede di stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prestando al contempo una particolare attenzione alle vittime e prendendo tutte le misure atte ad evitare che si ripeta in futuro (Cf. Discorso ai Vescovi dell’Irlanda, 28 ottobre 2006). All'allontanamento definitivo dei fondatori ha fatto seguito la nomina di un Commissario Pontificio nella persona di padre Amedeo Cencini, religioso canossiano, che guiderà la CMV nella fase di ristrutturazione e risanamento sollecitata dalla Santa Sede. Il Commissario, che ha assunto in spirito di obbedienza alla Chiesa l’oneroso incarico, sarà coadiuvato da quattro consiglieri di sua nomina, scelti tra gli stessi membri della Comunità. Il provvedimento della Chiesa è grave, ma oltre a porsi nella linea della verità, con il coraggio e la sofferenza che ciò comporta, è e vuole essere anche un atto di grande fiducia e stima nei confronti della comunità di Villaregia e delle persone, missionarie, missionari, coppie di sposati e tutti quei volontari, che in gran numero e in modi diversi, hanno collaborato in questi anni per l’ideale missionario.
La comunità missionaria chiede perdono per tutto ciò e per il turbamento che questo potrebbe provocare in tante persone; essa stessa è profondamente addolorata. Al tempo stesso chiede il rispetto per questa sua sofferenza, mentre riafferma la sua volontà, pur nella consapevolezza della propria fragilità, di continuare a servire il Signore e ad annunciare il Regno di Dio. Il Pontificio Consiglio per i Laici, in questo momento, mentre riconosce in pieno la validità del carisma della Comunità Missionaria di Villaregia, incoraggia dunque i suoi membri a vivere in spirito di fede e di filiale obbedienza alla Chiesa questo doloroso momento e a proseguire con dedizione la loro azione missionaria ed evangelizzatrice. Tale invito si estende anche ai membri aggregati, che a vari livelli collaborano con l’Associazione, secondo i suoi fini.
Commissario pontificio Padre Amedeo Cencini e Consiglio di Presidenza
[Modificato da Caterina63 28/06/2012 17:30] Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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02/08/2012 16:57 | |
Nel ventre tuo si raccese l’amoreMeditazione di don Giacomo Tantardini Santuario di San Leopoldo Mandic - Padova mercoledì 18 dicembre 2002di don Giacomo Tantardini Spesso, quando occorre parlare, mi vengono alla mente le parole di Péguy che sono così attuali: «Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / Abbiamo perso il gusto per i discorsi / Non abbiamo più altari se non i vostri / Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice». Questa sera le mie parole, il dovere di parlare, quindi l’ubbidienza a questo dovere, vorrebbero soltanto ridestare in me e in voi questa preghiera semplice, questo «vieni», «sì, vieni», «vieni, Gesù». Non si può dire nulla al Signore se non domandando. Questa è una delle cose più belle che il Signore, nell’esperienza di grazia che facciamo, ci ha reso possibile sperimentare. Un bambino non dimostra che la mamma c’è. Quando dice «mamma» ne riconosce la presenza chiedendo di essere voluto bene. Non è una dimostrazione. Non si dimostra una presenza. Quando la si riconosce, si domanda. Non per nulla il Credo cristiano è una preghiera. In fondo, al Signore si può solo dire: «Vieni», «sì, vieni». Lo pensavo in questi giorni: quante volte abbiamo detto «sia fatta la Tua volontà» come una risposta nostra! Ma l’uomo non può dire «sia fatta la Tua volontà» se non come domanda. «Sia fatta la Tua volontà» è una domanda. Anche quando diciamo noi queste parole, non è una risposta nostra, è una domanda. Soprattutto nei momenti in cui è come impossibile che dal cuore salga una parola così. «Sia fatta la Tua volontà» è una domanda. Che accada in noi. Ma il soggetto non siamo noi che facciamo la Sua volontà. Sia fatta la Tua volontà in me, ma sia fatta da Te, da Te sia fatta la Tua volontà in me. Il Padre nostro è una preghiera. Ora voglio accennare a una cosa, che è stata per me una scoperta, la settimana scorsa, assistendo a una messa. Ascoltando parlare un prete, un buon sacerdote. Ho ripensato improvvisamente al mio vecchio parroco, quello per cui da piccolo sono entrato in seminario (dopo la terza media, perché mio papà e mia mamma non hanno voluto che ci andassi dopo la quinta elementare). Il prete per cui sono entrato in seminario era proprio un buon prete, semplice e molto concreto. E pensavo che tutte le parole che diceva in fondo erano moralistiche. In fondo parlava soltanto dei comandamenti. Di quello che bisognava fare. Eppûre tutte le parole che diceva erano cattoliche. Mentre, mi dicevo, le parole che questo prete sta dicendo sono tutte gnostiche. La gnosi o gnosticismo è la grande eresia che san Giovanni, il discepolo prediletto, definisce così: «L’Anticristo è colui che nega che il Figlio di Dio Gesù è venuto nella carne». Tutte le parole del mio vecchio parroco rimandavano all’umanità di Gesù. E quindi ai sacramenti. Tutte! E invece tutte le parole che si dicono adesso rimandano a idee. A idee cristiane, perché si riferiscono a contenuti cristiani. Ma sono idee, sono parole cristiane in cui non c’è più l’umanità di Gesù. L’umanità di Gesù. L’uomo creato da Dio aveva peccato. E c’erano stati tanti secoli di attesa del Messia. Poi duemila anni fa è venuto. L’umanità di Gesù è qualcosa di reale, che ha iniziato ad esistere a Nazareth quando è avvenuto il suo concepimento. La Madonna ha detto «eccomi» e il Figlio eterno di Dio è diventato carne. In quel momento ha incominciato ad essere uomo, solo in quel momento, prima era solo Dio. In quel momento ha cominciato ad essere anche uomo. L’umanità di Gesù vuol dire che la sua mamma l’ha portato nove mesi nel suo ventre. Gesù non sarebbe vero uomo se non fosse stato soggetto al tempo e allo spazio. Soggetto al tempo e allo spazio: nove mesi nel piccolo ventre di Maria. E in quei nove mesi la Madonna guardava la sua pancia che diventava più grossa. Alvus tumescit virginis. È stato sottomesso al tempo. E poi il parto mirabile, cioè pieno di stupore, a Betlemme. Talis decet partus Deum. E poi il bambino è diventato grande, a dodici anni già rispondeva e interrogava i dottori della legge. E poi, dopo i trent’anni di silenzio e lavoro a Nazareth, i miracoli, i suoi discepoli. Poi la morte. E la morte è stata morte reale. E la resurrezione non coincide con la morte, ma è avvenuta il mattino del terzo giorno dopo la morte. Il mattino di Pasqua.
Invece, la perversione della gnosi è che non ci sono più queste distinzioni reali. Non ci sono più! La morte è vita, il dolore è felicità, il peccato è grazia. No! Il peccato è peccato. Il peccato mortale dà la morte all’anima, e se si muore in peccato mortale si va all’inferno. Tutto è affidato alla misericordia di Dio che è e rimane mistero. E così con speranza nei confronti di ogni uomo, cioè pregando, la santa Chiesa dice che se si muore in grazia di Dio si va in Paradiso, ma se si muore in peccato mortale si precipita nella seconda morte che non ha fine, nella morte eterna. Tutto questo è come se non esistesse più.
Le parole non rimandano più a queste cose così semplici, cioè non rimandano più all’umanità di Gesù. Diceva Péguy: che cosa è un bambino cristiano rispetto a un bambino non cristiano? «Un bambino cristiano è un bambino al quale migliaia di volte è stata presentata davanti agli occhi l’infanzia di Gesù». È stata presentata la storia di Gesù. Non delle idee, ma la storia di Gesù. E così le domande non dobbiamo artificiosamente suscitarle noi. È la realtà che desta le domande al cuore. È la vita che pone le domande. E la risposta a tutte le domande che la vita pone non è una spiegazione cristiana che diamo noi. La risposta a tutte le domande che la vita pone è l’umanità di Gesù. La risposta al dolore è Gesù e questi crocefisso. Il Venerdì Santo è morto in croce. E la notte precedente, quella notte del Giovedì Santo(noctem cruentam criminis / quella notte cruenta di quel crimine così grande), quella notte ha sofferto fino a sudare sangue nell’orto del Getsemani. E poi il processo, la flagellazione, la coronazione di spine. La Sua umanità! Non la risposta cristiana che ci inventiamo noi. Questa Sua umanità, guardare la Sua umanità è risposta al dolore. E così il mistero rimane intatto, e nel cuore, se il Signore lo tocca, rimane compiuta l’attesa e compiuta ogni risposta. Insomma, cinquant’anni fa le parole che si ascoltavano in chiesa, anche le più moralistiche, rimandavano all’umanità di Gesù. Rimandavano a una storia, rimandavano a un uomo che era stato concepito nel ventre di sua madre che si chiamava Maria, che era stato portato nove mesi in grembo, che era stato partorito, che era stato allattato (come abbiamo ascoltato prima: Lactas sacrato ubere), allattato come ogni bambino, che aveva iniziato a sorridere come ogni bambino sorride a suo papà e a sua mamma. Quel bambino, diventato grande, aveva vissuto quei tre anni raccogliendo una piccola compagnia attorno a sé. Quell’uomo è tutto ciò che il Mistero ha voluto rivelarci e comunicarci. Quell’uomo è Dio. «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia». Così Giovanni, il discepolo prediletto. E san Paolo: «In Lui abita corporalmente la pienezza di Dio». Tutto ciò che Dio ha voluto manifestarci e donarci è nella Sua umanità. «Tabernaculum eius, caro eius» scrive sant’Agostino. La dimora di Dio è la Sua carne. La Sua umanità: come guardava, come domandava, come si stupiva, come piangeva, come si affaticava. Come quando si è seduto al pozzo di Giacobbe, quel pomeriggio, quando quella donna, che non era certo la donna più morale del villaggio, è andata ad attingere l’acqua. Tutto quello che Dio è, che il Mistero eterno e infinito è, noi lo conosciamo e ne godiamo attraverso la Sua umanità. Abbracciando, guardando la Sua umanità. Tant’è vero che la sera del Giovedì Santo, a Filippo (Filippo è un apostolo simpatico, perché fa tante domande. Così come tutti gli apostoli che sono uno più simpatico dell’altro) che gli chiedeva: «Mostraci il Padre e ci basta», Gesù guardandolo ha risposto: «Filippo, è da tanto tempo che sono con te e tu ancora non mi conosci? Chi ha visto me, ha visto il Padre». Chi ha visto me. Non in una visione mistica. Chi ha visto con gli occhi, con gli occhi di carne, chi ha visto quell’uomo ha visto il Padre. Insomma, la settimana scorsa è come se avessi intuito per la prima volta… E mi sono venute alla mente le parole di san Girolamo: «Ingemuit totus orbis, et arianum se esse miratus est». Tutto il mondo si è accorto con sgomento di non essere più cristiano. Perché il cristianesimo è solo questo. Si è accorto di non essere più cristiano, con tutte le sue parole cristiane. Con tutte le sue idee cristiane, di non essere più cristiano. Se non c’è più riferimento immediato, se le parole non rimandano immediatamente alla Sua umanità, non c’è più cristianesimo. Non c’è più questa storia meravigliosa. Non c’è più né creazione né grazia, tanto è vero che confondono la creazione e la grazia. Non c’è più né peccato né salvezza, tanto è vero che confondono il peccato e la salvezza, arrivando a dire che nel peccato si trova la salvezza. Tutto si confonde, perché non c’è più il rimando immediato alla Sua umanità, alla Sua storia. Accennerò ora a tre cose che i canti di Natale che abbiamo ascoltato questa sera hanno suggerito. 1. La prima cosa, innanzitutto, contro cui la gnosi, la grande eresia gnostica combatte, è il fatto che la creatura è buona ed è stata ferita dal peccato originale. Il peccato originale. Tutti i canti che abbiamo ascoltato (tutti!) parlano del peccato originale. Quod Eva tristis abstulit. Dicono che Eva è diventata triste. Era così bella quella compagnia, era così bello il Paradiso terrestre. Era una sorpresa continua. È diventata triste, Eva, peccando, e ci ha fatto cadere in questa condizione che non è più bella. Rimane il cuore che attende, ma la condizione non è più bella. E invece della sorpresa, c’è la preoccupazione. Questa è una delle cose più belle che dice Péguy. Che cosa ha provocato il peccato originale? Ha reso tutto una preoccupazione. Invece della sorpresa, ha reso tutto un darsi da fare, una preoccupazione. A riguardo al peccato originale vi voglio leggere la strofa dell’inno di Alessandro Manzoni sul Natale, perché è riassuntiva della condizione dell’uomo che nasce ferito dal peccato. «Qual mai tra i nati all’odio». Così si nasce dopo il peccato di Adamo ed Eva, si nasce all’odio. «Voi siete tutti cattivi», dice Gesù. «Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir: perdona?». Chi poteva dire «perdona» al Santo inaccessibile, che non aveva un volto? Peüché, prima dell’umanità di Gesù, il Mistero non aveva un volto da guardare, prima di quell’umanità che si è potuta guardare, che Maria ha guardato, che Giuseppe ha guardato. Quei due ragazzi che per primi hanno visto Dio, quando lei, Maria, l’ha partorito. «Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile…». Inaccessibile. A cui non si può arrivare. Tant’è vero che in un canto si dice che «tu sei la porta aperta del cielo», tu, Madonna, tu, Sua madre, sei porta spalancata, pervia, facile, a Dio. «Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir: perdona? / Far novo patto eterno?». Chi poteva rinnovare l’alleanza, per cui il Mistero, il Signore, il Creatore non avrebbe più destato paura? Perché dopo il peccato l’uomo ha paura di Dio: «Ho avuto paura e mi sono nascosto». Chi poteva ridonare quell’amicizia per cui l’avvicinarsi di Dio non fa paura, ma è una compagnia ineffabile, una sorpresa continua? Far novo patto eterno? / Al vincitore inferno / La preda sua strappar?». All’inferno che aveva trionfato strappare la preda. Questa è la condizione dell’uomo. Si nasce così, e nessuno avrebbe potuto neppure dire «perdona». Si nasce così. Ma, proprio perché si nasce così, i cristiani non condannano nessuno. Perché quell’uomo che si è imbattuto nei briganti, scendendo da Gerusalemme a Gerico, e che è rimasto sull’orlo della strada mezzo morto, ferito mortalmente, il Buon Samaritano, che è Gesù, che passava, non lo ha condannato. Non gli ha detto «guarda come sei disperato». No, ha avuto compassione di lui. Se non si accetta il peccato originale, ci si condanna a vicenda, ci si ricatta a vicenda. Non c’è nemmeno quella compassione che un pagano come Cicerone diceva essere la virtù più umana. Si è nati feriti, si è nati cattivi. Alla lunga a nessuno è possibile da solo osservare nemmeno quelle leggi scritte nel cuore che sono i dieci comandamenti. Si è poveri peccatori. Il Buon Samaritano non ha accusato nessuno, non ha sgridato nessuno, ha preso in braccio, ha messo sulla sua cavalcatura, ha asciugato e fasciato le piaghe di quest’uomo ferito. 2. Ma è accaduto qualcosa. L’uomo non poteva dire «perdona», l’uomo non poteva ritornare, come il sasso che cade dalla montagna e sta sul fondo della valle e non può ritornare se una forza amica, altra dal sasso, non lo tira su. Lo dice ancora Manzoni nello stesso inno. Ma è accaduto qualcosa. E questo lo accenno con le parole di Dante. «Nel ventre tuo si raccese l’amore». Duemila anni fa. Duemila anni fa! Non fuori del tempo. Ma in un momento del tempo. A Nazareth, in quel paese di estrema periferia del popolo eletto, nella Galilea dei gentili. In quel momento di tempo, «nel ventre tuo», nel ventre di quella ragazza di nome Maria, di quella donna (non della Donna con la D maiuscola), nel ventre di quella donna (quel ventre, quella carne e quel sangue) «si raccese l’amore». L’amore, la possibilità di essere perdonati, la possibilità di dire «perdona», si accese nel ventre di quella ragazza. «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo». Non per le parole che diciamo, non per le risposte che ci inventiamo noi: «per lo cui caldo». Caldo, cosa c’è di più fisico del caldo, del caldo che si è acceso nel ventre di quella ragazza? «Per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore». «Per lo cui caldo» la vita rifiorisce, la vita, che era stata ferita mortalmente, rifiorisce. «Per lo cui caldo», per il caldo di quella presenza umana che è stata concepita nel ventre di Maria. «Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo». A contatto con questa umanità, a contatto visibile… perché dopo nove mesi l’ha partorito, con un parto stupendo, con un parto senza dolore. Mentre il parto di ogni donna, in conseguenza del peccato originale, è un parto nel dolore, il parto di questa donna, di questa ragazza, è stato un parto nello stupore. Com’è bello ciò che la Chiesa chiama la verginità nel parto di Maria. Un parto che riempiva di stupore. Così l’ha partorito, con un parto che ha riempito lei, e poi Giuseppe, e poi i pastori… ha riempito quelli che poi lo hanno visto di stupore. «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace» in Paradiso. In Paradiso la vita fiorisce per sempre. Ma già qui, quando questo caldo raggiunge il cuore, anche solo per un istante, anche solo con una stilla di questa rugiada, anche solo con una promessa di germoglio di primavera… questo caldo, raggiungendo i cuori, fa germogliare. «Così è germinato questo fiore». Vi voglio leggere come san Pio X nel suo catechismo, in maniera così semplice e bella, dice queste cose. «In che modo il Figlio di Dio si è fatto uomo? Il Figlio di Dio si è fatto uomo prendendo un corpo e un’anima, come abbiamo noi, nel seno purissimo di Maria Vergine, per opera dello Spirito Santo». Dio ha preso un corpo e un’anima come li abbiamo noi. Il corpo è venuto tutto da quella ragazza, tutto dal suo sangue e dalla sua carne. Un corpo umano. E poi ancora: «Il Figlio di Dio, facendosi uomo» (perché è accaduto, è avvenuto! Verbum caro factum est: è avvenuto che il Verbo eterno si è fatto carne. È accaduto duemila anni fa a Nazareth), «cessò di essere Dio? Il Figlio di Dio, facendosi uomo, non cessò di esser Dio, ma, restando vero Dio, cominciò ad essere anche vero uomo». E poi l’ultima: «Gesù Cristo è stato sempre? Gesù Cristo come Dio è stato sempre; come uomo cominciò ad essere dal momento dell’Incarnazione». Come uomo cominciò ad esistere quando Maria ha detto sì. 3. Cosa accade quando questo caldo raggiunge il cuore dell’uomo, il caldo riacceso nel ventre di quella ragazza? «Nel ventre tuo si raccese l’amore». L’amore! La possibilità di essere perdonati. Fino a quell’istante, a quel momento, di questo amore, di questo perdono si intravvedeva solo l’ombra, il riflesso, l’attesa. L’Antico Testamento è ombra, riflesso rispetto alla realtà. Quando arriva la realtà, l’ombra viene con rispetto messa da parte. Quando c’è la presenza che ama, uno guarda la presenza, senza continuare a guardare la fotografia. Così è il rapporto tra la realtà umana di Gesù e l’Antica Alleanza. La realtà umana di Gesù è l’imprevisto e imprevedibile compimento di ogni attesa. «Tutto è stato fatto in vista di Lui». Quando questo caldo raggiunge il cuore, cosa desta? Desta nel cuore la speranza. Quando questo caldo raggiunge il cuore dell’uomo, stupisce il cuore dell’uomo. La seconda virtù, la speranza, indica questo stupore. Quando lo raggiunge, commuove il cuore dell’uomo. Quando questo caldo tocca il cuore, l’uomo, preoccupato, ha un istante in cui si stupisce, in cui non è più preoccupato. Affaccendato in mille cose, preoccupato (pre-occupato vuol dire che il cuore è appesantito da tante cose), il cuore si stupisce. E il cuore ritorna, ridiventa o diventa come quello del bambino. Quando questo caldo raggiunge il cuore, desta questa commozione, desta questo stupore, desta questa speranza. Questa speranza non è un mero sapere che dopo ci sarà qualcosa. Questa speranza è l’inizio di quel fiorire del Paradiso sulla terra. Il germoglio è l’inizio, non è ancora il fiore completo. La prima gemma è solo l’inizio. Quando questo caldo tocca il cuore, il cuore germoglia. Si chiama speranza. Leggiamo Dante. «Qui se’ a noi» qui in Paradiso, è san Bernardo che prega, «meridïana face / di caritate». In aradisoýè diverso dalla terra. Perché il Paradiso è questo amore assicurato per sempre. In terra tutto è solo in speranza, cioè in stupore, in stupore reale ma precario, tanto è vero che si può perdere. La grazia di Dio si può perdere. Anzi, dice il dogma della fede, senza un aiuto speciale della grazia, non si può rimanere in grazia. Quindi è uno stupore precario. Reale, certissimo, ma precario. «Le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle».
Così Giussani, descrivendo la sua vita. «Le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva e mi accade davanti agli occhi». Tessendo così la trama di un cammino che mi accadeva e che mi accade davanti agli occhi. «Qui se’ a noi meridïana face / di caritate», qui sei a noi sole splendente di carità, splendore di carità. La carità è quando il desiderio del cuore è soddisfatto, quando ciò che il cuore desidera è appagato. «E giuso», giù sulla terra, «intra ’ mortali»: come è realista il cristianesimo: tra coloro che vanno verso la morte. «E giuso, intra ’ mortali, / se’ di speranza fontana vivace». Sei la possibilità che quello stupore si rinnovi continuamente. Tu! Tu, o Maria, Tu, o Madonna, sei la possibilità che la grazia di Dio si rinnovi, sei la possibilità che quel caldo («nel ventre tuo si raccese l’amore») tocchi il nostro cuore, lo tocchi così che la nostra vita vada da inizio in inizio, lo abbracci possibilmente in ogni istante. La santità è quando quel caldo abbraccia quasi (quasi, perché la terra non è il Paradiso) ogni istante. Padre Leopoldo è stato così. Quel caldo, quello stupore quasi ogni istante abbracciava il cuore, così che era caro al cuore. «Lo stupore vero», intuiva Cesare Pavese, «è fatto non di novità, ma di memoria». Così che diventa caro al cuore, come la casa in cui il cuore abita. «Qui se’ a noi meridïana face / di caritate, e giuso, intra ’ mortali, / se’ di speranza fontana vivace». E poi Dante conclude, parlando della preghiera. Che cosa può fare l’uomo, l’uomo ferito dal peccato e l’uomo graziato, quando questo caldo, riacceso duemila anni fa nel ventre di Maria, lo raggiunge? L’uomo può domandare. «Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ali». Donna, sei tanto grande e tanto vali, che chi vuole grazia e a te non ricorre, il suo desiderio è come se volesse volare senza le ali.
Ma poi c’è una strofa ancora più bella, più bella, perché suggerisce che anche il domandare è frutto della Sua grazia. «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre». E questo è un mistero. Il mistero più ineffabile della predilezione di Dio: che non solo risponde alla domanda, ma precorre la stessa domanda. Altrimenti non sapremmo neppure domandare. La tua benignità, di te, Maria, non solo soccorre a chi domanda, ma tante volte (possiamo anche dire sempre, altrimenti non si domanda, altrimenti si pretende o si dicono parole) «liberamente al dimandar precorre». Precorre, viene prima, precede. «Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia». Precede vuol dire che viene prima, viene prima anche della domanda. Per domandare occorre, almeno all’orizzonte ultimo, essere attratti, essere destati da quel caldo che si è acceso nel ventre di Maria. E così concludo. Prima, in ginocchio, nella celletta di padre Leopoldo, ho promesso di concludere dicendo queste cose. Dicendo quella che, secondo me, non secondo me, secondo la santa Chiesa, è l’alternativa alla grande eresia di cui all’inizio dicevo, quando parlavo della gnosi nella Chiesa. Fu Giuda, uno dei dodici, a tradirlo. La persecuzione del mondo, del diavolo, avviene sempre attraverso cristiani. Giuda, uno dei dodici, l’ha tradito: era uno dei dodici! Così Pietro e Paolo, uccisi a Roma per invidia di cristiani. È sempre così. Anche oggi è così. Comunque, l’alternativa all’Anticristo, a chi non riconosce Gesù, il Figlio di Dio nella carne, secondo me sono tre cose. La prima è la confessione. La confessione così come il Concilio di Trento ha definito che è. Alla cui umile fedeltà il Papa ha richiamato recentemente tutto il popolo cristiano. La confessione, cioè accusa sincera, completa, umile, breve e prudente (sono le cinque caratteristiche dell’accusa dei peccati del catechismo di san Pio X. La confessione sincera e completa di tutti i singoli peccati mortali. La confessione comporta questo realismo. Per cui il peccato è peccato). E il gesto, il più semplice di questo mondo, di un povero peccatore, magari molto più peccatore di te, come è il confessore, un gesto posto da lui, ma realizzato da Gesù Cristo, un gesto di Gesù Cristo ti perdona. Il sacramento della confessione come Gesù lo ha istituito e la santa Chiesa domanda che sia: giudizio e misericordia. Tant’è vero che nel catechismo, quand’ero piccolo, c’era un’immagine che descriveva bene il fatto che se uno si confessa male compie sacrilegio. Era l’immagine di un bambino che si allontanava con dietro le spalle il diavolo. Mentre c’era l’immagine dell’angelo custode vicino a un bambino sorridente che si confessava bene. La confessione, quindi, come la santa Chiesa domanda che ci si confessi. Il sacramento della confessione è il primo modo con cui Maria ha sconfitto da sola tutte le eresie. Così diceva un’antifona della liturgia ripresa da san Giovanni Bosco nella sua preghiera alla Madonna: «Tu che hai distrutto da sola [da sola lei, non noi!] tutte le eresie del mondo». La seconda cosa è il santo Rosario. Vi leggo alcune frasi di papa Luciani, quand’era patriarca di Venezia, sul Rosario. «Personalmente, quando parlo da solo a Dio e alla Madonna, più che adulto, preferisco sentirmi fanciullo». Questo vale per tutta la vita. Essere adulti nella fede vuol dire accorgersi più facilmente di quello che si è, cioè niente: «Senza di me non potete far nulla». Prosegue papa Luciani: «…per abbandonarmi alla tenerezza spontanea che ha un bambino davanti a papà e mamma. Essere davanti a Dio quello che in realtà sono con la miseria e con il meglio di me stesso. Il Rosario, preghiera semplice e facile, a sua volta, mi aiuta a essere fanciullo. E non me ne vergogno punto». Il Rosario (con il Padre nostro, l’Ave Maria e le giaculatorie che si ripetono) è la preghiera in cui siamo quello che realmente siamo, cioè niente. In cui per grazia diventiamo bambini, in cui il cuore diventa bambino, così che entra (che entra, già dicendo il Rosario!) nel Regno dei cieli. Così che il cuore rifiorisce. E infine la terza cosa: le giaculatorie. La confessione, il Rosario, le giaculatorie. Le giaculatorie, cioè le piccole preghiere. Come quando si entra in chiesa e si dice: «Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento». Ogni momento! E uno s’accorge magari che è da tanto tempo che non dice grazie. Ma entrando in chiesa e facendo la genuflessione, uno ripete: «Sia lodato e ringraziato ogni momento». E il grazie di quell’istante abbraccia tutto, abbraccia le ore, i giorni, le settimane e i mesi in cui uno non ha mai detto grazie. E poi quell’altra giaculatoria, così semplice e cara, che tante volte Giussani ci ha raccomandato: «Veni, Sancte Spiritus, veni per Mariam». Vieni, o Santo Spirito. Lo Spirito Santo è Colui che nel ventre di Maria «raccese l’amore», Colui che ha destato nel ventre di Maria l’amore. Lo Spirito Santo è l’infinita corrispondenza tra il Padre e il Figlio. Mi sorprende questa cosa, da quando l’ho intuita. È l’infinita corrispondenza tra il Padre e il Figlio. L’infinita, eterna, sovrabbondante corrispondenza tra il Padre che genera e il Figlio che è generato. Per cui per sovrabbondanza di corrispondenza, e non per dialettica, per sovrabbondanza di gioia la Trinità ha creato il mondo e ha creato anche me. «Veni, Sancte Spiritus, veni per Mariam». Vieni attraverso Maria. Termino ripetendo la strofa di un inno che Giussani quindici giorni fa ha suggerito: «Jesu mi dulcissime», Gesù mia dolcezza. Intendevo dire solo questo, solo dire l’umanità di Gesù. «Jesu mi dulcissime», Gesù dolcezza per me. Solo una presenza è dolcezza al cuore. Dolcezza è una parola che per due volte nella Salve Regina ýipetiamo alla Madonna: «dulcedo», dolcezza, «dulcis virgo Maria». Così, affidando a lei quello che noi non siamo capaci e che tante volte non vogliamo… «Jesu mi dulcissime, spes suspirantis animae»: speranza, sorpresa, commozione dell’anima che sospira, che attende («il mio gemito a te non è nascosto»). È la vita, è la realtà che fa sospirare. Le cose fanno sospirare. «Spes suspirantis animae». Anima che sospira, anche quando non ce ne accorgiamo, a quella dolcezza, che sospira a quella presenza che Maria ha portato in grembo nove mesi e che ha partorito a Betlemme. «Spes suspirantis animae. Te quaerunt piae lacrymae». Ti cercano le lacrime pie. Lacrime, perché il dolore della vita fa piangere. Anche i nostri poveri peccati fanno piangere. E le lacrime si trasfigurano in lacrime di gratitudine. Altrimenti dopo un po’ non si piange neppure più, dopo un po’ anche il volto si irrigidisce e diventa una maschera. Le lacrime del dolore, di fronte a questa presenza, diventano lacrime di gratitudine, perché il Suo perdono, la Sua dolcezza, la Sua tenerezza è più grande. «Te quaerunt piae lacrymae et clamor mentis intimae». Te cerca il grido del cuore, quando dormiamo e quando siamo svegli. Te, Gesù Cristo, figlio di Maria, Figlio di Dio, il grido di ogni cuore cerca. E a noi, per grazia, è stato dato di iniziare a cercare e di essere trovati già qui sulla terra. Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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17/08/2012 22:02 | |
Anno 2010. Per la prima volta i preti ordinati dagli istituti missionari italiani sono tutti stranieri di Padre Piero Gheddo Ogni anno a giugno gli istituti missionari celebrano l’ordinazione sacerdotale dei loro diaconi e le destinazioni alle missioni. Quest’anno i quattro nati in Italia (Pime, Comboniani, Saveriani e Consolata) non hanno nessun sacerdote italiano – questo almeno mi risulta.
Il Pontificio istituto missioni estere (Pime) ordina 11 sacerdoti, ma tutti stranieri: quattro brasiliani, tre indiani, tre birmani e uno della Guinea Bissau. Un amico comboniano mi ha detto che quest’anno hanno chiuso il loro noviziato europeo, che riceve giovani dai sette paesi del continente in cui l’istituto è presente. Il Pime, istituto non religioso (cioè senza i voti), è internazionale solo dal 1989, mentre altri istituti, da sempre internazionali, hanno un maggior numero di sacerdoti dalle missioni. Ma la situazione delle vocazioni missionarie italiane è più o meno uguale per tutti: sì e no un solo sacerdote all’anno, quando va bene. Secondo i dati delle Pontificie opere missionarie, nel 1934 l’Italia aveva 4.013 missionari nei territori di missione, 7.713 nel 1943, 10.523 nel 1954. Nel 1965 la rivista Fede e Civiltà dei missionari saveriani (che attualmente esce come Missione Oggi) realizzò un’inchiesta da cui risultava che i missionari italiani in missione erano 10.708. Dopo il Concilio Vaticano II arrivarono fino ai 16 mila del 1985. Un fatto straordinario, dovuto ai sacerdoti “fidei donum” (diocesani in missione), al volontariato laico nelle missioni e al fatto che molti istituti, congregazioni e ordini religiosi, soprattutto femminili, sono diventati missionari mentre non lo erano mezzo secolo prima. Altre Chiese d’Europa, tradizionalmente missionarie, hanno avuto una forte diminuzione. La Francia è passata da 22 mila missionari sul campo negli anni Sessanta a 11 mila, l’Olanda da 6 mila a 2 mila, la Germania da 14 mila a 6 mila, gli Stati Uniti da 15 mila a 7 mila, secondo statistiche del 1989. Oggi la situazione non è certo migliorata. Si calcola che gli italiani in missione siano circa 12 mila, ma «con i capelli sempre più grigi», come scrive Mondo e Missione in un “servizio speciale” dell’ottobre 2008 intitolato “Missionari in via di estinzione?”. Titolo provocatorio quello scelto dal mensile del Pime, ma questa è la realtà. Dopo quasi sessant’anni nella stampa e nell’animazione missionaria in Italia, esprimo una mia convinzione. Le cause sono certo molte: crisi di fede e delle famiglie, ragion per cui mancano i giovani; crisi delle diocesi e delle parrocchie, dove si incontrano sempre più preti stranieri. Ma il crollo delle vocazioni missionarie dipende in gran parte dal fatto che la figura del missionario non attira più. Era affascinante fino a quarant’anni fa (Indro Montanelli mi diceva: «Voi missionari siete tutti eroi»), ma è molto decaduta nella cultura del nostro tempo e quasi scomparsa nei mass media d’oggi. Noi missionari e i nostri istituti abbiamo perso la nostra identità e il nostro fascino. Eravamo gli inviati della Chiesa per portare Cristo e il Vangelo ai popoli e fondare la Chiesa come negli Atti degli Apostoli. Questa era la nostra identità, l’immagine che avevamo noi giovani sognando di diventare missionari. Poi la missione è cambiata e il missionario ha perso l’aureola di eroe e di pioniere, oggi va a servire Chiese quasi ovunque già fondate. Tutto vero, ma è anche vero che i missionari sono sempre più richiesti dalle giovani Chiese e oggi acquistano in più l’immagine nuova di “ponte fra i popoli, le religioni e le culture”, che nel mondo globalizzato è capace di suscitare interesse e adesioni. Insomma, il missionario potrebbe diventare una figura sempre più attuale, se solo noi missionari mantenessimo, in Italia (e più in genere in Occidente), la nostra identità, il nostro carisma, la nostra carica di entusiasmo evangelizzatore. Invece l’immagine del missionario si è a poco a poco politicizzata e siamo finiti in una marmellata di buonismo che è diventato la cultura di base del popolo italiano. Sul campo, i missionari continuano il loro lavoro con spirito di sacrificio e fedeltà al carisma, in Italia l’immagine del missionario cambia e secondo me non rappresenta più la realtà. Nelle riviste missionarie di quarant’anni fa gli articoli sull’evangelizzazione dei popoli, le conversioni, i catecumeni, le novità delle giovani Chiese, l’annunzio di Cristo nelle diverse culture, la presentazione di figure di missionari erano alla base di ogni edizione. Si parlava spesso di vocazione missionaria a vita e ad gentes, proponendola in modo concreto ai giovani.
Oggi, ci sono riviste “missionarie” che di missionario hanno poco o nulla; “centri culturali” di istituti missionari che organizzano molte conferenze, ma sui temi della missione alle genti quasi niente e sui missionari in carne e ossa nulla; librerie di istituti missionari, che si suppone vendano libri missionari, che in vetrina mettono tutt’altro; animatori missionari che parlano di “mondialità” e poco o nulla di “missione”; comunità di missionari che hanno perso l’entusiasmo della missione alle genti e la buona abitudine di parlare della loro vocazione, spiazzati dall’indifferenza del mondo moderno. E potrei continuare. È una deriva generalizzata della quale non incolpo nessuno, ma che ci ha fatto perdere la nostra identità. Se la chiamata si perde nel caos... Sono convinto che non esista nella mentalità comune del popolo italiano una figura più incisiva e più universalmente accolta di quella del missionario e dell’ideale missionario. Ma noi, per timore di essere considerati “integralisti” e per malinteso senso del “dialogo”, non osiamo più parlare di conversioni a Cristo; mortifichiamo le esperienze missionarie sul campo; riduciamo la missione della Chiesa agli aiuti a lebbrosi e affamati; siamo “a servizio della Chiesa locale”, dimenticando però che questo servizio dovrebbe essere soprattutto volto ad animare missionariamente il gregge di Cristo; pensiamo di fare “animazione missionaria” facendo campagne nazionali contro chi produce e vende armi e su altri temi (battaglie positive, certo, ma non “animazione missionaria”). In passato, durante le solenni “veglie missionarie” alla vigilia della Giornata missionaria mondiale, si ascoltavano le testimonianze dei missionari sul campo, oggi invece in alcune “veglie missionarie”, organizzate da missionari e da “gruppi missionari”, si contesta la produzione delle armi e sono invitati a parlare gli esperti di questo tema. Ma è possibile che un giovane o una ragazza sentano la voce dello Spirito che li chiama a donare la loro vita alla missione se sono impegnati in marce di protesta come queste?
Cari Sacerdoti e cari Vescovi..... aggiornare Cristo significa aggirare Cristo Quelli che vogliono aggiornare Cristo
di Inos Biffi L'ortodossia, cioè il Credo cristiano nella sua integrità, è il fondamento e la condizione dell'esistenza stessa della Chiesa.
Questa perderebbe la propria identità, se qualche verità del Credo si annebbiasse nell'incertezza o fosse rimossa o trascurata. La prima missione che sta a cuore alla Chiesa è la piena fedeltà alla Parola di Dio, autorevolmente espressa e proposta dalla stessa Chiesa. Verso le formulazioni della fede non è raro riscontrare una diffidenza e reazione, ma è perché vengono fraintese, quasi riducessero e impoverissero tale Parola, frantumandola in enunciazioni astratte, prive di vita. Se è vero che nessun linguaggio umano riesce a esprimerne adeguatamente il contenuto, che solo nella visione beatifica sarà immediatamente percepito, è altrettanto indubbio che i simboli di fede coi loro articoli e le definizioni della Chiesa col loro rigore, grazie all'opera dello Spirito, mediano infallibilmente la Rivelazione. E proprio questa sta a cuore alla Chiesa, quale sua prima e insostituibile missione, in ogni tempo. Già Paolo raccomandava a Tito di insegnare "quello che è conforme alla sana dottrina" (Tito, 2, 1), mentre, esortando Timoteo ad annunciare la Parola, gli prediceva: "Verrà un giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina" (2 Timoteo, 4, 2-3). D'altronde lui stesso si preoccupava di essere in sintonia con gli altri apostoli. Oggi qua e là si reagisce quando si sente parlare di "eresia", non considerando che, se l'eresia non è possibile, vuol dire che non esiste neppure la Verità e tutto si stempera in una materia cristiana confusa e informe. Quando, al contrario, la fede ha degli oggetti precisi e non interscambiabili. In questa trasmissione lo sguardo della Chiesa è sempre volto soltanto al Signore, che le affida il Vangelo: non a quello che una determinata cultura potrebbe gradire o approvare, e non limitatamente a quegli aspetti su cui si possa essere d'accordo e consenzienti dopo un accogliente dialogo. Non è fuori luogo sottolineare che il Verbo si è fatto carne non per istituire un disteso e lusinghiero dialogo con l'uomo, ma per creare e manifestare in sé l'unica immagine valida e riconoscibile dell'uomo. A prescindere da Gesù Cristo semplicemente non c'è l'uomo conforme al progetto divino. Per non equivocare si potrebbe aggiungere che Gesù Cristo non va mai "aggiornato", perché è Lui il perenne e insuperabile Aggiornamento, che include in sé ogni tempo, quello presente, quello passato e quello futuro. Siamo noi che invece, per non perdere l'"attualità", ci dobbiamo aggiornare a Lui, siamo noi che, per essere veri credenti, ci dobbiamo aggiornare al Credo cristiano in sé inalterato e inaggiornabile. Un rinnovamento nella Chiesa passa sempre e imprescindibilmente da un lucido annunzio anzitutto dell'assolutezza di Gesù Cristo, che rappresenta "il mistero di Dio Padre" (Colossesi, 2, 2). Del resto, i concili più importanti e impegnativi furono quelli dedicati all'ortodossa proposizione del mistero di Cristo, della identità di Gesù di Nazaret: concili dottrinali e quindi, nel significato più alto, concili pastorali. A cominciare da Nicea. La storia della Chiesa mostra con innegabile evidenza che una ripresa della condotta evangelica si innesta sempre su una energica riproposizione dell'ortodossia. Si pensi al Concilio di Trento, che fu prima di tutto un concilio dottrinale - sul peccato originale, sulla giustificazione, sui sacramenti - a cui seguì un meraviglioso rifiorire di vita e di santità cristiana. La Riforma aveva colto, e giustamente stigmatizzato, comportamenti antievangelici nella Chiesa del suo tempo. Solo che alla base del risanamento pose un aggiornamento dell'ortodossia di fatto consistente in eresie, che spezzavano la comunione con la Tradizione. Si pensi alla negazione del sacerdozio ministeriale, alla contestazione del sacrificio della Messa, alla negazione di alcuni sacramenti, al carattere ecclesiale dell'intepretazione della Scrittura. Sarebbe illuminante far passare analiticamente alcuni punti dell'ortodossia da riannunciare con vigore. Ma, prima di singoli dogmi, pare urgente la riproposizione del senso del "mistero", che sostiene tutto il Credo. La Parola di Dio manifesta il disegno, iscritto nell'intimo della Trinità e conoscibile soltanto per la condiscendenza divina e per la sua "narrazione" avvenuta in Cristo. Credere significa affidarsi a questa "narrazione" e quindi accogliere e annunciare un "altro mondo", il mondo invisibile e duraturo. Secondo quanto afferma Paolo: "Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne" (2 Corinzi, 4, 18). Lo smarrimento della "sensibilità al soprannaturale", razionalizzando il dogma, dissolve la fede; deteriora e dissipa l'evangelizzazione; altera e svuota la missione della Chiesa, che Cristo ha fondato come testimonianza della Grazia, e per il raggiungimento non del benessere e del fine terreno dell'umanità, ma della beatitudine eterna. Né per questo il Vangelo trascura o sottovaluta l'esistenza temporale dell'uomo, solo che questa esistenza, fragile e transitoria, è considerata nella sua destinazione e riuscita gloriosa. Ovviamente, la conseguenza di un tale smarrimento è l'estinzione della teologia. A proposito del senso del mistero vengono in mente, e appaiono di sorprendente attualità, le luminose pagine che il più grande teologo dell'Ottocento, Joseph Matthias Scheeben, purtroppo dimenticato dall'esile riflessione dei nostri giorni, dedica nel primo capitolo de I misteri del cristianesimo, l'opera dogmatica a sua volta più originale e profonda dell'epoca: "Quello che ci affascina è l'apparizione di una luce che ci era nascosta. I misteri pertanto devono essere verità luminose, splendide", che "si sottraggono al nostro sguardo per soverchia maestà, sublimità e bellezza". E anche andrebbe letto, specialmente da chi si sta formando nei seminari, l'ultimo capitolo dell'opera di Scheeben, quello sulla teologia, "la scienza dei misteri", appoggiata tutta "al Lògos di Dio". L'ortodossia, quindi, con le sue verità "visibili" agli "occhi illuminati del cuore" (Efesini, 1, 18): ecco la condizione imprescindibile per un annunzio fedele del Vangelo e un rinnovamento nella Chiesa. da "L'Osservatore Romano" del 25 agosto 2010
[Modificato da Caterina63 17/08/2012 22:27] Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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29/11/2012 22:41 | |
PERICOLI PER LA VITA SACERDOTALE NEL NOSTRO TEMPO Don CURZIO NITOGLIA 22 aprile 2012 http://www.doncurzionitoglia.com/pericoli_vita_sacerdotale.htm Vita Sacerdotale~ ~ ~● Nel 1945 Padre REGINALDO GARRIGOU-LAGRANGE ha scritto un libretto, tradotto in italiano nel 1949, e intitolato Santificazione sacerdotale nel nostro tempo (Torino, Marietti). In esso il celebre teologo affrontava gli errori neomodernistici, che minavano già allora la spiritualità cattolica e metteva in guardia specialmente i giovani sacerdoti da essi. Sono passati oltre settanta anni e i pericoli latenti sono diventati errori espliciti, che purtroppo non sono più censurati, ma addirittura promossi dai Pastori che dovrebbero condannarli. Nel presente articoletto faccio un riassunto di tali errori, dei rimedi proposti dal Padre domenicano e aggiungo ciò che di erroneo è maturato in campo teologico ascetico e mistico dal 1949 per dare ai sacerdoti e analogamente ai cristiani sinceri i mezzi per preservarsi da essi.● Uno degli errori sulla vita spirituale che si era infiltrato in ambiente cattolico, grazie alla nouvelle théologie è quello del Sentimentalismo. Questo errore dimentica che la vera Carità soprannaturale è effettiva più che affettiva, inoltre è un atto della volontà e dell’intelletto mossi dalla Grazia attuale. Invece il Sentimento religioso mette al primo posto la sensibilità e l’affettività che prevalgono sull’intelligenza e volontà mosse dalla Grazia. La spiritualità diventa sentimentalismo ed è simile ad un “fuoco di paglia” cui succederà il rilassamento, l’accidia e l’abbandono di ogni vita ascetica al sorgere delle prime difficoltà e aridità spirituali.● L’altro errore è l’eccesso opposto: l’Angelismo; esso ritiene che la vita cristiana interiore sia talmente sublime da essere straordinaria, eccezionale, miracolistica riservata solo a pochi eletti. Confonde i fenomeni straordinari e contingenti della Mistica con la natura della terza via unitiva alla quale tutti sono chiamati da Dio e che è lo sviluppo ordinario della Grazia e delle Virtù mediante i Doni dello Spirito Santo. La conseguenza è che si rinuncia alla vita spirituale poiché troppo ardua rispetto alla umana fragilità. Però il vero impedimento alla santificazione, verso la quale tutti dobbiamo tendere, non è la limitatezza umana, propria anche dei Santi, ma l’orgoglio spirituale di chi vorrebbe fare dell’uomo un angelo e finisce per renderlo una bestia.● La sana spiritualità insegna che la vita cristiana è vita di unione con Dio, presente nell’anima del giusto, conosciuto e amato soprannaturalmente mediante la Fede e la Carità, e di convivenza con Lui mediante la meditazione. Se l’unione e il colloquio con Dio sono il fine cui tendere e da accrescere pian piano ogni giorno, occorre prendere dei mezzi per arrivarvi. Infatti “chi vuole il fine prende i mezzi”. Purtroppo l’amor proprio pone un grande ostacolo alla vita di unione con Dio. Infatti viviamo più per noi stessi che per Dio. Assieme all’amor proprio troviamo spesso nella nostra anima la vanità, la superficialità, l’esteriorità. Così non viviamo interiormente uniti a Dio e in colloquio con Lui, ma esteriormente sulla instabilità della fantasia e del sentimentalismo o ripiegati egoisticamente e narcisisticamente su di noi quasi in adorazione di noi stessi e non di Dio. Al nostro “Dio” manca la “D” iniziale, la nostra religiosità si trasforma allora in “filosofia” idealistica che ha per oggetto l’Io assoluto.● I mezzi fondamentali per raggiungere questo Fine ultimo, che è Dio, sono sostanzialmente due:1°) l’abnegazione o il rinnegare la volontà propria quando non è conforme a quella divina. Occorre togliere da noi il disordine, le passioni sregolate e acquisire la pace dell’anima. Tuttavia le passioni, anche se mortificate, restano sempre in noi sino alla nostra morte. Quindi la lotta contro di esse durerà tutta la nostra vita. Dobbiamo dare la morte allo spirito del mondo che alberga in noi (le tre Concupiscenze), soprattutto al proprio giudizio o capriccio impulsivo, che ci porta al compiacimento nelle nostre qualità, come fossero nostre e non dono di Dio: “Cosa hai tu che non abbia ricevuto da Dio? E se lo hai ricevuto, perché te ne glorifichi come se fosse tuo?” (San Paolo). Se riusciamo a spogliarci di questo orgoglio nascosto mediante la vera devozione alla Vergine Maria secondo lo spirito di San Luigi Grignion de Montfort, allora abbiamo fatto posto allo Spirito Santo che viene abbondantemente in noi ad attuare i suoi sette Doni, che da vele ammainate diventano vele spiegate al vento della Grazia, la quale ci fa correre verso la meta.2°) Il raccoglimento abituale che ci porta a vivere con Dio presente in noi mediante la Grazia santificante e a parlare con Lui nella meditazione. San Benedetto nella grotta di Subiaco “secum vivebat”: viveva con Dio presente in sé (San Gregorio Magno).● Soprattutto il sacerdote deve possedere queste qualità che lo portano alla unione e convivenza con Dio per poterLo dare alle anime. “Nemo dat quod non habet”. Ruolo del sacerdote è quello di dare Dio agli uomini mediante la Predicazione, i Sacramenti e l’educazione ai Comandamenti e poi di elevare gli uomini sino a Dio, in maniera finita ma reale, facendoli vivere abitualmente in Grazia santificante. “Contemplare et contemplata aliis tradere” (San Tommaso d’Aquino). Per il sacerdote questa chiamata alla unione con Dio è un obbligo, non un consiglio, per poter dare agli altri Gesù: nella sua Dottrina (Insegnamento), nella sua Vita intima (Grazia, preghiera e Sacramenti) e nella Morale (pratica dei Comandamenti) egli deve averLo in sé sovrabbondantemente e riversare il sovrappiù nelle anime. “Esto conca et non canal” (san Bernardo di Chiaravalle). Il serbatoio non si prosciuga, invece il canale sì. Il pericolo per il sacerdote è quello di esaurire le sue risorse spirituali per darle ai fedeli. È la famosa “eresia dell’azione” di cui parlava dom Chautard nel suo famosissimo libro L’anima di ogni apostolato. ● Nella vita sacerdotale come in ogni vita devono coesistere la forza conservatrice della esistenza e la forza assimilatrice del nuovo alimento, l’essere e il movimento. Senza l’alimentazione si deperisce e senza l’essere non si può agire e non si può conservare il nuovo alimento. Così un’automobile ha bisogno di motore, acceleratore e freni. La Chiesa e il Sacerdozio devono avere bene equilibrate queste due forze. Senza forza del progresso (che non è progressismo, ma crescita e sviluppo nello stesso genere) si ha l’immobilità del coma e della morte (come nelle chiese scismatiche ortodosse, che si son fermate all’XI secolo), ma senza tradizione conservatrice si ha l’instabilità del moto perpetuo e della frenesia (come nel protestantesimo o nel modernismo, ove tutto cambia incessantemente). Ora per conservare questo equilibrio nella vita cristiana (individuale e sociale) non basta un certo dinamismo naturale, occorre la Grazia divina e l’aiuto sovrabbondante dello Spirito Santo, che organizza e connette tutte le Virtù al medesimo Fine che è Dio. Tutta la vita cristiana soprannaturale è allora conformemente collegata e le virtù crescono assieme “come le cinque dita della mano” (S. Th., I-II, q. 66, a. 2). Solo lo Spirito Santo riesce a far coesistere perfettamente coordinate il puro amore della Verità con la Misericordia verso gli erranti, l’umiltà con la dignità, la forza con la mansuetudine.● Per quanto riguarda il sacerdote nel tempo presente egli ha bisogno specialmente di due qualità:
1°) stabilità di dottrina, affinché il suo intelletto possa restare fermo nella Fede in tanta confusione dogmatica, morale e liturgica;
2°) viva Carità soprannaturale, affinché il suo amore sia non solo affettivo ma effettivo e principalmente diretto a Dio. Amore della Verità e del Bene, odio dell’Errore e del Male.
Solo così, oggi, il sacerdote riuscirà a mantenere unite la conservazione della Verità e il progresso della Carità verso Dio e il prossimo. Ma senza lo studio della sana filosofia e teologia e senza la vita di preghiera (“doctus cum pietate et pius cum doctrina”) egli non riuscirà a mantenere questo equilibrio e potrà scivolare verso il relativismo dottrinale e il sentimentalismo spirituale. In pratica bisogna ricorrere alla obbedienza alla Tradizione per mantenere l’unità dottrinale (“quod semper, ubique et ab omnibus creditum est”, S. Vincenzo da Lerino) e alla pratica della Carità fraterna la quale è il segno che si ama realmente Dio (“se non ami il tuo prossimo che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?” San Giovanni).● In tal guisa il sacerdote, anche oggi in mezzo a mille difficoltà che avvolgono l’ambiente ecclesiale, potrà conservare la Fiducia (più che il semplice ottimismo naturale) nella Provvidenza, la vera Fede e la perfetta Carità. Infatti il solo ottimismo naturale di fronte al disastro dei nostri tempi sarebbe sopraffatto dal pessimismo e tenderebbe allo scoraggiamento. Ma se l’ottimismo (vittoria del bene sul male, che è solo privazione di bene e non può prevalere) è corroborato dalla Virtù teologale della Speranza allora tutto si appiana.● Occorre fare molta attenzione a che i neo-sacerdoti appena usciti dal Seminario prendano contatto con il mondo reale (oggi non solo scristianizzato, ma anticristiano e anticristico) senza perdere, in parte o in tutto, la loro vita interiore, la purezza dottrinale e la Carità soprannaturale. Certo vi è un abisso tra la vita raccolta nel Seminario e la vita caotica nel ministero pubblico. Bisogna fare in modo che l’ingenuità o immaturità dei neosacerdoti non li porti a fare passi falsi nel mondo. La gioventù, lo zelo intempestivo possono portare all’imprudenza (“siate prudenti come serpenti e semplici come colombe”). Il giovane sacerdote spesso ha una eccessiva fiducia in se stesso che non pienamente cosciente lo potrebbe spingere ad errori pratici di apostolato. «Talora il giovane sacerdote pensa di essere già esperto nella vita spirituale e per una segreta e impercettibile superbia spirituale si crede capace di condurre le anime ad alta perfezione. Il pericolo allora è grave, perché egli sputa sentenze con grande sicurezza e facilità, confida eccessivamente nelle sue personali capacità. Si accorgerà dei suoi sbagli, quando forse sarà troppo tardi. Quali le conseguenze? Lo zelo indiscreto e le soddisfazioni, che quasi mai mancano nei primi passi, spingono il giovane a gettarsi interamente nell’attività; a poco a poco egli crede perduto il tempo dedicato all’orazione, allo studio, al raccoglimento ed è facile prevedere dove andrà a finire»[1]...● In braccia all’Americanismo o Modernismo ascetico, che, consapevole della mentalità, dell’indole dell’uomo moderno avido d’assoluta libertà individuale, insensibile alla speculazione filosofica e amante invece del Pragmatismo, portato ad un senso edonistico della vita, cerca di adattare, senza troppe preoccupazioni dogmatiche, la religione cattolica allo spirito della modernità (Modernismo dogmatico). Esso propugna la necessità di un adattamento della Chiesa alle esigenze della civiltà moderna, sacrificando qualche vecchio canone, mitigando l’antica severità, orientandosi verso un metodo più democratico.
L’Americanismo spirituale si fonda sulla filosofia moderna e specialmente sul Sensismo, che riduce tutta la realtà al fenomeno sensibile e sperimentabile, oggetto dei soli sensi, per cui l’intelletto è abbassato al livello della sensazione e quindi ‘solo il sensibile è conoscibile’, il che porta al Sentimentalismo;- sul Soggettivismo, che è la tendenza a potenziare il soggetto conoscente assorbendo in esso la realtà oggettiva, e che porta al Relativismo dogmatico;- sull’Illuminismo, che raccoglie lo spirito dell’Umanesimo e della Riforma luterana e afferma l’autonomia della ragione, apertamente ribelle ad ogni Rivelazione e Tradizione, il che porta al Razionalismo o al Fideismo.
Si giunge così all’Indifferentismo religioso positivo, secondo il quale tutte le religioni hanno lo stesso valore; esso è empio e assurdo, perché, dando lo stesso valore a forme religiose in contrasto, mette Dio, che le avrebbe rivelate, in contraddizione con Se stesso, e ciò porta all’Ecumenismo.
Da esso segue l’Indifferentismo sociale-politico proprio del Liberalismo, che è illogico e ingiusto, poiché senza esaminare il valore delle varie forme religiose, le accomuna tutte nella stessa sorte e offende la coscienza dei cittadini disinteressandosi del fattore religioso. Concetto fondamentale del Liberalismo è la libertà concepita com’emancipazione ed indipendenza dell’uomo e dello Stato da Dio e dalla sua Chiesa. Nella sfera sociale-politica si manifesta come Democrazia ad oltranza (popolo sovrano), come Separatismo nei rapporti tra Stato e Chiesa, come Indifferentismo in materia di religione e di culto e come Astensionismo dello Stato in materia economica (‘lasciar fare’ all’iniziativa privata). ● Come si evince, questi sistemi sono essenzialmente antimetafisici e materialisti, cioè l’esatto contrario della stabilità dottrinale: negando l’immortalità dell’anima (che non è spirituale) e sostenendo il nominalismo logico (secondo cui le idee non rappresentano l’essenza delle cose, ma sono solo una collezione d’immagini sensibili), essi riducono la filosofia a sensazione o addirittura a sperimentazione, che è lo scimmiottamento della Carità soprannaturale, proprio come “il diavolo è la scimmia di Dio” (Tertulliano). ● Lo spirito del cattolicesimo-romano, al contrario, cui il sacerdote - soprattutto oggi - deve totale obbedienza, si fonda sul concetto d’uomo, come ente composto di corpo e anima spirituale e immortale (ordinato a conoscere la verità e ad amare il bene), che deve prendersi cura dell’anima immortale e risolvere il problema della sua origine e fine, ossia Dio. Onde la base spirituale cattolica è la cura dell’anima, i veri beni e le vere ricchezze sono quelle spirituali che nobilitano l’anima; a differenza del sensismo filosofico, dell’empirismo pragmatistico e della religione puritana, che è una tendenza rigoristica del Protestantesimo, simile a quella giansenistica. Il Puritanesimo è radicato specialmente nel Calvinismo, che fa ricordare il sistema farisaico. Queste forme di pensiero filosofico-religioso ripongono la felicità nei beni sensibili e materiali, poiché non c’è nulla oltre la ‘fisica’ o materia sensibile e sperimentabile. La Chiesa, invece, nasce e si fonda sui concetti dell’immortalità dell’anima, della meta-fisica e della dimostrabilità razionale dell’esistenza di Dio. ● Ecco i pericoli che il giovane sacerdote ( e il cristiano in genere) deve evitare. Infatti dal Sentimentalismo nascono la superficialità del Sensismo e la vanità del Soggettivismo, che uccidono l’abnegazione dell’io corrotto dal peccato originale e il raccoglimento interno con Dio. Da qui inizia la fine della stabilità di dottrina e il movimento di vero Amore di Carità soprannaturale verso Dio e la rovina della vita sacerdotale. ● Il libretto di Padre Garrigou-Lagrange è più attuale che mai. Sta a noi farne tesoro per non farci risucchiare dal Modernismo dogmatico e ascetico, che conduce alla perdizione. Il rimedio pratico a tanti mali (vanità, esteriorità, superficialità, fuochi di paglia) è l’abnegazione unita alla contemplazione per poter conservare l’esistenza della nostra vita spirituale (mediante la stabilità dogmatica fondata sulla Tradizione) e l’aumento o la crescita di essa (mediante la Carità).d. CURZIO NITOGLIA22 aprile 2012http://www.doncurzionitoglia.com/pericoli_vita_sacerdotale.htm[1] R. GARRIGOU-LAGRANGE, Santificazione sacerdotale, cit., p. 149. Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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05/12/2012 23:16 | |
Papa Benedetto XVI ha più volte proposto l'«ermeneutica della continuità» per la retta interpretazione del Concilio Vaticano II, contro letture ideologiche che in questi 50 anni si sono accavallate e hanno portato confusione nell'opinione pubblica cattolica. di Mons. Antonio Livi, da "La Bussola Quotidiana" (05/12/2012)
Le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II sono state associate dal papa Benedetto XVI al sinodo dei Vescovi sulla “nuova evangelizzazione”. Si può dire che tutta la Chiesa cattolica si sia mobilitata per promuovere riunioni di preghiera, seminari di studio e corsi di lezioni teologiche nella linea indicata dal Papa. «Ma? ha precisato opportunamente Benedetto XVI, affinché questa spinta interiore alla nuova evangelizzazione non rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si appoggi a una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità» (Benedetto XVI, discorso dell’11 ottobre 2012). Per comprendere bene il discorso che il Papa va facendo fin dall’inizio del suo pontificato sull’«ermeneutica del Concilio», occorre tener conto del fatto che, purtroppo, in questi cinquant’anni i testi conciliari sono stati spesso oggetto di un’informe avvicendarsi di interpretazioni arbitrarie e sostanzialmente ideologiche, tutte deprecate a suo tempo in numerosi discorsi pubblici dallo stesso Paolo VI, il papa che, dopo la morte di Giovanni XXIII, ha proseguito e concluso il Concilio Vaticano II. Ha levato la sua voce contro siffatte interpretazioni arbitrarie e sostanzialmente ideologiche anche il papa Giovanni Paolo II, la cui opera di chiarificazione dottrinale è stata continuata dall’attuale Pontefice. Ma gli stessi studiosi che hanno analizzato scientificamente i documenti del Concilio Vaticano II (gli schemi preparatori, le discussioni in commissione e in aula, i documenti finali votati dall’assemblea) hanno contribuito a diffondere nell’opinione pubblica cattolica una concezione confusa e conflittuale di quello che è stato e di quello che significa per la Chiesa l’evento pastorale e dottrinale del Concilio. Vedrò di mettere a fuoco analiticamente i motivi di questa situazione, che sollecita la consapevolezza critica di chiunque avverta la propria diretta responsabilità nei confronti della vita di fede in mezzo al Popolo di Dio e abbia a cuore le sorti della “nuova evangelizzazione”. La pubblicistica teologica degli ultimi anni ha visto il moltiplicarsi di opere di notevole valore scientifico sul concilio ecumenico Vaticano II. Sono opere di genere assai diverso molte sono di genere storiografico (di storia della Chiesa, di storia dei concili ecumenici, di storia del dogma e di storia della teologia), mentre altre sono di genere critico-dottrinale, ma tutte hanno un carattere spiccatamente polemico, nel senso che mirano alla rivendicazione di un determinato atteggiamento critico nei confronti del Concilio, atteggiamento che si basa su una ricostruzione delle vicende storiche che hanno portato alla celebrazione di un concilio ecumenico dopo la prima metà del Novecento e a novant’anni dalla forzata interruzione del Vaticano I; a partire da tale ricostruzione storica, variamente interpretata, questi testi orientano il lettore a formulare un determinato giudizio di valore sul ruolo dei teologi che accompagnavano e consigliavano i padri conciliari, e quindi un giudizio di valore circa le stesse disposizioni pastorali e disciplinari emanate dal Concilio con la “costituzione pastorale” Gaudium et spes, con le “dichiarazioni” e con i “decreti”; infine come logica conclusione di tutto ciò un giudizio di valore persino sugli insegnamenti dottrinali contenuti nelle “costituzioni dogmatiche” Lumen gentium e Dei Verbum. Tali giudizi di valore sono ovviamente di segno diverso, spesso gli uni in aperta opposizione agli altri, sicché questi ultimi cinquant’anni di vita della Chiesa cattolica il tempo che è trascorso dall’apertura del Vaticano II nel 1962 appaiono come il tempo della discussione su tutto, il tempo delle divisioni dottrinali e degli opposti estremismi ideologici, il tempo insomma del “conflitto delle interpretazioni”. Si è così generata nell’opinione pubblica cattolica la sensazione che la Chiesa sia oggi lacerata da insanabili divisioni ideologiche, quelle che superficialmente vengono sempre ricondotte a due opposte categorie culturali, sul modello della “destra” e della “sinistra” politica, la categoria dei “conservatori” e quella dei “progressisti”: i “conservatori” sarebbero quelli che criticano il Vaticano II o in diversi modi si oppongono al rinnovamento della vita della Chiesa voluto dal Concilio, mentre i “progressisti” sarebbero quelli che esaltano il Vaticano II e si adoperano per la più pronta e completa attuazione delle riforme da esso decretate. Questa diffusa sensazione che la pubblicistica teologica ha ingenerato nell’opinione pubblica cattolica circa l’esistenza di insanabili divisioni ideologiche nella Chiesa di oggi può essere giustificata dai rilevamenti di sociologia religiosa, i quali però non riguardano l’essenza soprannaturale della Chiesa e l’essenziale delle vicende che riguardano la sua vita. In effetti, l’essenza soprannaturale della Chiesa, come insegna lo stesso concilio ecumenico Vaticano II, va vista nel suo essere, per istituzione divina, «l’universale sacramento della salvezza che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo» (cfr Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 45). Ora, la salvezza degli uomini dipende dalla fede, ossia, in concreto, dall’accoglimento della verità rivelata che la Tradizione apostolica conserva e annuncia infallibilmente agli uomini di ogni generazione: «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; chi non crederà sarà dannato» (Vangelo secondo Marco, 16,15-18 ). Ecco che, alla luce di questo dato teologico fondamentale, il pericolo di una divisione all’interno della Chiesa è un pericolo reale, e qualora siffatta divisione si verificasse di fatto essa dovrebbe essere considerata, non solo grave, ma addirittura esiziale: ma solo quando si tratta di attentati all’unità nella fede, ossia quando si verificano episodi di eresia e di scisma. Ora, la crisi attuale della Chiesa cattolica è davvero determinata dal diffondersi di posizioni ereticali? Possono essere qualificate come vere e proprie eresie le opposte teorie sulla dottrina del Concilio? È giusto dire che sia un’eresia la posizione dei “progressisti”, in contrasto con la posizione ortodossa rappresentata dai “conservatori”? Oppure, a contrario, si deve dire che è un’eresia la posizione dei “conservatori”, in polemica con la posizione ortodossa rappresentata dai “progressisti”? Non si tratterà piuttosto di interpretazioni della fede – diverse e talvolta anche contrapposte, ma sempre di per sé ammissibili? In quest’ultimo caso si dovrebbe parlare di legittime diversità di opinione, non di ortodossia e di eterodossia; in altri termini, si dovrebbe parlare di legittimo pluralismo all’interno della Chiesa, un pluralismo che di per sé non dovrebbe inficiare l’unità nella fede della Chiesa, la concordia pacifica nella «una fides». L’unità di tutti nella fede della Chiesa viene a essere inficiata solo quando coloro che difendono una determinata interpretazione del dogma la assolutizzano, presentandola come l’unica possibile e giusta e giudicando di conseguenza le altre opinioni come vere e proprie eresie. Per questo lavoro di chiarificazione occorre servirsi di considerazioni propriamente teologiche, che però siano fondate su una specifica competenza filosofica, quella logico-epistemologica, l’unica in grado di specificare quale sia il significato ? non equivoco né arbitrario bensì univoco e scientificamente giustificato ? dei termini essenziali del discorso che qui vien fatto, ossia: 1) “Chiesa cattolica”; 2) “magistero ecclesiastico”¸ 3) “teologia”; 4) “concilio ecumenico”; 5) “ermeneutica”. 1) Per “Chiesa cattolica”, nel contesto teologico che qui ci interessa, occorre intendere la comunità dei credenti gerarchicamente ordinata, nella quale spetta al collegio episcopale, con alla testa il Romano Pontefice, la funzione di governo (munus regendi), la funzione di conferimento della grazia divina (munus sanctificandi) e soprattutto la funzione di insegnamento (munus regendi), funzione che riguarda il dogma e la morale rivelata (in rebus fidei et morum) ed è autorevole perché dotata da Cristo stesso del carisma dell’infallibilità, ossia della prerogativa di essere immune da errori nell’annuncio della fede in ogni tempo e in ogni luogo (infallibilitas in docendo). 2) Tale funzione costituisce propriamente il “magistero ecclesiastico”, esercitato in forma ordinaria o solenne, dal collegio episcopale riunito in concilio ecumenico o dal Papa da solo quando parla ex cathedra. 3) Per “teologia”, come ho accuratamente spiegato nel mio trattato su Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa” (Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma), deve intendersi lo studio scientifico della dottrina cristiana (nei suoi aspetti dogmatici e morali e nella dimensione storica e sociale, oltre che teoretica) il cui esito finale è una ipotesi di interpretazione del dogma. Ciò va rimarcato per distinguere la teologia dal magistero ecclesiastico, visto che quest’ultimo, oltre a enunciare in termini definitori il dogma, esercita necessariamente anche una funzione ermeneutica, e quindi formula delle interpretazioni del dogma, che però partecipano in vario modo e in grado diverso del carisma proprio del Magistero, che è l’infallibilità. In altri termini, la dottrina del Magistero, quando interpreta il dogma, non si esprime con proposizioni che si presentano come interpretazioni meramente ipotetiche, come quelle della teologia, ma con proposizioni che, pur non essendo definizioni dogmatiche, sono a tutti gli effetti interpretazioni autorevoli, ancorché riformabili, ossia riformulabili su piano linguistico e suscettibili di ampliamenti o restringimenti sul piano dei contenuti dottrinali e delle loro applicazioni pratiche. 4) Per “Concilio ecumenico” non si può intendere genericamente un evento religioso-culturale, perché si tratta propriamente di un atto del “magistero” ecclesiastico nella sua forma collegiale e solenne, ragione per cui sono del tutto abusive e teologicamente infondate (anche se si ricorre al linguaggio teologico parlando retoricamente di “Vangelo vivo”, di “voce dello Spirito” e di “coscienza della Chiesa”) le pretese di presentare il Vaticano II come un evento i cui protagonisti sarebbero i “periti” e l’esito finale sarebbe il definitivo prevalere nella Chiesa di un’ideologia (quella dei teologi progressisti) nei confronti di un’altra (quella dei teologi tradizionalisti). È in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio viene esaltato come la manifestazione della “creatività dogmatica” di una fantomatica “Chiesa dal basso” che, poi, paradossalmente, ha come propri esponenti dei veri e propri “principi della Chiesa” (come i cardinali Martini e Ravasi), gli autori della più astrusa e cervellotica teologia filo-hegeliana e filo-heideggeriana, i più potenti gruppi di potere teologico-politico all’interno della comunità ecclesiale (come la Scuola di Bologna e le Edizioni San Paolo, le Edizioni Dehoniane, la Cittadella Editrice), che elevano al rango di “profeti” personaggi ambigui come Giovanni Franzoni ed Enzo Bianchi. È anche in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio viene interpretato come un evento che ha provocato una “rottura”, una sostanziale “discontinuità” con la Tradizione dogmatica (si noti che “discontinuità” e “rottura” sono i termini precisi con i quali papa Benedetto XVI ha stigmatizzato questi errori teologici nel celebre discorso alla Curia romana il 22 dicembre 2005). Infine, è ancora in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio Vaticano II viene presentato nella Chiesa come un insieme di norme (che vengono definite “pastorali” e “dottrinali” ma in realtà sono solo ideologiche) alle quali dovrebbero essere “fedeli”, non solo tutti i vescovi della Terra ma anche e soprattutto i pontefici romani, pena l’essere additati all’opinione pubblica ecclesiale ed extra-ecclesiale come esponenti del potere ecclesiastico che resiste alla rivoluzione conciliare per tema di perdere i propri privilegi, quando addirittura non vengono vituperati come “traditori della Chiesa”, “infedeli al Concilio”, “affossatori del rinnovamento ecclesiale” eccetera.
Viene così a scomparire l’unico criterio autenticamente teologico riguardante l’interpretazione del Concilio, quello che parte dalla premessa dogmatica per cui un atto del magistero costituisce un insegnamento autorevole, rivolto a tutto il Popolo di Dio, con l’autorità e la forza soprannaturale del carisma proprio del munus docendi conferito da Cristo stesso agli Apostoli, ossia la “infallibilitas in docendo. Ogni atto del Magistero, essendo rivolto a tutti i cattolici in ordine alla conoscenza certa della fede che salva, contiene necessariamente un “nucleo” dottrinale e disciplinare accessibile a tutti e che pertanto non abbisogna di particolari ermeneutiche; se poi si rilevano storicamente anche elementi che possono aver bisogno di una ulteriore chiarificazione ermeneutica, nel quale caso la prima e fondamentale istanza è il Magistero stesso, nel senso che a esso spetta l’interpretazione autorevole del Concilio, ove occorra. 5) Il termine “ermeneutica”, usato anche dal papa Benedetto XVI per parlare della retta interpretazione della dottrina del Vaticano II, va inteso nel senso primario e tradizionale di “interpretazione” di un messaggio e/o di un testo scritto; non ha dunque alcuna giustificazione teologica l’uso (e l’abuso) di questo termine nel suo senso derivato e opinabile, che fa riferimento a una scuola filosofica ? quella di Hans-Georg Gadamer e di Gianni Vattimo ? i cui presupposti gnoseologici sono il soggettivismo e lo storicismo, e i cui esiti speculativi sono caratterizzati da un sostanziale relativismo. A conclusione di questo discorso, e applicando alla pubblicistica sul Vaticano II le precisazioni concettuali che sono andato esponendo, si deve riconoscere che la crisi della Chiesa cattolica sta proprio nel fatto che talune posizioni ideologiche – che dovrebbero essere mantenute come mere ipotesi di interpretazione del dogma – sono invece presentate come l’unica maniera di intendere e di vivere la fede nelle circostanze storiche che la Chiesa oggi si trova ad affrontare. Così facendo, talune posizioni si configurano proprio come eresia, almeno materialmente, in quanto contengono affermazioni che sono oggettivamente contrarie alla fede della Chiesa, come quando si dice che il Vaticano II ha insegnato una dottrina dogmatica e morale difforme o addirittura contraria alla Tradizione, ossia in formale contraddizione con quanto insegnato dai precedenti concili ecumenici e dal magistero ordinario dei pontefici romani. È la tesi che – pur da punti di vista opposti – sostengono sia gli estremisti dell’ala progressista come gli estremisti dell’ala conservatrice. I primi (i progressisti più radicali) articolano questa tesi presentando la dottrina del Concilio come una “nuova coscienza” sorta all’interno della Chiesa ad opera di teologi e “profeti” che sono stati capaci di farsi comprendere e rappresentare ufficialmente dai padri conciliari – il che contraddice la verità dogmatica sull’autorità dottrinale di un concilio ecumenico in quanto atto del magistero ecclesiastico che non può essere dettato o legittimato “dal basso”; i secondi (i conservatori o tradizionalisti più intransigenti) articolano questa medesima tesi sostenendo che alcune dottrine (a cominciare da quella riguardante la libertà religiosa) e alcuni orientamenti pastorali (l’ecumenismo e il dialogo con i non cristiani, soprattutto con gli ebrei) del Concilio costituiscono l’abbandono, da parte dei padri conciliari (incapaci di discernimento nei confronti delle teorie teologiche nuove che venivano loro proposte), della dottrina e della prassi che sempre prima di allora la Chiesa aveva mantenuto – il che contraddice la verità dogmatica sull’autorità dottrinale di un concilio ecumenico in quanto atto del magistero ecclesiastico che partecipa in qualche modo dell’infallibilità e quindi non può essere formalmente in errore in rebus fidei et morum, a meno che tale atto del magistero ecclesiastico non risultasse illegittimo, ossia che non sia stato convocato, presieduto e ratificato dal Romano Pontefice e non si sia svolto secondo le relative norme canoniche, cosa che per il Vaticano II non si può certamente asserire. Altrettanto erronea è la tesi di chi va dicendo che il Vaticano II non ha insegnato alcuna dottrina dogmatica e morale, ma ha impostato la pastorale della Chiesa esclusivamente sulla base di esigenze di carità universale e di servizio all’uomo, il che comporta l’abbandono di ogni dogmatismo e di ogni condanna dottrinale da parte dell’autorità ecclesiastica. Questa interpretazione, che per certi teologi dovrebbe esprimere la vera natura (“pastorale”) e il vero “spirito” del Vaticano II, è illegittima, perché contraddice gli stessi testi conciliari; invano coloro che la difendono fanno ricorso (retoricamente, non certo scientificamente) all’autorità del papa Giovanni XXIII, visto che il suo discorso di indizione del Concilio, Gaudet mater Ecclesia, dice proprio il contrario e insiste sul compito che l’assise conciliare si attribuiva formalmente, che non era quello di mettere da parte l’insegnamento della dottrina cristiana tradizionale bensì quello di rendere più pastoralmente efficace questo insegnamento nelle circostanze storiche nelle quali la Chiesa si trovava ad operare. E il suo immediato successore, il papa Paolo VI, ebbe a dire poco dopo la conclusione del Vaticano II: «L’apologia che gli autori eterodossi di moda fanno di Cristo si riduce ad ammettere in Lui “un uomo particolarmente buono”, “l’uomo per gli altri”, e così via, applicando a questa interpretazione di Cristo un criterio, diventato decisivo e dispotico, quello della capacità moderna a capirlo, ad avvicinarlo, a definirlo. Lo si misura col metro umano, con un dogmatismo soggettivo; e alla fine con uno scopo, seppur buono, ma utilitario, lo si accetta per quello che Cristo oggi può servire, uno scopo umanitario e sociologico» (Udienza Generale del 18 dicembre 1968). Ecco dunque il giusto criterio di fede con il quale si deve orientare la coscienza dei fedeli quando si fa riferimento al Vaticano II: esso è un atto del Magistero che interessa la vita di fede dei cristiani per i suoi contenuti dottrinali e disciplinari, la cui retta interpretazione valida per tutti e non opinabile è fornita dal Magistero stesso, ogni qual volta la natura dei documenti stessi o le diverse circostanze storiche lo richiedano. Questa ermeneutica autorevole e pastoralmente necessaria, in effetti, non è mai mancata in questi cinquant’anni (prima con Paolo VI, poi con Giovanni Paolo II e oggi con Benedetto XVI). Al di fuori di questi “punti fermi”, tutto ciò che si presenta come ulteriore interpretazione va preso non come materia di fede o di obbedienza ecclesiale, ma come opinione privata, liberamente condivisibile, a patto che resti compatibile con quanto la Chiesa ha già sufficientemente chiarito, e a patto anche che nessuna opinione si presenti come l’unica verità che i credenti debbano accogliere.
Il conflitto delle interpretazioni (opinabili) non deve ingenerare confusione dottrinale né deve incrinare l’unità della fede e l’unione nella carità di tutti i cattolici. Unità e unione che richiedono che nella coscienza dei fedeli resti sempre chiaro che non c’è nella Chiesa se non una sola fede e un solo Buon pastore: il quale non solo ci ha messi in guardia contro i falsi profeti e i cattivi maestri, ma ci ha dato anche il criterio sicuro per il retto discernimento.
Rappresentazione delle due ermeneutiche del Vaticano II Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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17/12/2012 13:30 | |
Le cinque piaghe della Chiesa, del beato Antonio Rosmini
Dal libro citato "Quello che i preti non dicono (più)", diventa fondamentale per noi riportare, dalla pag. 67, il passo provocatorio "il più grande degli anticlericali cattolici: il beato Antonio Rosmini Serbati" il quale aveva già a suo tempo reso visibile il peso di certe "incrostazioni" nella struttura ecclesiastica. "Parlando del clero dei secoli precedenti a lui, lo definì - reso servo e vile adulatore dei principi - , e ancora - fuorviato, accecato dai beni temporali e assuefatto a mercanteggiare dignità e coscienza - Tanto che - il mondo rigurgita (...) di un numero eccedente d'inutili sacerdoti....- Analisi spietata nella sua opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, attraverso le quali Rosmini analizza le dinamiche storiche umane della Chiesa, degli uomini operanti in Essa, suggerendone la cura. Quali sono dunque queste cinque piaghe che affliggono la Chiesa? 1. La divisione del popolo dal Clero; 2. l'insufficiente educazione-formazione del Clero; 3. la divisione tra i Vescovi; 4. la nomina dei Vescovi abbandonata al potere laicale; 5. la servitù dei beni ecclesiastici. Di queste cinque piaghe che affliggevano la Sposa di Cristo, la Santa Sede è riuscita a farne guarire una sola, l'ultima, quella legata alle finanze. Poi fu risanata in parte anche la penultima piaga, quella legata alle nomine dei Vescovi (trattandosi di un argomento molto più complesso, lo lasceremo per un eventuale ulteriore approfondimento a parte). "Nemo militans implicat se saeculi negotiis, ut ei placeat, qui eum elegit; si autem certat quis agone, non coronatur nisi legitime certaverit. * Nessuno però, quando presta servizio militare, s'intralcia nelle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che l'ha arruolato. Anche nelle gare atletiche, non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole. " (2Tim. 2,4). La provocazione di Rosmini era un richiamo allarmante all'evidente decadenza del Clero, e soprattutto dei Vescovi, i quali non avevano o non manifestavano più passione per le anime, preoccupazione per la loro salvezza, clissando sul vero ruolo della loro missione che è "ministero a servizio delle anime da salvare". In tal contesto Rosmini arriva persino a criticare come empi i "concordati", così ancora attivi anche ai tempi nostri. Per il neo Beato (beatificato da Benedetto XVI nel 2007) i concordati sono delle vere e proprie umiliazioni "con i quali la Madre dei fedeli è costretta da figli malcontenti a scendere a patti con essi (...) fra le tante sciagure ch'ebbe, la Chiesa cadde in tanto avvilimento da essere costretta a venire a siffatti patti con i fedeli! Tanta umiliazione fu dovuta ai peccati del clero: "Vos estis sal terrae; quod si sal evanuerit, in quo salietur? Ad nihilum valet ultra, nisi ut mittatur foras et conculcetur ab hominibus". * Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. (Mt.5,13). Scrive il beato Rosmini: "Vero è che non essendo il governo istituito da Gesù Cristo nella sua Chiesa una dominazione terrena, ma un servigio in favore degli uomini, un ministero di salute per le anime; egli non è retto dall'arbitrio di una dura autorità, non si picca di un crudo diritto; ma egli si piega, e, fondato nell'umiltà e nella ragione, riceve la legge, per così dire, da quei soggetti medesimi in vantaggio de' quali è stato istituito, e la sua mirabile costituzione è appunto quella di potere ogni cosa pel bene e niente pel male: tale è la sola sua superiorità, il solo diritto che egli vanta, il diritto di giovare. Indi quel dolce principio dell'ecclesiastico reggimento, che in tutto manifestavasi ne' primi secoli della Chiesa..". E allora, perchè tanta critica sui concordati? Nel libro citato riporta una valevole spiegazione che condividiamo: " Probabilmente perchè il beato vedeva nei concordati uno strumento con cui i preti mettevano sul piatto della bilancia di una trattativa ciò che non si può trasformare in oggetto di transizione", dice infatti il beato: " Vero è che con i concordati, o con qualsiasi altra convenzione umana, non si può derogare ai diritti divini e immutabili della Chiesa; perchè non si può restringere il suo potere legislativo ricevuto da Gesù Cristo, nè diminuire in alcun modo quella pienezza di autorità per la quale Ella può tutto per il bene, e quindi può comandare, può ingiungere ai fedeli senza limite di sorta quanto trova necessario e utile alla loro eterna salute, e all'incremento sopra la terra del Regno di Cristo". Questa affermazione sottolinea l'importante distinzione (ma non separazione) tra il potere civile-laico (lo Stato - Cesare) e il potere della Chiesa, il potere divino e immutabile che non riguarda solo i fedeli battezzati, ma che troviamo scritto nell'esistenza di ogni uomo e perciò parliamo oggi di "legge naturale" e dei "valori inviolabili" sui quali tutto il Magistero Pontificio del '900 e fino ad oggi, continua incessantemente a sottolinearne l'autorevolezza, l'importanza e l'imprescendibilità. A questo proposito è bene unire il recente Messaggio per la Pace 2013 firmato da Benedetto XVI del quale sottolineamo questi passi: "In effetti, i nostri tempi, contrassegnati dalla globalizzazione, con i suoi aspetti positivi e negativi, nonché da sanguinosi conflitti ancora in atto e da minacce di guerra, reclamano un rinnovato e corale impegno nella ricerca del bene comune, dello sviluppo di tutti gli uomini e di tutto l’uomo. (..) le beatitudini non sono solo raccomandazioni morali, la cui osservanza prevede a tempo debito – tempo situato di solito nell’altra vita – una ricompensa, ossia una situazione di futura felicità. La beatitudine consiste, piuttosto, nell’adempimento di una promessa rivolta a tutti coloro che si lasciano guidare dalle esigenze della verità, della giustizia e dell’amore. Coloro che si affidano a Dio e alle sue promesse appaiono spesso agli occhi del mondo ingenui o lontani dalla realtà. (..) La pace concerne l’integrità della persona umana ed implica il coinvolgimento di tutto l’uomo. È pace con Dio, nel vivere secondo la sua volontà. È pace interiore con se stessi, e pace esteriore con il prossimo e con tutto il creato. (..) la pace è ordine realizzato nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di persone, che per la loro stessa natura razionale, assumono la responsabilità del proprio operare. (..) Proprio per questo, la Chiesa è convinta che vi sia l’urgenza di un nuovo annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore dello sviluppo integrale dei popoli e anche della pace. Gesù, infatti, è la nostra pace, la nostra giustizia, la nostra riconciliazione (cfr Ef 2,14; 2 Cor 5,18). (..) Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale. Veri operatori di pace sono, allora, coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente. La vita in pienezza è il vertice della pace. Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita. Coloro che non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana e, per conseguenza, sostengono per esempio la liberalizzazione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria. La fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace. Come si può, infatti, pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri? Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita. Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale. Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace". *** Riprenderemo più avanti l'analisi delle cinque piaghe. Per ora ci sembra di aver dato sufficiente materiale sul quale riflettere e attraverso il quale ricordare ai nostri Sacerdoti la vera dottrina della Chiesa e, ricordare ai Vescovi, che non sono stati mandati per cambiarla, modificarla, o per usarla nei compromessi politici per ottenere favori ed elargizioni. Essi sono chiamati a vigilare affinchè questa dottrina venga diffusa, raggiunga il maggior numero di persone possibili per il bene e la salvezza stessa delle Anime loro affidate.
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/01/2013 14:02 | |
04.01.2013 11:29
Potere Sacro e potere clericale Specifichiamo subito che parlare di "potere" in se non è corretto, ma noi useremo il termine primo perché è di uso comune, secondo perché se ben distinto dal significato umano e ben spiegato nel suo "servire", allora può essere usato. Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, tra il 2009 e il 2010, ha indetto l'Anno Sacerdotale motivando la sua decisione con queste parole: "Proprio per favorire questa tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l'efficacia del loro ministero, ho deciso di indire uno speciale 'Anno Sacerdotale' (..) nel 150° anniversario della morte del Santo Curato d'Ars, Giovanni Maria Vianney, vero esempio di Pastore a servizio del gregge di Cristo". Nel suo discorso del 16 marzo 2009, il Papa spiegò anche che mentre per ogni cristiano l'identità missionaria deriva dal battesimo e dalla cresima, per il presbitero scaturisce dalla dimensione intrinseca dell'esercizio dei tre poteri a lui conferiti nell'ordinazione sacerdotale, cioè quello di santificare, d'insegnare e di governare. Questo perché "la dimensione missionaria del presbitero nasce dalla sua configurazione sacramentale a Cristo-Capo". La missione del presbitero si svolge nella Chiesa secondo quattro dimensioni che, connesse indissolubilmente l'una all'altra, ne delineano i contorni: la dimensione ecclesiale, quella comunionale, quella gerarchica e quella dottrinale. La missione del sacerdote, evidenzia nel suo discorso il Papa, è: - ecclesiale "perché nessuno annuncia o porta se stesso, ma dentro ed attraverso la propria umanità ogni sacerdote deve essere ben consapevole di portare un Altro, Dio stesso, al mondo"; - comunionale "perché si svolge in un'unità e comunione che solo secondariamente ha anche aspetti rilevanti di visibilità sociale. Questi, d'altra parte, derivano essenzialmente da quell'intimità divina della quale il sacerdote è chiamato ad essere esperto, per poter condurre, con umiltà e fiducia, le anime a lui affidate al medesimo incontro con il Signore"; - gerarchica e dottrinale in quanto tali aspetti "suggeriscono di ribadire l'importanza della disciplina (il termine si collega con ‘discepolo') ecclesiastica e della formazione dottrinale, e non solo teologica, iniziale e permanente". Appare così evidente che Nostro Signore Gesù Cristo ha munito la Chiesa di un "potere sacro-dottrinale" e non piuttosto di un potere "clericale". Gesù Cristo ha in se stesso questi tre poteri fondamentali: - potere regale, - profetico e - sacerdotale. Questo vuol dire che attraverso il Battesimo noi laici conformati a Gesù Cristo beneficiamo di questi tre poteri da cui si dice che ogni battezzato è re, profeta e sacerdote. Nella Lettera ai Sacerdoti, così dice Benedetto XVI: "Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia..." Trovandoci in un Blog non è nostra intenzione sviluppare qui un argomento tanto complesso e che meriterebbe molto di più di un semplice articolo. A qualche lettore più erudito potrà interessare il libro di Romano Guardini "Il potere" pubblicato nel 1952. Altra premessa riguarda l'atteggiamento negativo sorto con il Protestantesimo nei confronti di un "potere sacro" legittimo nella Chiesa e combattuto, appunto, da Lutero tanto da arrivare a liquidare il ministero del sacerdozio, finendo per penalizzare tutto l'apparato liturgico e sacramentale della Messa, fino alla negazione della Divina Presenza nella Eucaristia. Per giungere ai giorni nostri con l'aggravarsi di una massiccia presenza modernista interna alla Chiesa che pretende con superbia di appropriarsi di questo "potere sacro-dottrinale" per affermare dottrine eretiche quali il sacerdozio al femminile, o una sorta di equiparazione tra il sacerdozio ministeriale e il sacerdozio dei fedeli. Quello che a noi interessa approfondire nello specifico è presto detto e ben visibile nella foto sopra postata. Per "potere clericale" intendiamo proprio quella presuntuosa presidenza nella Messa che scalza il vero Protagonista, con tutto ciò che poi questo comporta nella vita sacramentale, nella dottrina, nella pratica. Protagonista della Messa e nella Messa è Nostro Signore Gesù Cristo che agisce, infatti, per mezzo, tramite, il Sacerdote: «Alter Christus, il sacerdote è profondamente unito al Verbo del Padre, che incarnandosi ha preso forma di servo, è diventato servo (Fil 2,5-11). Il sacerdote è servo di Cristo, nel senso che la sua esistenza, configurata a Cristo ontologicamente (cioè nel suo essere, per sempre), assume un carattere essenzialmente relazionale: egli è in Cristo, per Cristo e con Cristo a servizio degli uomini. Proprio perché appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio degli uomini: è ministro della loro salvezza, della loro felicità, della loro autentica liberazione, maturando in questa progressiva assunzione della volontà di Cristo, nella preghiera, nello “stare a cuore a cuore” con Lui. E’ questa allora la condizione imprescindibile di ogni annuncio, che comporta la partecipazione all’offerta sacramentale dell’Eucaristia e la docile obbedienza alla Chiesa» [Benedetto XVI, Catechesi, 24 giugno 2009]. Ma cosa sono diventate oggi le Messe? Se va bene sono diventate delle riunioni nelle quali ogni gruppo esprime se stesso, limitando gli abusi a forme di sentimentalismo, più o meno, variopinte e nelle quali ci si sforza di esprimere una forma affettiva superficiale, legata all'attivismo. Se va male, oltre a quanto appena descritto, ci ritroviamo in talune Messe nelle quali il sacerdote non solo esprime se stesso, ma usa il presbiterio (laddove non sia stato divelto e abusivamente cancellato) come teatro, come palcoscenico, delle volte anche come palco elettorale e politico, di protesta, spesso obbligando i fedeli ad una partecipazione attiva forzata con canti danzanti, battimani e quant'altro. La Messa così non è più quel vivere il mistero del sacro, ma in molti casi è diventata strumento per esprimere se stessi, o per imporre il proprio potere comunitario. E questo non riguarda solo il sacerdote quando compie abusi liturgici e non accetta correzioni, ma si riflette anche nei Movimenti, nei vari Cammini, gruppi interni alle Parrocchie che usano l'ambiente per imporre il proprio cammino modificando la Messa fatta a propria immagine e somiglianza di se stessi e del gruppo che si vuole pubblicizzare. Dove sta la vigilanza del Vescovo? "Nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero perdurano queste due concezioni del clero: - “Da una parte una concezione sociale – funzionale che definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di ‘servizio’: il servizio alla comunità, nell’espletamento di una funzione … - Dall’altra, vi è la concezione sacramentale – ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro, e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento” (J. Ratzinger, Ministero e vita del sacerdote, Brescia 2005, p. 165). Non si tratta, però, di due concezioni contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno. Lo strappo (o l'assunzione di tale potere clericale) avviene, come è ben visibile nella foto, nel momento in cui il sacerdote contrappone una delle due, le separa, usando una o l'altra per esprimere superbamente se stesso, celebrando se stesso e le proprie opinioni anziché esprimere e celebrare il Mistero che è chiamato a servire per se stesso e per i Fedeli accorsi. La predicazione cristiana non proclama “parole”, ma la Parola, il Logos – Parola, e l’annuncio coincide con la persona stessa di Gesù Cristo, ontologicamente aperta alla relazione trinitaria con il Padre ed obbediente alla sua volontà nello Spirito Santo, spiega ancora Benedetto XVI. Quindi un autentico servizio della Parola richiede da parte del sacerdote nel suo essere che tenda ad una approfondita abnegazione di sé, sino a dire esistenzialmente con l’Apostolo e con gioia: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” ontologicamente, nel mio essere e per sempre dal giorno dell’ordinazione. Il presbitero, spiega ancora il Pontefice, non può mai considerarsi “padrone” della Parola proponendola con proprie dottrine private, ma servo di una Parola il cui soggetto in continuità o Tradizione è il popolo di Dio cioè la Chiesa. Il presbitero non è la parola ma “voce” della Parola: “Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Mc 1,3). Ora, essere “voce” della Parola, non costituisce per il sacerdote un mero aspetto funzionale. Al contrario, nel suo essere dal sacramento e preesistente nel suo esistere, presuppone un sostanziale “perdersi” in Cristo cioè nel Suo Corpo che è la Chiesa, partecipando al suo mistero di morte e di risurrezione liberamente cioè per amore con tutto il proprio io: intelligenza, volontà e offerta dei propri corpi, come sacrificio vivente (Rm 12, 1-2). Solo la partecipazione al sacrificio di Cristo, alla sua chénosi, rende autentico l’Annuncio! E questo è il cammino che ogni sacerdote non può non percorrere con Cristo per giungere felice, insiste il Papa, realizzato, a dire al Padre insieme a Cristo: si compia “non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). L’annuncio, allora, comporta sempre anche esistenzialmente il sacrificio di sé, condizione perché l’annuncio sia autentico ed efficace. Il Santo Curato d’Ars ripeteva spesso con le lacrime agli occhi: “come è spaventoso essere prete!”. Ed aggiungeva: “Come è da compiangere un prete quando celebra la Messa come un fatto ordinario! Come è sventurato un prete senza vita interiore!”. “Tocca all’Anno sacerdotale – concludeva Benedetto XVI – condurre tutti i sacerdoti ad immedesimarsi totalmente con Gesù Crocifisso e Risorto, perché ad imitazione di san Giovanni Battista, siano pronti a “diminuire” perché Lui cresca; perché, seguendo l’esempio del Curato d’Ars, avvertano in maniera costante e profonda la responsabilità della loro missione, che è segno e presenza dell’infinita misericordia di Dio (impossibile senza il senso del peccato). "Questa è la principale dimensione, essenzialmente missionaria e dinamica, dell’identità e del ministero sacerdotale: attraverso l’annuncio del Vangelo essi generano la fede in coloro che ancora non credono, perché possano unire al sacrificio di Cristo il loro sacrificio, che si traduce in amore per Dio e per il prossimo" [Benedetto XVI, Catechesi, 1 luglio 2009]. Benedetto XVI osserva che a fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro e inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il più piccolo dono della grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’ (Summa Theologiae, I – II, q. 113, a. 9, ad 2). La missione di ogni singolo presbitero dipenderà, pertanto, anche e soprattutto dalla consapevolezza della realtà sacramentale (Dio nella via umana) del suo ‘nuovo essere’. Dalla certezza della propria identità, non artificialmente costruita ma gratuitamente e divinamente donata e accolta, dipende il sempre rinnovato entusiasmo del sacerdote per la missione. Anche per i presbiteri vale che ‘all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva’ (Deus caritas est, 1). Benedetto XVI osserva che dopo il Concilio Vaticano II, si è prodotta qua e là l’impressione che nella missione dei sacerdoti in questo nostro tempo, ci fosse qualcosa di più urgente di ciò che aveva richiamato il Concilio di Trento; alcuni pensavano che si dovesse in primo luogo costruire una diversa società. La pagina evangelica sta invece a richiamare i due elementi essenziali del ministero sacerdotale. Gesù invia, in quel tempo e oggi, gli Apostoli ad annunciare il Vangelo, non le proprie idee sul mondo o su come deve essere la società, e dà ad essi il potere di cacciare gli spiriti cattivi. ‘Annuncio’ e ‘potere’, cioè ‘parola’ e ‘sacramento’ sono pertanto le due fondamentali colonne del servizio sacerdotale, al di là delle sue possibili molteplici configurazioni. Quando non si tiene conto del ‘dittico’ consacrazione – missione, spiega il Papa, diventa veramente difficile comprendere l’identità del presbitero e del suo ministero nella Chiesa. - Chi è infatti il presbitero, se non un uomo convertito e rinnovato dallo Spirito, che vive del rapporto personale con Cristo, facendone costantemente propri i criteri evangelici? - Chi è il presbitero se non un uomo di unità e di verità, consapevole dei propri limiti e, nel contempo, della straordinaria grandezza della vocazione ricevuta, quella di concorrere a dilatare il regno di Dio presente là dove Dio è amato e giunge il suo amore fino agli estremi confini della terra? Sì! Il sacerdote è un uomo tutto del Signore, poiché è Dio stesso a chiamarlo ed a costituirlo nel suo servizio apostolico. E proprio essendo tutto del Signore, è tutto degli uomini, per gli uomini. Sempre nella Lettera ai Sacerdoti Benedetto XVI dicendo che tra i 408.024 sacerdoti nel mondo ci sono “splendide figure di generosi Pastori, di Religiosi ardenti di amore di Dio e per le anime, di Direttori spirituali illuminati e pazienti, gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento. Ci sono, purtroppo, anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri. E’ il mondo a trarne motivo di scandalo e di rifiuto. Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio”. “Perfino – dice il Papa nell' Omelia dei Vesperi del 19 giugno 2009 – le nostre carenze, i nostri limiti e debolezze devono ricondurci (alla fedeltà) del Cuore di Gesù. Se infatti è vero che i peccatori, contemplandoLo, devono apprendere da Lui il necessario “dolore dei peccati” che li riconduca al Padre, questo vale ancor più per i sacri ministri. Come dimenticare, in proposito, che nulla fa soffrire tanto la Chiesa, Corpo di Cristo, quanto i peccati dei suoi pastori, soprattutto di quelli che si tramutano in “ladri delle pecore” (Gv, 10,1ss), o perché le deviano con le loro private dottrine, o perché le stringono con lacci di peccato e di morte? Anche per noi, cari sacerdoti, vale il richiamo alla conversione e al ricorso alla Divina Misericordia, e ugualmente dobbiamo rivolgere con umiltà l’accorata e incessante domanda al Cuore di Gesù perché ci preservi dal terribile rischio di danneggiare coloro che siamo tenuti a salvare”. Nella Prefazione al suo libro "La Regola di Benedetto", David Gibson scrive che Benedetto XVI in un’intervista del 2006 ha sottolineato (durante la Visita Apostolica in Baviera) che "la Chiesa Cattolica stessa è una sfera per la contemplazione, non per l’attivismo" (da non confondersi con la vera attività evangelizzatrice e di carità che la Chiesa deve invece compiere). Papa Benedetto ha aggiunto che il rinnovamento "non può venire da opportune iniziative pastorali, quale che sia la loro utilità, o da piani scritti su una lavagna"... Argomento ripreso nuovamente dal Pontefice nell'Udienza del 25 aprile 2012: "Non dobbiamo perderci nell'attivismo puro, ma sempre lasciarci anche penetrare nella nostra attività dalla luce della Parola di Dio e così imparare la vera carità, il vero servizio per l'altro, che non ha bisogno di tante cose - ha bisogno certamente delle cose necessarie - ma ha bisogno soprattutto dell'affetto del nostro cuore, della luce di Dio". Nel capitolo IX del famoso libro "Rapporto sulla fede", Messori riporta quanto riteniamo sia rimasto un punto centrale di quel Ratzinger diventato poi Pontefice: "... ciò che per Ratzinger va ritrovato in pieno è "il carattere predeterminato, non arbitrario, " imperturbabile -, " impassibile " del culto liturgico". "Ci sono stati anni - ricorda - in cui i fedeli, preparandosi ad assistere a un rito, alla Messa stessa, si chiedevano in che modo, in quel giorno, si sarebbe scatenata la " creatività " del celebrante...". Il che, ricorda, contrastava oltretutto con il monito insolitamente severo, solenne del Concilio: "Che nessun altro, assolutamente (al di fuori della Santa Sede e della gerarchia episcopale, n.d.r.); che nessuno, anche se sacerdote, osi di sua iniziativa aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica" (Sacrosanctum Concilium n. 22). Aggiunge: "La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese " simpatiche ", di trovate " accattivanti ", ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l'attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere "fatta" da tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il " successo " in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi". Continua: "Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere " predeterminata ", " imperturbabile ", perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata " la vecchia rigidità rubricistica ", accusata di togliere " creatività ", ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del " fai-da-te ", banalizzandola perché l'ha resa conforme alla nostra mediocre misura". C'è poi un altro ordine di problemi sul quale Ratzinger vuole richiamare l'attenzione: "Il Concilio ci ha giustamente ricordato che liturgia significa anche actio, azione, e ha chiesto che ai fedeli sia assicurata una actuosa participatio, una partecipazione attiva". Mi sembra ottima cosa, dico. "Certo - conferma -. è un concetto sacrosanto che però, nelle interpretazioni postconciliari, ha subìto una restrizione fatale. Sorse cioè l'impressione che si avesse una " partecipazione attiva " solo dove ci fosse un'attività esteriore, verificabile: discorsi, parole, canti, omelie, letture, stringer di mani... Ma si è dimenticato che il Concilio mette nella actuosa participatio anche il silenzio, che permette una partecipazione davvero profonda, personale, concedendoci l'ascolto interiore della Parola del Signore. Ora, di questo silenzio non è restata traccia in certi riti". *** Vogliamo ricordare a tutti che la Riforma in atto per mezzo della paziente e mite opera di Benedetto XVI non riguarda il rito nella forma detta oggi "straordinaria" giustamente liberalizzata, riabilitata nella Riforma fatta da Giovanni XXIII, quanto piuttosto riguarda proprio il rito nella forma detta "ordinaria", è qui che il Santo Padre ha apportato non già delle modifiche ma il ripristino del senso del Sacro, nonché la correzione a talune infiltrazioni abusive propagate, purtroppo, nei precedenti pontificati e nelle Messe celebrate dai Pontefici dopo il Concilio. In una intervista del 2011, così spiegava mons. Guido Marini, Maestro per le Celebrazioni Liturgiche del Pontefice: " Nell'ambito liturgico, ciò che il Papa sta indicando con la sua parola e con il suo esempio, è l'applicazione compiuta e fedele del Concilio Vaticano II, in sviluppo armonico con tutta la tradizione liturgica precedente della Chiesa. ... il Santo Padre è un Maestro di liturgia, per quanto riguarda i contenuti, l'insegnamento e il pensiero, e allo stesso tempo un grande 'liturgo', perché ci insegna l'arte della celebrazione. Benedetto XVI ha mutato la liturgia con il suo stesso stile celebrativo e allo stesso tempo con le sue indicazioni e orientamenti. Se c'è una sottolineatura nelle celebrazioni presiedute dal Papa è proprio questa ricerca di andare al cuore e all'essenza della Liturgia, che è il Mistero del Signore celebrato nel quale tutti siamo chiamati ad entrare, in quel clima di adorazione e di preghiera che anche il momento del silenzio contribuisce a creare..." «Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!» (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008). Chiediamo troppo ai nostri Vescovi e ai nostri Parroci? Il 5 febbraio del 2010, la Redazione de IlGiornale.it esordiva scrivendo: "L'Italia ha una brutta malattia, il clericalismo. Lo dico da cattolico con un vivo senso religioso. Questo è un Paese perdutamente clericale nella fede ma anche nell'ateismo, che non rispetta la verità ma il potere del clero, cioè la forza e l'involucro. Un Paese non devoto ma servile, che si genuflette non alla verità ma al clero che ne impone il monopolio. Un clero anche laico, dunque.... (...) Della verità non frega nulla ai clericali, è quasi un ingombro e una distrazione; conta l'osservanza alla Cupola, la conformità a un codice di ipocrisie e salamelecchi. Per clero non s'intende per forza quello della Chiesa cattolica, ma un blocco di potere, fosse pure un clero di atei, un partito intellettuale, un gruppo di potere. Un clero laicissimo, massonico, intellettuale, mediatico o affaristico. Siamo sottomessi al clero dei magistrati e al clero della finanza, al clero dei partiti e al clero dei poteri culturali. E sacrifichiamo la verità al potere. Clericale è il ceto di potere in carriera, anche quello religioso, come ha osservato giustamente il Papa l'altro giorno, ma non solo quello. Se hai la possibilità di fare lobby e partito, di imporre una verità di comodo o una bugia organizzata, meriti la devozione clericale. Quel che si traduce in complotto o più modestamente in conformismo è affiliazione clericale. Poi dei meriti veri o presunti, se sei bravo o sei una nullità, non conta nulla. Conta la tua collocazione, se non sei funzionale all'Operazione in corso vai bruciato. Questo è un Paese clericale, che di Dio, dell'anima e della fede non sa che farsene, ma che di servitù, menzogna e apparenza si nutre. Che brutto vivere in un Paese di clericali senza Dio." *** Concordiamo con questo pensiero ma specificando alcuni punti che useremo a conclusione di questo articolo. Se questo nostro Paese fosse veramente "clericale nella fede", e per fede intendiamo quella vera, dottrinale e devota della Chiesa, non avremmo oggi necessità di scrivere questi articoli. Piuttosto questo nostro Paese è certamente e perdutamente clericale in quell'ateismo che non rispetta la Verità, ma si è reso supino ad un potere clericale lontano invece dalla vera Fede e per questo parliamo di "clericalismo e di potere". Un Paese che nelle sue membra sociali e culturali si genuflette ad ogni monopolio, non solo a quello clericale dal momento che anche certo Clero si è genuflesso a certi poteri civili (leggasi l'articolo nel Blog sulle cinque piaghe della Chiesa del beato Rosmini). E senza dubbio una sorta di clero laico dal momento che si è tentato ovunque di equiparare il ministero sacerdotale a quello dei fedeli. Così rifletteva Paolo Rodari il 20 giugno 2010 dal suo Blog: «Il carrierismo, la ricerca del potere, era più di tanti altri mali, “il male” presente nella chiesa (soprattutto nel clero) che il cardinale Joseph Ratzinger aveva denunciato nelle meditazioni della via crucis del 2005 quando, poche settimane prima di succedere a Giovanni Paolo II, disse: “Quanta sporcizia c’è nella chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”. Su questo tema Benedetto XVI è tornato più volte, ad esempio quando ha detto il 3 febbraio 2010: “Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa?”. Il Papa, in modo più potente, ne aveva parlato il 12 settembre del 2009, quando elencò le caratteristiche che non devono mancare nella vita del prete. A un certo punto disse: “Non leghiamo gli uomini a noi; non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente. Con ciò li introduciamo nella verità e nella libertà, che deriva dalla verità. La fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati. Sappiamo come le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune”. Chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo sarà sempre schiavo di se stesso e dell’opinione pubblica. Ed infine, non si tratta di privilegiare la forma di un Rito della Messa a discapito di un'altra, quanto è necessario invece rendere palese che, la forma ordinaria della Messa nelle Parrocchie celebrata contro la riforma di Benedetto XVI, si presta allo strapotere clericale, dove ci si genuflette alle imposizioni del gruppo predominante anziché piegare le proprie ginocchia davanti all'Eucaristia, davanti al Tabernacolo (sfrattato dalle Chiese), nel mentre si riceve la Comunione. Si prestano onori ai Caduti, alle autorità civili, militari e religiose, recita l'ufficio del protocollo istituzionale, ma non si prestano più gli onori a Colui che solo è degno di ricevere gli onori e la gloria, al di là e al di sopra di ogni Istituzione. "La prima caratteristica, che il Signore richiede dal servo, è la fedeltà. Gli è stato affidato un grande bene, che non gli appartiene. La Chiesa non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio. Il servo deve rendere conto di come ha gestito il bene che gli è stato affidato". (Benedetto XVI Omelia ai nuovi Vescovi 12 settembre del 2009) *** Maggiori informazioni http://anticlericali-cattolici.webnode.it/news/potere-sacro-e-potere-clericale/ Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine) |
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04/02/2013 22:27 | |
Che tra i sacerdoti ci siano alcuni omosessuali non è una novità e non è questo il problema posto da don Dariusz Oko nell’intervista che pubblichiamo in Primo Piano. Nessuno vuole criminalizzare una tendenza sessuale né ergersi a giudice di coloro che – per debolezza o altro – peccano gravemente. Siamo i primi noi a dover chiedere perdono per i nostri peccati. Ma la Chiesa ha sempre distinto tra peccato – da condannare – e peccatore, da salvare.
Quello che invece è un grave problema per la Chiesa è il tentativo in atto di trasformare il peccato in dottrina, ed è quello che intende espressamente don Oko quando parla di omoeresia e di lobby gay. Che ci siano oggi diversi sacerdoti tranquilli nel conciliare la vocazione con il comportamento omosessuale è purtroppo emerso con chiarezza sia da indagini giornalistiche – vedi due anni fa il servizio di Panorama sulle notti brave dei preti gay a Roma – sia da recenti casi di cronaca. Ma certa tranquillità non può non mettere in discussione ciò che si insegna nei seminari, e alcuni piani pastorali per omosessuali approvati anche nelle diocesi italiane sono la prova che il pensiero omosessualista, che mette sullo stesso piano tendenze etero e omosessuali, si sta diffondendo anche nelle gerarchie.
L’aspetto però più inquietante della denuncia di don Oko è quello riguardante una vera e propria lobby gay, capace di condizionare pesantemente la vita della Chiesa, garantendo carriere ecclesiali e impunità ai preti omosessuali. Ecco come don Oko descrive nell’articolo originale pubblicato in Polonia quella che definisce anche una omomafia:
“Bisogna comprendere e cercare di rispettare nel miglior modo possibile i nostri fratelli omosessuali, come ogni persona umana. Essi molte volte provano con tutte le forze a resistere alle loro tentazioni, ed alcuni ci riescono anche, e vivono in modo onesto e perfino santo (…) Comunque sanno molto bene di rischiare lo smascheramento e il discredito, e perciò si supportano a vicenda. Formano dei gruppi informali, delle combriccole, e perfino una specie di mafia, cercando di dominare soprattutto i luoghi dove albergano potere e denaro. Una volta raggiunta una carica decisionale, cercano di appoggiare e di promuovere prima di tutto le persone dalla natura simile alla loro oppure almeno quelle di cui sono certi che non si opporranno mai per il loro debole carattere. In tal modo può avvenire che la Chiesa si trovi ad avere in posizioni direttive persone profondamente corrotte, persone molto lontane dal livello spirituale degno di una carica importante, persone false e particolarmente esposte ai ricatti degli avversari del cristianesimo (…) Altre volte, quando un vicario tenta di difendere i giovani dalle molestie sessuali di un parroco è proprio lui, e non il parroco, ad essere richiamato all'ordine, vessato ed infine trasferito. Per aver svolto con coraggio il proprio dovere costui si ritrova a vivere esperienze dolorose. Succede che, con un'azione organizzata, egli venga ricattato, umiliato e diffamato sia nell'ambiente parrocchiale che sacerdotale. Inoltre, quando un prete o un frate subiscono loro stessi delle molestie sessuali da altri colleghi e superiori e cercano di chiedere aiuto e difesa ai livelli più alti, può accadere che incontrino un omosessuale ancora più importante”.
Don Oko cita anche casi concreti negli Stati Uniti, in Polonia e in Irlanda, ma è certo che il caso clamoroso in cui la lobby gay ha mostrato tutta la sua forza è nell’aver allontanato da sé le attenzioni a proposito dello scandalo pedofilia che ha sconvolto diversi episcopati. In realtà le ricerche fatte, soprattutto negli Usa, partendo dalle denunce per pedofilia, hanno messo in evidenza che in oltre l’80% dei casi non si tratta di vera pedofilia (abusi su bambini in età prepuberale) ma di efebofobia (abusi su adolescenti) che è una degenerazione dell’omosessualità. E’ questo dunque il vero problema che sta alla base degli abusi sui minori, ma è un argomento che sembra tabù nella Chiesa, grazie anche alla copertura dei principali mezzi di comunicazione che hanno tutto l’interesse a sfruttare gli scandali per mettere in discussione l’insegnamento della Chiesa sulla sessualità, compreso il celibato dei preti.
Pur senza cedere al complottismo e senza esagerare le dimensioni del fenomeno (è chiaro che la stragrande maggioranza dei sacerdoti vive in modo coerente la propria vocazione) è però venuto il momento di guardare in faccia la realtà e di affrontare il problema per quello che è, perché quando un insegnamento contrario al Magistero (soprattutto nel campo delle tendenze sessuali) mette radici nei seminari, vuol dire mettere a rischio intere generazioni di (futuri) sacerdoti. **************** "UNA LOBBY GAY CONDIZIONA LA CHIESA"da la nuovaBussolaQuotidiana del 20.12.2012di Roberto MarchesiniLa Chiesa è infiltrata pesantemente da una potente lobby gay, che decide nomine e promozioni attraverso un meccanismo di ricatti e omertà. È questa la tesi sostenuta da don Dariusz Oko in un articolo pubblicato originariamente sulla rivista polacca “Fronda” (n. 63, pp. 128-160) e successivamente sulla rivista teologica tedesca “Theologisches”, suscitando molto rumore in tutt'Europa.
Roberto Marchesini ha intervistato don Oko in esclusiva per La Nuova Bussola Quotidiana.
Don Oko, quando e come, storicamente, si è affermata la lobby omosessualista all'interno della Chiesa? Esistono diversi tipi di lobby, e da secoli esistono in tanti ambienti. Questo non è un aspetto specifico della Cheisa cattolica. Dopo il Concilio vaticano II, ai tempi della rivoluzione sessuale del 1968, la teologia cattolica morale ha cominciato ad accettare le idee che prima erano considerate estranee al Magistero della Chiesa e alla morale tradizionale. Uno degli esempi può essere l'insegnamento del prete cattolico americano Charles Curran, che difende l'uguaglianza degli orientamenti omosessuale ed eterosessuale. In questo modo l'omosessualità smise di essere considerata contro la legge naturale e contro la Rivelazione. Questo modo di considerare la sessualità umana è si è infiltrato in tanti seminari e monasteri nel mondo. In conseguenza, in molti seminari diocesani e abbazie di tutti i continenti hanno cominciato a sostenere l'idea che esistono due orientamenti sessuali equivalenti: eterosessuale ed omosessuale. Così si chiede ai chierici esclusivamente la castità, considerata come l'astinenza da atti impuri, e la capacità di vivere il celibato, senza entrare nel merito del loro orientamento o tendenze sessuali. In questo modo l'omosessualità come tendenza e tipo di personalità ha finito di essere un ostacolo all'ordinazione sacerdotale. Negli anni Settanta e Ottanta del Ventesimo secolo i sacerdoti con tendenze omosessuali hanno cominciato a creare molti problemi in tante diocesi ed abbazie nel mondo. Lo scandalo degli abusi sessuali su minorenni, esploso negli anni '80 negli USA, è in gran parte dovuto a preti gay e nel 2002 questa situazione ha portato a un vero e proprio terremoto. Nel 1989, don Andrew Greeley, scrittore e sociologo cattolico, ha scritto sul settimanale americano National Catholic Reporter di Kansas City a proposito della “mafia lavanda” [locuzione che indica la lobby gay all'interno della Chiesa cattolica] in un articolo che ha indignato alcuni e ha trovato d'accordo altri. Secondo Greeley il sacerdozio stava diventando sempre più gay, e non era più rappresentativo della Chiesa universale. A questo proposito, lei parla di omoeresia. Quali sono le caratteristiche? L'omoeresia è un rifiuto del Magistero della Chiesa cattolica sull'omosessualità. I sostenitori dell'omoeresia non accettano che la tendenza omosessuale sia un disturbo della personalità. Mettono in dubbio che gli atti omosessuali siano contro la legge naturale. I difensori dell'omoeresia sono a favore del sacerdozio per i gay. L'omoeresia è una versione ecclesiastica dell'omosessualismo. Quali reazioni ha suscitato, in ambienti ecclesiastici, il suo articolo? Come è stato accolto?
Le reazioni sono state soprattutto positive e hanno fatto gioire i miei amici che hanno partecipato alla nascita del mio lavoro. Queste voci hanno dato soddisfazione anche a tutti i credenti fedeli alla Santa Sede. Ci sono state così tante citazioni su diversi media che non è possibile ricordarle tutte. È sempre più difficile trovare un sacerdote in Polonia che non conosca il mio articolo. Tanti laici e sacerdoti mi hano ringraziato, mi hanno fatto i complimenti per le mie conoscenze e il mio coraggio, mi hanno dato informazioni nuove e più dettagliate a sostegno delle tesi del mio testo. Tante persone hanno sottolineato quanto sia importante toccare questo tema perché la degenerazione moale dei sacerdoti distrugge qualcosa di particolarmente importante per la Chiesa, la colpisce al cuore. Ho ricevuto queste risposte soprattutto dagli educatori dei seminaristi. Vescovi, abati e rettori di seminari mi hanno detto che questo articolo è un strumento molto utile per il loro lavoro, perché da una parte ricorda e raccoglie i punti chiave del Magistero sul divieto di ordinazione per le persone di tutte le tendenze omosessuali; dall'altra aiuta la riflessione e a risolvere i dubbi sull'argomento, anche se qualcuno potrebbe averne ancora. Accolgo con particolare piacere l'opinione molto positiva di questo articolo da parte di un certo numero di suore, insegnanti, amici da una varietà di istituzioni laiche e religiose; in particolare i due sacerdoti che vengono considerati correttamente come quelli con la più alta autorità spirituale e morale della Chiesa polacca: don Edward Staniek e don Mark Dziewieckiego. Entrambi sono persone coscienziose libere dalla dipendenza dal giudizio altrui; persone di grande amore per la Chiesa, con una conoscenza particolarmente vasta ed approfondita su di Essa.
Nel suo articolo lei valorizza i laici nella lotta per la purificazione della Chiesa. Quale può essere il loro ruolo? Vorrei focalizzare l'attenzione su due cose concrete. La prima riguarda il modo in cui i laici devono reagire nei casi di rapporti sessuali su un minorenne negli ambienti ecclesiastici, da parte di sacerdoti, animatori di gruppi di preghiera, insegnanti, scout, ecc. In questi casi, purtroppo, esiste una vera e propria congiura del silenzio. C'è la necessità di maggior coraggio ed impegno da parte dei laici. La seconda riguarda i seminari. Purtroppo i laici hanno poca o nessuna conoscenza di come i futuri sacerdoti sono formati. Eppure nei seminari si decide in modo determinante il futuro della Chiesa. C'è bisogno di un maggior coninvolgimento dei laici al fine di non permettere l'ordinazione degli omosessuali. Tutti, clero e laici, dobbiamo sostenere gli sforzi di Papa Benedetto XVI il quale, invece della divisione tra l'omosessualità attiva e quella passiva, nei documenti ufficiali introduce una distinzione tra tendenze omosessuali transitorie, che accadono nel periodo dell'adolescenza, e quelle profondamente radicate. Tutte e due le forme di omosessualità, e non più soltanto l'omosessualità attiva, costituiscono un impedimento all'ordinazione sacerdotale. L'omosessualità non è conciliabile con la vocazione sacerdotale. Di conseguenza, non è solo rigorosamente vietata l'ordinazione di uomini con qualsiasi tipo di tendenza omosessuale (anche se transitoria), ma anche la loro ammissione in seminario.
Lei ipotizza soluzioni per aiutare la Chiesa ad uscire da questa crisi. Ma cosa si può fare per aiutare i sacerdoti con tendenze omosessuali? E per i sacerdoti gay? Gli uomini con tendenze omosessuali già ordinati diaconi, preti e vescovi conservano la validità delle ordinazioni, ma sono obbligati ad osservare tutti i comandamenti di Dio nonché di tutte le disposizioni della Chiesa. Così come gli altri preti, devono vivere in castità e cessare ogni azione contro il bene della persona umana e della Chiesa, qualsiasi attività di carattere mafioso e soprattutto atteggiamenti di rivolta contro il Santo Padre e la Santa Sede. I sacerdoti afflitti da disturbi del genere sono fortemente indirizzati ad intraprendere al più presto una terapia adeguata.
CHI E' DON DARIUSZ OKO Don Dariusz Oko, nato nel 1960 ad Oswiecim, è stato ordinato sacerdote nel 1985; è prete dell'arcidiocesi di Cracovia, dottore di ricerca in filosofia ed in teologia, professore al Dipartimento di Filosofia dell'Università Pontificia Giovanni Paolo II di Cracovia. I principali settori delle sue ricerche scientifiche sono: metafisica, filosofia di Dio, teologia contemporanea, zone di confine tra filosofia e teologia, critica dell'ideologia atea. Per sei anni ha studiato in diverse università in Germania, Italia e negli Stati Uniti. Dopo l'ordinazione sacerdotale, insieme al lavoro scientifico, ha sempre svolto quello di ministro cattolico come sacerdote residente in diverse parrocchie europee ed americane. Per sedici anni è stato direttore spirituale degli studenti e dall'anno 1998 è direttore spirituale dei medici nella sua diocesi. Nel corso di studi, congressi scientifici e pellegrinaggi con i medici ha visitato circa quaranta Paesi di tutti i continenti. In Polonia è conosciuto come editorialista e i suoi articoli sono stati spesso accolti con riconoscimento ed hanno dato origine a discussioni e dibattiti a livello nazionale. - INTERVENIRE CON DECISIONE, di Riccardo Cascioli Disse Santa Ildegarda di Bingen, Dottore della Chiesa, riguardo all’omosessualità: “ll serpente antico gioisce per tutte le punizioni con cui l’uomo è castigato nell’anima e nel corpo. Lei, che ha perso la gloria celeste, non vuole che nessun uomo possa raggiungerla. In realtà, non appena si rese conto che l’uomo aveva accolto i suoi consigli, iniziò a progettare la guerra contro Dio, dicendo: <<Attraverso l’uomo porterò avanti i miei propositi>>” “Nel suo odio, il serpente ha ispirato gli uomini a odiarsi fra loro e, con lo stesso cattivo sentimento, li ha indotti a uccidersi gli uni gli altri.” “E il serpente disse: <<Manderò il mio soffio affinché la successione dei figli degli uomini si spenga, e allora gli uomini bruceranno di passione per gli altri uomini, commettendo atti vergognosi>> ”.
“E il serpente, provandoci godimento, gridò: <<Questa è la suprema offesa contro Colui che ha dato all’uomo il corpo. Che la sua forma scompaia perché ha evitato il rapporto naturale con le donne>>.”
“È quindi il diavolo che li convince a diventare infedeli e seduttori, che li induce a odiare e a uccidere, diventando banditi e ladri, perché il peccato di omosessualità porta alle più vergognose violenze e a tutti i vizi. Quando tutti questi peccati si saranno manifestati, allora la vigenza della legge di Dio sarà spezzata e la Chiesa sarà perseguitata come una vedova”
Citazioni tratte dal “Liber Divinorum Operum” di Santa Ildegarda di Bingen rinvenute nel n° 55 (anno 18, dicembre 2012) della rivista “Tradizione-Famiglia-Proprietà”. ------------------------------ _______________________________________________________________________________________ E un altro articolo sempre da lanuovaBussola di Massimo Introvigne, del 22,12,2012
Benedetto XVI ha impartito alcuni dei suoi più memorabili insegnamenti con i discorsi annuali alla Curia romana per gli auguri natalizi, che ha trasformato in un vero e proprio nuovo genere letterario. In questo discorsi, ogni anno, ricorda i momenti più importanti del suo Magistero nei dodici mesi passati e segnala le sfide principali per la Chiesa per il tempo a venire.
Per il 2012 il Papa segnala come «momenti salienti» del suo Magistero il viaggio in Messico e a Cuba, la Festa delle Famiglie a Milano, l'esortazione apostolica post-sinodale «Ecclesia in Oriente» consegnata durante il viaggio in Libano, e il Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Non certo come mera nota di colore, ma perché è un grande segno di speranza, il Pontefice ricorda il grande successo di popolo dei suoi viaggi, che sempre regolarmente smentisce lo scetticissimo dei media. «Ricordo che, dopo l’arrivo in Messico, ai bordi della lunga strada da percorrere, c’erano interminabili schiere di persone che salutavano, sventolando fazzoletti e bandiere. Ricordo che durante il tragitto verso Guanajuato, pittoresca capitale dello Stato omonimo, c’erano giovani devotamente inginocchiati ai margini della strada per ricevere la benedizione del Successore di Pietro; ricordo come la grande liturgia nelle vicinanze della statua di Cristo Re sia diventata un atto che ha reso presente la regalita? di Cristo». E le stesse scene di entusiasmo si sono ripetute a Cuba e in Libano.
I punti salienti del Magistero del 2012 annunciano anche le sfide del 2013. Il Papa le ha riassunte in tre punti: fare fronte alle ideologie che minacciano la famiglia e la stessa persona umana, nella linea tracciata dai suoi interventi a Milano; impostare correttamente il dialogo interreligioso, specie con l'islam, riprendendo l'esortazione «Ecclesia in Oriente»; trarre il massimo profitto dall'Anno della fede per la nuova evangelizzazione, dando un seguito concreto al Sinodo.
L'aspetto più grave della situazione attuale, ha detto il Papa, è una crisi della famiglia che «la minaccia fino nelle basi». È una sfida radicale che minaccia l'essenza della persona umana: «nella questione della famiglia non si tratta soltanto di una determinata forma sociale, ma della questione dell’uomo stesso – della questione di che cosa sia l’uomo e di che cosa occorra fare per essere uomini in modo giusto». La famiglia è in crisi perché la persona è in crisi. «Il rifiuto del legame umano, che si diffonde sempre piu? a causa di un’errata comprensione della liberta? e dell’autorealizzazione, come anche a motivo della fuga davanti alla paziente sopportazione della sofferenza, significa che l’uomo rimane chiuso in se stesso e, in ultima analisi, conserva il proprio “io” per se stesso, non lo supera veramente».
Ma questa crisi, ha detto con coraggio il Pontefice, deriva anche dall'attacco metodico di forze che propongono una vera «rivoluzione antropologica» in nome della più pericolosa ideologia apparsa negli ultimi anni, quella del gender.
«Il Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim - ha detto il Papa -, in un trattato accuratamente documentato e profondamente toccante ["Mariage homosexuel, homoparentalité et adoption. Ce que l'on oublie souvent de dire"], ha mostrato che l’attentato, al quale oggi ci troviamo esposti, all’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio, giunge ad una dimensione ancora piu? profonda. Se finora avevamo visto come causa della crisi della famiglia un fraintendimento dell’essenza della liberta? umana, ora diventa chiaro che qui e? in gioco la visione dell’essere stesso, di cio? che in realta? significa l’essere uomini». Sulla scia di Bernheim il Papa ricorda «l’affermazione, diventata famosa, di Simone de Beauvoir [teorica francese del femminismo, 1908-1986]: "Donna non si nasce, lo si diventa” (“On ne nai?t pas femme, on le devient”). In queste parole e? dato il fondamento di cio? che oggi, sotto il lemma “gender”, viene presentato come nuova filosofia della sessualita?. Il sesso, secondo tale filosofia, non e? piu? un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensi? un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la societa? a decidervi».
Si tratta di una delle più gravi sfide cui la Chiesa si è trovata di fronte nella sua storia. E non solo la Chiesa: l'ideologia del gender minaccia tutta la società e sovverte la stessa persona umana. «La profonda erroneita? di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente e? evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeita?, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli e? data come fatto precostituito, ma che e? lui stesso a crearsela».
Si tratta in ultimo, afferma Benedetto XVI, di una rivolta contro Dio. «Non e? piu? valido cio? che si legge nel racconto della creazione: “Maschio e femmina Egli li creo?” (Gen 1,27). No, adesso vale che non e? stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora e? stata la societa? a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschio e femmina come realta? della creazione, come natura della persona umana non esistono piu?. L’uomo contesta la propria natura. Egli e? ormai solo spirito e volonta?». Con questa scelta faustiana l'uomo in concreto, propriamente, muore. «Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per se? autonomamente qualcosa come sua natura. Maschio e femmina vengono contestati nella loro esigenza creazionale».
La crisi della famiglia è solo un aspetto di una crisi globale. «Dove la liberta? del fare diventa liberta? di farsi da se?, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con cio?, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio». Ma «dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignita? dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo».
A questa difesa dell'uomo di fronte a minacce radicali e inaudite la Chiesa convoca tutte le religioni e anche i non credenti che credono nel diritto naturale. È questa la seconda sfida per il 2013: capire bene la nozione di dialogo. Il Papa fa riferimento al suo viaggio in Libano e ribadisce che «il dialogo delle religioni e? una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto e? un dovere per i cristiani come pure per le altre comunita? religiose». Il dialogo, oggi, deve partire non tanto dalla teologia, ma dall'antropologia e dal diritto naturale.
Questo vale anche nel caso, così obiettivamente difficile, dell'islam. Benedetto XVI ricorda le due regole del dialogo di cui parlano diversi documenti di dicasteri vaticani: «1. Il dialogo non ha di mira la conversione, bensi? la comprensione. In questo si distingue dall’evangelizzazione, dalla missione. 2. Conformemente a cio?, in questo dialogo ambedue le parti restano consapevolmente nella loro identita?, che, nel dialogo, non mettono in questione ne? per se? ne? per gli altri». «Queste regole - commenta il Papa - sono giuste. Penso, tuttavia, che in questa forma siano formulate troppo superficialmente. Si?, il dialogo non ha di mira la conversione, ma una migliore comprensione reciproca: cio? e? corretto. La ricerca di conoscenza e di comprensione, pero?, vuole sempre essere anche un avvicinamento alla verita?.».
A costo di correggere qualche documento dei dicasteri preposti al dialogo, il Pontefice osserva che «sarebbe troppo poco se il cristiano con la sua decisione per la propria identita? interrompesse, per cosi? dire, in base alla sua volonta?, la via verso la verita?. Allora il suo essere cristiano diventerebbe qualcosa di arbitrario, una scelta semplicemente fattuale. Allora egli, evidentemente, non metterebbe in conto che nella religione si ha a che fare con la verita?». Dialogo sì, dunque: ma senza mai rinunciare all'annuncio, senza mai il più piccolo cedimento al relativismo, che alla fine favorisce le ideologie anti-religiose e danneggia tutte le religioni.
Per resistere a queste ideologie e proporre un dialogo che non sia relativista, è necessario anzitutto che i cristiani siamo cristiani. Ecco allora la terza sfida del 2013: trarre davvero profitto dall'Anno della fede, conoscere la verità della fede cattolica, essere «docili» al Magistero, acquisire e sviluppare il senso della Chiesa. L'ideologia ci ha lanciato una sfida radicale. C'è bisogno di cattolici che lo siano veramente, e che quindi siano capaci di dialogare con gli altri in modo non relativista, per rispondere in modo adeguato. - PARLARE DI CRISTO RE SUL FINANCIAL TIMES SI LEGGA ANCHE: «Nella Chiesa è in atto un golpe omosessualista»Dopo la recente intervista a Don Dariusz Oko e quella pubblicata da La Bussola Quotidiana a Gerard van den Aardweg, La Nuova Bussola Quotidiana continua la sua indagine sul tema della lobby gay all'interno della Chiesa con questa conversazione con don Ariel S. Levi di Gualdo, sacerdote romano che nel 2011 ha pubblicato per l'editore Bonanno il libro E Satana si fece Trino. Relativismo, individualismo, disubbidienza: analisi sulla Chiesa del terzo millennio. Il secondo capitolo di questo lavoro è interamente dedicato alla presenza omosessualista all'interno della Chiesa, e non sarà inutile ricordare che proprio alla vigilia di Natale, parlando alla Curia Romana, il Papa si è a lungo soffermato sulla grave minaccia per la Chiesa rappresentata dall'ideologia del gender. Don Ariel, lei definisce la presenza gay all'interno della Chiesa una “Via crucis”. Perché? Giusto precisare "all’interno della Chiesa”, perché non ho mai fatto battaglie contro i gay in quanto tali. Ho trattato sempre col massimo rispetto ogni persona con tendenze omosessuali che mi ha avvicinato. Alcuni mi hanno chiesto sostegno spirituale, altri si sono presentati al mio confessionale dal quale non sono mai usciti senza assoluzione. Compito mio è amministrare la grazia e il perdono di Dio. Molti i motivi e i condizionamenti socio-psicologici per cui i giovani del XXI secolo possono essere indotti a uno stile di vita che non amo definire «malvagio» o «disordinato». Preferisco la più paterna espressione di “stile di vita non cristiano”, memore che Gesù avverte: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio» (Mt. 21, 32). Per questo scrivo: «I gay sono compatibili col Paradiso, forse più ancora d’altri generi di peccatori tollerati spesso con grande diplomazia anche dalla migliore morale cattolica. Non lo sono però col sacerdozio, all’interno di un mondo al maschile composto di uomini ai quali è chiesto un equilibrio sessuale raggiungibile, ma non facile da raggiungere e mantenere» (E Satana si fece Trino, p. 221). Quando fui consacrato sacerdote il vescovo mi esortò: «Sii sempre te stesso». In che misura si può dire a un prete gay: «Sii sempre te stesso»? O si può forse impostare il ministero sacerdotale sulla finzione, la doppia vita? Pertanto, anziché camminare col Signore come i discepoli lungo la Via di Emmaus (Lc. 24, 13-35), i gay preti si troveranno in transito su una Via Crucis perenne e fine a se stessa che non li guiderà alla pietra rovesciata del sepolcro vuoto del Cristo, con grave danno a se stessi e alla Chiesa. Il tutto non perché sono persone con tendenze omosessuali alle quali perdono, grazia e salvezza non sono preclusi ma perché non possono essere liberamente e felicemente se stessi. Ecco allora che il gay prete, a differenza di quello laico, rischia di vedersi seriamente precludere il perdono, la grazia e la salvezza della propria anima. Perché ha deciso di denunciare in modo pubblico questo fenomeno? Quali obiettivi si è posto? Non sarebbe stato meglio un pietoso silenzio? Perché il mio divino “datore di lavoro”, il Verbo Incarnato, per meglio annunciare la verità assunse la nostra natura umana. Quindi la verità divina, in Gesù e tramite Gesù, prende forma in un corpo, ha un volto, una gestualità davanti alle folle. La frase: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv. 1, 14) equivale a dire che la Verità divenne visibile, palpabile. Questa concretezza chiusa nei Vangeli ci indica lo stile di comportamento e di azione, per esempio: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare» (Lc. 9, 38-47). Per questo nella prima parte del libro chiarisco cos’è la carità e quanto essa sia inconcepibile senza la verità e la giustizia. Pertanto, non esercitare all’occorrenza la carità con fermezza, che vuol dire anche ripristinare la dottrina e l’autorità della Chiesa, porta a una corruzione dell’idea di carità, mutandola in una parodia dopo averla svuotata del suo senso vero. Quando la cristologica carità si muta in “carità” clericale, ecco nascere mille pietosi silenzi, mirati di fondo a sostituire il vero divino col verosimile umano. L’obiettivo che come uomo e prete mi pongo è di essere vivo servitore partecipe della verità del Verbo Incarnato. Le parole dure e dirette rivolte da Gesù contro i malcostumi del potere corrotto del decadente clero giudaico dell’epoca lo hanno portato al fallimento della croce, ma poco dopo alla gloria della risurrezione, perché Gesù, il Verbo, «era Dio» (Gv. 1,1). Oggi verso i malcostumi del potere corrotto del decadente clero cattolico Gesù userebbe le stesse parole: «Razza di vipere (Lc. 3,7) sepolcri imbiancati» (Mt. 23, 27). Se entrasse in quella succursale di Sodoma e Gomorra alla quale alcuni hanno ridotto il Vaticano, al punto da far dire al Sommo Pontefice: «Pregate perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi» (Omelia del 24.04.2005), chissà quante frustrate elargirebbe ai moderni mercanti del tempio (Mc. 11, 15-19). Urlando, sulle parole del Profeta Geremia, non solo: «Avete fatto della mia casa una spelonca di ladri» (7,11). Forse direbbe: «Una spelonca di ladri e un lupanare di gay inebriati dai fumi aromatici degli incensi, tra pizzi e merletti dei paramenti barocchi». E di nuovo conoscerebbe il sinedrio e la croce. E chissà quanti vescovi, preti e teologi lo accuserebbero di superbia, togliendogli credito e affermando che non ha titolo per parlare: «Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria?» (Mt. 13, 55). Quali sono gli scopi di questa lobby? Quali meccanismi utilizza? La distruzione interna della Chiesa, è evidente! Alcuni anni fa feci la formazione per il ministero di esorcista che poi il mio vescovo mi conferì, benché lo abbia esercitato due volte soltanto. Dinanzi a casi di presunte possessioni sono molto scettico, la quasi totalità sono casi di interesse psichiatrico da indirizzare presso specialisti clinici. Ho avuto però modo di trovarmi dinanzi a un caso autentico e credo di avere percepito – non capito, solo percepito – quanto il Mistero del Male sia intelligenza allo stato puro che nessuno di noi può combattere con le proprie forze. Ciò con buona pace di un esorcista che in televisione affermò: «No, io non ho paura del Demonio, è lui che deve avere paura di me!». Ora dico: il Demonio ha osato tentare persino Dio incarnato (Mt. 4, 1-11. Mc. 1,12-13. Lc. 4, 1-13), ce lo vedete ad avere paura di un mite esorcista novantenne? Per realizzare i propri scopi Satana usa raffinate arti sovrumane seminando confusione e creando strutture di inversione, attraverso le quali il bene diventa male, il male bene, la virtù vizio e il vizio virtù, la sana dottrina diventa eresia e l’eresia sana dottrina. Da questo si sono sviluppate le metastasi che hanno infettato il corpo ecclesiale, generando una mancanza di governo della Chiesa indebolita da un relativismo teologico gnostico, da un individualismo esasperato e dalla disubbidienza all’autorità del Sommo Pontefice e dei Vescovi. Questo meccanismo di inversione mira a sostituire Dio col proprio Io, basta udire certi preti teologi in giacca e cravatta che nella stagione del post concilio hanno creato il loro personale concilio egomenico e che dalle cattedre delle università pontificie insegnano il discutibile magistero di se stessi. Non a caso le loro parole più ricorrenti sono: «Come io sostengo … come io ho scritto … come io ho detto a quel cardinale che mi ha dato ragione … ». Perché secondo lei la presenza di uomini con tendenze omosessuali è così massiccia all'interno del presbiterato? Il sacerdozio attira questi uomini, oppure la formazione nei seminari contribuisce alla nascita di queste tendenze? Da dove nasce questa apparente compatibilità tra la vita consacrata e una personalità omosessuale? Nel mio libro parlo della omosessualizzazione della Chiesa che nasce da complessi problemi storici e sociali. Ho 49 anni e, se penso ai preti della mia fanciullezza, dinanzi a me ho solo immagini di maschi sopra ogni sospetto. Se talvolta c’erano problemi erano legati a faccende di donne, a volte sino all’abbandono del sacerdozio. Siamo cauti però col dire che all’epoca c’era un clero più sano. Era diversa la società, nessuno avrebbe ostentato certe gaiezze. Per trattare questo tema bisogna essere onesti: «Dopo avere a lungo sparato sul sesso come fosse il peccato dei peccati, oggi stiamo subendo il colpo di rinculo e per opere e omissioni, noi preti, potremmo apparire i meno indicati a parlare in modo credibile di morale sessuale e di bioetica, valutati da una parte i numerosi casi di ecclesiastici affetti da disordini sessuali originati dalla loro insita incompatibilità col sacerdozio e con l’episcopato; e dall’altra le violazioni della dignità umana che si registrano anche dentro la Chiesa» (E Satana si fece Trino, p. 178). Abbiamo creato pontifici consigli per la giustizia e la pace, per la famiglia, la sanità e la bioetica, ma pare che il lupo si sia rivestito sempre più di pelo senza perdere il vizio. O per dirla in concreto: quando denunciai al Vicariato di Roma, con prove e testimoni, un parroco che coi soldi della Chiesa manteneva un giro di marchettari (op.cit., p. 185), non solo fui allontanato da quella basilica, mi fu tolto anche il celebret della Diocesi di Roma, il cui vescovo lamentò nel 2010 ai cattolici d’Irlanda «una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità e una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali, che hanno portato come risultato alla mancata applicazione delle pene canoniche in vigore e alla mancata tutela della dignità di ogni persona». Dinanzi alle denunce che presentai ai vari dicasteri della Santa Sede, inclusa la Segreteria di Stato – sempre supportato dal mio vescovo che giudicò inaudito tale sprezzo autocratico di ogni legge della Chiesa – non ho ricevuto nemmeno risposta. Questo intendo dire parlando di meccanismi di inversione: la giustizia diventa ingiustizia e l’ingiustizia diventa giustizia …
La verità è che da fine anni Sessanta si sono rotti rigidi equilibri anche basati su processi di repressione sessuale, a partire dall’ambito formativo dei seminari. In un trentennio è stata intaccata la dottrina e messo in discussione il deposito della fede; tutto è diventato relativo o soggetto a eccentrici esperimenti, basti pensare alla liturgia o quella che taluni chiamano la teologia antropologica. Infine siamo giunti alla omosessualizzazione della Chiesa e all’omosessualismo al potere. Bisogna correre ai ripari e ripensare quanto prima i seminari che sortiscono l’effetto di rendere i futuri preti clericali nel cervello anziché cristiani nell’anima. Spesso nei seminari mancano educatori, posto che prima di educare bisogna avere ricevuto una sana e solida educazione. Per questo mi sono ritrovato più volte a raccogliere giovani a pezzi, talvolta in crisi di fede che, “rei” di essere eterosessuali, sono stati espulsi dal seminario da formatori più o meno gay che proteggevano seminaristi palesemente gay. Per non parlare di cosa accade in certi antichi ordini storici, dove per secoli si è guardato al “povero” clero secolare “plebeo” con aria di sufficienza. Ah, quali lezioni dà la vita quando rovescia la fierezza dai troni! Oggi a entrare nei noviziati di certe millenarie abbazie o in qualche ateneo monastico c’è da temere di prendere malattie veneree solo a respirarne l’aria, dato che per non chiudere bottega certi augusti ordini religiosi si sono ridotti a raccattare quelli che noi sbattiamo fuori dai seminari, inutile a dirsi: per motivi morali gravissimi. Questa apparente compatibilità tra la vita consacrata e una personalità omosessuale, nasce da questi squilibri che hanno generato un vero golpe dell’omosessualismo. O per dirla cruda: «Alcuni seminaristi che negli anni Settanta e Ottanta capeggiavano all’interno dei seminari la pia confraternita, oggi sono vescovi, ed appena divenuti tali, per prima cosa si sono circondati di soggetti affini, piazzati sempre e di rigore in tutti i posti chiave delle diocesi, seminari inclusi, proteggendosi e riproducendosi tra di loro» (op.cit., p. 216) «estetizzando vuotamente la fede e omosessualizzando la Chiesa» (p. 195). Quali rimedi propone per risolvere questo problema? L’autorità apostolica. Parola che spaventa, quella di “autorità”, perché molti teologi egomenici del “più collegialità” e “più democrazia”, la confondono con l’autoritarismo e con l’arbitrio autocratico; proprio quell’autoritarismo esercitato con aggressività dalle frange ultra progressiste o da certe aggregazioni laicali settarie verso chi non la pensa come loro. «La Chiesa è legittima depositaria di un potere coercitivo che Dio le ha affidato e che all’occorrenza deve usare in modo deciso, per evitare ogni forma d’anarchia al suo interno. Per potere coercitivo non s’intende uno Stato di polizia inquisitoria ma solo affermare la difesa della verità contro l’errore e l’insolente ribellione degli uomini accecati dall’individualismo» (op.cit., p. 80). La Santa Sede ha prodotto vari documenti ed esortazioni a tal proposito, ma di giorno in giorno sono testimone della loro non applicazione, perché siamo di fronte a una vera epidemia, dinanzi alla quale non esiste altra soluzione che l’agire come indica il Vangelo: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna» (Mt. 5, 29-30). Noi seguitiamo invece a mettere nell’occhio il collirio alla camomilla, consolandoci con l’idea che la Chiesa «ha superato momenti anche peggiori». Cosa falsa, perché in epoche passate la Chiesa è stata attaccata dall’esterno da forze che potevano contare sull’appoggio di pochi o tanti traditori interni. Oggi invece è attaccata non solo dall’esterno, perché al suo interno produce il male che la divora, col rischio di mutarsi in una struttura di peccato che produce peccato. In quali epoche passate è accaduto qualcosa di simile? Neppure ai tempi di Giovanni XII, il ragazzo eletto Romano Pontefice nel 955 a 18 anni e morto in circostanze non proprio edificanti a 26. Quali sono state le reazioni alla sua denuncia? Come hanno reagito i suoi confratelli? All’apparenza totale indifferenza, affinché neppure un sospiro si spargesse tra le membra del Popolo di Dio. Sul piano privato diversi prelati mi hanno convocato, unanimi nell’affermare che avevo reso un bel servizio alla verità. Qualcuno è giunto a usare espressioni così lusinghiere da imbarazzarmi, forse a riprova che quando il Diavolo tenta di stuzzicarti nella vanità si veste sempre di Rosso Prada? Ottimo. In concreto però, questi solidali complimentatori, cosa hanno fatto per favorire la diffusione di un’opera da loro definita come «servizio alla Chiesa»? Niente. Sapendo che vivo sotto il tiro dei cecchini omosessualisti della potente mafia clerical gay, cosa hanno fatto per disarmarli, o per proteggermi? Niente. Essere ridotti a carne da macello per noi preti fa parte dei rischi del mestiere, è scritto nel carattere indelebile del sacerdozio che abbiamo ricevuto, perché siamo stati chiamati a divenire una sola cosa con l’Agnello Immolato, Cristo Salvatore. In fondo, conoscendo un po’ la vera essenza della teologia e la sua storia articolata, mi è noto che in venti secoli di vita e dopo numerosi concili celebrati, nell’intera storia della Chiesa esiste una sola decisione presa collegialmente all’unanimità, senza un dissenso, senza un voto contrario: «Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Cf. Mt. 26, 54. Mc. 14, 50). In ogni caso io non sarò mai solo. Cristo è sempre con me, anzi: si affida alle mie mani per diventare corpo e sangue vivo, presenza visibile nella sua Chiesa e nutrimento per il Popolo di Dio. Posso non essere felice nella vita presente e in quella futura, posto che sono sacerdote di Cristo e che tale sarò in eterno? Ringrazio il vostro quotidiano on line per il servizio informativo che state facendo su questo tema attraverso la rottura della cortina di silenzi e omertà che avvolgono questo dramma epidemico: Cristo ve ne renderà merito e poco a poco, la Chiesa, ne trarrà grandi benefici, dopo tante e lunghe sofferenze. - Il nemico dentro di R. Cascioli _______________________ Ariel Stefano Levi di Gualdo (19.08.1963) allievo del teologo gesuita Peter Gumpel è consacrato sacerdote a Roma dove attualmente vive. Svolge il ministero di confessore, predicatore e direttore spirituale. È autore di vari saggi pubblicati con la Casa Editrice Bonanno presso la quale dirige la collana teologica Fides Quaerens Intelletcum. Tra le sue principali opere: Erbe Amare, il secolo del sionismo (Bonanno, 2007), Nada te Turbe (A&B 2009), E Satana si fece Trino. Relativismo, individualismo, disobbedienza: analisi sulla Chiesa del terzo millennio (Bonanno, 2011). Altri suoi saggi sono in programma di pubblicazione per il corrente anno 2013 e per il 2014.
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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23/05/2013 23:56 | |
on 23 maggio 2013 23:42 on Apologetica, StoriaHa avuto molto successo la “cacciagione” dedicati ai santi confessori. Ho ricevuto molte emails che mi chiedevano di riportare altri “fioretti” dei santi, riguardanti non solo il sacramento della Penitenza. La Strega cercherà di accontentare i suoi lettori. Riprendendo quello che si chiama “il filo del discorso”, cominciamo con un santo confessore. SAN FILIPPO NERI Un giovane era molto angustiato perché, per vergogna, taceva alcuni peccati durante la santa confessione. Quando sentì parlare del sacerdote Filippo Neri come si può parlare solamente di un sacerdote santo, decise di recarsi presso di lui, perché temeva per la salvezza della sua anima. Il futuro santo appena lo vide, gli corse incontro, come se lo conoscesse da sempre, lo abbracciò e lo guardò un po’ severamente, ma anche con molta compassione. Il giovane ne fu talmente commosso da non riuscire a trattenere la lacrime. Chiese a san Filippo di confessarlo, ma questi prima volle che pregassero insieme. Al termine delle orazioni, il santo sacerdote disse: «Ora che sei ben disposto e ti sei preparato con la preghiera, andiamo al confessionale. Però non lasciarti vincere dal demonio: non tacere nessuno dei peccati che hai commesso». Il giovane restò allibito: come faceva san Filippo ad esserne a conoscenza? Infatti anche a san Filippo Neri, come a molti santi confessori, Dio concesse il dono di scrutare nelle anime. Dopo l’assoluzione, il giovane penitente non riuscì a trattenere la lacrime dalla gioia: finalmente si era riconciliato con Dio! Anche san Filippo era molto commesso, perché il buon pastore aveva riportato una pecorella smarrita al sicuro nell’ovile. San Filippo, congedandolo, gli disse: «Figliuolo, io sapevo ad uno ad uno i tuoi peccati. Adesso vedo che hai mutato faccia e sei di buona cera». Un giorno San Filippo Neri andò a trovare un suo penitente, un uomo molto ricco. Lo trovò un po’ triste e gliene chiese la ragione. Questi spiegò al sacerdote che si era reso conto che non riusciva a progredire nella vita spirituale. San Filippo allora gli disse di toccare i piedi del crocifisso appeso alla parete. L’uomo obbedì al suo confessore, nonostante sapesse che non ci sarebbe riuscito perché la croce era appesa piuttosto in alto. Infatti non riuscì a toccare i piedi del Crocifisso e lo fece notare al futuro santo. San Filippo allora prese un sacco pieno di denari dell’uomo, nascosto sotto il letto, lo avvicinò alla parete, proprio sotto la Croce. «Sali su questo sacco – disse all’uomo – e vediamo se così ci arrivi». Ovviamente l’esperimento riuscì. «Hai capito, figliolo? Per riuscire a toccare Gesù – spiegò San Filippo Neri – bisogna mettersi le ricchezze sotto i piedi. Ora gli sei più vicino, ecco, ma devi sempre metterti sotto i piedi queste monete». SANT’ANTONIO DA PADOVA Durante la permanenza di Sant’Antonio a Firenze, morì uno degli uomini più ricchi della città. I parenti sapendo dell’illustre presenza del sacerdote, gli chiesero di fare l’elogio funebre al funerale. Ma questi si rifiutò, perché disse che non c’era nulla da elogiare, in quanto il morto, in vita, fu un avaro e un usuraio. I parenti andarono su tutte le furie, accusandolo di essere un sacerdote senza misericordia. Sant’Antonio, senza scomporsi più di tanto, rispose loro: «Non avete mai sentito cose dice il Signore? “Dov’è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore” (Mt 6, 21)? Andate a vedere nello scrigno del vostro congiunto: là dentro troverete anche il suo cuore». Essi lo fecero e, con grande meraviglia, dentro lo scrigno, in mezzo alle monete e ai gioielli, trovarono un cuore umano. Dinanzi a tale prodigio, parecchi avari e usurai si convertirono e cercarono di riparare al male compiuto. E quel morto non fu deposto nel mausoleo preparatogli, ma trascinato come un asino sul terrapieno e sotterrato. A Ferrara vi era un marito molto geloso della moglie, una donna di rara e bellezza e dolcezza. Quando rimase incinta, a causa di un pettegolezzo, la accusò ingiustamente di adulterio e, alla nascita del bambino, forse perché il piccolo gli assomigliava poco, si persuase ancora di più del tradimento. Cacciò la moglie e il figlio di casa e non si presentò al battesimo. Quando Sant’Antonio lo venne a sapere, prima che iniziasse il rito del Battesimo, mandò a chiamare l’uomo. Al suo arrivo, prese il piccolo tra le braccia e gli chiese: «Dimmi il nome di tuo padre». Il neonato, incredibilmente, rispose e pronunciò, davanti a tutti, il nome dell’uomo che lo rifiutava. Allora il “santo dei miracoli” mise il bambino tra le braccia del padre e disse: «Prendi tuo figlio e ama tua moglie». L’uomo s’inginocchio e chiese perdono. Dopo, finalmente, il piccolo fu battezzato. Anche Sant’Antonio fu un confessore instancabile: passava molto tempo a confessare. Un giorno venne da lui un grande peccatore, il quale era sinceramente pentito ed era deciso a cambiare vita e a riparare al male commesso. Quando s’inginocchio ai piedi del santo confessore, fu travolta dall’emozione e cominciò a piangere. Allora Sant’Antonio, per aiutarlo, gli disse di scrivere su un foglio tutti i peccati che aveva commesso. L’uomo obbedì e scrisse una lunga lista, poi diede il figlio al confessore. Sant’Antonio lesse la lunga lista ad alta voce. Al termine, riconsegnò il figlio al penitente, il quale rimase senza fiato quando vide che era bianco, senza nessuna scritta. I peccati erano stati cancellati non solo dal foglio di carta, ma anche dall’anima del penitente. Il quale se ne andò lodando e ringraziando Dio. SAN DOMENICO SAVIO San Domenico Savio, allievo di San Giovanni Bosco, morto a soli quattordici anni, esercitò le virtù eroiche cristiane fin dall’infanzia. Il giovane Domenico frequentò la scuola elementare di Mondonio, il cui insegnante più stimato era il sacerdote don Cugliero. Questi era un sacerdote molto buono e compassionevole, ma che sapeva essere anche molto severo e autoritario, quando era necessario. Durante l’inverno, la scuola veniva riscaldata da una grossa stufa. Un mattina che don Cugliero tardava ad arrivare, perché stava assistendo un moribondo, i due bulletti della classe di Domenico, approfittando della nevicata abbondante della notte precedente, uscirono dall’aula e tornare con due grosse palle di neve che usarono come coperchio per la stufa. Poco dopo, un gran fumo e dell’acqua uscirono dalla stufa, invadendo tutta l’aula. Proprio in quel momento, arrivò don Cugliero. Al vedere la stufa e l’aula in quelle condizioni, si fece cupo in volto. «Chi è stato?», chiese con un tono perentorio. I due colpevoli puntarono il dito contro Domenico, accusandolo ingiustamente. Domenico non disse nulla, sperando che qualcun altro dei suoi compagni lo difendesse, ma nessuno lo fece perché temevano le botte dei due bulletti. L’insegnante ci rimase malissimo: “Domenico, proprio tu! Non lo avrei mai creduto…”. Domenico, però, nonostante la rabbia e la delusione, non disse nulla. Visto che non non si difendeva questo convinse don Cugliero della sua colpevolezza. «Fortunatamente è la tua prima mancanza, così sarai solamente punito, altrimenti ti avrei cacciato da scuola». Domenico “incassò” la punizione – una sonora sberla – con gli occhi pieni di lacrime, senza però dir nulla. Al che uno dei compagni, in preda ai rimorsi, prese coraggio e raccontò la verità a don Cugliero. Dopo aver preso i provvedimenti necessari verso i due bulletti e aver rimproverato l’omertà della scolaresca, don Cugliero volle parlare a quattr’occhi con Domenico. «Perché non ti sei difeso? Perché sei rimasto in silenzio?», gli chiese il sacerdote. Domenico rispose: «Ho pensato che quei due miei compagni sarebbero stati cacciati di scuola, e questo non lo volevo. Io invece speravo di essere perdonato. E poi… ho pensato a Gesù. Anche Lui fu accusato ingiustamente». I fioretti dei santi non sono favole, sono storie vere che ci ricordano che tutto è possibile a Dio e che anche noi possiamo, seguendo l’esempio dei santi – per questo ho voluto riportare anche un episodio della vita di san Domenico Savio -, salvare noi stessi e ed essere strumento per la salvezza altrui. Questo è valido soprattutto per i sacerdoti. La Strega non si stancherà di pregare per la santità dei sacerdoti e anche di ricordare che la loro missione è spirituale, non sociale. Il Signore, cari sacerdoti, vi ha affidato le nostre anime: non disprezzatele e abitatene cura. Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/06/2013 15:36 | |
Card. Bergoglio: Che il celibato abbia come conseguenza la pedofilia è escluso...Ammiro il coraggio e la rettitudine di Benedetto XVI contro la pedofilia nella ChiesaGrazie alla nostra Gemma leggiamo questo brano tratto da un testo dell'allora cardinale Bergoglio a colloquio con il rettore del seminario rabbinico Skorka. Da Jorge Mario Bergoglio, Abraham Skorka, "Il Cielo e La Terra", Mondadori 2013 Sui discepoli .... Bergoglio: Se uno viene da me e mi dice che ha messo incinta una donna, lo ascolto, cerco di tranquillizzarlo e a poco a poco gli faccio capire che il diritto naturale viene prima del suo diritto in quanto prete. Di conseguenza deve lasciare il ministero e farsi carico del figlio, anche nel caso decida di non sposare la donna. Perché come quel bambino ha diritto ad avere una madre, ha anche il diritto di avere un padre con un volto. Io mi impegno a regolarizzare tutti i suoi documenti a Roma, ma lui deve lasciare tutto. Ora, se un prete mi dice che si è lasciato trascinare dalla passione, che ha commesso un errore, lo aiuto a correggersi. Ci sono preti che si correggono e altri no. Alcuni purtroppo non vengono nemmeno a dirlo al vescovo. Skorka: Che cosa significa correggersi? Bergoglio: Fare penitenza, rispettare il celibato. La doppia vita non ci fa bene, non mi piace, significa dare sostanza alla falsità. A volte dico loro: «Se non sei in grado di sopportarlo, prendi una decisione». Skorka: Vorrei puntualizzare che una cosa è il prete che si è innamorato di una ragazza e si confessa, e un’altra molto diversa sono i casi di pedofilia. Questa piaga va estirpata alla radice, è molto grave. Se due persone adulte hanno una relazione, se si amano, è un’altra cosa. Bergoglio: Sì, ma devono correggersi. Che il celibato abbia come conseguenza la pedofilia è escluso. Oltre il settanta per cento dei casi di pedofilia si verificano in contesti familiari o di vicinato: nonni, zii, patrigni, vicini di casa. Il problema non è legato al celibato. Se un prete è pedofilo, lo è prima di farsi prete. Ebbene, quando accade, non bisogna mai far finta di non vedere. Non si può stare in una posizione di potere e distruggere la vita a un’altra persona. Non è mai accaduto nella mia diocesi, ma una volta mi telefonò un vescovo per chiedermi che cosa doveva fare in una situazione del genere, e gli dissi di togliere le licenze al soggetto in questione, di non permettergli più di esercitare il sacerdozio, e di intentare un processo canonico nel tribunale di pertinenza della sua diocesi. È questo per me l’atteggiamento da assumere; non credo nelle posizioni che sostengono un certo spirito corporativo per evitare di danneggiare l’immagine dell’istituzione. Mi pare che questa soluzione venne proposta in qualche caso negli Stati Uniti: sostituire i preti della parrocchia. Ma questa è un’idiozia, perché così il prete si porta via il problema con sé. La reazione corporativa conduce a queste conseguenze, perciò non mi trovo d’accordo con simili soluzioni. Di recente sono venuti alla luce in Irlanda casi che andavano avanti da quasi vent’anni, e il Papa disse chiaramente: «Tolleranza zero verso questo crimine». Ammiro il coraggio e la rettitudine di Benedetto XVI a questo proposito. ... Da Jorge Mario Bergoglio, Abraham Skorka, "Il Cielo e La Terra", Mondadori 2013
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/06/2013 09:47 | |
Editoriale di "Radicati nella fede" del mese di giugno Non piange più nessuno. Se non ci sono più preti non piange quasi più nessuno. È questa la triste constatazione che ci tocca fare. Assistiamo alla più grande crisi sacerdotale della storia della Chiesa, intere terre in Europa sono ormai senza sacerdote e tutto tace. Non sentirete nemmeno un vescovo gridare all'allarme, piangere con i suoi fedeli, domandare a tutti una grande preghiera per le vocazioni sacerdotali; intimare un digiuno e una grande supplica perché il Signore abbia pietà del suo popolo. Sentirete, questo sì, vescovi e responsabili di curia descrivere i numeri di questo calo vertiginoso di presenza dei preti nella Chiesa, li sentirete elencare i dati pacatamente, troppo pacatamente, in modo distaccato, come se fosse una situazione da accettare così com'è, anzi la chance per una nuova Chiesa più di popolo. Nella nostra terra italiana, terra di antica cristianità, assisteremo in questi prossimi anni alla scomparsa delle parrocchie, allo stravolgimento, impensabile fino a qualche anno fa, della struttura più semplice del Cattolicesimo, di quella trama di comunità parrocchiali dove la vita cristiana era naturale per tutti... ma l'assoluta maggioranza dei cattolici impegnati farà finta di niente, perché i pastori hanno già fatto così. È un “cataclisma”, un “terremoto”... ma nessuno piange, si fa finta di niente. Si fa finta di niente, perché bisogna che la favola della primavera del Concilio continui. Ci si sottrae a qualsiasi verifica storica, si nega l'evidenza di una crisi senza precedenti. E si prepara un futuro che ci sembra poco cattolico. Sì, perché si parla di “ristrutturare” l'assetto delle comunità cristiane, di fare spazio ai laici (come se in questi anni non ne avessero avuto a sufficienza), si inventa un nuovo genere di fedeli cristiani che diventeranno gli addetti delle parrocchie, che di fatto sostituiranno i preti. Fedeli laici “clericalizzati”, un nuovo genere di preti che terranno le chiese... e nell'attesa di una qualche messa predicheranno loro, come cristiani adulti, il Verbo di verità... ...ma nessuno piange, nessuno prega gridando a Dio. Forse non gridano perché da anni qualcuno ha preparato questo terremoto nella Chiesa. Hanno svilito il sacerdozio cattolico, trasformando i preti da uomini di Dio ad operatori sociali delle comunità. Hanno ridotto loro il breviario e la preghiera, gli hanno imposto un abito secolare per essere come tutti, gli hanno detto di aggiornarsi perché il mondo andava avanti... e gli hanno detto di non esagerare la propria importanza, ma di condividere il proprio compito con i fedeli, con tutti. E come colpo di grazia gli hanno dato una messa che è diventata la prova generale del cataclisma nella Chiesa: non più preghiera profonda, non più adorazione di Dio presente, non più unione intima al sacrificio propiziatorio di Cristo in Croce, ma cena santa della comunità. Tutta incentrata sull'uomo e non su Dio, tutta un parlare estenuante per fare catechesi e comunità. Una messa che è tutto un andirivieni di laici sull'altare, prova generale di quell'andirivieni di signori e signore che saranno le nostre ex parrocchie senza prete. E con la messa “mondana”, hanno inculcato la dottrina del sacerdozio universale dei fedeli... stravolgendone il significato. I battezzati sono un popolo sacerdotale in quanto devono offrire se stessi in sacrificio, in unione con Cristo crocifisso, offrire tutta la loro vita con Gesù. I fedeli devono santificarsi: questo è il sacerdozio universale dei battezzati. Ma i fedeli non partecipano al sacerdozio ordinato che è di altra natura, che conforma a Cristo sacerdote. E’ attraverso il sacramento dell’Ordine che Cristo si rende presente nella grazia dei sacramenti. Se non ci fossero più preti sarebbero finite sia la Chiesa che la grazia dei sacramenti. Martin Lutero e il Protestantesimo fecero proprio così: distrussero il sacerdozio cattolico dicendo che tutti sono sacerdoti: sottolineando appunto il sacerdozio universale, il laicato. Nella pratica della ristrutturazione delle parrocchie forse si finirà così: diverso sarebbe stato affrontare questa crisi con nel cuore e nella mente un'alta stima del sacramento dell'ordine, sapendo che il prete è uno dei doni più grandi per la Chiesa e per il popolo tutto; ma così non è: si affronterà questa crisi dopo anni di protestantizzazione e di relativizzazione del compito dei preti. Si affronterà questa crisi dopo anni di confusione totale nella vita del clero; dopo anni di disabitudine alla messa quotidiana e alla dottrina cattolica: così i fedeli faranno senza il prete, anzi già fanno senza. E quando un prete arriverà, non sapranno più che farsene, abituati a credere che il Signore li salva senza di loro e i loro sacramenti. A noi sembra ingiusto far finta di niente. Per questo chiediamo ai nostri fedeli di pregare con forza perché il Signore torni a concedere, come un tempo, tanti sacerdoti alla sua Chiesa. Cari fedeli, in questo mese di giugno, che è il mese delle sacre ordinazioni, abbiamo il coraggio di chiedere, anche con le lacrime, questa grazia al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria. E teniamo come dono preziosissimo la Messa di sempre, la Messa della tradizione, che sola saprà dare nuovi preti alla Chiesa di Dio. Fraternamente CaterinaLD
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15/07/2013 10:48 | |
Lettera di Suor Lucia dos Santos (la veggente di Fatima)ad un Sacerdote Caro padre: Pax Christi! Ho notato nella sua lettera che è molto preoccupato per il disorientamento del tempo presente. È nella verità quanto lei lamenta che tanti si lascino dominare dall’onda diabolica che schiavizza il mondo e si incontrano tanti ciechi che non vedono l’errore. Ma il principale errore è che questi abbandonarono la preghiera, allontanandosi da Dio e senza Dio tutto gli viene meno, perché senza di me non potete fare nulla ( Gv 15,5). Ora, ciò che soprattutto raccomando è che ci si avvicini al Tabernacolo e si faccia orazione. Lì si incontrerà la luce e la forza per nutrirsi e donarsi agli altri. Donarsi con soavità, con umiltà e, nello stesso tempo con fermezza. Perché coloro che esercitano una responsabilità hanno il dovere di tenere la verità nella dovuta considerazione, con serenità, con giustizia, con carità. Per questo hanno bisogno ogni giorno di più pregare, di stare vicino a Dio, di trattare con Dio di tutti i problemi prima di affrontarli con le creature. Continui per questa strada e vedrà che vicino al Tabernacolo troverà più sapienza, più luce, più forza, più grazia e più virtù che giammai potrà incontrare nei libri, negli studi, né presso creatura alcuna. Non giudichi mai perduto il tempo che passa nell’orazione e vedrà come Dio le comunicherà la luce, la forza e la grazia di cui ha bisogno, e anche quello che Dio le chiede. È questo che importa: fare la volontà di Dio, rimanere dove Egli ci vuole e fare ciò che Egli ci chiede. Ma sempre con spirito di umiltà, convinti che da soli non siamo niente e che deve essere Dio a lavorare in noi e servirsi di noi per tutto quello che Lui domanda. Per questo abbiamo tutti bisogno di intensificare molto la nostra vita di interiore unione con Dio e tutto ciò si consegue per mezzo della preghiera. Che a noi manchi il tempo per tutto, meno che per la preghiera, e vedrà come in meno tempo si farà molto! Tutti noi, ma specialmente chi ha una responsabilità, senza la preghiera, o che abitualmente sacrifica la preghiera per le cose materiali è come una penna d’oca di cui ci si serve per sbattere l’albume delle uova, elevando castelli di schiuma che, senza zucchero per sostenerli, in seguito si disgregano e si disfanno trasformandosi in acqua putrida. Per questo Gesù Cristo disse: voi siete il sale della terra, ma se questo perde la forza , a niente altro più serve se non per essere gettato via.E, siccome questa forza solo da Dio possiamo riceverla, abbiamo bisogno di avvicinarci a Lui, perché ce la comunichi e questa vicinanza si realizza solo per mezzo della preghiera, che è il luogo in cui l’anima si incontra direttamente con Dio. Raccomandi questo a tutti i suoi fratelli sacerdoti e lo sperimenteranno. E poi mi dica se mi sono ingannata. Sono ben certa di quale sia il principale male del mondo attuale e la causa del regresso nelle anime consacrate. Ci allontaniamo da Dio, e senza Dio inciampiamo e cadiamo.
Il demonio è astuto per saper qual è il punto debole e attraverso il quale ha da attaccarci. Se non stiamo attenti e non ci premuriamo con la forza di Dio, soccombiamo perché i tempi sono molto cattivi e noi siamo molto deboli. Solo la forza di Dio ci può sostenere. Veda se può portare avanti tutto con calma, confidando sempre in Dio e Lui farà tutto quello che noi non possiamo fare e supplirà alla nostra insufficienza.Sr. Lucia di Gesù e del Cuore Immacolato di Maria
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Pensieri tratti dall'epistolario del Beato Card. Ildefonso Schuster
Sento da più parti, che il Signore desidera una riforma nel Clero e negli Ordini Religiosi. La veste canonica c'è, ma sotto questa veste, talora c'è poco spirito! La vera crisi sta tutta qui. (25 giugno 1945)Gli Ordini Religiosi vivono dei loro ricordi storici. I Seminari di molta parte d'Italia mancano di veri educatori. Si sente il bisogno di vaste riforme, ma bisogna pregare perché Dio ne faccia sentire la necessità ai Supremi Piloti della Nave. Senza di essi, non si fa nulla. (14 ottobre 1945)Purtroppo, di fronte al Comunismo trovasi un Cristianesimo in gran parte svuotato del suo contenuto – Parlo delle masse, e non degli individui -. Il rito e la coreografia hanno il predominio sulla dottrina e sulla vita evangelica. Bisogna anzitutto riportare il Clero allo spirito evangelico, indi la Parrocchia, la Diocesi e la Chiesa, in quanto massa. Sono necessari i Santi. Solo essi comprendono tali problemi e li sentono. Gli altri no. (3 settembre 1950)Il grande errore del secolo, che si infiltra anche nel santuario e nei chiostri, è il naturalismo, che prende il posto del soprannaturale. Quale seduzione! Ecco perché gran parte dell'attività ecclesiastica è scarsa di frutto: “Quod natum ex carne, caro est”. E' carne. E' soprattutto la formazione del giovane clero, che bisogna curare nei seminari e nei noviziati dei Regolari; specialmente in questi ultimi. Molti Ordini sono divenuti innanzi a Dio alberi sterili: rami e foglie, senza frutto per il Signore. (20 ottobre 1950)L'atmosfera di Dio è quella della Fede, della grazia, dell'orazione, mentre ora, anche i Religiosi, preferiscono un'atmosfera di razionalità, di attivismo, di accomodamento allo spirito del secolo. (2 novembre 1953)La Madonna piange anche sul Santuario, e sui Chiostri. Si ragiona troppo, e si vive poco di Fede. All'ubbidienza ecclesiastica e religiosa, sottentra il culto della personalità. Alla mortificazione sacerdotale e cristiana, succede uno spirito edonistico, che è affatto nemico alla Croce di Cristo. Anche il clero va secolarizzandosi nello spirito. Sono cose che mi fanno paura. (22 febbraio 1954)[...] penso che la S. Chiesa abbia bisogno d'un aggiornamento a base di vita interiore nello spirito del S. Vangelo. La diplomazia, il ritualismo, il giurismo nascondono molto vuoto, ed il mondo se ne accorge. Strascichi serici, croci auree non convertono più nessuno. (15 maggio 1954)
[Modificato da Caterina63 15/07/2013 12:07] Fraternamente CaterinaLD
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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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28/08/2013 10:02 | |
7 aprile, 2013 Papa Francesco è il papa di tutti, assolutamente sbagliato tirarlo per la giacchetta per avvicinarlo alle proprie convinzioni e punti di vista. Per questo ci sembra utile replicare a chi continua ad assimilare Bergoglio al card. Carlo Maria Martini, come ha fatto ultimamente il segretario del compianto cardinale, mons. Damiano Modena. Estremisti del Fatto Quotidiano, come Gianni Barbacetto e Salvatore Cannavò, hanno tristemente esultato per la mancata elezione al soglio pontificio del card. Angelo Scola, di area ciellina, e per la vittoria di un cardinale vicino all’ex arcivescovo di Milano, Martini. Non vorremmo interrompere i festeggiamenti di questi improvvisati intellettuali, ma la verità è che Papa Francesco è lontano anni luce dal card. Martini, personalità convintamente cattolica diventata sua malgrado un riferimento per i nemici della Chiesa e che ha a sua volta generato figli spirituali, come Vito Mancuso e Ignazio Marino, osannati come riferimenti dal laicismo. Martini è oggi una luce per tutti coloro che desiderano protestantizzare la fede cattolica, rendendola personalizzata, sentimentale e fai-da-te, ovvero secolarizzata. Una fede debole e facile da perdere e questo spiega l’interessamento interessato del laicismo a divulgare nei cattolici (portandoli, così, ad essere “cattolici adulti”) l’apprezzamento per Martini e per i teologi martiniani. Le differenze più notevoli tra Papa Francesco e il card. Carlo Maria Martini sono sulle tematiche bioetiche, sulla visione delle tematiche interne alla Chiesa, e sulla vicinanza ai movimenti ecclesiali, in particolare quello di Comunione e Liberazione. Rispetto alla libertà d’educazione, il card. Bergoglio ha detto: «lo Stato e le autorità pubbliche devono sostenere le scuole cattoliche, la cui identità culturale si radica in Gesù Cristo, e favorire la loro profetica opzione educativa». Lo stesso fece il card. Martini, in un discorso davvero intelligente e utile del 2001, difendendo la parità scolastica e la sussidiarietà, contrastando la statalismo comunista. La stessa uguaglianza di vedute non la si ha sul celibato dei sacerdoti: il card. Bergoglio ha detto chiaramente che «sono a favore del mantenimento del celibato, con tutti i pro e i contro che comporta, perché sono dieci secoli di esperienze positive più che di errori». Il card. Martini, invece, proponeva di sottoporre a «ripensamento l’obbligo di celibato dei sacerdoti come forma di vita» a causa dello scandalo pedofilia, una posizione errata, come abbiamo già avuto modo di mostrare, ripresa di recente dall’anticlericale Dario Fo. Nel caso del sacerdozio femminile, papa Francesco ha spiegato che «la donna ha un’altra funzione, che si riflette nella figura di Maria». Ha anche criticato il femminismo, il quale «pone le donne su un piano di lotta rivendicativa, mentre la donna è molto più di questo». Martini commentò il “no” definitivo di Wojtyla al sacerdozio femminile dicendo: «nella storia della Chiesa primitiva però ci sono state le diaconesse: possiamo valutare a questa possibilità». Più recentemente ha invece cambiato idea: «Riconosco che le suore sono utilissime nell’ambito parrocchiale e meritano un maggior riconoscimento, ma ciò non vuol dire che esse possano sostituire in tutto i presbiteri». Papa Francesco ha una visione netta e contraria alla cultura della morte, che predica un concezione utilitaristica della vita, per la quale «l’esistenza umana interessa solo nella misura in cui sia sfruttabile o possa apparire utile», Martini si opponeva anch’egli all’eutanasia definendola «un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte. Come tale è inaccettabile», tuttavia si è sempre mostrato abbastanza glaciale e disinteressato rispetto ai volontari che difendono la vita (d’altra parte ha scritto un libro assieme ad Ignazio Marino!). Rispetto all’aborto Martini invitava la donna a seguire «la sua coscienza, anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare», mentre Bergoglio ha preso posizione in modo più netto: «dobbiamo ascoltare, accompagnare e capire dal posto dove ci troviamo, per salvare le due vite: rispettare l’essere umano più piccolo e indifeso, adottare misure che possano preservare la sua vita, permettere la sua nascita ed essere creativi nella ricerca dei sentieri che portino al suo pieno sviluppo». Forti differenze di posizione anche sulle unioni, adozioni e matrimoni omosessuali, Martini aprì alle unioni civili ma chiuse al matrimonio omosessuale, spiegando in modo abbastanza tiepido che «la coppia omosessuale, in quanto tale, non potrà mai essere equiparata in tutto al matrimonio e d’altra parte non credo che la coppia eterosessuale e il matrimonio debbano essere difesi o puntellati con mezzi straordinari». Il card. Bergoglio, quand’era arcivescovo argentino, contrastò duramente la legge sulle nozze gay scrivendo: «Il popolo argentino dovrà affrontare, nelle prossime settimane, una situazione il cui esito può ferire gravemente la famiglia. Si tratta del disegno di legge sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. [...] È in gioco l’identità e la sopravvivenza della famiglia: padre, madre e figli. È in gioco la vita di tanti bambini che saranno discriminati in anticipo, privandoli della maturazione umana che Dio ha voluto che si desse con un padre e una madre. È in gioco un rigetto frontale della legge di Dio, per di più incisa nei nostri cuori. [...] Non siamo ingenui: non si tratta di una semplice lotta politica; [...] bensì di una mossa del Padre della Menzogna che pretende di confondere e ingannare i figli di Dio». Altre notevoli lontananze di vedute, come dicevamo, riguardano uno dei principali movimenti ecclesiali, ovvero Comunione e Liberazione (CL), nato nella diocesi guidata anche da Martini. Un movimento di cui abbiamo stima, come per tante altre realtà cattoliche, per la vivacità e la capacità di presenza intelligente nel dibattito pubblico. Nonostante quel che si dice, anche il card. Martini ebbe sempre un giudizio positivo su CL: don Gerolamo Castiglioni, assistente ecclesiastico di Comunione e Liberazione in diocesi di Milano dal 1985 al 2000 e collaboratore per vent’anni di Martini, ha affermato: «Ricordo quando disse a un raduno di suore che don Giussani era un santo. O quando contro il rischio della solitudine dei preti citava realtà come lo Studium Christi, un gruppo di sacerdoti del movimento di CL a cui lui fece anche visita. Stimava l’esperienza dei Memores Domini. Insomma, non lo sentii mai criticare don Giussani, anche se non capiva certe opere o le comunità d’ambiente». Un opinione diversa è quella dello scrittore Antonio Socci, vicino all’esperienza di CL, il quale ha spiegato che, con il card. Martini vi fu un «tentativo di omologazione e di emarginazione dell’esperienza di CL». Tuttavia Julián Carrón, successore di Giussani alla guida del movimento, alla morte di Martini lo ha ringraziato «per aver accettato con vera paternità di pastore che il movimento vivesse nella diocesi di Milano, segno per don Giussani di carità suprema». Maggiore e pubblicamente dichiarata, invece, la vicinanza di Papa Francesco a Comunione e Liberazione, in particolare grazie alla forte amicizia dell’allora arcivescovo di Buenos Aires con don Giacomo Tantardini, guida spirituale di Comunione e Liberazione a Roma. Tanto che, l’unico scritto del futuro pontefice apparso in Italia venne pubblicato su una rivista vicina a CL, “30 giorni”, in memoria della morte del “suo amico” don Tantardini. Inoltre, si è anche saputo che poche ore dopo la sua elezione al soglio pontificio, Papa Francesco ha chiamato Gianni Valente e Stefania Falasca, marito e moglie, due ex-giornalisti di 30Giorni, ciellini entrambi. Su Italia Oggi sono stati presi in giro i vaticanisti anti-cielle (che tristezza queste divisioni ideologiche nel mondo cattolico!), come Marco Politi: «gli improvvisati soloni che si ritengono ormai perfetti conoscitori del ministero petrino, essendo attentissimi a discernere correnti, cordate, sensibilità, in modo molto più sofisticato che nelle vecchie categorie di progressisti e conservatori, si sono affrettati a osservare che Papa Francesco è pure un gesuita, ergo martiniano di ferro (nel senso di cardinal Carlo Maria Martini), ergo anticiellino per definizione». La vicinanza del Papa a CL è spiegata anche dal grande sviluppo che il movimento di don Giussani sta conoscendo in Sud America, particolarmente in Brasile, dove cresce a ritmi impressionanti facendo argine al dilagare delle sette protestanti. Il 27 aprile 2001 Bergoglio volle presentare pubblicamente a Bueons Aires un libro di don Giussani, “L’attrattiva Gesù”. Lo aveva già fatto nel 1999 con un altro suo libro, “Il senso religioso”. In quest’occasione disse: «Ho accettato di presentare questo libro di don Giussani per due ragioni. La prima, più personale, è il bene che negli ultimi dieci anni quest’uomo ha fatto a me, alla mia vita di sacerdote, attraverso la lettura dei suoi libri e dei suoi articoli. La seconda ragione è che sono convinto che il suo pensiero è profondamente umano e giunge fino al più intimo dell’anelito dell’uomo». Don Giussani volle ringraziarlo con un messaggio, in cui scrisse: «Ci sia maestro e padre, Eminenza, come sento raccontare dai miei amici di Buenos Aires, grati alla Sua persona e obbedienti come a Gesù». Insomma, smettiamo di etichettare Papa Francesco, anche perché sono etichette sempre sbagliate. Men che meno continuare a definirlo progressista, di destra, di sinistra, martiniano o mancusiano. Avviciniamoci noi a lui, senza voler tirare lui vicino a noi! Fraternamente CaterinaLD
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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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23/09/2013 12:37 | |
Uomo, riscopri la tua vera identità23.09.2013 11:47
Continuando a dar voce ad alcune e-mail ricevute, proseguiamo con altre due che in sostanza chiedono e riflettono gli stessi problemi, così da darci modo di evadere il tutto in una unica risposta che possa aiutare tutti noi ad attenti approfondimenti e sano discernimento. ecco le due e-mail: 1) Approfitto di questa mail per aggiungere un'osservazione che mi è venuta in mente in questi giorni: forse tutto il dibattito sull'omosessualità è inficiato da un'erronea visione del sesso che coinvolge anche molti cattolici? Me lo chiedo perchè, al giorno d'oggi, tutti sembrano dare per scontato che le pulsioni sessuali siano cosa buona e giusta, da accogliere e assecondare: "Il sesso fa bene alla salute", "Le pulsioni vanno sfogate, non represse, sennò ci si pervertisce", "Una soddisfacente attività sessuale, anche da anziani, è fondamentale nella coppia", "bisogna assecondare la propria natura"... ecc. ecc. Siamo stati tutti cresciuti (almeno quelli della mia generazione) con queste idee, trasmesseci da riviste e programmi Tv. Però, leggendo soprattutto San Paolo, non mi pare proprio che la visione cristiana del sesso sia in questi termini. Mi sembra che Paolo faccia continuamente riferimento ai desideri e alle opere della carne come a qualcosa di negativo, da combattere, per far sì che cresca in noi, giorno dopo giorno, l'uomo spirituale a scapito di quello carnale. Paolo raccomanda la continenza, e ammette il matrimonio solo per chi non riesce a vivere in tale stato. Però, anche per i coniugi, raccomanda che il talamo sia senza macchia, che mi pare sia sempre stato interpretato come un invito a non eccedere nell'attività sessuale. Mi pare che per Paolo l'unione carnale sia legittima solo nella misura in cui è funzionale alla procreazione. Almeno così mi sembra che la interpreti sant'Agostino ne "La dignità del matrimonio", dove afferma che i figli sono l'unico frutto onesto del matrimonio, e che l'amplesso tra coniugi fatto senza l'intento di procreare è peccato, veniale ma pur sempre peccato. Ora, se accettiamo che le pulsioni sessuali non sono buone se non nella misura in cui sono funzionali alla procreazione (che poi la coppia sia sterile non importa, l'importante è che l'atto sia procreativo, genitale), e che quindi, anche tra coniugi, è preferibile astenersi quando possibile, possiamo chiaramente respingere qualunque pretesa di equiparazione tra eterosessualità e omosessualità, in quanto tra due uomini e due donne non è mai possibile un atto di tipo procreativo. Ma se accettiamo che il sesso è un bene in sè a prescindere dalla procreazione, come fanno anche tanti, troppi cattolici, diventa molto più difficile negare legittimità ai rapporti gay rispetto a quello eterosessuali. Che ne pensa? seconda e-mail: 2) ... facendo riferimento così all'ultimo articolo da voi postato sul problema dell'omosessualità, mi interesserebbe comprendere, o avere di che riflettere, sulla corretta interpretazione di quanto scrive san Paolo sul Matrimonio e di come la pensa davvero Papa Francesco. Grazie. *** Proviamo a fare discernimento più che a dare delle risposte come si usa fare oggi, rischiando di soggettivare la Scrittura stessa, come abbiamo visto nell'articolo precedente, a seconda delle mode del momento, o come quella di attribuire al Pontefice di turno di tutto e di più di ciò che non dice affatto. (raccomandiamo anche questo articolo: Il dramma del femminismo e la soppressione della paternità ) Rispondiamo perciò volentieri ringraziando le due e-mail per queste domande e approfondimenti, un segno tangibile della reale preoccupazione che dovrebbe sollecitare tutti ad approfondire certi temi, con serenità e con la bellezza della Scrittura insieme alla nostra santa Tradizione magisteriale, pontificia. Si potrebbe già chiudere qui la risposta perchè quanto scrive soprattutto la prima e-mail è tutto vero e come vediamo abbiamo una coscienza che se ordinata alla corretta interpretazione del nostro corpo (con tutti gli organi annessi), porta in modo del tutto naturale a comprendere gli errori attuali mentre, come Voi stessi avete intuito, per far diventare ciò che è sbagliato una verità, è necessario capovolgere il nostro stesso umanesimo, capovolgere o re-inventarsi una nuova antropologia. Non è più l'uomo al centro, ma i suoi organi, il sesso, quel cedere alla carne ripetuto spesso da San Paolo. La legge naturale scritta dentro di noi, immessa nel nostro DNA dal Dio Creatore, non attende altro che essere svelata (=perchè offuscata dal Peccato Originale, se si nega questo, si negano tutte le altre conseguenze, anche sessuali), e il paradosso che stiamo vivendo è che alla fine si fa più fatica a negare, mediante contorsioni interpretativi, che a credere correttamente ciò che più semplicemente si legge nella Scrittura. C'è la bellissima espressione di San Paolo ai Corinzi: "Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro. Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere" (1Cor.7,7-9). Paolo parlando della condizione da vivere avrebbe desiderato che molti si fossero astenuti dai piaceri della carne come lui - quindi è assai probabile che San Paolo fosse celibe e non sposato come pretenderebbe una certa esegesi modernista - "ma ciascuno ha il proprio dono da Dio" è la vocazione che, come è stato già detto qui si esplica nei due Sacramenti ben distinti: Matrimonio e Ordine Sacro, ma se vogliamo possiamo unirci la Consacrazione per le donne negli ordini monastici e religiosi, che non è un Sacramento ma gli impegni assunti sono sulla stessa lunghezza d'onda, sono quel "ciascuno ha il proprio dono da Dio", come quando anche un medico deve fare una sorta di "giuramento" che conosciamo come il "Giuramento di Ippocrate" il quale, venuto meno anche questo, sta deformando la stessa professionalità dei medici i quali infatti, chiamati a salvare vite umane, sono finiti per uccidere la vita umana fin dal suo concepimento, o ad ergersi addirittura padroni della morte con la maschera dell'eutanasia. Il punto è che ogni lavoro dell'uomo, se ben inteso correttamente, è una vocazione e quando viene meno questa espressione, o svuotata la vocazione del suo contenuto trascendentale che è la vera dignità che investe l'uomo, si generano le aberrazioni. San Paolo, dunque, si dice anche preoccupato per certe situazioni familiari - nulla di nuovo a quanto pare - e riconosce la legittimità della separazione, ma non del divorzio, separarsi non è un ripudiare ma un tempo di riflessione durante il quale gli sposi dovranno occuparsi delle proprie anime e non dei corpi. Inoltre per San Paolo la motivazione della separazione è ben altra che quella a cui si ricorre oggi, dice: "Ma se il non credente vuol separarsi, si separi", quindi non è consentito neppure al credente di separarsi quando vuole perchè, spiega: " E che sai tu, donna, se salverai il marito? O che ne sai tu, uomo, se salverai la moglie?" salvarsi da che cosa? per questo poco prima Paolo riprendendo le parole del Signore Gesù, in Matteo 19, dice con severo monito: " Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito - e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la moglie..." (sempre 1Cor. cap.7). Insomma, da San Paolo stesso apprendiamo che il valore dell'unione tra un uomo e una donna prevede certamente due consolazioni unite ed inseparabili: agire per essere collaboratori di Dio nella procreazione e la consolazione, senza alcun dubbio, data dall'unione sponsale (e non sessuale) nella quale il sesso è uno strumento anche di piacere, non lo mettiamo in dubbio, ma per un fine e non già il fine. Il sesso è perciò uno strumento, piacevole, per mettere al mondo i figli e dove il parto non è mai facile, ricordiamo le parole drammatiche della Genesi 3,16 "Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». In cosa consiste questa "dominazione"? Se fosse esclusivamente una questione materiale, dalla quale la donna non può sottrarsi, avremmo davvero un Dio implacabile e la donna sarebbe senza alcuna via d'uscita. Innanzi tutto Dio stesso spiega la vera natura di questo rapporto quando "trae dall'uomo la donna", l'uomo viene creato dalla terra, ma la donna è tratta dall'uomo: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta». Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne...." (Gn.2,18-24) Ma ce n'è anche per l'uomo. Quando Pietro chiede a Gesù: "«Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» (Mc.10,28-30). A chi rinuncia alla sessualità carnale - ad avere una famiglia propria, figli, ecc - per dedicarsi ad una paternità spirituale, ad una maternità spirituale, a quel "farsi eunuchi per il regno dei cieli (cf.Mt.19) ecco che il Signore promette il centuplo, e promette un godimento (=estasi) eterno, senza fine. Non è un caso se Paolo arriva a dire parole sublimi come queste: "Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire dav anti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito" (Efes.5,22-33). Il vero prete conta molto su questa promessa! Egli risponde ad una vocazione, certo, ma il seguire poi Cristo restandoGli fedele, sposando misticamente la Chiesa e vivendo senza cercarne altre di "spose" o donne, diventa un atto di volontà quotidiano che va coltivato, custodito, protetto, salvaguardato e supplicato ogni giorno perchè il rischio di cadere e di perdere c'è sempre. E questo vale sia per i Preti quanto per i Consacrati, quanto per gli Sposi. I due Sacramenti fanno parte di quell'unico pacchetto - i 7 Sacramenti - che si prende o tutto intero, integralmente, o non se ne fa nulla, così come a ragione ha scritto Benedetto XVI nella Sacramentum Caritatis: "La Chiesa si riceve e insieme si esprime nei sette Sacramenti, attraverso i quali la grazia di Dio influenza concretamente l'esistenza dei fedeli affinché tutta la vita, redenta da Cristo, diventi culto gradito a Dio" Come possiamo notare, il vero nocciolo di un dialogo fruttuoso non è il sesso in sè ma tutto ciò che ruota attorno alla vera felicità la quale, per altro: "non è di questo mondo", l'uomo infatti, a causa del Peccato Originale, è infelice, e ciò è dovuto al fatto che egli nasce con il peccato, cioè incline a peccare e peccando muore (cf. Rom. 6,23) per cui egli è un essere spiritualmente morto, che va cercando altrove l'appagamento che altro poi non è che un surrogato, un palliativo e pure un effetto placebo. E' opportuno riportare questo esempio: la pistola, l'arma. Certo che fa male e uccide, ma se usata a dovere - vediamo le forze dell'ordine - essa è uno strumento che ci difende, difende la comunità anche se ci auguriamo sempre di non doverla sentire sparare, non è bello, ma non è bello neppure vedere trucidare le persone senza poter fare nulla - la difesa per altro è un diritto di Cesare e di ogni uomo, sancito dalla Scrittura, il porgere l'altra guancia invece riguarda le offese personali per le quali non rispondiamo ma porgiamo appunto l'altra guancia -, e come potrebbero le guardie far prevalere la loro autorevolezza senza uno strumento di efficace soggezione? Quindi la pistola, se nelle mani giuste, potrebbe non sparare mai e se spara lo fa per difendere la collettività. E potremmo portare l'esempio del computer, dell'uso di internet, ecc.. Il sesso, ed altri strumenti in uso all'uomo, sono appunto strumenti per raggiungere uno scopo e se usati bene, se nelle mani giuste, producono effetti positivi, diversamente si compiono stragi, si sparge dolore, morte, offesa, violenza, sopraffazione, sterilità. Non dipende perciò dagli strumenti, ma dall'uso che la nostra coscienza vuole farne. Viene strumentalizzata la pistola quando si fanno le rapine, così come si strumentalizza il sesso quando lo si usa in modo scorretto, non naturale, non per lo scopo per il quale esiste. Usare il sesso in modo errato è commettere una rapina. Per carità, non mettiamo tutto sullo stesso piano, questo è solo un esempio, esistono infatti peccati veniali e peccati mortali, uccidere una persona è un peccato mortale, a prescindere dall'arma usata, ma anche l'adulterio è parte del sesto Comandamento anche se non uccide il corpo può, infatti, far morire l'anima. Un conto poi è la legittima difesa provata, altra cosa è la sopraffazione del più forte. Così come l'aborto è un grave peccato mortale ma più grave è la responsabilità della donna o la coppia consenziente che lo pianifica, così come più grave è il peccato commesso da persone che si attivano per uccidere concepiti altrui - leggasi i medici senza scrupoli -, più grave è il coinvolgimento della volontà perversa di queste persone che sfruttano la debolezza di quelle donne che abortiscono, per esempio, perchè costrette con la forza, o per ignoranza, o per disagio sociale come alcool e droga e pure violenza carnale. Insomma, la giustizia Divina tiene conto di tutto, ma questo non legittima l'uomo a farsi giustizia da sè o a giustificare le proprie scelte sbagliate. Come si evince dallo sviluppo di queste risposte, rinchiudere il problema esclusivamente al sesso è un errore che rischia spesso di inficiare piuttosto la bellezza della dottrina a riguardo dei nostri comportamenti verso il prossimo che siamo chiamati ad amare e non ad usare o abusare. Tanto per usare correttamente un altro verso della Scrittura, l'uomo è tenuto stretto dalle funi del suo peccato (cf. Prov. 5,22), ed ha bisogno che "Qualcuno" rompa queste funi. Senza dubbio e come ci rammenta Genesi: "tutto ciò che Dio ha creato è buono" era buono, il Peccato Originale ha interrotto la naturalezza della creazione facendoci piombare nelle tenebre delle cose di Dio, delle cose che ci riguardano. Il sesso non era "un problema" o materia di discussione quando Dio creò l'uomo e lo pose nell'Eden, o almeno non lo era così come lo si evince oggi. Così come attualissime sono le parole di San Paolo:«Tutto mi è lecito!». Ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Ma io non mi lascerò dominare da nulla" (1Cor.6,12). Questa è la vera libertà che porta all'autentica felicità e all'uso corretto di ogni strumento che Dio ci ha donato. Nella Deus Caritas est Benedetto XVI fa un ottima esegesi a riguardo del vero Amore e dell'eros, il passo è un pò lungo, ma Vi invitiamo a leggerlo integralmente, è al primo capitolo. Interessante quest'altro passo della stessa enciclica: "Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L'eros degradato a puro « sesso » diventa merce, una semplice « cosa » che si può comprare e vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì dell'uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L'apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l'uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l'eros vuole sollevarci « in estasi » verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni". Come possiamo rispondere noi a questi problemi così ingigantiti dal favore dei Cesari odierni che stanno legittimando ed imponendo una devastazione antropologica? Con pazienza e verità, e con questa virtù diffondere ragionevolmente la verità sul nostro umanesimo, sul chi siamo, perchè viviamo, nasciamo e moriamo, dove siamo diretti e a cosa servono gli organi chiamati appunto "genitali" che la scienza stessa chiama "produttivi-riproduttivi" e poi comportarci con coscienza coerentemente perchè, diciamoci la verità, il danno maggiore che stiamo vivendo è l'incoerenza di tanti che dicendosi cristiani e pure cattolici di fatto hanno disatteso la loro stessa natura per rincorrere una felicità fittizia, carnale, temporale, dimenticando quel monito che echeggia in Quaresima: ricordati che sei polvere e che polvere ritornerai, ma l'anima sopravvive prima della risurrezione dei corpi che avverrà nel giorno del Giudizio Universale, e riceverà subito da Dio ciò che ha vissuto, ciò che avrà scelto, sulla terra. E' bene per noi chiudere queste riflessioni, rimandando alle recenti parole di Papa Francesco ai Medici Cattolici ricevuti in Udienza il 20 settembre 2013, così anche per sfatare le menzogne mediatiche di questi giorni che attribuiscono al Santo Padre l'abbandono della vera dottrina, dice il Papa: " Invece, come ci ricorda l’Enciclica Caritas in veritate, «l’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo”. Non c’è vero sviluppo senza questa apertura alla vita (...) la Chiesa fa appello alle coscienze, alle coscienze di tutti i professionisti e i volontari della sanità, in maniera particolare di voi ginecologi, chiamati a collaborare alla nascita di nuove vite umane. La vostra è una singolare vocazione e missione, che necessita di studio, di coscienza e di umanità. Un tempo, le donne che aiutavano nel parto le chiamavamo “comadre”: è come una madre con l’altra, con la vera madre. Anche voi siete “comadri” e “compadri”, anche voi. Una diffusa mentalità dell’utile, la “cultura dello scarto”, che oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti, ha un altissimo costo: richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli. La nostra risposta a questa mentalità è un “sì” deciso e senza tentennamenti alla vita. «Il primo diritto di una persona umana è la sua vita. Essa ha altri beni e alcuni di essi sono più preziosi; ma è quello il bene fondamentale, condizione per tutti gli altri» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’aborto procurato, 18 novembre 1974, 11). Le cose hanno un prezzo e sono vendibili, ma le persone hanno una dignità, valgono più delle cose e non hanno prezzo..." Come si legge chiaramente, il Santo Padre Francesco nel riportare un noto e chiaro Documento, ribadisce la dottrina della Chiesa che la vita umana fin dal suo concepimento è quella condizione fondamentale dalla quale poi derivano tutti gli altri veri diritti che l'uomo rivendica per la sua sussistenza, quali il lavoro, la salute, ecc. Beni legati al bene stesso della società e non presunti beni associati alle proprie voglie. C'è invece oggi la grave tentazione di perseguire, legittimare, trasformare - imponendo - tutto ciò che l'egoismo ritiene un bene, diversamente da ciò che siamo chiamati invece a perseguire e che il vero Bene. Così come è stato taciuto il Messaggio Pontificio di Papa Francesco ai Vescovi per la 47° Settimana sociale dei Cattolici, 11 settembre 2013, nel quale dice: " Anzitutto come Chiesa offriamo una concezione della famiglia, che è quella del Libro della Genesi, dell’unità nella differenza tra uomo e donna, e della sua fecondità. In questa realtà, inoltre, riconosciamo un bene per tutti, la prima società naturale, come recepito anche nella Costituzione della Repubblica Italiana. Infine, vogliamo riaffermare che la famiglia così intesa rimane il primo e principale soggetto costruttore della società e di un’economia a misura d’uomo, e come tale merita di essere fattivamente sostenuta. Le conseguenze, positive o negative, delle scelte di carattere culturale, anzitutto, e politico riguardanti la famiglia toccano i diversi ambiti della vita di una società e di un Paese: dal problema demografico – che è grave per tutto il continente europeo e in modo particolare per l’Italia – alle altre questioni relative al lavoro e all’economia in generale, alla crescita dei figli, fino a quelle che riguardano la stessa visione antropologica che è alla base della nostra civiltà (cfr Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 44). Queste riflessioni non interessano solamente i credenti ma tutte le persone di buona volontà, tutti coloro che hanno a cuore il bene comune del Paese, proprio come avviene per i problemi dell’ecologia ambientale, che può molto aiutare a comprendere quelli dell’"ecologia umana" (cfr Id, Discorso al Bundestag, Berlino, 22 settembre 2011). La famiglia è scuola privilegiata di generosità, di condivisione, di responsabilità, scuola che educa a superare una certa mentalità individualistica che si è fatta strada nelle nostre società. Sostenere e promuovere le famiglie, valorizzandone il ruolo fondamentale e centrale, è operare per uno sviluppo equo e solidale". Diffidiamo pertanto di ciò che i Media riportano falsificando le parole del Papa e sollecitiamoci ad andare a leggere i testi ufficiali ed integralmente. Diffidiamo di coloro che, preti, vescovi o professori qual fossero, propongono distorsioni nell'interpretazione della Scrittura. "Nos cum prole pia, benedicat Virgo Maria" (noi, con tutti i figli devoti, ci benedica la Vergine Maria) ***
[Modificato da Caterina63 23/09/2013 13:49] Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/10/2013 11:51 | |
ANGELUS Piazza San Pietro Domenica, 6 ottobre 2013 Video
Cari fratelli e sorelle................
DOPO L’ANGELUS Cari fratelli e sorelle, ieri, a Modena, è stato proclamato Beato Rolando Rivi, un seminarista di quella terra, l’Emilia, ucciso nel 1945, quando aveva 14 anni, in odio alla sua fede, colpevole solo di indossare la veste talare in quel periodo di violenza scatenata contro il clero, che alzava la voce a condannare in nome di Dio gli eccidi dell’immediato dopoguerra. Ma la fede in Gesù vince lo spirito del mondo! Rendiamo grazie a Dio per questo giovane martire, eroico testimone del Vangelo. E quanti giovani di 14 anni, oggi, hanno davanti agli occhi questo esempio: un giovane coraggioso, che sapeva dove doveva andare, conosceva l’amore di Gesù nel suo cuore e ha dato la vita per Lui. Un bell’esempio per i giovani! A tutti auguro una buona domenica. ***********************************Tratto dall’Osservatore Romano – Una delle più dolorose pagine della storia italiana recente, a pochi giorni dalla fine del secondo conflitto mondiale, fu la barbara uccisione del quattordicenne Rolando Rivi (1931-1945). Un ragazzo che preferì morire per «onorare e difendere la sua identità di seminarista».
Per questo, il suo martirio per la fede è «una lezione di esistenza evangelica». All’odio dei suoi carnefici, infatti, rispose «con la mitezza dei martiri, che inermi offrono la vita perdonando e pregando per i loro persecutori». È quasi commosso il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, quando durante il rito di beatificazione del giovane Rivi – presieduto in rappresentanza di Papa Francesco, sabato pomeriggio, 5 ottobre, a Modena – racconta i drammatici e ultimi giorni di vita del nuovo beato. «Era – ha sottolineato il porporato – troppo piccolo per avere nemici, erano gli altri che lo consideravano un nemico. Per lui tutti erano fratelli e sorelle. Egli non seguiva una ideologia di sangue e di morte, ma professava il Vangelo della vita e della carità». Nonostante fosse ancora un bambino, Rolando aveva già ben compreso il messaggio del Vangelo: «Amare non solo i genitori e i fratelli, ma anche i nemici, fare del bene a chi lo odiava e benedire chi lo malediceva».
Celebrare il martirio del piccolo Rolando, ha detto il cardinale, è anche un’occasione per «gridare forte: mai più odio fratricida, perché il vero cristiano non odia nessuno, non combatte nessuno, non fa male a nessuno. L’unica legge del cristiano è l’amore di Dio e l’amore del prossimo». Infatti, le ideologie umane «crollano, ma il Vangelo dell’amore non tramonta mai perché è una buona notizia». E la beatificazione di Rivi è «una buona notizia per tutti. Di fronte alla sua bontà e alla sua gioia di vivere, siamo qui riuniti per piangere sì il suo sacrificio, ma soprattutto per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male, della carità sull’odio». Fin da piccolo, Rolando aveva un sogno: quello di diventare sacerdote. A undici anni entrò in seminario, come ha ricordato il porporato, e come si usava allora, indossò la veste talare, che da quel giorno «diventò la sua divisa». La portava «con orgoglio. Era il segno visibile del suo amore sconfinato a Gesù e della sua totale appartenenza alla Chiesa. Non si vergognava della sua piccola talare. Ne era fiero», tanto che la portava in seminario, in campagna, in casa. «Era il suo tesoro da custodire gelosamente – ha aggiunto – era il distintivo della sua scelta di vita, che tutti potevano vedere e capire». A causa della guerra, molti consigliavano a Rolando di togliersi la talare, perché era pericoloso indossarla, visto il clima di odio contro il clero. Davanti ai timori anche dei familiari, Rolando rispondeva: «Non posso, non devo togliermi la veste. Io non ho paura, io sono orgoglioso di portarla. Non posso nascondermi. Io sono del Signore».
Ma il 10 aprile 1945, dei partigiani «imbottiti di odio e indottrinati a combattere il cristianesimo», catturarono Rolando. Il ragazzo, ha ricordato il porporato, venne «spogliato, insultato e seviziato con percosse e cinghiate per ottenere l’ammissione di una improbabile attività spionistica». Dopo tre giorni di sequestro, «con una procedura arbitraria e a insaputa dei capi, il 13 aprile 1945, il ragazzo fu prima barbaramente mutilato e poi assassinato con due colpi di pistola, uno alla tempia sinistra e l’altro al cuore». Dal sacrificio di Rolando, ha aggiunto il porporato, vengono quattro consegne per tutti noi: perdono, fortezza, servizio e pace. In modo particolare, ha concluso, egli «si rivolge ai seminaristi d’Italia e del mondo, esortandoli a rimanere fedeli a Gesù, a essere fieri della loro vocazione sacerdotale e a testimoniarla senza rispetto umano, con gioia, serenità e carità». Leggi di Più: Rolando Rivi è beato. «È la vittoria della vita sulla morte» | Tempi.it Fraternamente CaterinaLD
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31/10/2013 12:22 | |
VaticanoIl sacramento dell’ordine negli studi di Joseph Ratzinger. Oltre la crisi verso il rinnovamentoL'Osservatore RomanoPastore e teologo. Anticipiamo stralci della relazione che l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, tiene nel pomeriggio del 30 ottobre a Palermo, nella Facoltà Teologica di Sicilia San Giovanni evangelista, nell’incontro «Joseph Ratzinger pastore e teologo». Nell’occasione viene presentato il volume dodicesimo dell’opera omnia di Ratzinger Annunciatori della Parola e servitori della vostra gioia. Teologia e spiritualità del Sacramento dell’Ordine curato dallo stesso arcivescovo (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pagine 990).(Gerhard Ludwig Muller) Se Cristo, per mezzo della sua risurrezione, ha superato la più grande crisi mai esistita della fede — la crisi pre-pasquale dei discepoli — e, in particolare, la crisi della missione e della potestà apostolica, e dunque anche del sacerdozio cattolico, allora, è proprio e soltanto nel nostro sguardo rivolto al Signore che è possibile superare anche tutte le crisi storiche del sacerdozio.Corrispondendo al suo sguardo su di noi e sul nostro sacerdozio, con il nostro sguardo rivolto a Lui, fissando i nostri occhi in quelli del Sommo sacerdote, crocifisso e risorto, possiamo superare ogni ostacolo e difficoltà. Penso in particolare alla crisi della dottrina del sacerdozio, avvenuta durante la Riforma protestante, una crisi a livello dogmatico, con cui il sacerdote è stato ridotto a un mero rappresentante della comunità, mediante una eliminazione della differenza essenziale fra il sacerdozio ordinato e quello comune di tutti i fedeli. E poi alla crisi esistenziale e spirituale, avvenuta nella seconda metà del XX secolo ed esplosa dopo il concilio Vaticano II, delle cui conseguenze noi oggi ancora soffriamo. Joseph Ratzinger, nell’ampio volume Annunciatori della Parola e servitori della vostra gioia — il dodicesimo dell’opera omnia — ha suggerito un superamento di queste crisi con una proposta ad alto livello teologico, donandoci una guida per favorire un rinnovamento del sacerdozio sacramentale istituito da Cristo.Gli studi scientifici, le meditazioni e le omelie sul servizio episcopale, presbiterale/sacerdotale e diaconale, contenute in questo volume, abbracciano un lasso di tempo di quasi cinquant’anni, a partire dagli anni immediatamente precedenti l’inizio del Vaticano II. A questo avvenimento, che è stato quello che più ha segnato la storia recente della Chiesa, molti associano, a seconda della rispettiva posizione, l’inizio di una trasformazione conforme allo spirito del tempo, ovvero l’inizio di una profonda crisi della Chiesa e in particolare del sacerdozio. Il concilio ha inquadrato la costituzione gerarchica della Chiesa — la quale si dispiega nei differenti compiti del vescovo, del sacerdote e del diacono — in un’ecclesiologia di ampio respiro, rinnovata a partire dalle fonti bibliche e patristiche (cfr. Lumen gentium, 18-29). Le affermazioni sui gradi dell’episcopato e del presbiterato vennero approfondite nei decreti Christus Dominus e Presbyterorum ordinis. In tal modo, il concilio ha cercato di riaprire una nuova strada verso l’autentica comprensione dell’identità del sacerdozio. Perché mai si giunse allora, all’indomani del concilio, a una sua crisi d’identità, paragonabile storicamente solo con le conseguenze della Riforma protestante del XVI secolo?Nella parte a) del libro, dal titolo «Teologia del sacramento dell’ordine», Joseph Ratzinger intende rispondere anche a questa domanda e mostra, con afflato positivo, sia il fondamento biblico che il conseguente sviluppo storico-dogmatico del sacramento dell’ordine. Nella parte b), il lettore troverà, sotto il titolo «Servitori della vostra gioia», una raccolta di meditazioni sulla spiritualità sacerdotale. Tale titolo riprende le parole che il novello sacerdote Joseph Ratzinger pose sull’immaginetta-ricordo della sua prima messa. Seguono, nella parte c), le prediche tenute in occasione di diverse ordinazioni sacerdotali e diaconali, di prime messe e di anniversari di sacerdozio o di episcopato. Non si tratta di lirica devota, ma del tentativo riuscito di portare alla luce le fonti spirituali alle quali ogni sacerdote giornalmente attinge, per essere un servo buono del suo Signore e un servitore della lieta novella di Cristo, capace di entusiasmare: un pastore che non pasce se stesso, ma che, come Cristo, il Pastore supremo, dà la sua vita per le pecore del gregge di Dio. Ratzinger evidenzia che laddove viene meno il fondamento dogmatico del sacerdozio cattolico, non solo si esaurisce la fonte alla quale si può efficacemente abbeverare una vita alla sequela di Cristo, ma viene meno anche la motivazione che introduce sia a una ragionevole comprensione della rinuncia al matrimonio per il regno dei cieli (cfr. Matteo, 19, 12), che del celibato quale segno escatologico del mondo di Dio che verrà, segno da vivere con la forza dello Spirito Santo, in letizia e certezza.Se la relazione simbolica che appartiene alla natura del sacramento viene oscurata, il celibato sacerdotale diviene il relitto di un passato ostile alla corporeità e viene additato e combattuto come l’unica causa della penuria di sacerdoti. Non da ultimo, scompare poi anche l’evidenza, per il magistero e la prassi della Chiesa, che il sacramento dell’ordine debba essere amministrato solo a uomini. Un ufficio concepito in termini funzionali, nella Chiesa, si espone al sospetto di legittimare un dominio, che invece dovrebbe essere fondato e limitato in senso democratico.La crisi del sacerdozio nel mondo occidentale, negli ultimi decenni, è anche il risultato di un radicale disorientamento dell’identità cristiana di fronte a una filosofia che trasferisce all’interno del mondo il senso più profondo e il fine ultimo della storia e di ogni esistenza umana, privandolo così dell’orizzonte trascendente e della prospettiva escatologica. Attendere tutto da Dio e fondare tutta la propria vita su Dio, che in Cristo ci ha donato tutto: questa sola può essere la logica di una scelta di vita che, nella completa donazione di sé, si pone in cammino alla sequela di Gesù, partecipando alla sua missione di Salvatore del mondo, missione che egli compie nella sofferenza e nella croce, e che Egli ha ineludibilmente rivelato attraverso la sua risurrezione dai morti.Ma, alla radice di questa crisi del sacerdozio, bisogna rilevare anche dei fattori infra-ecclesiali. Come mostra nei suoi primi interventi, Raztinger possiede fin dall’inizio una viva sensibilità nel percepire da subito quelle scosse con cui si annunciava il terremoto: e ciò soprattutto nell’apertura, da parte di tanti ambiti cattolici, all’esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Spesso, da parte cattolica, non ci si è resi conto delle visioni pregiudiziali che soggiacevano all’esegesi scaturita dalla Riforma. E così sulla Chiesa cattolica (e ortodossa) si è abbattuta la furia della critica al sacerdozio ministeriale, nella presunzione che questo non avesse un fondamento biblico. Il sacerdozio sacramentale, tutto riferito al sacrificio eucaristico — così come era stato affermato al concilio di Trento — a prima vista non sembrava essere biblicamente fondato, sia dal punto di vista terminologico, sia per quel che riguarda le particolari prerogative del sacerdote rispetto ai laici, specialmente per ciò che attiene al potere di consacrare. La critica radicale al culto — e con essa il superamento, a cui si mirava, di un sacerdozio che limitasse la pretesa funzione di mediazione — sembrò far perdere terreno a una mediazione sacerdotale nella Chiesa. Alla critica formulata dalla Riforma al sacerdozio sacramentale — il quale avrebbe messo in discussione l’unicità del sommo sacerdozio di Cristo (in base alla Lettera agli Ebrei) e avrebbe emarginato il sacerdozio universale di tutti i fedeli (secondo 1 Pietro, 2, 5) — si è unita infine la moderna idea di autonomia del soggetto, con la prassi individualista che ne deriva, la quale guarda con sospetto a qualunque esercizio dell’autorità. Da una parte, osservando che Gesù, da un punto di vista sociologico-religioso, non era un sacerdote con funzioni cultuali e dunque (per usare una formulazione anacronistica) era un laico, e dall’altra parte, basandosi sul fatto che, nel Nuovo Testamento, per i servizi e i ministeri, non viene addotta alcuna terminologia sacrale, bensì denominazioni ritenute profane, è sembrato che si potesse considerare dimostrata come inadeguata la trasformazione — nella Chiesa delle origini, a partire dal III secolo — di coloro che svolgevano mere “funzioni” all’interno della comunità, in impropri detentori di un nuovo sacerdozio cultuale.Joseph Ratzinger sottopone, a sua volta, a un puntuale esame critico, la critica storica improntata alla teologia protestante e lo fa distinguendo i pregiudizi filosofici e teologici dall’uso del metodo storico. In tal modo, egli riesce a mostrare che con le acquisizioni della moderna esegesi biblica e una precisa analisi dello sviluppo storico-dogmatico si può giungere in modo assai fondato alle affermazioni dogmatiche prodotte soprattutto nei concili di Firenze, di Trento e del Vaticano II. La teologia cattolica potrebbe comprendere le obiezioni rivolte contro il suo sacerdozio se questo venisse da lei inteso come una mediazione autosufficiente, o anche solo integrativa, accanto o a esclusione di quella di Cristo. Perciò, anche le obiezioni di Martin Lutero, in realtà non toccano il nucleo centrale dell’insegnamento dogmatico vincolante sul sacerdozio sacramentale. Il concilio di Trento, nel suo decreto sul sacramento dell’ordine, si limitò a respingere le obiezioni del primo riformatore, ma rinunciò a presentarne un’ampia trattazione teologica. E tuttavia, i decreti tridentini di riforma, per lo più a torto trascurati — Ratzinger lo sottolinea con forza — danno importanza alla concezione biblica del sacerdote come servitore della Parola e dei sacramenti, e anche come pastore sollecito della salute spirituale dei fedeli.Nel dialogo ecumenico devono peraltro essere messi a tema, al di là delle differenze di contenuto, anche i principi formali della teologia: la Scrittura, la tradizione e il magistero, i quali, pur differendo fra essi, cooperano al fine di preservare la totalità della rivelazione. Rivelazione che deve essere protetta da un’esegesi soggettivistica e arbitraria, così da preservarne la pienezza e la pretesa totale. Qui emerge anche quella dimensione del sacramento dell’ordine che va oltre le funzioni del presbitero e del diacono. Si tratta della responsabilità propria dei vescovi, come successori degli apostoli, nel loro ufficio magisteriale e pastorale rispetto alla Chiesa universale. Per questo, secondo la concezione cattolica, anche il servizio del vescovo di Roma, quale successore di Pietro, è di imprescindibile importanza. A tal proposito, Ratzinger rimanda di continuo a Ireneo di Lione che, con il principio della Scrittura apostolica, della tradizione apostolica e della successione apostolica dei vescovi, ne ha stabilito il criterio normativo permanente. In fondo, già nell’opera di delimitazione della gnosi, compiuta da Ireneo con l’Adversus haereses, sono contenuti anche i tratti essenziali circa la dottrina del primato papale, tanto che il successivo sviluppo del magistero, nella sua intenzione autentica, può essere chiarito proprio a partire da Ireneo.Fa parte della riconquista dell’identità sacerdotale la disponibilità a intendere se stessi come servitori della Parola e testimoni di Dio nella sequela di Cristo, e a vivere in comunione con Lui. Perché questo sia possibile, sono richieste al sacerdote sia una buona formazione teologica che un costante rapporto con la teologia scientifica.L'Osservatore Romano, 31 ottobre 2013.
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/12/2013 19:02 | |
di Don Alfredo Morselli
1. La pazienza del tradizionalista a dura prova
Una delle obiezioni, che mette più a dura prova la pazienza del cosiddetto tradizionalista, è quella che suona nel seguente modo: «Ma io non so il latino e non capisco la Messa; la Messa in latino è incomprensibile e io desidero capire la Messa… vogliopartecipare attivamente… etc etc».
E così il tradizionalista si ritrova, suo malgrado, a essere identificato come colui che non vuole capire la S. Messa, e/o come colui che neppure vuol far capire agli altri la S. Messa, e/o come colui che non vuole assolutamente partecipare attivamente alla S.Messa, e tutto questo - o tempora, o mores - dopo il Concilio! ovvero niente meno che nell’età dell’oro della liturgia, dove certe cose non dovrebbero passare neppure per l’anticamera del cervello.
Al che, il tradizionalista, avendo fatto il callo all’enchiridion stupiditatum, ovvero al Denzinger dei nuovi dogmi dell’ideologia paraconciliare - per alcuni gli unici dogmi indiscutibili - scuote la testa e riprende con maggior zelo il suo bonum certamen.
Queste righe non vogliono altro che essere, in ossequio alla natura razionale della fede, la ricerca dell’intellectus - id est della credibilità e della ragionevolezza - della plurisecolare prassi della S. Madre Chiesa, assistita dallo Spirito Santo non solo negli ultimi cinquant’anni.
2. Una bella pretesa: capire la Messa
Innanzi tutto, l’espressione voglio capire la Messa è quasi blasfema (se intesa nel senso di capire perfettamente tutto): questa pretesa, spesso enunciata trionfalmente, è a prova più eclatante della sconfitta di una certa prassi pastorale-liturgica postconciliare. La Messa non si capisce, come non si capisce la SS. Trinità, o l’Unione ipostatica. Per spiegare queste affermazioni, vorrei fare alcune considerazioni su come, verosimilmente, la Vergine Santissima assisteva alle prime S. Messe celebrate dagli Apostoli. Oltre che ad essere modello della nostra partecipazione liturgica, non si potrà dire che non partecipava attivamente!
3. La Madonna e le prime Messe celebrate dagli Apostoli
Il santo evangelista Luca ci narra due episodi della vita di Gesù, in cui si dice che la Madonna custodiva nel suo Cuore i fatti accaduti: si tratta della vista dei pastori a Gesù bambino (Lc 2,19: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”) e del ritrovamento di Gesù tra i dottori del tempio (Lc 2,52: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”). Possiamo ragionevolmente ritenere che Maria custodisse nel suo Cuore Immacolato non solo questi misteri della santa infanzia, ma tutti i misteri della vita del Figlio.
Ora pensiamo a quando la Vergine assisteva alle prime S.Messe celebrate dagli Apostoli. La S. Messa è innanzi tutto - simpliciter - la rinnovazione del Santo Sacrificio del Calvario, ma - secundum quid - contiene tutti i misteri della vita di Cristo: da un lato, come afferma Dionigi Certosino, “tutta la vita di Gesù Cristo è stata una celebrazione della santa Messa, nella quale Egli stesso era l’altare, il tempio, il sacerdote e la vittima”; dall’altro, come afferma il Sanchez, chi assiste a una Messa è “come se avesse vissuto ai tempi del Salvatore e avesse assistito a tutti i suoi misteri” (cit. in Martino de Cochem O.M.C., La Santa Messa, Milano 1932, p. 62). E San Bonaventura afferma che nella S. Messa ci sono tanti misteri “quante gocce d’acqua sono nel mare, quanti atomi di polvere nell’aria e quanti angeli nel cielo” (cit. in Ibidem, p. 36).
In conseguenza di ciò, quando la Vergine assisteva alla Messa, rivedeva e ripensava a tutti i misteri della vita del Figlio, misteri custoditi nel suo Cuore Immacolato.
4. Come la Madonna custodiva nel Cuore i misteri della vita del Figlio, e quindi della Messa.
La Madonna custodiva i Misteri della vita del Figlio alla luce della fede; noi sappiamo che la fede della Madonna è sempre stata integra e mai adulterata da alcun dubbio (cf. Lumen Gentium, 63); ma quella visione di fede non era ancora era quella comprensione perfetta che ora Ella in ha in cielo: la sua fede era certissima, ma non evidente.
Come dice San Tommaso, “la fede comporta una cognizione imperfetta (…) Trascende l'opinione, in quanto comporta una ferma adesione; rispetto alla scienza, manca del fatto che non ha l’evidenza [S. Th. Iª-IIae q. 67 a. 3 co.]”; ancora l’Aquinate: “L’atto del credere ha un'adesione ferma a una data cosa, e in questo chi crede è nelle condizioni di chi conosce per scienza, o per intuizione: tuttavia la sua conoscenza non è compiuta mediante una percezione evidente; e da questo lato chi crede è nelle condizioni di chi dubita, di chi sospetta e di chi sceglie una opinione. E sotto questo aspetto è proprio del credente cogitare approvando: ed è così che l'atto del credere si distingue da tutti gli atti intellettivi che hanno per oggetto il vero e il falso” [S. Th.IIª-IIae q. 2 a. 1 co]
La perfetta fede di Maria non implicava quindi che Ella avesse chiari tutti i misteri della fede e che non facesse alcuna fatica a credere: i misteri della fede sopravanzavano anche le capacità dell'intelletto della Madonna e quindi anche Maria pativa l'inevidenza dei misteri stessi. Anche Lei cogitava approvando.
Ora pensiamo a quando la Vergine assisteva gli Apostoli, che, tremebondi e commossi, adempivano per le prime volte al mandato fate questo in memoria di me: Ella ripercorreva tutti i misteri della vita del Figlio, non li comprendeva ancora come in Cielo, non ne aveva l’evidenza, ma li serbava tutti nel suo Cuore (avendone ferma approvazione).
5. La parola-fatto
S. Luca, quando vuole indicare ciò che Maria Santissima custodiva nel Cuore, usa il termine greco rêma, che non significa semplicemente parola, ma corrisponde all’ebraico dabar, che significa parola-fatto. Il cristianesimo non è una teoria, è una persona, è il regno di Dio fattosi vicino nella persona di Gesù Cristo; ma non è neanche una esperienza irrazionale, bensì comprende necessariamente l’adesione a una dottrina e la formulazione di giudizi.
La parola ebraica dabar, nel suo significato di parola-fatto, è dunque particolarmente adatta ad indicare i misteri della vita di Nostro Signore, che non sono né fatti senza pensiero, né pensieri senza fatti.
Chiude dunque la porta al mistero chi ipertrofizza l’importanza della comprensione razionale esplicita rispetto al fatto, chi confonde la catechesi liturgica con la celebrazione (pensiamo alle continue mozioni spesso abusive, durante la Messa, per spiegare il mistero che, proprio perché troppo esplicitato, rimane sostanzialmente incompreso). La liturgia totalmente in volgareper capire non è altro che un goffo tentativo di rendere more geometrico demonstrato ciò che non è dimostrabile, ma ciò di cui si può solo cogitare assentendo, alla scuola della Vergine Maria. In altre parole, una banalizzazione, da cui ci ha messi in guardia Benedetto XVI, in uno dei suoi ultimi interventi:
“Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
(…)
“Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa” (Incontro con i Parroci e il Clero di Roma, 14 febbraio 2013).
6. La lingua sacra.
Quando diciamo sacro e profano, non diciamo buono e cattivo, ma parliamo di due cose in sé ottime, ma di due ordini diversi.
Sentiamo ancora San Tommaso:
“…dalle differenze di tali beni scaturiscono le differenze dell'amore di Dio verso la creatura. C'è infatti un amore universale, con il quale "egli ama tutte le cose esistenti", come dice la Scrittura; e in forza di esso viene elargita l'esistenza naturale a tutte le cose create. C'è poi un amore speciale, di cui Dio si serve per innalzare la creatura ragionevole, sopra la condizione della natura, alla partecipazione del bene divino. E in questo ultimo caso si dice che Dio ama una persona in senso assoluto: poiché con questo amore Dio vuole senz'altro alla creatura quel bene eterno, che è lui medesimo” (S. Th. Iª-IIae q. 110 a. 1 co.)
Quando la Sacrosanctum Concilum descrive l’azione liturgica come sacra per eccellenza (§ 7), vuole indicare che la liturgia è il luogo dove per eccellenza e al massimo grado si sperimenta quell’amore speciale per cui Dio vuole alla creatura ragionevole quel bene eterno che è lui medesimo.
Quando Dio ci sostiene mentre mangiamo, lavoriamo, agiamo, senz’altro Dio ci ama: ma quando Dio ci dona se stesso, ci ama al massimo grado.
Purtroppo la banalizzazione delle istanze della nouvelle théologie ha prodotto un disastro. De Lubac, ritenendo inutile il concetto di natura pura, ha fornito una base per ogni desacralizzazione futura (di certo non voluta o pensata dallo stesso De Lubac); infatti, se non si salva la natura, realmente e concretamente, non ha più senso parlare di soprannaturale, come non ha senso parlare di un secondo piano se non c’è il primo. Tutto è soprannaturale coincide con tutto è naturale, con esiti, a cui certo De Lubac non pensava e non voleva, logicamente panteistici.
Diceva il grande Garrigou-Lagrange, nel tentativo - storicamente vano, ma dottrinalmente perennemente efficacissimo - di fermare gli equivoci della Nouvelle Théologie: Si non est natura proprie dicta, nec est supernaturale proprie dictum («De evolutionismo et de distinctione inter ordine naturale et ordine supernaturale», in AA.VV., El evolucionismo en filosofia y en teologia, Barcelona: Juan Flors, 1955, p. 277).
Perché dunque lingua sacra, canto sacro, paramenti sacra, sacra suppellettile, balaustra o iconostasi delimitante spazio sacro… non per tener fuori i laici o per non far loro capire la Messa, ma perché, se la liturgia è la massima espressione dell’amore speciale con cui Dio dona direttamente se stesso, a misteri, frutto di un amore speciale, deve corrispondere, per la verità della cose, una lingua speciale, delle vesti speciali, uno spazio speciale, un canto speciale, dei gesti speciali…
7. In conclusione…
Partecipare a una conversazione oppure entrare nel mistero? Se partecipiamo ad una conversazione, l’unica cosa importante è capire la lingua dell’interlocutore. Ma mentre il trinariciuto vaticansecondista orripilisce davanti al minimo Dominus vobiscum, il buon cattolico non è così manicheo. Ben venga una parte più ampia (SC § 36) al vernacolo; ma, se la Messa non è una conversazione, se ciò a cui partecipiamo è un mistero; se, chiedendo in prestito alla Vergine Santissima qualche pensiero del Suo cuore, proviamo a contemplare i misteri della vita di Gesù Cristo… allora una lingua che ci ricorda che ciò che ci avvolge è unamore speciale e che ciò che cogitiamo assentendo è un dabar, una parola-fatto oggettivamente incomprensibile, ovvero comprensibile quando saremo beati - comprensori appunto - la lingua sacra è indispensabile e necessaria; con il Vaticano II diciamo che il suo uso sia conservato (SC § 36).
E se il vaticansecondista trinariciuto mi dice: finalmente capisco la Messa, gli rispondo: “Capiresti qualcosa della Messa se tu mi dicessi: - Ho capito che la Messa è incomprensibile - ”.
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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14/12/2013 10:42 | |
Lo aveva detto a Papa Francesco, quando questi lo era andato a trovare per pranzo nella sua casa di piazza della Città Leonina, nell’abitazione che fu di Joseph Ratzinger. Tra una zuppa e un piatto bavarese di carne di maiale e vitello, Gehrard Ludwig Mueller, attuale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e curatore dell’opera omnia di Joseph Ratzinger, aveva detto che in quella raccolta di scritti sul sacerdozio di Joseph Ratzinger che era stato pubblicato c’era la risposta alla crisi della nostra epoca. “Santità, lo dobbiamo far conoscere, soprattutto ai seminaristi e al clero”, disse Mueller. E il primo di questi appuntamenti è stato a San Giovanni in Laterano, la cattedrale del Papa, la mattina del 7 dicembre.
Davanti a sacerdoti e seminaristi, il cardinal Vallini, vicario del Papa per la diocesi di Roma, al suo fianco, Mueller ha messo in luce la continuità tra i pontificati di Benedetto XVI e Francesco. Il sacerdozio, da vivere con Letizia e Carità, secondo il primo. Il sacerdozio, da vivere come pastori e non funzionari, come mediatori e non intermediari, secondo il secondo.
Il libro di cui parla Mueller è il dodicesimo volume dell’opera omnia di Benedetto XVI, “Annunciatori della parola e servitori della vostra gioia” (Libreria Editrice Vaticana), che abbraccia una cinquantina di anni di interventi sul tema del sacerdozio. “Benedetto XVI – spiega il prefetto Mueller – indica una strada che porta fuori da quella crisi nella quale era caduto un sacerdozio cattolico senza impostazione e motivazioni teologiche e sociologiche adeguate”.
In fondo, la crisi del sacerdozio è un po’ lo specchio della crisi del mondo. Come superarla? Per Mueller – ne aveva parlato già presentando lo stesso volume a Gela il 19 novembre – c’è solo una soluzione: tenere lo sguardo fisso sulla Resurrezione di Gesù. Perché – dice – con la Resurrezione “tutto compie il salto qualitativo. Viene posto il fondamento per superare ogni crisi. Quella crisi per cui tutti l’avevano abbandonato nell’ora drammatica della consegna di Gesù ai peccatori”.
Ha aggiunto Mueller a Gela: “Se Cristo per mezzo della risurrezione ha superato la più grande crisi mai esistita nella fede, la crisi della missione e della potestà apostolica e dunque anche del sacerdozio, allora è proprio dando lo sguardo a Gesù che si possono superare tutte le crisi storiche della Chiesa e soprattutto del sacerdozio”.
Mueller aveva ripercorso tutte le tappe teologiche di questa crisi sacerdotale. Ne individua le cause nel fatto che il sacerdozio è sempre più stato considerato una funzione, più che una missione. Spiega che “alla critica formulata dalla riforma protestante dal sacerdozio sacramentale si è unita l’idea di autonomia del soggetto”, e a questo si è unita anche una particolare scuola esegetica, che ha portato ad osservare Gesù “soprattutto da un punto di vista sociologico”. Sono tutti temi che fanno perdere di vista la natura stessa del sacerdozio, e la natura stessa della Chiesa. In fondo, è per questo che Benedetto XVI ha voluto scrivere la vita di Gesù a partire proprio dalla verità storica dei Vangeli. Perché se perdiamo di vista il legame tra storia e rivelazione, non comprendiamo fino in fondo la nostra fede.
Mueller ci tiene a sottolineare: “La Chiesa è divinamente fondata, ed è importante sottolinearlo oggi. È fondazione divina, dono divino, per tutti noi”.
Mueller spiega che “gli scritti di Joseph Ratzinger cominciano poco prima del Concilio Vaticano II, e lo oltrepassano, affrontando da subito la crisi del sacerdozio che è arrivata temporalmente dopo il Concilio Vaticano II”. E sin da subito “Ratzinger aveva percepito con viva sensibilità” l’inizio della crisi del sacerdozio, e fa una riflessione a partire dai padri della Chiesa. Ma “diacono, presbitero, vescovi hanno sempre avuto un legame particolare con gli apostoli, che li istituiscono con le mani la preghiera e la consacrazione. Nel nome del supremo pastore essi sono i pastori che rappresentano e attraverso i quali egli stesso è presente”.
Afferma il prefetto: “Gesù oggi come in ogni tempo invita a pascere il suo gregge. Sottolinea una sua vocazione sacerdotale, nella vocazione al sacerdozio comune. Questo sguardo che ci spinge con fiducia e speranza affidabile” oltre la crisi.
20 dicembre 2013 - ore 06:59
Il prefetto di Francesco e segretario di B-XVI alza la voce in Germania
“Molti di quelli che si erano mostrati entusiasti per Francesco rimarranno con la gioia strozzata in gola”. Sono parole dure quelle che monsignor Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia e segretario del Papa emerito Benedetto XVI, pronuncia in un intervento che sarà pubblicato sul numero di gennaio della prestigiosa rivista di cultura tedesca Cicero. Guarda alla situazione della chiesa di Germania, una parte consistente della quale avanza a Roma richieste di rapide riforme e significativi cambi di passo. Svolta sulla pastorale familiare, sui sacramenti, tanto per cominciare. E ancora, sì a un ruolo più attivo e centrale delle donne nella chiesa. Non si tratterà delle cardinalesse – chi lo pensa “soffre un po’ di clericalismo” – ha detto domenica Francesco nell’ampia intervista concessa ad Andrea Tornielli e pubblicata sulla Stampa – ma sulle diaconesse si può aprire il dibattito. Gänswein, però, frena: “Non credo che il Papa concederà spazio a certe iniziative provenienti dalla Germania”, e il riferimento è proprio alla possibilità di concedere il diaconato alle donne, ipotesi rilanciata anche da porporati di rango come il cardinale teologo Walter Kasper: “Impossibile”, dice il segretario personale del Pontefice emerito.
Durante l’ultima sessione primaverile della Conferenza episcopale tedesca svoltasi a Treviri, l’ex presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani spiegava come fosse possibile istituire la figura del diacono femminile capace di svolgere funzioni pastorali e particolari servizi liturgici. Non c’erano problemi di dogmi, aggiungeva Kasper: niente ordinazione, basterebbe una semplice e meno impegnativa benedizione. Gänswein si mostra perplesso e non vede all’orizzonte cambiamenti su questo fronte, neppure ora che Papa è il gesuita che tante aspettative ha generato in gran parte dell’episcopato mondiale, con il quale dice di collaborare “in fiducia e armonia”. Rimarranno deluse, quindi, “quelle forze che hanno cercato di sfruttare il nuovo Pontefice per i propri interessi”, spiega il prefetto della Casa pontificia. Basta guardare al documento dell’ufficio per la cura delle anime della diocesi di Friburgo che autorizzava il riaccostamento dei divorziati risposati ai sacramenti, primo fra tutti la comunione, nel nome della misericordia tanto evocata da Francesco. Ma è stato lo stesso Pontefice, sempre alla Stampa, a chiarire di aver “parlato del battesimo e della comunione come cibo spirituale per andare avanti, da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni – ha aggiunto – hanno subito pensato ai sacramenti per i divorziati risposati, ma io non sono sceso in casi particolari: volevo solo indicare un principio”.
Una risposta indiretta anche a quanti, a partire dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, avevano accusato il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, monsignor Gerhard Ludwig Müller, di voler imbrigliare e chiudere il dibattito sulla pastorale matrimoniale in vista del prossimo Sinodo straordinario di ottobre. Polemiche assurde, le ha definite qualche giorno fa in una lunga intervista all’agenzia cattolica tedesca kath.net il cardinale svizzero Kurt Koch, tra l’altro successore di Kasper al dicastero per l’unità dei cristiani e in questi giorni in visita in Russia (ha incontrato anche il Patriarca di Mosca, Kirill): “Müller non ha fatto altro che richiamare la dottrina della chiesa, ribadendo ciò che era già stato affermato sul tema specifico all’epoca in cui prefetto dell’ex Sant’Uffizio era il cardinale Joseph Ratzinger. Ogni serio esame del problema deve partire da questi insegnamenti, che corrispondono alla chiara volontà di Gesù Cristo”. Opporre ancora una volta l’insegnamento alla pastorale, ha detto Koch, “non può essere la direzione in cui si deve muovere la chiesa. Nuove modalità di espressione pastorale si possono trovare solo nella luce portata dalla verità della dottrina”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Matteo Matzuzzi
la profetica vignetta fatta prima di questo articolo.....
[Modificato da Caterina63 20/12/2013 11:22] Fraternamente CaterinaLD
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27/12/2013 13:19 | |
Don Ariel Levi di Gualdo. Sulla Letterina a «Babbo Natale» dei pretini trendy
LETTERINA A «BABBO NATALE» DEI PRETINI TRENDY
DEL VENETO CATTOLICO CHE FU …
Un commento del padre Ariel S. Levi di Gualdo alla lettera
scritta da undici parroci veneti per il Santo Natale
Sia lodato Gesù Cristo …
Nella festa del protomartire Stefano mi è lieto augurare grazia, pace e benedizioni da Dio e dal Signore Nostro Gesù Cristo a voi tutti cari lettori, in questa Ottava di Natale che celebra il ricordo vivo del Verbo di Dio fatto Uomo che è inizio, centro e fine ultimo del nostro intero umanesimo, come nell’anno 2000 la Congregazione per la dottrina della fede fu costretta a ricordare a tutti noi con La Dichiarazione Dominus Jesus, data a quattro decenni di distanza da un concilio ecumenico della Chiesa per ribadire, nell’infausta stagione del post concilio egomenico, certi trascurati criteri di centralità e di assolutezza della fede all’esercito di teologi allo sbando e di preti allo sbaraglio, quantunque certi criteri siano noti sin dal Concilio di Nicea celebrato nell’anno 325, perlomeno a chi conosce il Catechismo della Chiesa Cattolica, senza dover tirare neppure in ballo la teologia.
Qualche prete à la page in jeans, scarpe da ginnastica e maglioncino alla Antonio Mazzi o alla Luigi Ciotti – ma anche qualche vescovo toninobellista – potrebbe storcere il naso dinanzi a questo profondo e sincero saluto iniziale tratto dal formulario dell’epistolario paolino. E qualcuno di questi pretitrendy, a me che porto la talare nei momenti prescritti e il clergyman negli altri momenti, potrebbe perfino dire: «Quanto sei vecchio e clericale!». Ignari, dietro ai loro jeans sdruciti, che io la talare la porto per coprire i sacerdotali attributi che il Signore mi ha donato per sua grazia e che sono parte imprescindibile del sacerdozio ministeriale che dovrebbe essere conferito tutt’oggi soltanto a uomini certi, quindi per coprire il mio viscerale anticlericalismo. Come infatti ho più volte spiegato, scritto e ripetuto, mai come oggi la Chiesa era giunta ai perniciosi livelli di clericalismo nei quali l’hanno fatta sprofondare i pretini in jeans circondati da giovani brufolosi schitarranti durante liturgie declassate da sacri misteri a teneri incontri sociali e filantropici, dove si parla con gran sentimentalismo di pace, di diritti civili, di profughi sbarcati a Lampedusa, di ecologia e di politica sociale, sino all’apice dell’aberrazione: la carità trasformata in mera e umana solidarietà, in scuola ecclesiale di educazione civica.
Quando nei momenti pubblici mi rivolgo al Popolo di Dio, specie ai giovani o agli amabili chierichetti che in questi giorni di festa mi hanno servito all’altare come degli angeli di Dio, di solito saluto dicendo: «Sia lodato Gesù Cristo!». D’altra parte sono convinto – e tale resterò – che questo saluto di lode rivolto da un sacerdote del Signore ai Christi fideles sia molto più importante di un ammaliante e inopportuno: «Buongiorno a tutti voi» e «buonasera». O come dissi poco tempo fa a un prete trendy che dicendo «Buongiorno» ha preso il vezzo d’iniziare le sacre celebrazioni: «Caro confratello, secondo te è più importante rivolgersi al Popolo di Dio con l’invocazione trinitaria di rito “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la Comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi”, oppure dire ai fedeli riuniti in assemblea per la celebrazione dell’ineffabile Sacrificio Eucaristico: “Buongiorno a tutti voi”? Dimmi: non sarebbe meglio spiegare ai nostri fedeli l’importanza di questo saluto contenente una preziosa invocazione trinitaria, anziché lasciarli in pasto alla più desolante e superficiale ignoranza emotiva racchiusa dentro un semplice e inopportuno «Buongiorno a tutti voi»?
È però cosa buona e giusta precisare che il confratello in questione non aveva alcuna colpa, forse non era neppure colpevole della sua superficialità, tutta dovuta non alla sua persona ma alla cattiva formazione che da alcuni decenni viene data nei seminari, da me non a caso ribattezzati nel mio penultimo libro: «pretifici». E ancora ripeto che questo prete – come forse il gruppo degli undici parroci veneti che hanno scritto la loro letterina a Babbo Natale – non era responsabile, perché come recita un saggio proverbio popolare: «Il pesce che marcisce puzza sempre a partire dalla testa», mai dalla coda.
Dopo questo breve panegirico veniamo a questa lettera di Natale 2013 [qui] scritta da un gruppo di preti tristi rimasti fermi ai fumosi comitati di base del Sessantotto, come lascia capire su Corrispondenza Romana Mauro Faverzani [qui], negli anni in cui il peggio dei clericali che avevano gettato la tonaca alle ortiche per rivestirsi di “spirito nuovo” e di “parole nuove”, parlavano di “Chiesa di base” di “reinventare la Chiesa” o di “reinventare la fede”. Il tutto coi risultati che a quattro decenni di distanza sono ormai palesi in tutta la loro tragicità: «Nel mese di marzo il neo eletto Sommo Pontefice si è affacciato alla loggia centrale di San Pietro per annunciare urbi et orbi “buonasera” a una Chiesa europea al collasso nella quale le chiese di Olanda, Belgio, Germania – fulcri dello “spirito nuovo” e di mille devastanti reinvenzioni e altrettante stramberie liturgiche – sono da anni a tal punto vuote che le diocesi stanno mettendo in vendita uno dietro l’altro gli stabili usati sino a poco prima per il culto divino, il tutto dopo che le Chiese locali d’Europa hanno cominciato a raccogliere i frutti prodotti dalle semine funeste fatte attraverso i pensieri del gesuita Karl Rahner e del domenicano Edward Schillebeeckx. Per questo in un mio recente scritto affermai che in modo coerente e ragionevole, su ogni chiesa vuota messa in vendita per mancanza di fedeli, andrebbe posta una lapide a perenne memoria di tutti i teologi bandiera della Nouvelle thèologie [qui].
Dunque è proprio il caso di dire: buonasera Chiesa Cattolica Apostolica Romana in fase avanzata di scristianizzazione in tutta Europa.
Buonasera a te, Chiesa Latinoamericana impestata dalle peggiori derive teologiche che i ricchi tedeschi strapieni di soldi vi hanno importato in virtù dei propri quattrini, a ben considerare che spesso, una singola parrocchia della Germania, mantiene una diocesi intera in certi paesi dell’America Latina.
Buonasera a te, Chiesa del Brasile dove ormai i preti che vivono in situazione di irregolarità sono così numerosi da essere divenuta cosa quasi tollerabile che i figli di certi parroci servano la Santa Messa al papà prete. O come disse anni fa al Sommo Pontefice un arcivescovo metropolita brasiliano – che la sera stessa lo riferì lui personalmente a me dopo quell’incontro mattutino – «Non è accettabile che le donne dei preti vivano direttamente dentro le case canoniche con i loro bambini». Rispose affranto l’arcivescovo a questo sacrosanto monito del Romano Pontefice: « … ma se dovessi sanzionare canonicamente i preti che vivono simili situazioni, dovrei ridurre allo stato laicale una media di cinque o sei preti su dieci». A quel punto convennero – ah, benedetta diplomazia ecclesiastica! – che i bambini e le donne dei preti non vivessero perlomeno nelle case parrocchiali.
Buonasera a te, Chiesa dei vari paesi d’Oriente dove li boni gesuiti della nuova Compagnia delle Indie nata sulle ceneri della Compagnia di Gesù – che per inciso nessuno commissaria perché certi sicari della curia romana sono troppo impegnati a fare la pelle ai Francescani dell’Immacolata – portano avanti forme di sincretismo religioso spinte a tal punto che certe sacrileghe celebrazioni eucaristiche paiono una via di mezzo tra mantra buddisti e non meglio precisati riti cattolici.
Buonasera …
Nel 2010 trascorsi due giorni con un vescovo africano, un autentico uomo di Dio, al quale cercai di insegnare a leggere il messale di Paolo VI in latino. Pochi giorni dopo il presule sarebbe andato in udienza privata dal Santo Padre che lo aveva invitato a concelebrare con lui e che con lui si sarebbe poi intrattenuto dopo la celebrazione. Il vescovo temeva che Benedetto XVI celebrasse col messale latino, per questo mi chiese di aiutarlo a fare esercizi di lettura. Durante le ore trascorse insieme il vescovo mi volle confidare di sua libera iniziativa il motivo di quella richiesta di udienza: «La mia diocesi è poverissima e io ho un grande problema. Dobbiamo in qualche modo sostenere i figli che i nostri preti hanno seminato in giro per i villaggi. Loro hanno sbagliato, indubbiamente. Ma noi, come Chiesa, non possiamo lasciare queste creature abbandonate per le strade. Questo è il motivo della mia visita al Santo Padre: sto andando a chiedergli soldi, semplicemente a chiedergli soldi per far fronte a questa situazione che coinvolge ormai centinaia di bambini e altrettante centinaia di ragazze madri spesso abbandonate o espulse dai loro nuclei familiari senza alcun genere di sostegno».
I problemi della Chiesa e nella Chiesa non nascono certo a partire da mezzo secolo fa, incluse immoralità, chierici libertini, figli illegittimi dei preti, malversazioni economiche, cariche ecclesiastiche acquisite tramite ricatti e varie forme di simonia e via dicendo. Ciò che però sfugge è un passaggio di non poco conto: ieri la Chiesa – come ben sanno coloro che conoscono almeno un po’ la storia – era attaccata da fuori, condizionata da poteri secolari e politici, col risultato che in varie stagioni si sono sviluppate al suo interno le peggiori nefandezze; ma tutto proveniva dall’esterno e dall’esterno aggrediva e fermentava al nostro interno. Oggi la situazione è totalmente mutata: la Chiesa si è trasformata in una struttura di peccato che genera e produce peccato al proprio interno. Se poi all’interno e dall’interno qualcuno osa ribellarsi a questo stato di degenerazione finirà colpito, ostracizzato e perseguitato dai macchinisti che trainano questa locomotiva e che gettano carbone nella sua caldaia per condurla quanto prima verso il dirupo al di fuori di tutti i possibili binari».
La lettera di questo gruppo di preti trendy post sessantottini, oggi forse non più giovani e forse afflitti da artrite reumatoide, è paradigma di tante cose, molte delle quali nascono proprio da un semplice «buonasera!». E sentendosi legittimati da quel «buonasera!» e auto legittimandosi su quel «buonasera!», assieme alla vecchia tonaca hanno gettato alle ortiche anche il sano e pedagogico: «Sia lodato Gesù Cristo!».
Ho notato che questi preti tristi rimasti ancorati ai fumosi comitati di base degli anni Settanta e autori della lettera a Babbo Natale sono un gruppo di sacerdoti veneti. Or bene se non erro, Patriarca di Venezia, nonché metropolita di diverse Diocesi suffraganee è Francesco Moraglia, amato da sempre dal mondo della tradizione, da quello dell’ortodossia e della corretta dottrina, stimato e descritto qual prodigo e prodigioso allievo della scuola del Cardinale Giuseppe Siri. Proprio per questo mi domandavo: quest’uomo di indubbia fede e di profonda spiritualità che di stima ne merita molta, dinanzi al pubblico scritto di questi preti, pensa forse di salvare la fede e il Popolo di Dio dagli scandali sempre peggiori dati da un numero sempre maggiore di preti allo sbando indossando pianete laminate d’argento e d’oro e splendide mitrie gemmate, procedendo in processione durante i pontificali con tutta la dignità che di prassi è richiesta a un vescovo, facendo belle omelie improntate sul migliore magistero e sulla più impeccabile dottrina, in tempi cupi e terribili nei quali per mettere in crisi l’essere e il divenire futuro della Chiesa sono bastati solo pochi secondi è un semplice: «Buonasera!»? Perché se persino i custodi veri e autentici della fede e della retta dottrina si nascondono dietro il dito del “tacere per amore della Chiesa” e dello “stare in silenzio per il bene dell’unità della Chiesa”, allora vuol dire che il marciume sta giungendo ormai dalla testa alla coda del pesce.
Certo, coi tempi che corrono oggi, sulle rovine della sana autorità apostolica e della certezza del diritto della Chiesa frantumati in mille pezzi sono stati infine edificati l’autoritarismo più degradato e malato e l’arbitrio umorale più aggressivo. Chi osa manifestare dissenso anche in modo larvato, o semplicemente attraverso un corretto predicare e soprattutto un agire cattolico, può rischiare di finire destituito come prefetto della Congregazione per il clero ed essere spedito a fare il penitenziere, si può finire destituiti dalla presidenza del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, si può essere depennati dalla Congregazione per i vescovi ed essere sostituiti presso di essa come membri da un vescovo emerito che ha devastato due intere diocesi alle quali ha donato sacerdoti improponibili prodigandosi nel mentre in vari intrallazzi economici, si può non essere ricevuti per due volte consecutive pur essendo vescovi della più grande diocesi del mondo… figurarsi quindi quanto può essere facile essere dimessi dalla sera alla mattina dal patriarcato minore di Venezia o più misericordiosamente non essere creati cardinali al prossimo concistoro.
Giorni fa, al termine di una mia omelia d’Avvento nella quale avevo spiegato il senso vero e profondo dell’atto penitenziale in cui ci accusiamo di avere peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, giunse in sacrestia un fedele che mi disse: «Caro padre, sicuramente tu potrai anche confessare a Dio di avere peccato in pensieri scritti e in parole dette, ma per quanto riguarda le omissioni, quelle proprio no, perché attraverso i tuoi pensieri scritti e le tue parole dette sembra proprio che tu non abbia omesso niente».
È un pensiero, quest’ultimo, che durante quest’Ottava di Natale affido umilmente al Patriarca di Venezia per quanto riguarda lo specifico discorso legato alla lettera eterodossa di questi preti che con manifesta ignoranza e palese ideologia malsana hanno offeso il senso più profondo della sana ecclesiologia cattolica. È un pensiero che affido a lui ma anche agli altri nostri vescovi, per molti dei quali, il patrono di questo nuovo modo di fare alla «buonasera» resta in ogni caso depositario delle nuove nomine episcopali e della creazione dei nuovi cardinali che dovrebbe compiersi nel concistoro di febbraio del 2014, tanto da fungere da grande freno, perché sono i freni a farci precipitare nel peggiore immobilismo che genera i peggiori peccati di omissione, per i quali noi pastori in cura d’anime dovremmo rendere seriamente e gravemente conto a Dio.
Oggi abbiamo festeggiato Santo Stefano protomartire, vero principe in quanto princìpio vivente della Chiesa vivificata dal sangue dei martiri, rivestitosi del proprio rosso sangue non per avere taciuto ma per avere annunciato e poi difeso davanti ai suoi accusatori la verità del Verbo Incarnato [At 6, 8 – 12; 7, 54 – 60].
Tra poco festeggeremo la nomina dei nuovi cardinali, diversi dei quali saranno rivestiti di rosso per avere taciuto e compiaciuto i peggiori «buongiorno», «buonasera», «buon pranzo» e suvvia a seguire. Diversi riceveranno la porpora per avere cambiato nome al grave peccato di omissione ribattezzato oggi “prudenza”, volutamente ignari che il rosso di cui i Padri Cardinali sono rivestiti ricorda proprio la gloria di tutti i santi martiri fedeli a Cristo fino all’effusione del sangue.
Possa Dio perdonarvi Eccellentissimi Padri Vescovi ed Eminentissimi Padri Cardinali, per il male che molti di voi stanno recando alla Chiesa di Cristo attraverso silenzi che generano spesso i peggiori peccati di omissione.
Dopo avere detto di nuovo per l’ennesima volta ciò che per imperativo di coscienza ritenevo doveroso dire, lanciatemi pure una nuova raffica di pietre, però vi prego: almeno per una volta colpitemi frontalmente mirando in mezzo ai miei occhi e lanciando direttamente voi il sasso, senza usare come sicari mezzi uomini, ruffiani e piccoli monsignorini in carriera, che all’ombra delle grandi valli e dei piccoli vallini mi hanno sempre e di rigore puntato alla schiena mirando il sasso diritto alla mia nuca.
Possa infine il Signore concedere a tutti voi un felice «Buongiorno» una felice «buonasera» e non ultimo anche un «buon pranzo»!
E che il «Buongiorno» la «buonasera» e il «buon pranzo» …… sempre sia lodato!
Ariel Stefano Levi di Gualdo
26 dicembre 2013
Nella festa di Santo Stefano
Protomartire cristiano
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine) |
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14/05/2014 13:53 | |
È sempre così: distruggono il mondo e la società, rovinano le famiglie e i bambini, poi nella fase finale della loro vita tornano piangenti tra le braccia della madre Chiesa, che, come sempre, li accoglie e li perdona, nonostante il grande male che hanno fatto e che continuano a fare. I gay che odiano la Chiesa mi fanno davvero pena: è proprio la Chiesa l'unica istituzione che li accetta e li intende aiutare, le altre li sfruttano politicamente e poi, quando non servono più, li gettano nel fosso, esponendoli al ludibrio generale. Ed allora è ancora la Chiesa a porgere la mano a questi fratelli ingannati e, si spera, realmente pentiti. (cit.)
Chi fondò l’Arcigay? Don Marco Bisceglia. E questa è la sua (straordinaria) storia
Leggi di Più: Don Marco Bisceglia, il prete che fondò l'Arcigay | Tempi.it
Ai tanti che non lo hanno mai saputo potrà sembrare un’assurda fantasia, ma è semplicemente un fatto: l’Arcigay è stata ideata da un prete.
Sì, l’associazione per i diritti omosessuali più importante e numericamente rilevante d’Italia deve la sua anima a un consacrato, omosessuale egli stesso. Accadde a Palermo nel dicembre del 1980 e quel sacerdote, allora quasi sessantenne e sospeso “a divinis” alcuni anni prima, si chiamava Marco Bisceglia, per tutti don Marco. Suo compagno di avventura nonché di appartamento, nei mesi successivi, un giovane obiettore di coscienza in servizio civile presso l’Arci, Nicola Vendola detto Nichi.
Chiare le premesse? Adesso, però, non ci si scandalizzi per il giudizio in arrivo, forse ancor più sorprendente: la storia di don Marco è una delle più belle storie di vita che si possano raccontare. Di quelle che rendono palese, per chi non lo credesse, quale straordinario luogo di accoglienza e ripresa umana possa essere la Chiesa. Nelle scorse settimane, per la collana “DietroFont” dell’esordiente casa editrice lucana EdiGrafema, è uscito un libro (acquistabile su Ibs) che ne percorre la vita: Troppo amore ti ucciderà, con testimonianze di Vendola, Franco Grillini e Beppe Ramina. O meglio, ne percorre le “tre vite”, come recita il sottotitolo del testo, ben scritto e documentato dal giornalista potentino Rocco Pezzano. Nella biografia del sacerdote, infatti, si riconoscono almeno tre momenti di profondissimo strappo per contenuti e stili di vita.
IL PRIMO MATRIMONIO GAY. Nella sua “prima vita” don Marco Bisceglia è un prete di lotta. Nato nel 1925, sacerdote dal 1963, ha studiato e abbracciato la Teologia della Liberazione, in particolare la lezione del poco ortodosso teologo gesuita José Maria Diez-Alegria Gutierrez. Quando gli viene affidata la parrocchia del Sacro Cuore di Lavello, suo paese di origine in Basilicata, il desiderio di esprimere i propri ideali si trasforma in azione. La difesa dei più deboli è per don Marco l’autentico contenuto dell’evangelizzazione. Le cronache dell’epoca iniziano a chiamarlo “il don Mazzi del Sud”. Don Marco si oppone a tutto ciò che reputa ingiusto, soprattutto all’interno della Chiesa: i funerali a pagamento, per esempio. La lotta al celibato dei sacerdoti, le operazioni finanziarie, le banche, gli investimenti immobiliari, l’arricchimento di alcuni preti con la speculazione edilizia. E la gente si lega a lui: tanti braccianti mai stati in chiesa prima d’allora, si ritrovano a seguirlo nelle sue battaglie, spesso vicine a quelle del Partito Comunista. Don Marco esprime con toni forti, anche in pubblico, durante le omelie la sua opposizione decisa alla Chiesa e alla sua struttura organizzativa. Ne nasceranno presto contrasti con il vescovo della diocesi. Non solo per le idee, ma anche per le azioni. Don Marco, infatti, non si ferma alle parole. In quegli anni, assieme alla sua comunità, è protagonista e animatore di scioperi al fianco di lavoratori, blocchi stradali e altre forme di protesta “borderline”, talvolta con conseguenti procedimenti penali. Il 30 settembre 1974, in un clima di esasperata contrapposizione e dopo alcune richieste di ravvedimento, arriva il decreto di rimozione da parte del vescovo Giuseppe Vairo: la parrocchia del Sacro Cuore è dichiarata vacante. Le ragioni non mancano: adesione al movimento radicale per la depenalizzazione dell’aborto e la libertà sessuale; uso della parrocchia come sede dei comitati per i referendum; assenze continue; violenti attacchi a Chiesa cattolica, clero e gerarchia. Poi un’accusa anomala, «scelta socio-rivoluzionaria», e un’altra più drammatica, ma decisiva, «chiara rottura della Comunione col vescovo».
Da quel momento la vicenda prende una piega inattesa, che porterà a Lavello i corrispondenti dei maggiori quotidiani e settimanali italiani. La comunità del Sacro Cuore, infatti, non accetta il decreto e si barrica all’interno della chiesa, letteralmente la occupa. Sulla facciata del Sacro Cuore compare una scritta: “La Chiesa è del popolo”. È una dichiarazione di intenti. Lavello diventa un caso nazionale, un parroco e il suo popolo contro il vescovo e la Chiesa “ufficiale”. Ma il fatto che più avrebbe fatto parlare di don Marco era accaduto pochi giorni prima di quella pubblicazione. È quello che le cronache ricorderanno per anni, seppur impropriamente, come il «primo matrimonio gay celebrato da un sacerdote italiano». Un giorno due omosessuali si presentano nella sagrestia e chiedono se la loro unione possa diventare sacra. «Il vostro matrimonio è già un sacramento di fronte a Dio», spiega don Marco. Quei due signori, in verità, non erano omosessuali ma Bartolomeo Baldi e Franco Iappelli, giornalisti del Borghese che registrano e spiattellano tutto sul giornale. Il 9 maggio 1975, il vescovo prende ulteriori provvedimenti: «Al sacerdote è proibito ogni atto di sacro ministero», si legge nel documento della curia. È la sospensione a divinis. Da quel momento l’immagine di don Marco, agli occhi della gente, si aggrava. Ma per don Marco non è un dramma. Tutto continua come prima. Si celebra, si fanno i sacramenti, si legge la Parola di Dio. Eppure il legame coi fedeli è sempre più debole. Le presenze si diradano, molti cominciano a staccarsi. Le foto dei primi anni di “occupazione” della parrocchia, sempre stracolma di gente, e quelle “spoglie” degli ultimi tempi, offrono l’immagine di questo progressivo distacco. È drammatica l’immagine dell’ultima Messa, il 25 aprile 1978, con don Marco che celebra tra poche vecchiette e dietro una fila di carabinieri e poliziotti.
LA CONVIVENZA CON NICHI VENDOLA. Don Marco si ritrova da solo, senza lavoro, senza futuro, ma soprattutto senza rapporti con la Chiesa. Un “disoccupato” in cerca di patria. Eppure non perde occasione per far parlare di sé. Il 3 giugno 1979 sono previste le elezioni politiche. Pochi mesi prima si presenta dal sacerdote un vecchio amico di tante battaglie con un’ipotesi scioccante: candidarsi con i Radicali. Quell’amico è Marco Pannella. Don Marco accetta: «Se si vuole essere liberi – scrive in quei mesi – bisogna necessariamente essere eretici. Personalmente non posso non essere uno di loro». La candidatura fa rumore, ma i voti non bastano per entrare in Parlamento. In quei mesi, mentre Bisceglia è ancora impegnato con i Radicali, avviene un incontro decisivo. In «circostanze fortuite», ricorderà poi, incontra a Roma Enrico Menduni (presidente, dal 1978 al 1983, dell’Arci, storica associazione culturale della sinistra italiana) che propone a don Marco di curare l’aspetto organizzativo dell’Arci per la “sezione” diritti civili. Nasce da lì, nel giro di poco, il copyright dell’Arcigay, “proprietà” di Marco Bisceglia.
La fondazione ufficiale arriverà solo nel 1985, ma come si legge sul sito arcigay.it: «Il primo circolo Arcy-gay nasce informalmente a Palermo il 9 dicembre del 1980 da un’idea di don Marco Bisceglia, sacerdote cattolico dell’area del dissenso» (a destra, la conferenza stampa di presentazione dell’Arcigay. Si riconoscono don Marco e Franco Grillini, secondo e terzo da sinistra, e Nichi Vendola, secondo da destra). Di qualche anno prima è il coming out di don Marco: la pubblica dichiarazione di omosessualità. Marco è già attivo da tempo nell’organizzazione dei diritti gay, ma non ha ancora liberato del tutto la sua, di omosessualità. Difficile ricostruire la data e la testata che avrebbe dato spazio alla clamorosa dichiarazione (qualcuno ricorda Panorama), ma nell’aprile 1982 un articolo di Andrea Marcenaro sull’Europeo ne parla come un fatto noto: «I preti omosessuali esistono, ma uno solo si è dichiarato», si legge. Quell’uno, naturalmente, è Marco Bisceglia. In quel periodo vive con 400 mila lire al mese (tanto è lo stipendio) e a stento riesce a recuperare i contributi da religioso per garantirsi una pensione. Risalgono a quegli anni l’amicizia e la convivenza con Nichi Vendola, che non smetterà mai di considerarlo «un maestro». I due vivono insieme per qualche mese a Monte Porzio Catone, nella casa di don Marco. Intanto con l’Arci, da qualche tempo, sorgono i primi problemi. Don Marco, in modo lento e silenzioso, si fa da parte. Non si avrà mai una vera e propria rottura, ma una sfumata e continua presa di distanza.
E così, proprio quando la sua creatura metterà le ali per diventare un punto di riferimento nazionale, calerà il sipario sul suo padre nobile. Da quel momento si perdono le tracce di Marco Bisceglia. Una volta era inseguito dai cronisti di tutta Italia, da quel momento quasi nessuno scriverà più un rigo su di lui, e nessuno si preoccuperà di scoprire come finì i suoi giorni. È questo il merito più grande di Rocco Pezzano.
Nel luglio 1987 Bisceglia appare ormai lontano dall’Arcigay. Dalle sue lettere si apprende che si trova ancora a Monte Porzio Catone, dove convive con l’omosessuale Dadì, trentenne di origini algerine. In quei giorni scrive la sua lettera più intima, forse la più bella. È una sorta di diario epistolare destinato agli amici Carla e Wouter. Racconta di aver letto La conoscenza di sé, opera del filosofo francese René Daumal. «Ci sto trovando – scrive don Marco – alcune cose che stanno accadendo in me. Nonostante tutto, l’età dell’oro esiste sempre, simultaneamente, in rare persone, ma sta a noi meritare di poterle individuare e avvicinare». In quelle parole c’è tanto, troppo, della sua imminente svolta per non leggere l’affacciarsi in lui di una nuova prospettiva di liberazione (l’età dell’oro). Non più ricercata in un’organizzazione, in uno sforzo di cambiamento sociale, ma in un modestissimo desiderio di prossimità a persone autentiche.
IL RITORNO E LA RICONCILIAZIONE. In un giorno della prima metà degli anni Novanta, squilla il telefono della parrocchia di San Cleto a Roma, quartiere San Basilio. A un capo della cornetta c’è padre Paolo Bosetti, responsabile della parrocchia, dall’altro monsignor Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas diocesana. La richiesta del prelato è quella di accogliere un sacerdote, il quale, però, porta con sé un tremendo fardello: l’Aids. «Cosa dobbiamo fare?», chiede padre Paolo. «Vogliategli solo bene», risponde il monsignore. Sarà così. Don Marco comincia, in punta di piedi, una nuova vita assieme ai confratelli della Congregazione di Gesù sacerdote che lì convivono. Poche parole, tanto tempo libero, nessun impegno parrocchiale.
La vita trascorre lenta, don Marco, semplicemente, segue e comincia a vivere tutte le tappe della giornata: lodi, Messa, cena. Sempre creativo e autonomo nelle scelte culturali, accetta anche consigli su cosa leggere: comincia dal Presbyterorum Ordinis, un decreto del Concilio Vaticano II sul ministero e la vita sacerdotale; poi l’Optatam Totius sulla formazione sacerdotale; senza tralasciare naturalmente Bibbia e Vangeli. Testi fondamentali se si pensa alla sua vita passata. Decisivi perché letti con occhi diversi. Don Marco si mette in discussione, come uomo e come sacerdote. Il suo passato è noto a tutti, ma nessuno ne parla. «Solo una volta è successo», ricorda padre Paolo. «Don Marco diceva di non rinnegare nulla, ma di voler prendere le distanze dal passato, per “qualcosa che gli gira dentro”, dice. E su cui don Marco vive e medita con serenità».
Vivendo al fianco di altri sacerdoti fiorisce nel suo cuore il desiderio più bello: tornare a celebrare l’Eucaristia. Sono trascorsi, dall’ultima volta, almeno quindici anni. Don Marco ne parla con i confratelli. Non può essere il capriccio di un istante, e allora si approfondisce la questione. A frenare tutto c’è la sua sospensione a divinis. Ma non è un ostacolo insormontabile. La persona da informare è il vicario generale, il cardinale Ugo Poletti (colui che fa le veci del Vescovo di Roma, allora Giovanni Paolo II), che si prodiga per la vicenda e che spiega che c’è un unico passo decisivo da fare: la supplica.
Don Marco prende carta e penna e stende la sua richiesta. La figura a cui presentare la supplica e che deve valutarla è il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger.
Dopo qualche tempo arriva la risposta: la sospensione a divinis è cancellata. Qualche giorno dopo don Marco ne dà notizia alla sorella Anita: «Sono cosciente della mia indegnità, così come sono fermamente fiducioso nel perdono di Dio e nella sua azione purificatrice e rigeneratrice. Spero di potere, con il suo aiuto, riparare ai miei errori e traviamenti».
Quella missiva arriva da Loreto. Padre Bosetti ricorda: «Se si riprende a celebrare l’Eucaristia, che è il corpo di Cristo, non si può farlo senza la riconciliazione». E così è stato. Il giorno della “prima Messa” arriva a Loreto una delegazione della vecchia diocesi di don Marco, guidata da monsignor Vincenzo Cozzi. Quella Chiesa a lungo contestata è lì per riabbracciarlo nel giorno più bello. Nessun passato può vincere il presente: i rancori e le incomprensioni sono fatti reali, concreti, ma non prevalgono. È la festa del perdono e della rinascita, è l’Eucaristia.
GLI ULTIMI ANNI, DURI MA INTENSI. Quelli che restano da vivere sono anni duri ma intensi. Non è semplice la vita per un malato di Aids, tra continue visite e frequenti ricoveri. «Eppure lui è sereno», racconta Vittorio Fratini, un amico. Una serenità che diventa conforto per gli altri, come testimonia un compagno di stanza in ospedale. Vittorio gli chiede da dove gli provenga questa gioia. La risposta è di quelle che non si dimenticano: «Ricordati che io ero morto e sono risorto. Se devo andare verso la fine della mia vita, ci vado con tanta serenità».
Una delle ultime lettere di don Marco è del 4 aprile 2001. Risponde all’amico Giancarlo che si lamenta delle gerarchie ecclesiastiche. Don Marco rompe gli schemi. Prima spiega di esserne consapevole, poi aggiunge: «Non lasciamoci irretire da facili stereotipi. Il mio vescovo è un uomo mite, ricco di umanità, ha favorito la mia reintegrazione, pur sapendo di avere a che fare con un soggetto sieropositivo». È sorprendente. Il vecchio sguardo polemico su ciò che nella Chiesa dovrebbe o non dovrebbe esserci, ha lasciato il passo a uno sguardo pieno di gratitudine per quello che c’è. L’ideologia ha lasciato il posto all’esperienza. Marco Bisceglia muore il 22 luglio 2001, nei giorni del G8 di Genova. Il “contestatore” muore in un giorno di contestazione. Ma quanto è lontano quello scenario di lotta dalla pace che regna ora nel suo cuore. Oggi riposa nel cimitero di Lavello, nella cappella dedicata ai sacerdoti.
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[Modificato da Caterina63 14/05/2014 13:55] Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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