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La vera e autentica Comunità Cristiana, come deve essere e come si deve comportare, di Don Divo Barsotti

Ultimo Aggiornamento: 12/04/2012 22:50
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(Don Divo Barsotti con Giovanni Paolo II)

 

 

 

Divo Barsotti: la carità

Il senso Comunitario

(15 gennaio 1956)

 

Un aspetto fondamentale del Mistero cristiano è il senso comunitario. E questo senso comunitario ci deve far sentire, capire, che la nostra appartenenza alla comunità non ci chiude, non ci difende dagli altri, ma ci dà invece una capacità nuova di amore, per avvicinarci a tutte le anime.

Non ci si chiude, ma ci si apre sempre di più a un respiro sempre più vasto di amore.
Senso comunitario. E avanti di rivolgerci agli altri dobbiamo intanto vivere questo senso comunitario fra noi. Anche fra noi abbiamo tanto motivo di superare tanti egoismi e individualismi; individualismi di chi si difende di fronte agli altri, e vuole mantenere per sé una sua esperienza, una sua vita, volendo beneficiare della comunità senza di fatto dare nulla di sé agli altri. Queste anime non hanno un senso comunitario: hanno veduto nella comunità soltanto, direi quasi esclusivamente, un mezzo di santificazione personale. Questo è sbagliato. La comunità diviene un mezzo di santificazione personale nella misura che per l'anima è veramente una comunità, una comunità d'amore. Non saremo mai anime aperte, non ci potremo mai donare agli altri se prima di tutto non realizziamo fra noi una vera comunità.
Come si realizza una comunità? Quando si pone qualcosa in comune. E che cosa noi possiamo mettere in comune? Tutta la nostra vita. Anzi, direi più che tutta la nostra vita: tutto l'essere nostro. Quello che dobbiamo mettere in comune sono i nostri beni; più ancora: il nostro corpo; più ancora: il nostro medesimo spirito, il nostro essere stesso. Non le nostre cose soltanto, ma noi stessi. Questo doppiamo porre a servizio della comunità, questo veramente donare.
Nella misura che noi si vive nella comunità, viviamo anche questo impegno di donazione, di amore, che in concreto si realizza nel dono di quello che abbiamo e di quello che siamo. E quello che abbiamo sono le nostre cose, è la nostra vita, il nostro corpo, il nostro medesimo spirito. Non abbiamo altro.


E in che modo donare i vostri beni? Mettendoli a servizio della comunità. E in che modo si mettono a servizio della comunità? Non certo nel senso che la comunità debba mettere da parte una bella somma, perché allora dal senso di proprietà che è proprio degli individui si passerebbe a un senso di proprietà, di potenza e di ricchezza che è proprio della comunità come tale! Però, ecco, intanto l'anima si spoglia di quello che possiede, sentendo veramente che quanto possiede le viene permesso di usarlo nella comunità: di fatto, quello che possiede è già della comunità, non è suo.


Questo deve essere il sentimento interiore di ciascuno di noi: di non avere la proprietà, ma l'uso delle cose che abbiamo. Questo interiormente, perché di fronte alla legge ci rimane tutto quello che possediamo. Sentire veramente che se qualcuno di noi ha bisogno, se la comunità ha bisogno delle nostre cose, le nostre cose non sono più nostre. Effettivamente non erano nostre nemmeno prima… Certo, la comunità deve anche impegnarsi verso chi ha bisogno, perché altrimenti il senso comunitario sarebbe realizzato soltanto da chi dà. Un senso di comunione si stabilisce soltanto quando c'è un dare e un ricevere, quando c'è una reciprocità: tutto è comune. Perciò, se quello che è mio è di tutti, anche quello che è di tutti è mio.


Ma tutto questo è ancora ben poco. Quello che importa è la donazione della nostra vita, dell'essere nostro, cioè l'impegno a vivere tutta la propria esistenza nella comunità e per la comunità, in quanto la comunità è strumento di carità anche nella Chiesa. Questa offerta della propria esistenza, del proprio tempo, delle proprie doti alla comunità, è il dono della propria vita. E la comunità se ne avvale per poi agire anche fuori di sé.
Questo dono dell'esistenza deve essere vissuto in modo tale che si senta che è stato compiuto in forza di un amore soprannaturale, perché l'uomo possa liberarsi dal proprio egoismo e vivere per gli altri.
La comunità si realizza nel dono della vita di ognuno, e non esisterà mai fin tanto che questo dono non si compirà in concreto: la comunità non esisterà per te se tu non ti doni, non esisterà per me se io non mi dono.


È un dono, ma non ci spoglia, non ci impoverisce, perché quanto doniamo veniamo ora a possederlo non più come cosa personale, ma come bene comune. Mai noi doniamo una cosa in tal modo da non possederla più: è anzi nel donarla che noi la possediamo in un modo più intimo e grande. Il dono onde noi offriamo e mettiamo in comune la nostra vita, l'essere nostro e tutto quello che abbiamo, non ci rende poveri, perché crea la comunità. Perciò, mettendo tutto in comune, noi veniamo veramente ad acquistare un bene maggiore. Questo anche per riguardo alla ricchezza, alla potenza della vita, alla capacità di azione che ha la nostra esistenza. Questo anche per quello che riguarda – più intimo di tutti – il bene soprannaturale, che è legato essenzialmente alla nostra libertà.


Dobbiamo renderci conto che è sempre così quando veramente si vive di amore: si crede di spogliarci ed effettivamente veniamo ad arricchirci. Ma bisogna che il nostro dono sia davvero reale perché l'anima possegga veramente anche questa ricchezza, sia reale in tal modo che l'anima si liberi da ogni egoismo, da ogni individualismo chiuso. Allora di fatto l'anima sente che la sua ricchezza è cresciuta. Non per nulla Nostro Signore nel Vangelo ci insegna che coloro che hanno lasciato per amore di Cristo – c'è anche qui il senso comunitario, la realizzazione di una certa comunità fra i discepoli e dei discepoli con Cristo – coloro che hanno donato, che hanno lasciato tutto per Lui, e campi e case e moglie e fratelli e figli, posseggono il centuplo già in questa vita e la vita eterna nel futuro. È realmente così.


Se la comunità è chiusa, i doni di ognuno accrescono la potenza e la ricchezza della comunità, che non si mette a disposizione di carità per gli altri. Ma quando si dona per Cristo, si crea una comunità in cui veramente la ricchezza di ognuno aumenta: per ognuno diviene più grande la possibilità di agire e la nostra vita acquista potenza, perché non è più una vita isolata, ma si potenzia della vita di tutti gli altri. E questo avviene non tanto per un rinnegamento, per una mortificazione della personalità dei singoli, quanto per un potenziamento della personalità di ciascuno. Mai nella nostra vita realizziamo tanto noi stessi come quando veramente ci doniamo e realizziamo una comunione di vita con gli altri.


La nostra vita nella comunità acquista forza, vigore, potenza – potenza di amore, di attività, potenza efficace voglio dire, non in senso umano – nella misura che noi davvero realizziamo una comunione di amore fra noi; non in quanto ci separiamo dagli altri, non in quanto vogliamo difenderci di fronte all'amore, non nella misura che noi ci rendiamo indisponibili di fronte agli altri, ma nella misura invece che ci siamo donati.

 

[SM=g1740771] continua

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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12/04/2012 22:34
 
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E questo è vero indubbiamente per ciascuno di noi; ma lo vediamo vero tanto più in coloro che realizzano o tendono a realizzare sempre di più questo impegno di donazione, di dedizione di sé: quanto la loro vita acquisterà di potenza, di efficacia, di forza, di forza interiore, soprannaturale, di forza divina! Mettendo in comune la propria esistenza con gli altri, la nostra vita diviene feconda.


Il primo dono, il primo modo di vivere per cui giungere a liberarsi del proprio egoismo, Dio ha voluto che fosse il matrimonio. Ebbene, è nel matrimonio che l'uomo veramente acquista una paternità, una maternità. Fin tanto che l'uomo vive del tutto indisponibile agli altri, è veramente anche sterile. È invece nella misura che mette in comune la propria vita e la dona, che la sua vita acquista di fecondità e di efficacia.

Col voto di obbedienza non solo metto in comune con gli altri la mia vita, ma in qualche modo la metto in comune con Dio: l'obbedienza sarebbe sempre una cosa immorale se non fosse dovuta a Dio solo, perché se è dovuta a un'altra creatura è sempre servitù, abiezione; non è una virtù, è qualcosa che avvilisce. Nel Cristianesimo l'obbedienza è dovuta soltanto a Dio. Il voto di obbedienza crea una comunione di vita con Dio, perché realizza un superamento della nostra vita umana: la nostra vita umana si trasfigura, viene consacrata, consacrata nel senso che si trasforma, e da umana diviene divina, come l'acqua che si cambia in vino nelle Nozze di Cana.
Cos'è che fa umano il mio atto? La piena coscienza che ho nel compierlo e la piena libertà onde io lo compio. Un atto in cui non ci sia questa consapevolezza né questa coscienza né questa libertà non è più un atto umano, anche se è compiuto da uomini: quanto più libero è l'atto e quanto più è consapevole, tanto più è umano. E quando non è più la volontà umana che realizza un atto, che si incarna in un atto, ma è la volontà di Dio, l'atto dell'uomo diviene atto divino. E che cos'è la santità se non questa trasfigurazione dell'uomo onde tuta la sua attività diviene attività di Dio, vita di Dio? È un Dio che in qualche modo si incarna nel tuo atto, che prende vita nella tua vita.


Se gli altri voti realizzano una comunione fra gli uomini e potenziano l'uomo, l'arricchimento di tutta la ricchezza degli altri uomini con i quali vive e si stringe in comunione di amore, la virtù, l'atto dell'obbedienza, creano invece una comunione con Dio, realizzano la comunità dell'uomo con Lui. Nasce da qui che l'aspetto fondamentale del Cristianesimo è possibile viverlo nella misura che realizziamo un senso comunitario fra noi. Dobbiamo sentire veramente che non abbiamo nulla da difendere! Noi possediamo solo quello che mettiamo in comune.
Dobbiamo sentire davvero che quello che abbiamo lo abbiamo per donarlo, perché sia di tutti, non perché sia nostro. È nostro solo perché ne facciamo quest'uso che è la donazione, l'offerta. In fondo, non è in questo che si consuma tutta la vita dell'uomo e dell'universo: nel sacrificio? E che cos'è il sacrificio se non la donazione, l'offerta? La mia attività si consuma in un'offerta, in una dedizione, in un dono: dono di quello che sono, dono di quello che ho. Quello che abbiamo sono i beni spirituali e sono tutti i beni, e tutti noi dobbiamo metterli a disposizione. Nulla da conservare per noi. L'uso di questi beni è per la comunità e per tutti nella comunità. Pure in potenza possedendo ogni cosa, di fatto noi rimaniamo veramente di ogni cosa padroni e non schiavi, nella misura che noi ne usiamo quanto ci è necessario. Dobbiamo sempre ricordarci che le creature, le cose, sono un mezzo di cui dobbiamo servirci e non il fine a cui dobbiamo tendere e nel quale possiamo restare. L'anima deve rendersi conto che non è al servizio delle cose che possiede, ma queste sono al suo servizio. Deve rendersi conto che non deve soltanto conservare il proprio patrimonio, accrescerlo, amministrarlo bene… deve pensare che tutto quello che possiede è a disposizione per la carità. Questo che ho, ecco, mi è stato dato oggi solo per usarne: indubbiamente io debbo usarne nella misura che sono sollecitato da vera carità.


Dobbiamo renderci conto che quello che abbiamo è per l'amore: è dunque un uso per te, non è la proprietà di cui tu sia schiavo. Nel Cristianesimo la proprietà è, in fondo, sempre in funzione di un uso, uso che deve sempre rispondere a un impegno di amore, a una volontà di amore. Volontà di amore che non importa immediatamente che in questo uso tutto quello che possiedi venga consumato, perché il tuo dono deve rispondere al bisogno degli altri, non di più, altrimenti non è atto di amore. Non è detto che si debba in ogni modo liberare da ogni sofferenza, perché può darsi benissimo che la sofferenza sia un grandissimo dono per l'uomo che soffre, perché egli comprenda di più il mistero della vita e sia capace, anche lui, di amare gli altri.
Si deve considerare che bene comune non è soltanto quello che noi possiamo portare di ricchezza, di denaro, ma bene comune è la nostra cultura, la nostra preghiera, la nostra virtù… La nostra vita, i nostri beni, tutto l'essere nostro deve essere in comune. Come si diceva, il dono che facciamo non ci spoglia, ma ci arricchisce anche dei beni che gli altri ci danno: tutto mettiamo insieme e tutti siamo uno.
Dobbiamo anche stare attenti a un grande errore che commettiamo quando si pensa all'amore come qualche cosa che è soltanto donato e non ricevuto: l'amore è reciprocità; l'amore, tanto nel Vecchio Testamento come nel Nuovo, risponde sempre al tema nuziale che dice precisamente un dare e un ricevere. Non è mai un dare soltanto: dare soltanto può essere orgoglio che ci mantiene chiusi per noi. Dare e ricevere: il senso comunitario deve realizzare tutto questo.


Se l'amore importa una reciprocità, se il mio dono non mi deve impoverire, spogliare di quello che dono, ma arricchire anche di quello che ricevo, per stabilire una comunione reale con coloro che io amo ne viene necessariamente che una comunità non si crea che attraverso una conoscenza reciproca, prima di tutto. Bisogna conoscerci: non posso io donare agli altri senza entrare nella loro vita, senza che la loro vita venga in qualche modo ad appartenermi. Io la vengo a conoscere intimamente, non per una conoscenza astrattiva, ma ne vengo a far parte per una conoscenza diretta, vengo a inserirmi io stesso negli altri e gli altri in me. Io vivo negli altri e gli altri in me. C'è veramente una somma, non una sottrazione: l'amore non crea una sottrazione, mai, opera invece un'addizione. La opera perfino anche fra Dio e l'uomo! Quanto più la opera fra l'uomo e l'uomo! Dio amando si fa uomo; non che l'umanità si addizioni alla natura divina, come dice San Tommaso d'Aquino, e tuttavia Egli è Uomo e Dio, Dio e Uomo. Ma questo addizionarsi di vite, di beni interiori, spirituali, morali, anche materiali, questo addizionarsi è un fatto reale quando veramente l'amore crea la comunità.


E l'amore tende di per sé alla comunità. L'amore non è soltanto l'atto onde uno si spoglia: esige reciprocità, non immediatamente con tutti gli uomini, ché tutti non li conosco, mi sfuggono e io non posso donarmi a tutti in modo concreto, né tutti li posso ricevere in modo concreto. L'amore si realizza già intanto in una comunità meno vasta, partendosi dal poco.

Ecco perché, pur non vivendo altro che la vita della Chiesa, ci siamo raccolti in una comunità più piccola, in una proporzione adatta alla nostra piccolezza, alla nostra povera esperienza, anche alla nostra carità che all'inizio è così misera!

Allora, quello che importa è stabilire intanto una vera comunione, un vero senso comunitario fra noi: conoscerci, non essere più estranei l'uno all'altro. E questo è bello, perché altrimenti ci sarebbe un'altra forma di egoismo. È bello che nella nostra comunità non dobbiamo mettere tutti sul piatto della bilancia i medesimi beni, ma uno porterà l'esperienza della povertà, di una vita di lavoro; un altro l'esperienza di una vita di cultura; un altro beni di ordine spirituale fondamentalmente; altri, dei beni materiali. Tutto è uno, ed è in questa unità di beni così diversi che la comunità può veramente vivere. Se i beni che si mettono in comune fossero tutti gli stessi, più difficilmente la comunità che si crea è una comunità di ordine soprannaturale, creata dalla carità divina.

I soci di un'azienda mettono in comune le proprie esperienze e anche i propri beni economici, ma per una comunità di lavoro. Un'azienda non è certo una comunità religiosa, e una comunità religiosa non è un'azienda, e non è nemmeno una certa scuola, un'accolta di persone d'intelligenza impegnate a fare scoperte. La comunità religiosa ha invece il suo fine nell'amore e anche il suo impegno ultimo nell'amore, nella carità soprannaturale. Questa comunità si realizza col mettere in comune tutto quello che si possiede a servizio di questo bene supremo che è la carità. Per questo, in una comunità religiosa non possiamo – senza pericolo che venga più o meno contraffatto l'ideale religioso – escludere nessuna persona: né una persona di censo, se la comunità è in maggioranza di anime molto povere; né una persona semplice, se la comunità è invece di anime intelligenti, laureati, grandi personalità. Non possiamo escludere alcuno quando vi sia in ogni anima questo impegno di amore. Il senso comunitario si svilupperà sempre più quanto più si sentirà di aver rinunziato in favore degli altri a tutto quello che possediamo e che siamo. Quanto più veramente realizziamo il dono delle nostre cose e di noi stessi, entro la comunità e attraverso la comunità, realizziamo questo dono anche a tutti gli altri fratelli.

Dobbiamo renderci conto che siamo tenuti a una conoscenza sempre più profonda delle divine esigenze, e ad una risposta sempre più piena e concreta a queste divine esigenze. Non si possono fare differenze di persone: l'impegno rimane sempre lo stesso, per tutti, perché la legge divina è uguale per tutti: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore". Certo, però, che in concreto l'anima potrà rispondere a questo impegno nella misura della sua disponibilità.


I voti religiosi ci rendono più disponibili, rendono possibile prima, e più facilmente, l'esercizio di questo amore totale, di questa totale dedizione di sé. Nel matrimonio non è possibile rispondere a questo impegno totale: ci sono dei legami che in qualche modo sono restrittivi alla carità soprannaturale (non necessariamente di per sé, ma in concreto è sempre così). Questi legami però possono essere trasfigurati, può essere trasfigurato ogni impegno della vita famigliare in un atto di carità.
Quello che importa è vivere la carità, vivere unicamente di amore. E l'amore esige il dono di noi stessi, dono di noi stessi che, come si diceva, esige però reciprocità. Non è certo detto che il nostro non sia atto d'amore se l'altro non risponde, ma di per sé l'amore esige la risposta dell'altro, ed effettivamente il nostro amore sarebbe sempre imperfetto, non da parte nostra, ma sarebbe ugualmente imperfetto se non creasse una reciprocità e una comunione.

 

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Fraternamente CaterinaLD

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Anche l'amore di Dio è gratuito: di per Sé Egli dona, e ciò non importa necessariamente una reciprocità, perché Dio ama anche se noi non l'amiamo. Però, effettivamente, si può dire che l'amore di Dio debba terminare in questo amore gratuito che è un'offerta non ricevuta da alcuno? I Protestanti dicono di sì: perciò il carattere dell'amore divino è, per il Protestantesimo, la gratuità e l'universalità dell'amore così come si esprime in San Paolo: Dio dona Se stesso, tutto Se stesso, ai peccatori, a tutti i peccatori dona Se stesso. Questo ci insegna San Paolo. Ma San Giovanni corregge: all'amore di Dio che si volge ai peccatori sostituisce l'amore che crea ed esige una comunione, l'amore tra i fratelli. Diligite alterutrum. E l'amore di Dio crea la comunità, la societas, la koinonìa dei credenti col Padre e col Figlio, come si ha dalla Prima Lettera (di Giovanni).


L'amore si manifesta veramente operante e veramente anche cristiano in quanto è efficace, perché veramente l'amore – che è creatore – si manifesta precisamente creando la comunità. Prima ancora e più grande è l'amore nostro con cui ci amiamo fra noi che l'amore con cui ci volgiamo agli altri, perché l'amore che crea una comunità si manifesta veramente più cristiano dell'altro. Cristiano è anche l'altro – non è detto che per essere cristiano questo amore possa dipendere dagli altri: l'amore è il mio atto, non è chi lo riceve che gli può conferire perfezione; è in me che amo che l'amore è perfetto o imperfetto. Ma prescindendo dal soggetto che ama, l'amore è perfetto solo in quanto crea una comunità, in quanto opera una comunità.

L'amore di Dio crea la Chiesa, comunità dei credenti. Ma l'amore di Dio, pur donandosi gratuitamente, cioè senza che in noi supponga alcun bene, non è gratuito nel senso che Dio non esiga nulla dall'uomo: Dio esige dall'uomo quanto gli dona, come dice San Giovanni della Croce.

In fondo, se consideriamo bene, se non vogliamo la reciprocità neppure amiamo. Di fatto, tu puoi dare tutte le tue cose a uno che sta per la strada e che non conoscerai mai, ma fin tanto che doni senza volere la reciprocità, di fatto non donerai mai te stesso: esigi cioè che ci sia una separazione fra te e il mondo, ti difendi comunque dall'amore. Dio vuole la reciprocità.


Bisogna rendersi conto che l'amore non è dare ciò che si ha, ma ciò che si è; allora si vuole anche ciò che gli altri sono, non le loro cose. Non il dono delle proprie cose è amore, ma il dono di sé. Non per nulla nella Sacra Scrittura l'amore è identificato all'obbedienza, perché l'obbedienza è il dono di sé. Se mi amate, osservate i miei comandamenti… Chi osserva i miei comandamenti, quello è colui che mi ama, dice Gesù nell'Ultima Cena. L'amore è il dono di sé, e il dono di sé a un certo momento ha una sua riprova in questo: tu non puoi possedere più nulla dal momento che non possiedi te stesso.
La comunità si realizza precisamente da questa reciprocità che dice l'efficacia, la perfezione dell'amore cristiano, onde tutti diveniamo uno. Non una sola ricchezza e non una sola vita, ma un essere solo: il Corpus Christi mysticum. Un corpo solo, un'anima sola. Cor unum et anima una, come dicono gli Atti a proposito della prima comunità cristiana. Non erano un solo corpo perché tutti mettevano in comune i loro beni materiali: mettere in comune i beni materiali era l'espressione concreta di un dono molto maggiore che era il dono di sé; dono di sé che però veramente realizzava una unità fra tutti. Non era il dono fatto a un povero che poi va per la sua strada e che poi non conosci più, era fatto invece ai tuoi fratelli, i quali entravano nella tua vita e divenivano la tua vita, come per loro tu entravi nella loro vita e divenivi la loro vita.
Se io di fatto non vi conoscessi e non vi amassi personalmente, non mi interessassi della vostra vita, non mi donassi interamente a voi, ma anche non ricevessi il peso della vostra sofferenza, delle vostre gioie, di fatto il mio amore non sarebbe perfetto e la comunità non sarebbe creata.


Se qualcuno non risponde all'amore, si esclude dalla comunità. Ma anche tu ti escludi se cessi di amare. La comunità è vivere una sola vita, in modo da non distinguerci più gli uni dagli altri, perché tutti siamo uno. Ci vuole da parte nostra una misura colma di carità, in modo da vincere le difese dell'egoismo.

Se poi non si riesce a superarle, si vivrà di meno la comunità, e la comunità si realizzerà di meno e porterà precisamente i pesi delle nostre imperfezioni. Dobbiamo renderci conto che nessuno di noi è pienamente trasformato dalla carità, perciò dobbiamo anche saper compatire. Noi dobbiamo continuare a dare, e sperare che da questa donazione d'amore le difese degli egoismi si aprano, non tanto per pretendere risposte, quanto perché fintanto che non c'è una risposta veramente un'anima non vive o vive meno nella comunità.
La comunità può essere fatta da noi, ma la Chiesa non è fatta da noi. Se noi, nella misura che partecipiamo alla comunità mediante la comunità vogliamo vivere la Chiesa, ci dobbiamo anche rendere conto che l'unità precede il nostro amore, e il nostro amore non fa altro che inserirsi in questa unità che precede tutto, ed è Cristo, Cristo che vive unico in tutti, che in Sé tutti veramente ci aduna. Il nostro amore tanto più sarà grande quanto più realizza l'unità, anche se l'altro si esclude, altrimenti la perfezione dell'amore dipenderebbe da noi, mentre l'efficacia dipende da Cristo, e in Cristo l'amore ha già realizzato una unità che è infrangibile.


La comunità dunque ha il suo fondamento nell'amore dell'Uomo-Dio che ha già creato l'unità, l'unità dell'uomo con Dio e degli uomini fra loro.
Si diceva che l'aspetto comunitario del Cristianesimo è legato, nel Vangelo, alle Nozze di Cana, al tema nuziale. Effettivamente è questa la comunità cristiana: una comunità che mette in comune soprattutto quello che si è; un amore che impegna ciascuno di noi totalmente; un amore che poi opera, in una reciprocità di dono, una perfetta unità spirituale.


Ora, un'unione nuziale è sempre esclusiva: l'uomo effettivamente non la compie che con Dio. La comunità non è di per sé un mezzo per raggiungere l'amore di Dio, per realizzare questa unione nuziale con Cristo. Non è un semplice mezzo. Nelle Nozze di Cana vi è lo sposo e vi è la sposa, ma lo sposo e la sposa vivono il loro rapporto di amore insieme ai convitati alle nozze. Sono due aspetti della vita cristiana che non possono andare disgiunti. Il vivere nella comunità deve essere anche legato alla vita di interiore rapporto con Dio, di un rapporto che rimane personale. Ma d'altra parte questo rapporto personale, esclusivo, dell'anima con Lui non soltanto non ci dispensa, ma ha la sua prova, la sua conferma, in una unità di fratelli.


Gesù e Maria, alle nozze, e con Gesù e Maria i discepoli: ecco, in poche parole, quella che è la vita cristiana: l'anima e Cristo. [SM=g1740722]

E l'anima e Cristo vivono un rapporto che è proprio di loro, e di loro soltanto. Un rapporto in cui veramente si realizza una unità piena e si deve realizzare una reciprocità perfetta di amore. Reciprocità e unità che non è mai perfetta invece con gli altri. Cioè, nella comunità con gli altri fratelli, io sono impegnato ad amare, a donare tutto, tutto quello che ho e tutto quello che sono; però questo mio amore, anche se è un impegno totale, non può effettivamente realizzare uno spogliamento totale di quello che ho e di quello che sono in favore degli altri, né d'altra parte ottiene una reciprocità piena e perfetta da parte degli altri.
È invece nella mia unione con Cristo che questa reciprocità è piena e perfetta. L'unione nuziale non si realizza altro che con Lui – unione nuziale che importa precisamente la consumazione di una unità. Dio veramente si dona, tutto, all'anima, in Cristo, e l'anima a Dio, tutta, deve donarsi.

[SM=g1740771] continua.....

Fraternamente CaterinaLD

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12/04/2012 22:47
 
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Si diceva che, in fondo, se anche io ho un impegno di amare gli altri, non per questo io debbo immediatamente spogliarmi di tutto in favore del primo venuto, ma devo rispondere al bisogno che gli altri hanno, all'apertura che l'anima mi offre. In me ci deve essere questa disposizione a donarmi totalmente, ma il dono effettivo per gli altri difficilmente si consuma come dono totale, perché appunto non posso donarmi che quando Dio mi presenta un bisogno e quando un'anima mi chiede qualcosa, sia pure implicitamente, cioè quando io riconosco il bisogno di un'anima e la mia carità risponde al bisogno di quest'anima. C'è dunque in me una disposizione totale a donarmi, una disposizione al dono totale, ma non c'è un effettivo dono totale a un'altra creatura, anche perché nemmeno la creatura potrebbe riceverlo totalmente, per una impenetrabilità che c'è fra tutte le creature, perché non siamo comunicabili fino in fondo.


La teologia ci dice che il fondo dell'anima non può essere visitato altro che da Dio. Che vuol dire questo? Che rimangono zone inesplorate all'anima stessa, un segreto che Dio solo conosce. A Dio solo l'anima si apre totalmente, e Dio solo fino in fondo la conosce, la penetra, la può possedere.
Se dunque dobbiamo avere questa disposizione di dono totale verso ogni creatura, effettivamente un dono totale non si realizza mai con la creatura: si realizza con Dio, per questo il mio rapporto di amore con Lui rimane esclusivo. Per questo anche l'unione nuziale l'anima può operarla e viverla soltanto con Dio che, essendo Puro Spirito, si infonde totalmente nell'anima, totalmente si dà anche se l'anima non può totalmente riceverlo. Il tormento di due che si amano è anche questo: che non possono donarsi totalmente. Nessuno di noi può totalmente ricevere l'altra creatura.
Dio si può infondere totalmente. L'opacità del corpo non impedisce a Dio di totalmente donarsi, e nell'anima non c'è nulla che sia impenetrabile a Dio perché Egli non possa veramente donarsi. Sono escluse due impossibilità che invece si riscontrano sempre nella creatura come tale di fronte a un'altra creatura. Di fronte a Dio l'anima è aperta: Dio può penetrarla totalmente, sia perché Egli stesso non ha impedimenti a questo suo dono, sia perché l'anima di fronte a Dio non può opporre difesa.
D'altra parte, anche l'anima di fronte a Dio non deve soltanto avere una disposizione al dono totale, ma deve realizzare il dono totale: questo è l'impegno cristiano, di realizzare un dono totale di noi stessi al Signore onde, veramente, ciascuna delle nostre anime è sposa del Cristo e in tanto vive in quanto realizza queste nozze mistiche con Lui.
Il matrimonio non può essere altro che il segno di un'altra unione ben più intima e profonda che è l'unione degli sposi con Dio. Unione che gli uomini sono impegnati a realizzare e realizzeranno in un dono effettivo di sé al Signore. Impegno, ripeto, proprio di qualunque cristiano – non solo di chi ha i voti religiosi, ma di qualunque cristiano, perché la legge fondamentale del Cristianesimo, la legge dell'amore, non esclude nulla, non si riserva nulla che non debba dare a Dio. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze. Nulla è possibile sottrarre all'esigenza di questo amore divino. Tu devi donarti totalmente. Come Dio tutto si dona a te, così tutto tu devi donarti al Signore.


L'aspetto comunitario del Cristianesimo è una prova ed è anche la conferma e il frutto di un'altra unione: della nostra unione nuziale con Dio. Prova e frutto. Tu non amerai Dio che non vedi se non ami il fratello che vedi, ci dice San Giovanni. Direi soprattutto che è frutto, perché non è possibile nemmeno una comunione fra gli uomini se prima, almeno logicamente, non interviene la nostra unione con Dio. Logicamente, dico, perché non si può mettere un prima e un dopo in senso temporale; ma certo, siccome la comunione tra fratelli dipende dalla nostra unione con Dio, logicamente l'unione con Dio precede l'unione tra i fratelli. Se dobbiamo amarci fra noi, realizzeremo praticamente una comunità fra gli uomini soltanto nella misura che avremo realizzato la nostra comunione con Cristo. Dopo il peccato, una comunità fra gli uomini non ha possibilità di realizzarsi se non ha un carattere religioso. E tanto più questa comunità si realizzerà, si attuerà, quanto più ciascuno dei componenti avrà realizzato la sua unione con Dio.
Vogliamo dunque che la comunità viva? L'impegno è questo: che si sia veramente figli di Dio e ciascuno di noi sposa del Cristo. Qui non c'è sesso, anche gli uomini possono dire di essere tali, perché l'uomo di fronte a Dio è sempre passivo, la sua attitudine di fronte a Dio è sempre un'attitudine femminile. È la passività, l'aprirsi, l'abbandonarsi a una grazia, a un Dio che visita l'anima e la possiede. Questa è la santità cristiana.
Dobbiamo dunque realizzare il nostro rapporto con Cristo: prima di tutto, questo. Sarà frutto della santità personale di ciascuno la creazione di una vera comunità fraterna fra noi, di una vera unità di spirito, di anima, di cuore, di vita fra noi.


E dimostreremo, precisamente attraverso quella che è la vita della comunità, quanto sia grande il nostro amore per Dio. La comunità è veramente il distintivo, il segno del nostro amore per Cristo. In concreto il nostro amore ha la sua dimostrazione precisa nel creare una comunità dove veramente si realizza una reciprocità di dono, dove veramente all'amore dell'uno risponde l'amore dell'altro: diligites alterutrum. Questo è vero sempre, nella Chiesa di Dio: nella Chiesa Cattolica non si vive mai tutta la vita della Chiesa Cattolica; per vivere il nostro amore, un amore reale, si vengono a creare naturalmente delle piccole comunità, che non sono chiuse e che, pur mantenendosi aperte, sono però delle comunità più o meno piccole quanto più o meno piccola è la capacità d'amore che un'anima ha.
All'amore di Cristo risponde l'unità di tutta la Chiesa, perché tutta la Chiesa Egli riassume in Sé, a tutti Egli si dona, tutti Egli salva, e tutti lo debbono amare. Anch'io debbo amare tutti, sono chiamato ad amare tutti, ma non avrò mai la capacità di amore che ha Cristo. Il mio dono effettivo non potrà essere dato a chiunque in un modo così pieno come lo ha dato Gesù così da salvare in Sé ogni anima. Il fatto della universalità dell'amore di Cristo non nuoce per nulla alla sua intensità, alla sua efficacia, alla sua immensa realtà; ma in noi nuocerebbe. Fintanto che noi si dice di amare tutti, praticamente non si ama nessuno. Bisogna che la comunità sia fatta a nostra misura. Ecco la necessità di una comunità entro la Chiesa: non è una piccola Chiesa entro la Chiesa, non una congrega chiusa all'amore: è invece l'effettiva riprova di un impegno, è effettivamente il congregarsi di un impegno di amore.


Vogliamo dunque noi amare molto Dio? Bisogna che anche la comunità sia fatta su nostra misura, sulla misura del nostro amore. Ecco l'impegno: realizziamo la comunità in modo reale, vero, concreto, che ci sia una vera comunione di tutti i beni, per cui nulla è più mio e tutto è di tutti. Mia è la vostra povertà, economica, spirituale, culturale; vostra è la mia ricchezza, se ho una ricchezza. Nulla è più mio. Tutto quello che possiedo in tanto lo possiedo in quanto lo dono. Non perché me ne spogli, ma perché donandolo io venga a possedere quello che voi mettete in comune. Cor unum et anima una vuol dire precisamente questo: non divenire tutti poveri, ma divenire tutti ricchi, della ricchezza che è una sola. È la reciprocità, qui, che conta.
Se la Chiesa precede come unità mistica il nostro impegno di amore, la comunità non precede il nostro impegno di amore, e sarà realizzata precisamente nella misura che noi vivremo un effettivo dono di noi stessi ai nostri fratelli.


La comunione fra noi si realizzerà soltanto indirettamente, attraverso un vivere insieme. Però è pericolosissimo il parlare, il mio parlare! Dà noia a me, e se non dà noia a voi è peggio ancora, perché anche voi state a sentire un discorso. Insomma, la vita della comunità è un'altra cosa: è la vita della preghiera, un incontro con Dio, è lo stare insieme per amore. Questa è la vita della comunità! Troppo si parla! [SM=g1740721]

Il pranzo in comune fa molto, ma anche la preghiera. La giornata deve essere più spoglia di parole e più piena di preghiere. Non un silenzio che ci isola, ma una serenità, una pace, una distensione interiore che importa sì un silenzio, ma non un silenzio assoluto. Il pericolo è che ci possa essere un isolamento per alcuni che sono impegnati soltanto alle loro preghiere, senza un legame effettivo di carità con gli altri. È esclusivamente il valore religioso che veramente ci impegna e ci unisce, ma l'impegno religioso è difficile se non c'è un minimo di convivenza, perché potrebbe diventare un impegno soltanto pietistico.


Siamo tutti così disparati, ma nonostante questo ci sentiamo tutti vicini, perché il nostro rapporto non è costituito dalla cultura o da qualche cosa di sovrapposto, ma da qualche cosa che è intimo, che è ontologico: la carità soprannaturale. Ci saranno sempre dei limiti, perché l'impenetrabilità è propria della creatura, siamo fatti così. Però è anche vero che questa nostra unione che è, sì, fondata su un rapporto religioso, per essere concreta e reale bisogna che realizzi un certo essere l'uno nell'altro. La cosa importante è che noi ci amiamo.

 

[SM=g1740717] Don Divo Barsotti

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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12/04/2012 22:50
 
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"I cristiani vogliono essere cristiani"

 

 

 

La benefica severità di Padre Barsotti

 

 

Don Divo Barsotti con il Cardinale Giacomo Biffi (1998)

 

 L’impazienza è il veleno che a piccole o grandi dosi l’uomo moderno, compreso il cristiano, si inietta continuamente nelle vene ed ecco che l’ «uomo, proprio in forza della speranza che lo anima e lo spinge, non sa più abbandonarsi a Dio e attendere “i suoi momenti”, vuole anticiparli da sé e, proprio nel suo sforzo di realizzare quaggiù il Regno di Dio, va avanti da solo e Dio lo abbandona» (1). Questa grande verità venne analizzata da un maestro della spiritualità del XX secolo, don Divo Barsotti, in un suo articolo pubblicato su «L’Osservatore Romano» del 16 marzo 1969 e ripreso in un interessante libro che raccoglie suoi articoli ed interventi dal titolo I cristiani vogliono essere cristiani  (San Paolo 2006, pp. 347, € 17,00).
   Ma l’uomo, senza Dio, dove può mai arrivare? L’infelicità sarà il suo certificato di garanzia. Non c’è niente di più tragico, per l’uomo, che rimanere solo, senza il Padre che lo volle e lo creò. Pensiamo alla drammaticità di rimanere orfani nella tenera età oppure al terrore scritto sul volto di tanti anziani malati lasciati soli negli ospizi; pensiamo, soprattutto, a chi rimane orfano del Signore, all’inquietudine di società intere, un tempo cristiane, che hanno perso la Fede e la speranza in Dio: là dove la persona non fa più affidamento al suo Creatore ha già la morte nell’anima. Ci sono stati e ci sono eremiti che, benché vivano nella solitudine più assoluta, pregustano già la felicità eterna, perché vivono in Dio e non si affannano mai, non conoscono l’impazienza, ma solo la pazienza, vivendo nella traiettoria dell’Assoluto e dell’Amore Infinito, immersi nella Sua grazia, che nutre e disseta.

 


   «Quando il tempo presente, quando l’esperienza di quaggiù cessa di essere segno del Mistero, allora il tempo perde la sua stessa significazione e l’esperienza umana diviene vuota di senso» (2). Questa misteriosa, splendida, fuggitiva e terribile scena temporale, dove bene e male sono in perenne conflitto dentro e fuori di noi, ha un grande e sibillino protagonista: il Tentatore che minaccia tutti gli uomini, anche quelli di Chiesa. Senza il Mistero della Fede, afferma don Barsotti, la vita perde di significato e allora: «Mi domando se non è questa la tentazione di tanti oggi nella Chiesa. Una certa volontà che si disfaccia la Istituzione ecclesiastica, cioè la Chiesa, nella “città secolare”» (3). Barsotti, monaco di grande Fede, ma anche di grande onestà intellettuale, si interrogò assiduamente sulla deriva di buona parte del mondo cattolico e ne cercò le cause. Quella «città secolare» dentro alla «Città di Dio» proprio non poteva accoglierla con passività e rassegnazione. «La Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” forse ne è stata l’occasione? Ogni grazia è ambigua: anche una Costituzione Conciliare, in una sua interpretazione aberrante, potrebbe rappresentare una grave tentazione» (4). Ma si tratta semplicemente di interpretazione o forse non ci sono già segni pericolosi dentro l’oggetto di quella che potrebbe diventare «interpretazione aberrante»? Don Barsotti afferma che la Chiesa non deve avere paura della Croce, perché in essa sta il segno della Fede e ad essa bisogna obbedire. «Si può dire: il Cristo ha già realizzato la salvezza, il Regno di Dio; sì, ma tu ne sei escluso, se l’obbedienza della fede che in Lui compì il disegno divino della salvezza, non diviene la sua stessa obbedienza. Per questo l’obbedienza della fede è la suprema attività dell’uomo. […]. Nulla perciò è più efficace, in ordine alla speranza della piena rivelazione del Regno di Dio, che la fede, anzi, nulla è veramente efficace tranne l’obbedienza della fede. Ogni attività che prescinda dalla fede, è attività demoniaca che vorrebbe violentare le segrete disposizioni di Dio, vorrebbe strappare a Dio la decisione dell’intervento ultimo, sostituendo all’economia sacramentale presente, l’economia della gloria», e il fondatore dei Figli di Dio, a questo punto, non usa mezzi termini: «Parlare di un post-cristianesimo è, nel migliore dei casi, delirio soltanto di chi ha perduto la fede e rinunzia definitivamente alla salvezza di Dio» (5).

 


   Don Divo Barsotti è profondamente allarmato dalla secolarizzazione della cristianità, ma non se ne sta con le mani in mano, reagisce con prediche, discorsi, articoli, libri... Nessun processo di secolarizzazione, afferma, avrà la capacità di risolvere in elemento secolare le virtù teologali: non la fede, non la speranza e nemmeno la carità, perché l’assistenza sociale non sostituisce e non sostituirà mai l’amore cristiano. Infatti il termine solidarietà ha rimpiazzato, anche in ampi strati della Chiesa, il cattolico vocabolo carità.
   Magnifico e verissimo ciò che sostiene: il Sacerdote mantiene la sua essenziale e formidabile mansione anche se gli fosse impedita ogni attività sociale. Questo vale pure per la Chiesa, anche se essa perdesse ogni grandezza di carattere storico. Gli uomini potrebbero comunque riconoscere al Sacerdote e alla Chiesa la loro vera missione che è l’annuncio della Salvezza, la celebrazione del Santo Sacrificio, la discesa della grazia attraverso i Sacramenti, l’unione con Dio nella preghiera. La Santa Messa è il cuore della Fede. Ma come porsi allora di fronte alle tante celebrazioni eucaristiche postconciliari dove al centro dell’attenzione non c’è più l’immolazione del Figlio di Dio, ma l’assemblea? «Se la celebrazione liturgica non realizzasse la unità trascendente degli uomini in Cristo, che cosa sarebbe di più che una riunione di amici, cui disturba ogni forma come inutile e falsa? Meglio cento volte un rito incomprensibile, che una celebrazione che si risolva in un puro incontro di amici – non certo perché l’incomprensibilità del rito illude più facilmente sul suo valore, ma perché meglio significa il suo contenuto reale di Mistero che trascende tutto l’umano» (6).

 


   Benché la secolarizzazione abbia profanato realtà che non le appartenevano, come per esempio la Sacra Liturgia, la «Presenza rimane e giudica il mondo». Qui don Barsotti si fa severo. Togliendo stoltamente la Croce per porvi un Gesù umanizzato che tutto perdona e tutti accoglie, si toglie il Mistero, ma ciò non può che portare alla rovina: l’uomo, così facendo, dovrà rinunciare al senso della vita, della storia, della creazione: gli rimarrà, alla fine, la dimensione animale, senza però averne l’innocenza, «animale che vive senza perché e muore senza rimpianto» (7).
   Severo è anche quando rimprovera, senza fare il nome dell’autore, il titolo di un libro uscito intorno al 1969, Credenti e non credenti per un mondo nuovo. Barsotti qui insiste sul fatto che non può esistere alcuna «novità» per il credente all’infuori di Cristo, perciò è logico che fra chi ha Fede e chi non l’ha, seppur possano vivere insieme e lavorare insieme, esiste un abisso: mentre per il secondo la sua condizione non trova risposte serie e non sa dove sia diretto, la meta per il primo è chiara e può credere meno in se stesso e nelle proprie attività, proprio perché si affida a Chi di lui si prende cura come i gigli dei campi e i passeri del Cielo.
   Interessante poi ciò che il fondatore dei Figli di Dio dichiara allorquando prende in esame la locuzione «Popolo di Dio», la quale, dal Concilio Vaticano II in poi, ha preso il posto di Gesù Crocifisso: «Fermandosi e insistendo sull’immagine di “Popolo di Dio”, la Costituzione dogmatica Lumen gentium già rivela l’intenzione fondamentale del Concilio di ispirare una teologia eminentemente pastorale» (8). Il Popolo non sostituisce, mai, il Figlio di Dio, così «come non lo sostituisce il “Cristo cosmico” che non ho mai capito che fosse», quello declamato dal geologo e paleoantropologo Teilhard de Chardin S.j. (1881 - 1955), che ebbe a definirsi in questi termini: «Io non sono né un filosofo, né un teologo, ma uno studioso del 'fenomeno', un 'fisico' nel senso dei greci » (9)… quale e quanta differenza dal dottissimo san Pier Damiani (1007-1072), teologo, latinista, vescovo e cardinale, che di sé diceva: «Petrus ultimus monachorum servus» («Pietro, ultimo servo dei monaci»).

 


   Il 30 luglio 1969 su «L’Osservatore Romano» don Barsotti si fa interprete dell’ortodossia contro le idee distorte moderne che hanno seminato la gramigna ovunque, infestando anche i campi migliori. Il suo racconto è chiaro, preciso, illuminante: vi è rappresentato il pensiero, trasmesso purtroppo da buona parte dei pastori, che oggi il cristiano ha della Chiesa:
   «Alcuni giorni fa, predicando un ritiro, un’ottima figliola si mostrò meravigliata che io non capissi come finalmente il Concilio ci avesse dato della Chiesa una concezione schiettamente democratica. La Chiesa, essa mi diceva, segue il cammino dei tempi. Alle monarchie assolute han fatto luogo le democrazie popolari. Così nella Chiesa. Non è Essa infatti il Popolo di Dio? Al sacerdozio ministeriale la Comunità delega semplicemente i propri doveri, e nulla vieta che possa riprenderli, quando il sacerdote ne abusa. Non vi è altro sacerdozio, come non vi è altra regalità che quella del Popolo». Alla giovane il monaco rispose con la Fede di sempre, quella trasmessa di generazione in generazione, dal Salvatore in poi. Disse che è Cristo il pastore del gregge, Egli la roccia sulla quale è edificata la Chiesa come Tempio santo di Dio ed è Pietro che il Figlio di Dio scelse per pascere, in suo nome, le pecore del gregge: non è il gregge che sceglie il suo pastore.
   Gli spunti di riflessione che don Barsotti ci propone sono molteplici: la sua teologia scava nei meandri della mentalità moderna e per non perdersi nei suoi labirinti, come invece hanno fatto molti altri colleghi del suo tempo, si è ancorato alle verità della Tradizione della Chiesa. 

 


   Chiudiamo con alcune osservazioni decisamente impregnate di attualità, considerando lo stato attuale di questa Europa malata e depressa, che non ha più nessun esempio da dare se non in negativo. «Non è certo facile vivere oggi. Respiriamo un’atmosfera di crisi – religiosa, politica, filosofica, morale – che vorrebbe toglierci ogni volontà di lavorare, ogni gioia di vivere. […]. Saper vivere, saper morire: chi ci insegna più questa sapienza? […]. Non c’è nulla da salvare quando ognuno vuol salvare soltanto se stesso e il proprio egoismo» (10). L’amarezza pervade questo mistico che vorrebbe gridare a tutti quanto è benefico stare con Dio. Immensa pena prova per coloro che corrono alla «fiera delle vanità» (11), coloro che credono e vorrebbero far credere ad una loro testimonianza. Ma testimonianza a chi e di che cosa? Si è disposti a mettere se stessi al servizio di coloro che hanno più o meno potere; ma si tratta di un servizio impuro perché nell’intimo il “servitore” non ama il “servito”, ovvero il padrone che si è scelto. «Si è servi in vista soltanto di diventare padroni» (12) e questo non vale soltanto per gli uomini del potere civile, ma anche di coloro che detengono quello religioso. Gli uomini veri, aggiunge ancora Barsotti, non sono mai stati molti, ma non conforta il constatare che ogni giorno sono sempre meno. E chi sono questi uomini veri a cui fa riferimento? Coloro che non cercano un facile consenso esteriore, ma sono paghi della testimonianza della propria coscienza e non antepongono nulla alla fedeltà di seguirne le norme con semplicità e fermezza. Ma una cultura «che non fa posto alcuno all’interiorità, non può educare gli uomini ad essere uomini» (13).

 

 

 

Cristina Siccardi

 

 

 

   NOTE

 

  

 

(1) D. Barsotti, I cristiani vogliono essere cristiani. Interventi del Padre dagli anni ’50 ai nostri giorni, a cura di Paolo Canal, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, p. 28.

 

(2) Ibidem.

 

(3) Ibidem.

 

(4) Ibidem.

 

(5) Ivi, pp. 30-31.

 

(6) Ivi, pp. 45-46.

 

(7) Ivi, p. 46.

 

(8) Ivi, p. 51.

 

(9) Intervista a Teilhard de Chardin, «Nouvelles Littéraires», 11 gennaio 1951.

 

(10) D. Barsotti, op. cit., pp. 114-115.

 

(11) Ivi, p. 115.

 

(12) Ibidem.

 

(13) Ibidem.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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