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VERGOGNOSO INTERVENTO DI "AVVENIRE" CONTRO MONS. A. LIVI il quale mette in guardia dalla falsa dottrina di Enzo Bianchi

Ultimo Aggiornamento: 11/04/2012 15:52
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28/03/2012 16:14
 
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Gnocchi e Palmaro ci scrivono sul caso del signor Enzo Bianchi




Ah, il caso Enzo Bianchi.
Grazie monsignor Livi per averne parlato con tanta chiarezza.
Questa faccenda del signor Bianchi detto fratel Enzo, è davvero una delle questioni che mostrano come sia ridotta questa povera Chiesa dove ciò che non è cattolico vale quanto, e anche più, della buona e sana dottrina. Con il tragicomico risvolto della censura rivolta con cattiveria, arroganza e, diciamo, poca lucidità contro chi osi denunciare l’assurdità della situazione.
Ma un grazie va anche al dottor Marco Tarquinio, direttore di
Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani, per essere stato così sgradevole e, diciamo, poco lucido nel censurare monsignor Livi. Grazie davvero perché, se ancora fosse stata necessaria una prova del disastro, il dottor Tarquinio l’ha messa in bella copia nero su bianco: un’autocertificazione dello stato di coma del mondo cattolico. A questo proposito, avevamo pensato di scrivere qualcosa sul signor Bianchi, priorissimo della suopercomunità di Bose. Poi, nel nostro archivio, abbiamo trovato un articolo scritto per il Foglio qualche tempo fa. Visto e considerato che fratel Enzo dice e scrive con successo da anni sempre le stesse cose, abbiamo pensato che fosse ancora di attualità e potesse servire a rafforzare l’iniziativa di monsignor Livi che, se fossimo in un mondo cattolico serio, dovrebbe diventare una vera e propria campagna. Magari guidata dai vescovi: almeno qualcuno. Per la cronaca, l’articolo uscì con titolo “Bose dell’altro mondo”.
Alessandro Gnocchi Mario Palmaro

Prima, la notizia buona: chi avesse già speso 9 euro per acquistare
La differenza cristiana di Enzo Bianchi, ora può risparmiarne 10 evitando di mettere nel carrello Per un’etica condivisa, appena dato alle stampe sempre da Bianchi. Complessivamente, 1 euro guadagnato poiché, se La differenza cristiana è zuppa, Per un’etica condivisa è pan bagnato. Anche nel suo ultimo libretto, il Priore di Bose mena il torrone del cristianesimo minimale buttandoci dentro come canditi tutti quei termini che colpiscono nel profondo i cattolici tentati dall’esserlo sempre meno: l’Ultimo, lo Straniero (in maiuscolo), polis, agorà, ananké (in corsivo), parresia (in tondo) e poi profezia. Tanta profezia, anch’essa in tondo, ma scritta con forza tale da creare un vortice che trascina il lettore in un mondo nuovo, un cristianesimo altro, una spiritualità purissima che manifesteranno il regno di Dio qui e subito, perfettamente. Purché si faccia come insegna fratel Enzo. Anzi, come impone fratel Enzo. Perché la sua scrittura, contrariamente al messaggio minimale che contiene, è tutt’altro che mansueta. Si prenda un suo libro e si contino le frasi che iniziano con un “Sì,”. Quando il ragionamento perde qualche colpo, quando bisogna imprimere nelle testoline dei lettori il concetto giusto, fratel Enzo, come un vecchio marpione dell’omiletica che incespica sul pulpito o un navigato caporedattore di giornale popolare che non riesce a venirne fuori con un titolo, ci infila il suo bravo “Sì,”. Dopo il “Sì” ci vuole sempre la virgola, che irrobustisce la pagina.
Provare per credere. La differenza cristiana, pagina 77, settima riga: “Sì, l’annuncio cristiano non deve avvenire a ogni costo”. Togliete quel “Sì,” e avrete ridotto a un decimo la forza del messaggio, che, detto per inciso, suona tanto come un insulto ai milioni di martiri.

Il Priore di Bose è tutto qui, nel suo dire il quasi nulla con molta forza, nel suo attaccare il dogma mostrandolo intatto ma vuoto. Un “vivere doppio”, come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa tessendone l’elogio. Un “vivere doppio che è piuttosto un vivere-tra. Tra il mondo e ciò che non è del mondo. Tra adesione alla polis e distacco”. E come si potrebbe definire, se non un vivere-tra, quello di fratel Enzo? Fa l’editorialista del giornale storico della famiglia Agnelli e combatte il capitalismo, scrive sul giornale della Conferenza Episcopale Italiana e bersaglia la gerarchia, commenta il Vangelo su Famiglia Cristiana e proclama le verità altrui, fa il monaco solitario ed è sempre in viaggio ai quattro angoli del mondo, profetizza nell’iperuranio della teologia engagé e si occupa della legge sugli immigrati.

Un vivere-tra che segna fin dal principio la comunità fondata a Bose, tra Ivrea e Biella, da Enzo Bianchi, classe 1943, dottore in economia e commercio. Era un simbolico 8 dicembre 1965, giorno di chiusura del Concilio Vaticano II. Bose divenne punto d’incontro tra persone di entrambi i sessi appartenenti al cattolicesimo, al protestantesimo e al mondo ortodosso. E subito ne scaturì il carisma di punta avanzata dell’ecumenismo, di un vivere-tra teologico che fino a oggi non ha avuto alcun riconoscimento ecclesiastico. Non esiste istituto del diritto canonico della Chiesa cattolica che contempli un’entità di tal genere. Se al cattolico ordinario questo può apparire strano, a Bose vi diranno che è profetico. Il fatto che la loro comunità non possa essere contemplata dentro la struttura di questa Chiesa significa solo che la struttura di questa Chiesa deve mutare: troppo gerarchica, costantiniana, fondata sul potere, vecchia. Insomma, non è profetica, non è in grado di comprendere e trasmettere il vero messaggio evangelico. Tanto che, nella Regola di Bose si legge: “Nessuna comunità e nessuna persona possono realizzare ed esaurire tutte le esigenze dell’Evangelo. Solo la chiesa universale nella sua completezza storica può esprimere la totalità degli appelli contenuti in esso”.
Dal che parrebbe che “la chiesa universale nella sua completezza storica” non corrisponda alla Chiesa cattolica. Tanto che la Regola si affretta a dire al fratello e alla sorella di guardarsi bene dall’abbandonare la confessione di provenienza per farsi cattolici. Ma tutto ciò viene detto con tale mitezza e tale soavità e suona tanto bene che il cattolico poco accorto finisce per rimpiangere di essere stato battezzato nella Chiesa di Roma. Se non è così, bisogna che a Bose riscrivano la Regola e usino termini comprensibili a tutti. Però riesce difficile pensare di essersi sbagliati quando, poco più avanti si legge che il Priore, il “compaginatore della koinonía”, è colui che “spezza e interpreta la Parola per la comunità nelle varie congiunture in cui essa si viene a trovare”.
Il povero cattolico medio, qui, è costretto a cogliere la contrapposizione tra lo spezzare il Pane Eucaristico e lo spezzare la Parola che spaccò in due la Cristianità ai tempi di Lutero. Ma l’abilità di Bose, della sua Regola e del suo Priore sta nel non arrivare fino in fondo: suggeriscono. E il colpo da maestro di Bianchi sta nell’usare questo linguaggio e nel praticare questi temi come se la vita della Chiesa fosse già mutata. “Ma come” sembra dire ai poveri cattolici medi “siete ancora tanto indietro? Non soffia ancora in voi lo spirito della profezia?”.
Davvero bravo, perché con questo metodo è arrivato ovunque, dalle parrocchie illuminate alla predicazione degli esercizi per gli alti gradi della gerarchia, da trasmissioni radiofoniche come “Ascolta si fa sera” e “Uomini e profeti” ai viaggi di rappresentanza per conto del Vaticano. Eppure, fonti ben informate dicono che alla Congregazione per la dottrina della fede, sul suo conto c’è un dossier riguardante materie come l’ecclesiologia, la sacramentaria e la cristologia. Ma come si fa a mandare avanti una pratica a carico di un personaggio come fratel Enzo? E il dossier rimane lì, anche perché il pensiero di Bianchi non è così minoritario come si potrebbe immaginare.

E’ la storia di Bose, fin dai suoi esordi, a insegnarlo. Nel 1967, il vescovo del luogo vietò qualsiasi celebrazione pubblica nella comunità a causa della presenza di un non cattolico. Ma, il 29 giugno del 1968, l’arcivescovo di Torino, cardinale Michele Pellegrino, entusiasta di quell’esperienza celebrò lui stesso la Messa vanificando di fatto l’atto del vescovo. Oggi, che tra fratelli e sorelle di varia provenienza sono ottanta, non è chiaro se l’interdetto sia formalmente ancora in vigore, ma questo conta poco, poiché si troverebbe anche oggi un cardinale epigono di Pellegrino, pronto a correre in soccorso a Bose.

In ogni caso, fratel Enzo tira avanti. Predica esercizi ad alto livello, convoca e presiede convegni internazionali, è nume tutelare delle edizioni Qiqajon, scrive per grandi editori, compila voci di enciclopedie, tiene cattedra di teologia biblica e patristica all’Università Vita-Salute San Raffaele di don Luigi Verzé. E tutto questo con il solo titolo accademico di dottore in economia e commercio. Un autodidatta. Un magnifico autodidatta, ma pur sempre un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, allievo di se stesso.
Adesso qualcuno vorrà spiegare che lo Spirito soffia dove vuole e che la storia della Chiesa è punteggiata da individui che hanno intuito, profeticamente, strade nuove. Guardate San Francesco. Però, chiunque abbia fatto almeno l’esame di “Storia medievale 1” sa che la grandezza di san Francesco sta nell’essersi rimesso al giudizio della Chiesa di Roma e non nell’averla voluta giudicare. Monsignor Piero Zerbi, maestro dei medievalisti dell’Università Cattolica di Milano insegnava che sta qui la differenza tra Francesco d’Assisi e Pietro Valdo: uno divenuto Santo e l’altro eretico.

Ma fratel Enzo non teme scivoloni e se c’è da menare fendenti su Roma non guarda in faccia a nessuno. “Questo è un tempo triste per chi non possiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà” dice nella Differenza cristiana, citando una frase di Zagrebelsky. E poi rincara: “Io aggiungerei che è un tempo triste per certi cattolici che certo non pensano di possedere la verità, ma pur mettendo la loro fede in Dio e in Gesù Cristo che lo ha narrato, sanno che la verità eccede sempre i credenti. (...) Sì, è un tempo triste perché il cristianesimo appare minacciato nel suo specifico, e non minacciato da chi lo avversa o addirittura lo perseguita, bensì, come sovente accade nella storia, dai credenti stessi”.
E così, senza compromettersi facendo nomi, da Papa Benedetto XVI in giù sono sistemati tutti coloro che complottano per depotenziare la nuova Pentecoste avviata con il Concilio Vaticano II, tutti coloro che si oppongono al soffio dello Spirito. Gli altri, invece, i veri credenti, quelli che, come nei migliori ossimori, “non pensano di possedere la verità”, pur se invitati a un generico immergersi “nella storia, nelle sue opacità, nelle sue contraddizioni”, in realtà sono chiamati a divenire “comunità alternativa”.

Anche qui, Bianchi allude, profetizza, più che marcare nettamente. Ma, presi dal suo ragionare, si può essere indotti a immaginare veramente una nuova Pentecoste annunciata ed evocata da “comunità alternative” in cui “si manifesti pienamente la Venuta del Signore”. Una Nuova Era dello Spirito? Non viene specificato, però, nella Regola di Bose si legge che “Nella vita monastica è lo Spirito a chiamare, pur servendosi di mediazioni umane, e non la chiesa tramite il ministero episcopale, come accade per i ministeri ordinati”. E certo colpisce questo continuo evocare, anche se non fino in fondo, la contrapposizione tra una Chiesa istituzionale, vecchia e una Chiesa spirituale, nuova. Il tutto sottolineato da una sezione del sito web della comunità che si intitola “Pneumatofori”, portatori dello Spirito, in cui si dice: “Sono passati tra noi..” seguono 19 nomi per poi concludere “lasciandoci il loro spirito”.

Nell’attesa, le “comunità alternative” sono chiamate a evitare di porre Cristo al centro del proprio agire sociale. Niente leggi che sappiano di sacrestia: l’Altro, lo Straniero siano la regola, il nascondimento sia il mezzo, l’umanizzazione, e non la salvezza, sia il fine. Dunque, in Per un’etica condivisa, Bianchi spiega che gli ripugna un mondo in cui “le chiese propugnano un’etica e concentrano tutte le loro energie affinché sia assunta dalla società, si mostrano capaci di quei servizi necessari ai quali lo stato non sa dare attuazione, soprattutto in risposta ai diversi tipi di povertà ed emarginazione, offrono la loro esperienza e qualità di intervento nell’educazione giovanile, chiedendo però un riconoscimento del proprio ruolo”.

Per non parlare dei cosiddetti “atei devoti che oggi pontificano”. Ai quali Bianchi manda a dire che “non vi è nessuna necessità mondana di Dio, nessuna possibilità di teismo utilitario come invece vorrebbe far credere una società in carenza di ideali. Alla larga da “un progetto che vede le chiese correre in aiuto e supporto alla società per fornire, alimentare valori di cui esse hanno bisogno per il loro ordine ed equilibrio”.
In un colpo solo, fratel Enzo fa fuori gli atei devoti e San Tommaso d’Aquino. Il Dottore Angelico, nella Summa spiega l’utilità delle leggi dello Stato e della repressione penale, che servono ad “abituare a evitare il male e a compiere il bene per timore della pena, in modo che poi esso sia compiuto spontaneamente”. Ma è chiaro che, per dei puri destinati a vivere nel nascondimento e nella carità perfetta, la fatica di produrre leggi che conducano gli uomini al bene, invece che benedetta, appare blasfema.
E’ difficile non far risalire tutto questo a una sottovalutazione dell’Incarnazione di Cristo, da cui scende direttamente l’impegno del cristiano nella vita quotidiana. La Civitas Dei di Sant’Agostino, alla quale appartiene il cristiano, non è un luogo impalpabile e neppure una comunità separata che diventi esempio per la società. L’appartenente alla Civitas Dei ha il dovere mettere mano anche alla città dell’uomo, e il suo impegno è essenzialmente milizia.
Ma se l’impegno è debole, di solito, la cristologia è debole. Il Priore, quando cita Cristo, si affretta a spiegare che è colui che “ha narrato Dio agli uomini”. Linguaggio opaco che produce la sensazione di trovarsi davanti a una vicenda incompleta. Sensazione alimentata da Bianchi con un libretto per bambini intitolato “Gesù. Il profeta che raccontava Dio agli uomini”. E’ vero che dentro dice che Gesù è Figlio di Dio. Ma poi spiega ai suoi piccoli lettori: “Gesù (...) era un bambino come noi che viveva con i suoi genitori, Maria e Giuseppe, in un villaggio una piccola cittadina della Galilea. Quando aveva dodici anni ha sentito una chiamata più forte. (...) Gesù è stato inviato, mandato, è divenuto un testimone, cioè uno che raccontava Dio agli uomini”.

Forse, sta qui la ragione del cristianesimo minimale di Bianchi, che ha un precedente illustre in Giuseppe Dossetti, passato dalla militanza nella Dc alla scelta monastica. Non a caso, il Priore di Bose ha un posto fisso nel Consiglio di amministrazione della dossettiana Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. Come quello di Dossetti, il monachesimo di Bianchi è anomalo. Non sceglie la via della solitudine per lodare e adorare Dio, ma per caricarsi di carisma profetico con il fine ultimo di trasformare la Chiesa e renderla più spirituale e democratica attraverso le alchimie della politica. Un ribaltamento di orizzonte che passa dall’influsso della Chiesa sulla società a quello della società sulla Chiesa.
L’unica differenza tra Dossetti e Bianchi sta nel partner. Il monaco bolognese, tra gli artefici della costituzione repubblicana, fece della sua creatura il luogo d’elezione per l’incontro con il Pci di Togliatti. Pensò la carta costituzionale come piattaforma utopica per un progetto che trasformasse la vita politica italiana e, quindi, anche la Chiesa. Dal che discese una visione ideologica della costituzione in nome della quale Dossetti, prima combattè Craxi e poi lasciò il suo romitaggio per fronteggiare il cavaliere nero Berlusconi.
Bianchi, oggi, ha a che fare con gli eredi di un Pci putrefatto, una sorta di partito radicale di massa in cui convive tutto e in contrario di tutto, da Rosy Bindi a Massimo Cacciari passando per Dario Franceschini: come dire il nulla, l’ideale per le profezie minimali del Priore.

Ma l’obiettivo non è cambiato, nel mirino c’è sempre la Chiesa romana e la sua concezione costantiniana. Il che fa tirare una boccata d’ossigeno a Eugenio Scalfari, che, alla Fiera del libro del 2005 disse: “Se tutti i cattolici fossero come Enzo Bianchi io sarei molto rassicurato”.
Come dargli torto?

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Enzo Bianchi scrive una lettera aperta a Mons. Livi


Enzo Bianchi scrive a Messainlatino alcune precisazioni

Pubblichiamo molto volentieri la lettera che Enzo Bianchi ha scritto al nostro Direttore, in cui pur brevemente espone alcune precisazioni in merito a quanto scritto da Gnocchi e da Plamaro in un post di MiL mercoledì 28 marzo 2012 .
Bianchi esprime alcune dichiarazioni per amor di verità chiedendoci di pubblicarle, e noi, per amor di contraddittorio, lo facciamo volentieri.
Una sola nostra chiosa: alcuni punti della lettera di Enzo Bianchi in qualche modo potrebbero rassicuraci perché fissano in maniera inequivocabile la posizione di Bianchi e della Comunità di Bose su alcuni punti fermi su cui non si potrebbe transigere. Ed è cosa buona.
Però... c'è un però.
Pur apprezzando l'esplicita dichiarazione di rispetto al Papa, di obbedienza filiale all'Autorità Ecclesiastica e all'Ordinario del luogo da parte della Comunita (che ha ottenuto il riconoscimento canonico del Vescovo di Biella), diciamo, non senza tristezza, che il riconoscimento dello Statuto da parte di un Vescovo italiano, ahinoi, non basta
tout court, a garantire patente di "cattolicità" e di ortodossia. Questo non in riferimento al Vescovo in questione, ma in considerazione degli orientamenti generali dell'Episcopato Italiano.


Redazione MiL



"Bose, 29 marzo 2012

Egregio Direttore
Messainlatino.it
redazione@messainlatino.it



Egregio Direttore,
siccome ha ospitato lo scritto dei giornalisti Gnocchi e Palmaro, confido che ospiterà anche questa mia breve precisazione. Non intendo difendere me stesso, ma semplicemente dichiarare alcune cose per amore di verità.
a) La Comunità monastica di Bose è sempre stata sotto l’esplicita autorità di un Vescovo cattolico – dapprima i cardinali Michele Pellegrino e Anastasio Ballestrero poi l’Ordinario del luogo – e l’11 luglio 2001 ha ottenuto il formale riconoscimento canonico a firma del Vescovo di Biella, mons. Massimo Giustetti, che ne approvava Statuto e annessa regola di vita. Detto riconoscimento è stato confermato il 29 giugno 2010 da mons. Gabriele Mana, Vescovo di Biella, in occasione dell’approvazione di alcune modifiche statutarie. Il medesimo Vescovo ci conosce bene, ha affidato e affida incarichi e responsabilità diocesane a fratelli della Comunità, ci visita regolarmente e assicura l’oggettiva comunione cattolica nella quale viviamo.
b) Non è vero che esiste un dossier sul mio conto presso la Congregazione per la fede. Me lo ha confermato, già al tempo delle accuse di Gnocchi e Palmaro, l’allora segretario della Congregazione medesima, mons. Amato.
c) Non ho mai contrapposto la Chiesa istituzione a quella carismatica, perché la Chiesa è una e non esistono due Chiese parallele o, peggio ancora, in contrapposizione. Tutti conoscono la mia severa e netta posizione su questa concezione della Chiesa.
d) Non sono stato discepolo di don Giuseppe Dossetti, ma continuo a ritenerlo uno dei più grandi maestri di spiritualità cattolica e di vita santa in Italia.
e) Non ho alcun rapporto con la politica né con schieramenti politici perché ritengo che un monaco non possa e non debba entrare in campi di azione e impegno che spettano al laicato.
f) Quanto al mio ecumenismo o impegno per l’unità dei cristiani e nella Chiesa, faccio presente di aver sempre mantenuto vivo il dialogo e la fraternità anche con i cattolici tradizionalisti. Ne fa fede, per esempio, la mia amicizia con l’abate del Monastero benedettino di Barroux e l’invio presso quella comunità di monaci di Bose per fraterne soste spirituali. È una favola dovuta ad altri due giornalisti che io abbia criticato papa Benedetto XVI per il motu proprio Summorum Pontificum. Ho invece criticato chi della Messa, luogo di comunione, fa una bandiera e un segno ed elemento di divisione.

La prego anche di pubblicare la mia lettera aperta a mons. Livi che parimenti le allego.

Ringraziandola, confido che mi concederà queste precisazioni

fr. Enzo Bianchi
F.to Enzo Bianchi Priore di Bose"


[SM=g1740771]

Gentile Enzo Bianchi, lei scrive e specifica:  
 
La Comunità monastica di Bose è sempre stata sotto l’esplicita autorità di un Vescovo cattolico  
 
*********  
 
mi permetta di dissentire sull'esemplificazione della frase stessa... la sua Comunità è composta da persone NON cattoliche per le quali il Vescovo NON ha alcuna "esplicità autorità"..... Wink nè è esplicito che il Vescovo abbia su di lei qualche "esplicita autorità"..... se ciò fosse esplicito, molte delle sue errate affermazioni, sarebbero state state corrette anche se, e questo non è una sua colpa, siamo da anni in balia delle personali opinioni, anche sulla dottrina e di conseguenza i Vescovi, molti, tacciono sulla famosa correzione fraterna, non per nulla materia di catechesi e di sollecitazione da parte del Papa nel suo Messaggio per questa Quaresima....  
 
Comunione Cattolica? suvvia Enzo Bianchi! non prendiamoci in giro per favore! Non esiste una "comunione Cattolica" senza l'Eucarestia, di conseguenza la sua Comunità può solo avere una comunione ECUMENICA ma non cattolica... nella sua comunità si celebra la Messa una sola volta la settimana e non credo che vi partecipino tutte le sue membra.... non c'è pertanto una "comunione" con tutti....  
 
Se non esiste un dossier sul suo conto presso la CdF, sarebbe ora che se ne aprisse uno.... Laughing non me ne voglia, ma quello di essere provati al crogiolo è una benedizione per noi "cattolici"....  
 
Quanto alle sue critiche al MP Summorum Pontificum, gentile Enzo Bianchi, era su molti giornali....e lei parla contro la controriforma di Benedetto XVI.... nel numero  di Jesus di aprile 2011 lei si domandava: MA DOVE STA ANDANDO LA CHIESA? e lo diceva spiegando quanto fosse contrario alla controriforma del Papa in materia liturgica... e scriveva:  
 
"Tanta fatica per cambiare, quasi cinquant’anni fa – uno sforzo compiuto con entusiasmo ma a volte anche a prezzo di sofferenza e sottomettendo le nostre nostalgie personali al bene della vita ecclesiale – secondo le indicazioni del concilio e del papa: e oggi? Perché ci sono presenze nella chiesa che vorrebbero spingerci a essere con il papa contro i vescovi oppure con i vescovi contro il papa, persino quando si tratta di celebrare l’eucaristia, luogo per eccellenza della comunione ecclesiale?   
Si dice che il cammino ecumenico è irreversibile, ma poi vediamo che molti vorrebbero correggere la sua comprensione consegnataci dal Vaticano II.   
 Papi e vescovi ci hanno insegnato che il vero ecumenismo non significava ritorno alla chiesa cattolica, bensì cammino verso un’unità che i cattolici confessano essere un principio già presente nella loro chiesa, ma che deve essere ancora completata, in quanto mai piena nelle diverse forme e convergenze.   
Abbiamo forse avuto vescovi e papi come “cattivi maestri”? E i “gesti” così eloquenti compiuti dagli ultimi papi erano forse temerari, favole da non prendere sul serio? "  
   
****************  
e non posso darle torto a riguardo delle domande, gentile Enzo Bianchi, perchè ciò che dice è vero, ma non per le sue conclusioni, quanto per una vera e propria denuncia a quel sincretismo mosso in nome dell'ecumania DELLE OPINIONI e delle personali interpretazioni assunte ad assoluta verità... se infatti avesse ragione lei, cosa dire: Abbiamo forse avuto vescovi e papi come “cattivi maestri”? e ci dica, quale Papa, quali Vescovi? faccia i nomi.... nè il Concilio, nè i Papi hanno mai detto che per fare ecuminismo NON ci si deve convertire alla Chiesa Cattolica.... Wink  
Infine, faccia un regalo a tutti i cattolici.... la smetta di parlare di Cristo "CREATURA"... "Dio da Dio, generato NON creato ...." almeno in questo si lasci correggere, umilmente, e dica ai suoi discepoli di aver sbagliato ad usare quel termine...  
Santa Pasqua!


[SM=g1740733]



Volentieri pubblico questa replica di Mons. Antonio Livi alla Lettera aperta di Enzo Bianchi
pubblicata su « Messainlatino.it » (prima pagina - seconda pagina).



La lettera aperta di Enzo Bianchi non fa che confermare l’intenzione di lui e del suo difensore d’ufficio, Marco Tarquinio, di ignorare la fondatezza delle mie critiche.
Io avevo voluto solo richiamare (vedi intervento) l’attenzione su un evidente caso pastorale, quello del millantato credito di un intellettuale che – per come vien presentato – molti considerano un monaco, un sacerdote e un teologo, mentre queste qualifiche, nei termini in cui vengo usate nella Chiesa cattolica, non gli appartengono.

Tarquinio (vedi intervento) ha evitato di entrare nel merito delle mie considerazioni sui modi più adeguati di orientare l’opinione pubblica cattolica, e invece ha costruito ad arte un caso criminale (il “caso Livi”). Non c’era ragione di inventarsi un “caso Livi”, che non interessa nessuno e non serve a niente; Tarquinio e Bianchi sanno benissimo (anche se continuano a dire che non mi conoscevano) che da mezzo secolo mi sto adoperando per favorire una adeguata conoscenza degli insegnamenti autentici della Chiesa, mettendo in evidenza, a partire da questi, i criteri che servono a discernere, tra tanti autori che si presentano come interpreti affidabili della verità cattolica, quelli che effettivamente lo sono.
L’ultimo lavoro di livello scientifico che ho realizzato con questa precisa finalità è un trattato che si intitola Vera e falsa teologia e che ha come sottotitolo: Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”. Si tratta di un testo di studio, riservato a specialisti, e la mia speranza è che quei pochi che vorranno studiarlo lo sappiano apprezzare e diffondano poi questi criteri ad ambiti più vasti del pubblico.
Io però, nel frattempo, non ho rinunciato a cogliere alcune possibilità di rivolgermi direttamente a questo pubblico più ampio, e ho continuato a scrivere delle brevi note su riviste specializzate (Il Timone, Studi cattolici, Rivista del clero italiano, Sacerdos, Città di vita, Nuntium, Fides Catholica, Vita pastorale, per citarne alcune), e in questo contesto si spiega il mio intervento sul La Bussola quotidiana, dove sollevavo appunto un caso pastorale, quello dell’opportunità che un giornale ufficialmente cattolico continuasse a presentare Enzo Bianchi come autorevole maestro di dottrina cristiana.

Il priore di Bose ritiene ovviamente del tutto meritata la sua fama di biblista e di teologo, e Avvenire (giornale che Tarquinio identifica in tutto e per tutto con la Chiesa) assicura che la sua ortodossia è « indiscutibile ». Pertanto, i rilievi critici sui suoi scritti che io mi sono « azzardato » a fare sarebbero soltanto malevole interpretazioni, che costituirebbero oltre tutto un grave attentato all’unità dei credenti, un peccato contro la carità del quale io dovrei « vergognarmi ». In realtà, i discorsi di Bianchi dai quali io avevo preso spunto giustificano ampiamente la mia critica, sorretta peraltro da seri argomenti teologici e corredata da citazioni testuali. Ciò è stato riconosciuto da non pochi esponenti dell’episcopato italiano e da qualificati teologi, mentre Tarquinio e Bianchi insistono ad accusarmi di menzogna e di perfidia.

Riassumo dunque i motivi specifici di questo mio intervento su La Bussola quotidiana. Io mi riferivo innanzitutto all’apologia di Hans Küng che Bianchi aveva fatto sulla Stampa, scrivendo tra l’altro: « La complessità dei problemi sollevati, la durezza di certi accenti polemici, l’incomprensione reciproca ha portato a scavare un fosso sempre più ampio tra Küng e il magistero cattolico ».
Parlare di « incomprensione reciproca » tra i magistero e il teologo equivale a mettere sullo stesso piano (il piano delle opinabili ipotesi scientifiche) gli insegnamenti dell’uno e dell’altro: ed è proprio quello che i “falsi profeti” pretendono, accusando le autorità ecclesiastiche di non averli capiti.
Insomma, loro, di che cos’è il vero cristianesimo ne saprebbero molto di più. La Chiesa avrebbe fatto male, molto male, a diffidare dell’ortodossia di Küng, fino a togliergli la facoltà di insegnare ufficialmente la teologia cattolica a Tubinga. Altre misure “repressive” non si conoscono: quella che si conosce è il minimo che l’autorità ecclesiastica potesse fare dopo che il teologo svizzero aveva insistito a sostenere le sue tesi eretiche.

Perché una sola cosa è « indiscutibile », almeno per chi conosce i fatti e li esamina serenamente, alla luce della dottrina cattolica, e cioè che le tesi di Hans Küng rappresentano la negazione esplicita di tutti i dogmi, a cominciare da quello che nella Chiesa garantisce la funzione carismatica del Papa, ossia la sua infallibilità quando si pronuncia « ex cathedra » su argomenti attinenti alla fede cattolica.
Interpretando la rivelazione divina con le categorie dell’idealismo dialettico, Hans Küng non solo contesta la disciplina ecclesiastica (chiedendo l’abolizione del celibato sacerdotale e l’ordinazione sacerdotale delle donne), non solo critica le norme della morale cattolica (a proposito di contraccezione, di aborto, di omosessualità eccetera) ma attenta al cuore stesso della fede nella Rivelazione, che presuppone la « dottrina degli Apostoli », ossia il Magistero, nella definizione degli articuli fidei e nella loro interpretazione autentica. Da Infehlbar in poi, Hans Küng ha inteso sempre discutere il ruolo ecclesiale di Pietro, l’apostolo al quale Gesù, come narra il Vangelo, ha assicurato la sua speciale assistenza, in modo che la sua fede — allora e nei secoli a venire — non venisse meno, ed egli, una volta convertito, confermasse i suoi fratelli.

L’indefettibilità della Chiesa (« le porte degli inferi non prevarranno su di essa ») non sussisterebbe senza l’infallibilità del Magistero, ossia del collegio episcopale, formato dai vescovi cum Petro et sub Petro.

A Bianchi tutto questo importa ben poco; egli sa bene che Hans Küng ha denigrato tutti e tre i papi con i quali ha avuto a che fare per motivi dottrinali (Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI); sa soprattutto che nei riguardi del beato Giovanni Paolo II il teologo svizzero si è espresso in termini gravemente offensivi in un articolo sulla stampa anticattolica tedesca, subito ripreso e pubblicato integralmente in italiano dal Corriere della Sera; per ultimo, sa che ai giornali di orientamento massonico fa comodo che un cattolico porti acqua al mulino della loro polemica contro l’idea stessa di dogma (la pretesa della Chiesa di verità cattolica e l’autorità dottrinale del Papa). Malgrado tutto ciò, Bianchi va a parlare bene di Hans Küng proprio su uno di quei giornali! E Tarquinio ritiene quest’« uomo di Chiesa » adatto a parlare di fede cattolica nel giornale dei vescovi italiani...

È o non è lecito dubitare dell’opportunità pastorale di fare da altoparlante a questi orientamenti dottrinali? Ora, è proprio sulla responsabilità pastorale che si basano le mie osservazioni critiche nei confronti di Bianchi e del direttore di Avvenire. Quello che ambedue dimostrano con i loro discorsi, prima e dopo il “caso Livi”, è la convinzione che la pastorale della Chiesa non possa o non debba prestare troppa attenzione al dogma, e per questo non solo non condividono ma proprio non capiscono il disagio che io provo nel rilevare comportamenti e discorsi pubblici che contribuiscono al disorientamento dottrinale dei cattolici.

Si sente ripetere spesso che “il cristianesimo non è una dottrina”. L’espressione di per sé è ambigua, ma può essere intesa nel modo giusto se completata con il riferimento alla persona di Cristo, come fa talvolta Benedetto XVI. Ma dire che il cristianesimo non è una dottrina non equivale affatto a dire che “il cristianesimo non ha una dottrina”, perché nessuno può aderire con la fede a Cristo se non accetta la sua dottrina (ci si scorda che Egli ha detto: « La mia dottrina non è mia ma di Colui che mi ha mandato »).
E la dottrina della fede non è, non può essere, qualcosa di vago e indeterminato, ma ha una precisa determinazione nelle “formule dogmatiche”.

Ora, se si sa e si riconosce senza riserve mentali che le formule dogmatiche sono l’oggetto proprio della fede, un cattolico non può contribuire volontariamente a far sì che qualcuno, presentandosi come autorevole interprete della fede, neghi espressamente le formule dogmatiche o le relativizzi, ossia non le consideri come verità assoluta.
Ognuno deve fare quello che può per opporsi a questa pastorale erronea, quale che sia la buona fede o il prestigio personale di chi la pratica. Certamente, spetta all’autorità ecclesiastica dire l’ultima parola circa l’ortodossia di una dottrina, ma ciò non toglie che la salvaguardia dell’ortodossia sia responsabilità di ogni cristiano, specie se si tratta di sacerdoti che intendono essere fedeli al ministerium verbi. Il discernimento – grazie al dono della fede – è reso possibile dal fatto che il significato e il senso essenziale di ogni dogma è alla portata di tutti coloro che veramente hanno la fede, così che il confronto critico tra la verità creduta e la dottrina che la contraddice è possibile a tutti.

La frase che ho riportato, alla luce della metafisica implicita nel senso comune e nelle formule con cui la Chiesa ha elaborato il dogma cristologico, non permette altra interpretazione che quella che io ho dato. Gesù, come persona è Dio, non una creatura. La persona del Verbo Incarnato ha due nature: quella sua propria (l’essere Dio) e quella “assunta” dell’umanità; ma la persona rimane una sola, ed è Dio. La natura umana di Cristo è creata, ma Lui, Cristo, non è una creatura. La persona è, in termini metafisici, la “sostanza”, mentre la natura è l’insieme degli accidenti propri.
Uno può usare il linguaggio che vuole: quello preciso della teologia o quello vago della letteratura. Ma i testi che passano per sussidi della catechesi non possono contenere espressioni e frasi che inducono all’errore sul vero significato dell’Incarnazione e della Redenzione. È un controsenso. La catechesi deve rispettare il linguaggio del dogma, perché altrimenti la fede nel mistero rivelato non c’è più. Lo diceva anche Paolo VI nell’enciclica Mysterium fidei a proposito del linguaggio con cui si deve esprimere il mistero eucaristico. Si deve parlare di “transustanziazione” e non di “transfinalizzazione” eccetera.

Infine, per restare in tema di pastorale, il Vaticano II, concilio pastorale, non ha certamente avallato la traduzione del dogma in un linguaggio che testualmente lo neghi: ha invece raccomandato la traduzione del dogma in formule consone alle modalità di pensiero del nostro tempo, purché la logica di base sia quella delle verità del senso comune. Il senso comune non può che interpretare l’espressione « il suo essere creatura », riferita a Gesù, come la negazione implicita del suo « essere Dio ».
La logica del senso comune è ineludibile: non si può pensare che Gesù sia, come persona, una creatura come tutti noi e allo stesso tempo « Colui per mezzo del quale sono state create tutte le cose ».
Quando si opera nel campo della pastorale e si pretendono per sé dei titoli di autorevolezza dottrinale, si deve parlare di Gesù in termini rispettosi della verità rivelata; in concreto, per il caso di cui mi sono occupato, se ne deve parlare chiaramente come di una persona divina che ha unito a sé la natura umana (« il Verbo, che è Dio, si è fatto carne ») e non come di una persona umana.

Un linguaggio come quello usato da Bianchi nel suo scritto (che Tarquinio definisce « una bella e intensa meditazione »), considerato anche tutto il contesto, non aiuta certamente a ravvivare la fede in Cristo come Redemptor hominis, il Dio-con noi.

Tra pochi giorni la liturgia cattolica mette in bocca ai fedeli l’invocazione: « Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua santa Croce hai redento il mondo ». Per aiutare a dire queste parole con convinzione di fede non servono, anzi sono controproducenti, i discorsi moraleggianti di Bianchi, che – ripeto e sono in grado di documentare in ogni sede – rispondono alla logica dell’umanesimo ateo. Perché i miei rilievi dottrinali non vengono nemmeno presi in considerazione dal direttore di Avvenire? Perché gli sembra ridicolo e scandaloso il fatto di aver usato l’aggettivo “eretico”? Forse perché condivide l’opinione corrente secondo la quale non si può dire di nessuno che sia eretico, nel significato ovvio di contraddire un dogma, in quanto non si deve più parlare di dogmi; se io lo faccio, sono “fuori”, sono legato a una triste mentalità dogmatica ormai superato da tempo.

Ma si rendono conto – Tarquinio e tutti quanti la pensano come lui – che questa allergia alle distinzioni dogmatiche altro non è che il risultato di quella « dittatura del relativismo » che Benedetto XVI ha chiaramente denunciato già all’inizio del suo pontificato?

Antonio Livi
Decano emerito della Facoltà di Filosofia e Docente di Filosofia della conoscenza alla Pontificia Università Lateranense.


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[Modificato da Caterina63 01/04/2012 12:28]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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