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La Vocazione Sacerdotale e il suo servizio in video canti e musiche (2)

Ultimo Aggiornamento: 16/01/2014 12:00
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[SM=g1740733]Cari Amici, e soprattutto cari Amici Sacerdoti, perchè a Voi è dedicato questo spazio e tutta la sezione, dopo il successo del primo thread sull'argomento: La Vocazione Sacerdotale e il suo servizio in video canti e musiche ..... eccoci ad aprire una nuova pagina affinchè si possa raccogliere nuove informazioni e leggerle in modo facile e semplice...

Con questo servizio vi rinnoviamo il nostro affetto filiale e di fedeli laici impegnati, al vostro fianco, nella vigna del Signore...
Ricordateci nella Santa Messa, non sentitevi mai soli, ritroviamoci nel Santo Rosario quotidiano e nelle Lodi a Dio...

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«La grandezza della piccolezza»


Così Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, descrisse la figura di don Serafino Morazzone, il “Curato di Chiuso” beatificato lo scorso giugno. Vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, questo parroco della diocesi ambrosiana fu amico di Alessandro Manzoni, che ne tracciò il profilo nella prima stesura dei Promessi sposi


di Giovanni Ricciardi


 

Piazza del Duomo a Milano gremita di fedeli, durante la cerimonia di beatificazione di don Serafino Morazzone, suor Enrichetta Alfieri e padre Clemente Vismara, il 26 giugno 2011 [© ITL/Melloni]

Piazza del Duomo a Milano gremita di fedeli, durante la cerimonia di beatificazione di don Serafino Morazzone, suor Enrichetta Alfieri e padre Clemente Vismara, il 26 giugno 2011 [© ITL/Melloni]

 

«Il Curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sé una memoria illustre, se la virtù solo bastasse a dare gloria agli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l’amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale; la cura continua di fare il suo dovere era: tutto il bene possibile; credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l’illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù ch’egli possedeva in grado raro, ma che egli studiava sempre di acquistare. Se ogni uomo fosse nella propria condizione quale egli era nella sua, la bellezza del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più confidenti.
I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano; la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero intorno al suo cadavere; pareva a quei semplici che il mondo dovess’essere commosso, poiché un gran giusto ne era partito. Ma dieci miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, e non lo saprà mai: e in questo momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù che tutto può illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso».

Non capita tutti i giorni che a un uomo di Chiesa sia riservato un elogio così eloquente a poca distanza dalla morte; specie se l’elogio è contenuto in un romanzo e se questo romanzo è il più famoso della storia della letteratura italiana. Perciò i lettori ci perdoneranno se abbiamo voluto citarlo per intero all’inizio di questo articolo. Era la fine del 1822 quando Alessandro Manzoni, mettendo mano al III tomo del Fermo e Lucia, la prima stesura del capolavoro che poi avrebbe intitolato I promessi sposi, inseriva fra i suoi personaggi la figura di un sacerdote che aveva conosciuto, frequentato e che forse era stato anche suo confessore nei periodi trascorsi nella villa di famiglia a Lecco. Un anacronismo palese e perciò fortemente voluto, dato che don Serafino Morazzone era morto solo pochi mesi prima, il 13 aprile di quello stesso anno.

La descrizione del suo funerale sembra indicare che il Manzoni sia stato presente, e abbia visto coi propri occhi quella folla commossa che iniziò da subito a chiedere e ottenere grazie da quest’umile prete, il quale, dal giorno della sua ordinazione a quello della morte aveva desiderato svolgere bene solo e soltanto il suo dovere di parroco di un paesino sul lago di Como, con poche centinaia di anime.

 

«Ah, Chiuso! Dov’è quel buon curato!»

Il “personaggio” di don Morazzone compare nel Fermo e Lucia al momento dell’incontro fra l’Innominato e il cardinale Federigo, che Manzoni aveva scelto di ambientare proprio nella canonica della parrocchia di Chiuso, immaginando che il Borromeo si trovasse in visita nel paese di don Serafino. Qui avviene la conversione dell’Innominato e il lungo colloquio tra i due, che sottrae tempo alla visita pastorale del cardinale. Ma, aggiunge Manzoni, «la vigna di quel buon prete Morazzone era tanto ben coltivata che aveva poco bisogno della ispezione di Federigo». È ancora don Serafino a indicare al cardinale una “buona donna” da mandare insieme a don Abbondio al castello dell’Innominato per liberare Lucia. E quando Lucia sente pronunciare il nome del paese dove potrà riabbracciare sua madre, esclama: «Ah, Chiuso! Dov’è quel buon curato!», con un’espressione tanto semplice quanto esaustiva.

Ma nell’edizione definitiva dei Promessi sposi il paese di Chiuso e la figura storica di don Serafino non vengono più citati. Non è difficile immaginarne il motivo: ed è che Manzoni era poeta, ma non profeta. «Dieci miglia lontano di là», aveva scritto nel 1822, «il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, e non lo saprà mai». Invece, la fama di santità di questo parroco, già diffusa in vita, in pochi anni si era allargata ben oltre le dieci miglia fissate dal Gran Lombardo, a tal punto che l’anacronismo gli doveva ormai apparire troppo stridente per lasciarlo nelle pagine di una storia ambientata nel Seicento.

Prova ne è il fatto che la curia di Milano apre il suo processo di beatificazione già nel 1864 e raccoglie in tre anni 34 testimonianze di persone che lo avevano conosciuto, soprattutto suoi parrocchiani. I quali, senza intendere bene le sottigliezze degli interrogatori canonici, rilasceranno, nella loro semplicità, dichiarazioni molto simili a quella immaginaria di Lucia Mondella. «Aveva tutte le virtù in un fascio», lascerà scritto agli atti del processo uno di loro, Santino Corbetta. «Dico tutto di lui con queste parole: era un uomo giusto», affermerà Pietro Gilardi. Nomi che dicono poco, parole che dicono molto. Tra esse, due definizioni inconsapevolmente poetiche che di lui diedero altri testimoni. La prima, di un tal Giuseppe Chea: «Tante persone accorrevano dai paesi vicini al grido della sua santità». E in ultimo, la più bella, di Carlo Riva: «Quando lo si vedeva passare era volgare [“era espressione comune”, ndr] il dire che passa un ladro, intendendosi da tutti ladro di Paradiso».

 

 

Don Serafino Morazzone

Don Serafino Morazzone

Ladro di Paradiso

Questo “ladro di Paradiso” veniva da una famiglia numerosa, che abitava a Milano in una zona molto popolare, e la sua biografia è presto detta. Nato il 1° febbraio 1747 da un venditore di granaglie e presto divenuto orfano di madre, a 13 anni chiede e ottiene di entrare in seminario e i gesuiti lo accolgono a titolo gratuito nel loro collegio di Brera. Studia poi teologia mantenendosi con il servizio di accolito in Duomo, che gli vale dieci lire mensili. La mattina serve all’altare, il pomeriggio è chino sui libri. E deve aver dato un buon frutto questo suo studio se riesce, risultando primo davanti a due sacerdoti e cinque chierici, lui che non era ancora suddiacono, a vincere il “concorso” bandito dalla diocesi di Milano – secondo la prassi di allora – per l’assegnazione della piccola parrocchia di Chiuso. Quella destinazione, dove celebra la sua prima messa il 10 maggio del 1773, sarà anche l’unica, fino alla morte. In mezzo, quarantanove anni di servizio ininterrotto, da prete: ore in confessionale, ore trascorse in preghiera fin dal primo mattino, ore a fare scuola elementare gratuita ai bambini, ore a dispensare carità ai poveri, ore a far visita agli infermi.

Si racconta, di tanto in tanto, tra la gente, che le sue preghiere sui malati possano più delle medicine; che un ragazzo caduto nella calce viva e recuperato in condizioni gravi dopo mezz’ora sia risanato dalla sua benedizione; che una bambina rimasta aggrappata per un’ora al ramo di un albero per non precipitare in un canale e che da allora è in preda alle convulsioni sia guarita per le preghiere di don Serafino. Ma se qualcuna di queste storie giunge alle sue orecchie, lui non ci bada e attribuisce tutto all’intercessione di san Girolamo Emiliani, il cui santuario di Somasca si trova a pochi chilometri dalla sua parrocchia.

«In mezzo a questa sua fama di santità», racconta ancora il testimone Pietro Gilardi, «egli solo non si reputava tale, e quando venivano a lui persone forestiere, era solito rimandarle ai loro parroci, e cioè da parte sua cercava di indurli ad avere confidenza nella benedizione del proprio parroco, che valeva lo stesso».

Tra questi testimoni non figura Alessandro Manzoni. Non è dato sapere il perché. Forse perché quello che aveva da dire lo aveva già scritto. È molto probabile che si riferisca a don Serafino quando nelle Osservazioni sulla morale cattolica scrive:«Sì, ci sono dei preti che spregiano quelle ricchezze di cui annunziano la vanità ed il pericolo; dei preti che avrebbero orrore di ricevere i doni del povero e che si spogliano invece per soccorrerlo; che ricevono dal ricco con un nobile pudore e con un interno senso di ripugnanza; che stendendo la mano si consolano solo pensando che l’apriranno ben tosto per rimettere al povero quella moneta che è ben lungi dal compensare agli occhi loro un ministero il quale non ha prezzo degno altro che la carità». Queste parole coincidono perfettamente con molte delle testimonianze rese al processo sull’eroismo con cui don Serafino praticava la carità, sovvenendo ai parrocchiani bisognosi, e vivendo personalmente in una povertà pressoché assoluta.

Di don Serafino si conserva anche una lettera indirizzata allo scrittore. Il padre di Manzoni era stato il più grande proprietario terriero della zona di Lecco, ma prima di lasciare il figlio Alessandro erede universale dei suoi beni aveva provveduto a vendere gran parte di questi terreni. Don Serafino scrive così al poeta per intercedere in favore di uno degli acquirenti, che non riusciva più a pagare il debito contratto a suo tempo col padre: «Illustrissimo Signore», esordisce, «Francesco Polvara di Pescarenico, sapendo il buon affetto che Vostra Signoria Illustrissima ha per me, desidera che faccia buon ufficio presso di lei». E aggiunge che si è spinto a “sfruttare” questo affetto soprattutto per amore dei sei bambini di quest’uomo: «Son sei figlij pupilli. A questi vorrei giovare. Pupillis tu eris adjutor». Non sappiamo che cosa rispose Manzoni, ma possiamo immaginarlo dall’annotazione vergata di suo pugno sul retro della missiva: «Lettera di un Curato Santo».

 

 

Il cardinale Dionigi Tettamanzi durante la celebrazione di ringraziamento per la beatificazione di don Serafino Morazzone nella parrocchia di Chiuso (Lecco) il 27 giugno 2011

Il cardinale Dionigi Tettamanzi durante la celebrazione di ringraziamento per la beatificazione di don Serafino Morazzone nella parrocchia di Chiuso (Lecco) il 27 giugno 2011

«Il senso cristiano del popolo ci ha preceduto»

Tuttavia, dopo la raccolta delle testimonianze, conclusa nel 1867, il processo di beatificazione viene trascurato per più di ottant’anni. Ma anche questo finisce per diventare un segno della santità di don Serafino. Perché, se per varie ragioni la diocesi ambrosiana si disinteressa così a lungo di questa causa, la devozione della gente non verrà mai meno, tanto che il cardinal Ferrari, ai primi del Novecento, applicando le leggi liturgiche del tempo, sarà costretto a impedire che si pongano sulla tomba molto frequentata di don Serafino ex voto e lampade con cui i fedeli, in numero sempre crescente, esprimevano la gratitudine per le grazie ottenute dalla sua intercessione.

Fu il cardinal Schuster a sollecitare la riapertura della causa e a ottenerla nel 1950. In una lettera indirizzata tre anni prima a un sacerdote di Lecco, scriveva, a proposito di quello che definì “il nostro Curato d’Ars”, che a intendere la sua grandezza «il senso cristiano del popolo ci ha già preceduto». Che la gente, insomma, come aveva detto un testimone tanti anni prima, continuava ad «accorrere al grido della sua santità».

Ma ci vollero ancora quarantacinque anni per arrivare a depositare la Positio presso la Congregazione delle Cause dei santi, altri tre perché ottenesse l’approvazione, e solo nel 2007 si è giunti a proclamare “le virtù eroiche” di don Serafino. L’epilogo, con l’approvazione del miracolo, si è avuto nel corso di quest’anno, e la cerimonia di beatificazione in piazza Duomo a Milano il 26 giugno 2011 è stata uno degli ultimi atti dell’arcivescovo Dionigi Tettamanzi. Il quale, celebrando la messa nella parrocchia di Chiuso nel 2003, aveva detto: «È stato Lui, il Signore, a donare don Serafino alla Sua Chiesa. Per la verità il Signore continua a donarlo alla Sua Chiesa, come testimonia la devozione da cui questo santo sacerdote è sempre stato circondato e tuttora viene circondato. E questo è il segno potente, vivo, della gente, che è il popolo di Dio, che l’ha venerato e continua a venerarlo come vero uomo di Dio, come un santo».

Nelle sue parole risuona l’eco di un altro arcivescovo ambrosiano, Giovanni Battista Montini, che lo aveva preceduto, molti anni prima, in pellegrinaggio sulla tomba di don Serafino nell’anniversario della morte, il 13 aprile del 1956. In quella occasione, davanti al suo popolo, aveva detto: «Vi invito a pensare alla sua grandezza. È indubbio che egli è grande se fa parlare di sé dopo 134 anni dalla sua morte. Ma che cosa ha fatto di straordinario per essere grande? La sua non è grandezza esteriore, politica o sociale, di ricchezza, di ingegno.
La grandezza di don Serafino è la grandezza della piccolezza, la grandezza evangelica. Fu grande perché ha seguito la parola del Signore. Questo santo ha raccolto le parole di Gesù, le ha fatte sue e le ha personificate. Egli è grande perché è povero, perché è umile, perché ha dato e ha cercato di dare. E qui comincia il suo prodigio. Egli è un santo di popolo. Infatti ci sono diverse categorie di santi. Ci sono santi che sono diventati tali perché il loro cuore era vicino al popolo. Don Serafino è stato l’amico di tutti con un cuore così grande, lui così piccolo, con un cuore così ricco coi poveri, coi poveri di cuore, con gli umili e soprattutto con chi ama e sa donare». Se Manzoni non era profeta, aveva però visto giusto.


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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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“Il Padre” di Rifredi


Così a Firenze tutti chiamavano don Giulio Facibeni, parroco di Santo Stefano in Pane, in un quartiere della periferia cittadina. Le numerose opere di carità nascevano dal suo affidarsi alla Provvidenza «con la tranquillità del fanciullo che si tiene stretto alla mano paterna quando rugge la tempesta»


di Paolo Mattei


Don Facibeni in un ritratto con i bambini dell’Opera [© Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa]

Don Facibeni in un ritratto con i bambini dell’Opera [© Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa]

“Un prete mingherlino che t’un gli daresti un duino”. Il duino è moneta di rame di scarso valore; il prete mingherlino è don Giulio Facibeni; l’espressione è toscana, naturalmente. Bisognerebbe immaginarsela sussurrata con ironica ammirazione dalla viva voce di un fiorentino al passaggio di quel prete piccoletto, cui la Provvidenza elargì grazie in modo così generoso: proprio a lui, che all’apparenza non si meritava nemmeno un “duino”. Non era difficile incontrarlo in giro per Firenze. A passeggio, lento pede e in compagnia degli amici, o di corsa, con frettolosa solitudine, probabilmente alla volta di qualche banca per saldare i debiti del suo orfanotrofio di Rifredi, quartiere di periferia in cui, dal 1913, era parroco nella pieve di Santo Stefano in Pane. In un diario, che intitolerà Libro della Provvidenza, annota i tanti episodi che lo videro giungere all’ultimo secondo utile sul fil di lana di prestiti da rifondere, cambiali da pagare, retribuzioni da corrispondere. Come quando, nel 1938, bisognava liquidare, entro le cinque di un pomeriggio di giugno, il compenso di alcuni operai che non potevano più aspettare, e in cassa non c’era una lira: «Verso le 16 una signora si presenta e chiede di parlare: è venuta per portare una piccola offerta. Le domando il nome. Mi guarda sorridendo: “Lei non conosce il Vangelo”, mi dice. E perché? “Nel Vangelo c’è scritto: la tua destra non sappia quel che fa la tua sinistra”. Commosso per la lezione apro la busta. C’era esattamente l’occorrente per potere pagare alle 17 tutti gli operai».

Quello che serve, quando serve; né di meno né di più, né in anticipo né in ritardo: così la Provvidenza fa i suoi tempestivi regali a don Facibeni, talvolta tenendo conto anche del santo del calendario, come riporta Giancarlo Setti nel suo libro Il rischio di essere padre (breve vita di monsignor Facibeni) (Firenze 1998): «Il 31 gennaio, giorno onomastico del Padre, il signor Sergio Casaltoli, che aveva fornito l’Opera di asciugamani e lenzuoli e altra biancheria e che aveva fatto forti prestiti, fa di tutte le cambiali stracciate un bel mazzo avvolto in una velina e lo fa consegnare con questo biglietto: “Al Padre, nel suo onomastico, questi fiori, con tanti auguri”». Un’iniziativa graziosa, si potrebbe dire poetica: brandelli di “pagherò” rifioriti in un dono inatteso. Del resto, Firenze era la città della poesia, antica e moderna, da Dante ai poeti habitué del caffè “Giubbe Rosse”. E quel piccolo prete fin da bambino avrebbe voluto comporre versi.

“Fiorenza mia”
«Fatto prete, non mi posso occupare di poesia? Non poetavano san Francesco, il beato Iacopone, sant’Alfonso, il direttore?». Il diciannovenne Giulio Facibeni appunta questo pensiero nel 1903, quando è in seminario a Faenza. Era nato a Galeata, in provincia di Forlì, nel 1884, il 29 luglio, giorno di santa Marta, che ospitò a casa sua il Signore a Betania. Terzo di undici figli di una famiglia cattolica con sentimenti patriottici, fin da ragazzino desiderava farsi prete ed entrò quindi nel seminario faentino nel 1899. Là incontrò monsignor Paolo Taroni, il “direttore poeta” cui fa cenno in quell’appunto, cioè il suo direttore spirituale di quegli anni, «i più belli e i più degni di ricordo», avrebbe scritto molto tempo dopo. Di monsignor Taroni – l’amico di don Bosco che il giovane seminarista considerava, insieme al Curato d’Ars e san Francesco, la sua guida –, Silvano Nistri, autore della biografia Vita di don Giulio Facibeni (Firenze 1979), racconta: «Rappresentava al meglio quella spiritualità affettiva che ebbe tanta parte nella pietà popolare» dell’Ottocento e del Novecento. Una spiritualità che «si affidava alle pratiche di pietà personale – preghiera, rosario, meditazione quotidiana, vite dei santi, visita al Santissimo Sacramento, grande devozione alla Madonna. […] È il primo personaggio autenticamente religioso, nel senso di una totalità di abbandono al Signore, che Giulio Facibeni incontrò».

Come don Taroni, anche il suo allievo scrive versi in onore di Maria, con altisonanti echeggiamenti carducciani, come usava allora. Ed è anche l’amore per la letteratura a condurlo a Firenze, dove, nel 1904, si iscrive a Lettere moderne; inizia a studiare teologia e trova posto come assistente nell’illustre semiconvitto Cepparello, retto dagli Scolopi, tra le più prestigiose scuole del capoluogo, legata profondamente alla cultura toscana, e, spiega Nistri, con una «tradizione di fedeltà a una scienza umanistica di marca galileiana». Là era forte «la componente cattolico-liberale, se si volesse usare l’etichetta consacrata dall’uso; certamente non intransigente, conciliatorista».
Insomma, a Firenze, il futuro sacerdote ritrova il patriottismo respirato in famiglia; e a Firenze accarezza l’idea di continuare a studiare e poi di insegnare, e, senz’altro, di proseguire nella composizione di liriche. Ma la vena poetica si esaurirà presto e nel futuro del ragazzo non c’è posto per cattedre universitarie né per libri di versi.

La pieve di Santo Stefano in Pane, nel popolare quartiere fiorentino di Rifredi [© Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa]

La pieve di Santo Stefano in Pane, nel popolare quartiere fiorentino di Rifredi [© Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa]

Contentezza del prete
«Si intuiva che il giovane don Giulio, con quei suoi occhi sempre sorridenti, era destinato a rimanere giovane. Ogni mattina celebrando la messa, ripeteva salendo all’altare il salmo 48: “Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat iuventutem meam”, “Salirò all’altare di Dio, a Dio che fa lieta la mia giovinezza”. […] Sentiva che questi versi gli stavano bene addosso, a lui e a tutta la gioventù che avrebbe presto incominciato a circondarlo»: così Giancarlo Setti descrive il novello prete, ordinato a Fiesole il 21 dicembre 1907.
È contento quel giorno, don Giulio, e desidera che pure i suoi amici lo siano. Lo chiede anche nell’immaginetta-ricordo della prima messa: «Tutti, o Gesù, sian partecipi della contentezza provata da me».
I giovani che per primi lo circondano sono quelli del Circolo Italia Nova “per gli studenti secondari cattolici”, che fonda all’inizio del 1910.

Con loro, il sacerdote romagnolo – cui la terra d’origine aveva regalato un sanguigno temperamento cattolico-popolare – rilegge la
Rerum novarum, approfondisce i temi del cattolicesimo liberale e conciliatorista, studia la storia del Risorgimento e l’opera di Federico Ozanam, con l’intento di favorire l’idea secondo cui i cristiani debbano operare attivamente nella società superando quella «divisione dell’anima» che sta spaccando in due una nazione da ricostruire. Lancia l’idea di costituire una cooperativa per agevolare l’acquisto di libri scolastici e fonda il giornalino mensile Italia Nova – ricco di citazioni di Tommaseo e Manzoni – che nel 1911 diviene l’organo ufficiale degli studenti cattolici, mentre il Circolo – i cui giovani militanti partecipano attivamente a manifestazioni e cortei patriottici provocando l’ira sia dei clericali intransigenti sia degli anticlericali – si federa con la Gioventù cattolica diocesana. All’arcivescovo Alfonso Mistrangelo non dispiace per niente quel fuoco di fila di iniziative, anche perché a suo avviso possono funzionare da contravveleno al diffuso anticlericalismo.

Ma la cosa che probabilmente più colpisce i fiorentini è la piccola novità che fa la propria apparizione tra le vie cittadine: «Forse per la prima volta», osservò don Raffaele Bensi, «a Firenze si vedeva passare per strada un prete a braccetto con dei giovani, ridere e conversare con loro come un amico e un fratello».
Ecco: una vita di apostolato con i giovani e di attività pubbliche, sociali e culturali: forse è questo che il Signore ha in serbo per lui. O forse no.

Sperduto in terra incognita
Nell’ottobre del 1912, il cardinale Mistrangelo decide infatti di assegnare don Giulio alla pieve di Santo Stefano in Pane, a Rifredi, come coadiutore di don Alessandro Brignolle, protagonista di un crack finanziario originato da sconsiderate «giocate in borsa» e da «un labirinto di affari arrischiati poco puliti», come ebbe a dire lo stesso arcivescovo. A Rifredi, quartiere di novemila abitanti tra contadini e operai, a nord-ovest della città, crescono le fabbriche e con esse i disagi di chi lavora in quegli ambienti insalubri. Il perno della vita pubblica è la Società di mutuo soccorso guidata dai socialisti, mentre la parrocchia e la messa sono frequentate da pochissimi, scomparse le associazioni cattoliche, sciolte le antiche confraternite. I sacerdoti sono considerati da un sacco di gente sfruttatori della classe operaia, e le tristi avventure finanziarie del vecchio pievano non contribuiscono a migliorarne l’immagine.
Don Giulio fa il suo ingresso in questo mondo, e si sente «come sperduto in terra incognita». Si inginocchia di fronte al Santissimo nell’antica pieve romanica di Santo Stefano in Pane, mentre il vento dei cambiamenti, che soffia su quelle mura da mille anni, pare essersi fatto più impetuoso. E un impetuoso cambiamento di prospettiva scompiglia ancora i desideri e i progetti del piccolo prete.
In quel momento, nel silenzio della pieve, chiede a Dio di poter lietamente obbedire e di «essere il padre di tutti, anche di quelli che sono lontani».

Don Facibeni con Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, che gli conferisce il titolo di cittadino benemerito della città nell’ottobre 1951 [© Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa]

Don Facibeni con Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, che gli conferisce il titolo di cittadino benemerito della città nell’ottobre 1951 [© Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa]

Il petto squarciato della Madonna
«Monsignor Facibeni fu un uomo di frontiera e visse e domandò un apostolato fatto in mezzo alla gente, cuore a cuore, senza schemi»: così il cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito di Firenze, nel suo libro Don Giulio Facibeni. «Il povero facchino della Divina Provvidenza» (Firenze 2008), parla del prete romagnolo, che non perde un momento per riassettare la casa di Rifredi in disordine, un po’ come la santa del suo compleanno, Marta, quando il Signore fu suo ospite.

Don Giulio ripristina innanzitutto la messa quotidiana, abolita da tempo, e la processione del Corpus Domini. Si inventa iniziative di aiuto allo studio: corsi per il doposcuola, scuole serali, scuole di disegno. Ricostituisce le organizzazioni perdute, la Società San Filippo Neri per la carità ai poveri della parrocchia, le Piccole lavoratrici per Gesù Bambino, che preparano i corredini per i figli delle famiglie bisognose. E ancora: fonda il bollettino parrocchiale – otto paginette 21 per 15 –, crea la Cassa dotale per le ragazze che si devono sposare, inaugura il circolo “Liberi e forti” per coadiuvare il parroco nelle opere di patronato.
Ma la Grande Guerra fiammeggia all’orizzonte. Don Giulio non vuole lasciarsi cogliere impreparato e il 1º giugno 1915, a soli otto giorni dall’entrata dell’Italia nel conflitto, apre, sistemandolo in un vecchio magazzino vicino alla pieve, il “Nido”, un asilo, con refezione gratuita, per i figli poveri dei richiamati alle armi. Affidato esclusivamente alla carità dei parrocchiani e alla collaborazione volontaria delle donne di Rifredi, alla fine del primo trimestre registra 77 iscritti.

Don Giulio segue con apprensione le vicende belliche, e nel 1916 anche lui è chiamato al fronte, dapprima come soldato, poi come cappellano. Scrive in una lettera: «Sono sceso col cuore commosso e avrei baciato un povero soldatino che, tutto fangoso, con i piedi congelati, zoppicando, scendeva dalla trincea». Il cappellano militare don Facibeni non ha le parole per confortare il cuore disperato dei soldati ingoiati dall’abisso della guerra. Così si affida alla «cara Madonna» del Grappa, che un giorno era andato a pregare sulla cima del monte. Ma Lei non c’era, perché uno shrapnel l’aveva colpita in pieno petto ed era stata trasportata a valle in barella. Trovò la statua ricoverata nella chiesetta di San Crespano, vegliata dai militi. Con quell’immagine nel cuore don Giulio si piega sui feriti e sui moribondi e il dolore dei giorni di guerra cerca rifugio e consolazione nel petto squarciato della Madonna del Grappa. A Lei, e alla Divina Provvidenza, qualche anno dopo, intitolerà l’opera di carità che nel frattempo andava crescendo nella pieve di Rifredi.

Con la tranquillità del fanciullo
«Sento che se la Provvidenza Divina non soccorre alla mia fragilità sono veramente incapace di portare il grave peso». La città e il quartiere al ritorno dalla guerra sono un deserto di «immoralità, rancori, divisioni di partiti, furti».
Don Giulio desidera essere il padre di tutti, pure dei più lontani, «superando ogni pregiudizio e ogni contrapposizione: non voleva lasciarsi irretire neanche dal ghetto cattolico», spiega Silvano Nistri. E ai suoi parrocchiani, scrive: «Non traccio programmi, non faccio promesse; il Crocifisso, nient’altro che il Crocifisso deve essere la mia bandiera, il mio motto, la mia luce, la mia forza».


Il “prete mingherlino” vuole ricominciare dai più piccoli, dal “Nido” realizzato all’inizio della deflagrazione mondiale, perché i bambini «possano trovare in me un cuore di padre infiammato della carità di Cristo». E attraversa gli anni accompagnato dalla memoria viva della sua «cara Madonna» del Grappa, Madre di quella Provvidenza cui tutto affida del suo povero fare, come spiega ancora Nistri: «È in questo lasciarsi portare… tutto il segreto di don Giulio Facibeni», che «avvertiva in maniera drammatica la sproporzione immensa tra la sua povertà e il dono di Dio».

La Piccola Opera della Divina Provvidenza “Madonnina del Grappa”, inaugurata nel novembre 1924, nasce, spiega Giancarlo Setti, «almeno nel suo sviluppo assolutamente imprevedibile e imprevisto, quasi “per caso”. Non c’è alla base né progetto né finanziamento». Essa unifica tutte le opere a carattere religioso, culturale, caritativo e sociale sorte fino ad allora in parrocchia. L’orfanotrofio – una famiglia, nell’idea di don Giulio, non un ospizio per piccoli abbandonati – accoglie i primi bambini il 4 novembre 1924, e quattro anni dopo conterà cento ospiti, che non pagano retta e che sono accuditi dalle Ancelle della Misericordia, suore affezionatissime al sacerdote: «Quegli anni segnarono in maniera decisiva la nostra vita religiosa: avevamo veramente la sensazione di vivere accanto a un santo», dirà una di loro. Tutti sono coinvolti per trovare i fondi: le donne offrono il ricavato della vendita di ricami, i ragazzi quello di pubbliche recite teatrali, i contadini donano parte dei raccolti. La generosità dei suoi amici è il primo segno tangibile dell’aiuto della Provvidenza. La quale non fa mai mancare il suo aiuto a chi le si affida.

Il sacerdote e quanti gli stavano vicino godettero spesso di questa fortuna nelle difficoltà quotidiane, nelle necessità e nei bisogni che crescevano a fronte di spazi e soldi che non bastavano mai. Molti gli episodi che don Giulio e i suoi amici hanno raccontato, divertiti e confusi da quanto accadeva loro. Come quella volta degli assegni non coperti che don Alfredo Nesi, su incarico di don Giulio, si trovò a dover cambiare nel mercato ortofrutticolo di Firenze: «C’era un omaccione grosso, rude, con barba di quattro giorni, le mani che sembravano due pale… Mi presento a lui e gli chiedo di cambiarmi un assegno di trentamila lire. Gli porgo l’assegno, lo prende, lo guarda attentamente, lo rigira, legge la firma, mi dice: “La firma l’è di Facibeni; gli è di sicuro a vòto quest’assegno, ma lo piglio lo stesso”. E, senza dir altro, mi porse trentamila lire».

«Bisogna credere alla Provvidenza… con la limpida ingenuità e fermezza, la tranquillità del fanciullo che si tiene stretto alla mano paterna, quando rugge la tempesta… Dio Padre! Non è in questo titolo di Dio che si racchiude tutto il cristianesimo? Come respira l’anima in questa certezza». Il “prete mingherlino” sarà portato per mano anche quando la tempesta pare soverchiarlo. Quando i fascisti («sciagurati che pensano di modificare i cervelli e le coscienze con una randellata») lo minacciano di morte; quando mancano le persone e i mezzi necessari per accogliere i sempre più numerosi orfani che bussano alla porta dell’Opera, e che diventeranno più di mille dopo la Seconda guerra mondiale.

Il feretro di don Facibeni sul sagrato della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, il 4 giugno 1958 [© Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa]

Il feretro di don Facibeni sul sagrato della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, il 4 giugno 1958 [© Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa]

«Non posso fare altro che tenderti le braccia»
Quella mano non lo abbandonerà neanche nei momenti drammatici in cui ha l’impressione che le sue iniziative non siano comprese dalla gerarchia ecclesiastica, negli «anni penosi, che affido alla misericordia infinita di Dio», durante i quali giunge a immaginare che nel proprio futuro «questi ricordi porteranno tutti l’indicazione: fallimento di un preteso metodo educativo». Infatti non da tutti è apprezzato il rapporto troppo stretto fra Opera e parrocchia, con il rischio dell’indistinzione tra le due realtà, le quali, per evitare che l’una sia di nocumento all’altra, dovrebbero, secondo il parere di molti, essere separate, a differenza di quanto lui ha in mente: «Tu sai quanto mi costerebbe lasciare la parrocchia e come io sia convinto che l’Opera e la parrocchia si aiutino vicendevolmente», spiega nel 1941 a un sacerdote amico subito dopo una visita pastorale dell’arcivescovo Elia Dalla Costa, che dieci anni prima era succeduto al cardinale Mistrangelo.
«Ad ogni modo», continua in quella lettera, «tu sai che sono nelle mani del Signore e sono pronto a tutto; ogni sacrificio sono pronto a compierlo». Lo compirà qualche anno dopo, nel 1954, quando la separazione sarà definitivamente sancita. «Sii benedetto, Signore», sussurrò in quel momento, «perché tutti i miei progetti sono sconvolti… Non posso fare altro che tenderti le braccia». D’altronde già nel 1926 aveva scritto: «Nella breve storia dell’Opera, come appare chiaro che il Signore vuole fare Lui: quante volte ci ha già cambiato le carte in tavola!».


«Don Facibeni – l’uomo, il sacerdote, che portava nel nome il segreto della sua vita – si è trovato (non saprebbe forse dir bene egli stesso in che modo) circondato ben presto non più da pochi orfanelli in cerca di tenerezza e di soccorso, ma da uno stuolo, da una folla di piccoli che è via via cresciuta, e straripando dall’umile asilo, ha sciamato prodigiosamente, e oggi l’Opera, che qui salutiamo, è in quattordici case, fiorente di alunni e di protettori, sotto la buona guardia della Vergine Santissima, che mantiene, in nome della divina Provvidenza, l’impegno assunto da questa, venticinque anni or sono, nella Carità di Gesù Cristo». È il 1949, e con queste parole Pio XII saluta “il Padre”, come ormai a Firenze e fuori lo chiamano tutti, giunto a Roma in udienza per festeggiare il primo quarto di secolo dell’Opera. Ha già la malattia, il Parkinson, che lo accompagnerà fino al giorno della morte, il 2 giugno 1958.

Negli ultimi anni della vita gli sono accanto gli amici, molti dei quali sacerdoti. «Chi ha avuto la grazia di incontrarlo allora», ricorda Piovanelli, «non può ricordarlo che come stanco e cadente. Ma con un volto illuminato da due occhi vivissimi e dal sorriso di un bambino».
Dio aveva provveduto ancora al “prete mingherlino”. Soprattutto a rendere lieta la sua giovinezza.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il diario di don Canovai, «canto dolcissimo della Tua misericordia»


Storia di don Giuseppe Canovai, sacerdote romano vissuto nella prima metà del secolo scorso. A Roma, dove trascorse gran parte dei suoi anni, svolse incarichi in Curia e fu assistente della Fuci. Poi, alla fine del 1939, partì per l’Argentina come uditore della locale nunziatura apostolica. Scrisse un diario, reso pubblico solo dopo la sua morte: là annotava i suoi pensieri come fossero preghiere


di Paolo Mattei


Un ritratto di don Giuseppe Canovai [© Opera Familia Christi]

Un ritratto di don Giuseppe Canovai [© Opera Familia Christi]

«È inutile: è sempre il romano, anche una cosa dolorosa egli sa cambiarla in una festa, beato buon umore». Il giovane Giuseppe Canovai appunta questo pensiero sulla pagina di uno dei tanti diari cui avrebbe affidato i propri pensieri e le proprie osservazioni durante il corso di quasi tutta la vita. Scrive moltissimo, già da ragazzo, rubando il tempo al tempo risicato che gli resta dopo lo studio e le ordinarie faccende della giornata. E in quei primi accenni di Novecento, nel 1919 per l’esattezza, all’età di quindici anni, raccoglie anche qualche scampolo di quotidianità romana – «carrozze, automobili, carretti carichi di donne provinciali grasse e incollanate, tram stracarichi con la gente sui predellini, attaccati pure di fuori, a momenti pure sul tetto» –, osservando l’allegria del popolo in mezzo al quale è nato, la levità con cui vive il giorno della commemorazione dei fedeli defunti: «Tutta questa gente si muove spinta da un pensiero pio…, un pensiero caritatevole, veramente cristiano; però, essa non è triste, tutt’altro, sembra gente che vada a festa e prova ne sono le numerose osterie aperte e i carrettini carichi di mele, di pere, i cartelloni…».
Questo scorcio capitolino d’inizio novembre offre un’immagine suggestiva della storia di chi lo ha abbozzato: un prete romano e romanesco, spettacolo di letizia e vivacità per gli occhi di quanti lo conobbero, che con costanza certosina delinea nelle pagine dei diari («i miei poveri appunti») il profilo delle proprie giornate, tracciando così il ritratto di una vita – con tutte le gioie e le difficoltà, le speranze e i travagli, attese incertezze lacrime – che si dipana in un quotidiano dialogo con Gesù. Molti di quelli che ebbero la fortuna di incontrarlo probabilmente non sospettavano che nell’intimo giornale quotidiano tenuto da quell’uomo – mai a corto di arguzie popolari e di contagiosa allegria – si potessero addensare riflessioni e osservazioni così drammatiche intorno alla propria esistenza. Riflessioni e osservazioni che Canovai, fin dall’inizio, affida al suo unico grande amico, Gesù. E che sembrano un’unica preghiera: «Signore», avrebbe annotato nel 1941, «fammi la grazia di non scrivere mai cose in cui l’io trovi la soddisfazione della sensibilità e della superbia; che io scriva solo ciò che solleva a te, ciò che purifica e umilia, che castiga e rinnova: il canto dolcissimo della tua misericordia».

L’aria del mondo
Il figlio di “sor Luigi” – impiegato nell’Istituto italiano di Credito fondiario – e della signora Egeria – di famiglia romana e papalina, il cui padre fu decano dei “sediari” pontifici – abita con loro a via Terenzio, nel quartiere Prati, dov’è nato il 27 dicembre del 1904. Incomincia ad affacciarsi fuori del suo quartiere quando s’iscrive al liceo-ginnasio di piazza del Collegio Romano, il Visconti, nelle vicinanze dell’Università della Compagnia di Gesù, la Gregoriana. L’immaginazione si affretta al futuro, il ragazzino si vede già «uomo d’affari», che si concederà il giusto tempo per «vedere e conoscere il bel Paese dove sono nato», per cimentarsi «nelle opere della pittura, della poesia, della scultura; potrò dilettarmi della meccanica osservandone i grandi trionfi, dell’architettura osservando le grandi meraviglie di cui la mia Patria è adorna. Così io vedo il mio avvenire…». Le parole dello svolgimento di un tema di quarta ginnasio – con tutte le comprensibili sfumature di retorica ingenuità – sono quelle di uno studente in corsa, curioso e spalancato alle bellezze e ai misteri della realtà. Del resto, nella sua città, il vento del mondo lo investe ogni mattina portandogli l’eco delle lingue straniere dei viaggiatori, o quella delle conversazioni degli studenti della Gregoriana provenienti da vari Paesi del globo. Tra loro, molti preti, da cui è subito conquistato: «La loro soprannaturale missione, il loro perfetto carattere... la loro meravigliosa successione che li congiunge agli apostoli e, con questi, alla loro divina origine…».
La vocazione ha i suoi particolari espedienti per palesarsi, a volte è lenta e discreta, a volte rapida e spensierata, comunque sempre coi suoi propri tempi. Spesso sembra voler giocare a rimpiattino col carattere degli uomini, con la loro flemma o la loro fretta, come quella di Giuseppe, che continua a studiare, e a peregrinare, in fretta, “di prescia” come si dice a Roma, per le strade dell’amata città, di cui è in grado di raccontare fin da ragazzino la storia antica con le competenze di un provetto “romanista”. Si diploma nel 1921 e, l’anno successivo, si iscrive a Giurisprudenza, nell’antica sede della Sapienza. Nelle circostanze più ordinarie – lo studio e il tempo libero coi tanti amici con cui spesso parte per gite in montagna – piano piano si fa largo la prospettiva della vita sacerdotale, che, col tempo, si chiarisce nei colloqui con padre Enrico Rosa, direttore de La Civiltà Cattolica, dalle cui mani aveva ricevuto la Prima Comunione: il gesuita sarà per lungo tempo il suo direttore spirituale. È proprio lui a consigliare più riposo al ragazzo, inarrestabile nelle iniziative e nelle attività: «Stasera sono andato da padre Rosa a confessarmi… Egli mi ha dato tanti buoni consigli tra i quali quello pure di scrivere meno e di dormire di più…». Così annota nel diario nel 1924, pochi mesi dopo la morte del papà, il sor Luigi, colpito dalla febbre spagnola nel marzo dello stesso anno. La fatica e lo sconforto di quei mesi sono sorretti dalla vicinanza dei tanti suoi amici, e specialmente dalla «letizia proveniente innanzitutto dal sentirsi in pace con Dio e con gli amici di Dio: questa letizia è quasi, direi, il segno di una vita veramente congiunta con Dio; questa letizia semplice e interiore brilla su tutti i santi: perché in essi è la dolce abitazione di Dio». E, riguardo al sacerdozio, così appunterà l’anno successivo: «Ho ripensato, Signore, che la vocazione… è cosa assolutamente divina, che qualunque pensiero umano offusca e rovina; è cosa che parte da te e ritorna a te, sorretta e illuminata dalla tua grazia, che è cosa tua, insomma, dono tutto tuo, intima responsione della nostra anima a te che amorosamente ci chiami e ci inviti a seguirti».

Don Canovai con alcuni studenti della Fuci in una foto del 1937 [© Opera Familia Christi]

Don Canovai con alcuni studenti della Fuci in una foto del 1937 [© Opera Familia Christi]

“Nella tua volontade è nostra pace”
La Compagnia di Gesù esercita su Giuseppe un richiamo formidabile: nell’Ordine di sant’Ignazio desidera formarsi per il sacerdozio. Ma la situazione economica incerta dopo la morte del papà e la salute precaria della mamma, bisognosa d’assistenza, consigliano prudenza a padre Rosa, che comunque lo vedrebbe bene come futuro collaboratore de La Civiltà Cattolica. Nel frattempo, nel ’26, anno di studio intensissimo, il giovane Canovai si laurea in Giurisprudenza alla Sapienza e in Filosofia alla Gregoriana, dove, nello stesso anno, si iscrive a Teologia. Padre Rosa fa in modo che il Collegio Capranica sia il suo seminario, così che possa proseguire lo studio in Gregoriana. Vi entra nel 1929, un anno di grandi prove: il sogno della Compagnia sembra sfumare, anche per il disaccordo del cardinale vicario Basilio Pompili che lo vorrebbe al seminario lateranense e che a malincuore acconsente al suo ingresso in quello capranicense. Nello stesso periodo inizia a soffrire di un’ulcera duodenale che non lo abbandonerà più. Così annota in quell’anno: «Pure, Signore, nella pace che in fondo alberga nell’anima mia vedo l’ombra amorosa della tua misericordia e della tua provvidenza. Grazie, o mio Dio, per la pace che oggi mi hai concesso nonostante le brutte notizie avute e i guai che prevedo incontrerò. Fa’, o Signore, che questa pace e questa pazienza non mi manchino mai. Sento talora vacillare la mia volontà debole, la mia fiducia. Tu dammi, Signore, forza e coraggio, fa’ che contro tutte le apparenze umane io sia pieno di fiducia, di speranza, di gioia. Dammi, Signore, la tua pace, la pace della tua pazienza e della tua rassegnazione. Fa’ che io sia sempre, qualunque sia il mio domani, egualmente lieto, egualmente sereno».
Giuseppe tenterà ancora, l’anno successivo, l’ingresso in Compagnia, anche se padre Rosa glielo sconsiglia. Non sarà accettato. Ma tutto affida alla volontà di Dio: «Cosa preparerà l’avvenire? Io non so, è nelle tue mani, mio Dio. Ma qualunque esso sia, sarà apportatore di pace perché “nella tua volontade è nostra pace”». Anche alla mamma, agitata perché poco sopporta l’inerzia cui la costringe la cagionevolezza della salute, scrive: «Di nuovo stia tranquilla e preghi sempre il Signore. Dico sempre perché la preghiera dev’essere “ininterrotta” per essere veramente accetta al Signore. Non dobbiamo lasciarla mai: quindi o pregare o offrire quello che si fa, o meglio, quello che abbiamo il dovere di fare, questa è la migliore preghiera. E lei adesso ha il dovere di non fare niente e di stare tranquilla mentre forse avrebbe qualche “pretesto” per non starci; e allora offra al Signore “il non far niente” e lo “star tranquilla”, e l’offra con molto amore e con grande semplicità e così pregherà ininterrottamente con la preghiera più bella e più accetta a Dio».
Sono mesi duri per Giuseppe, che il 6 agosto scrive: «Passo momenti in cui il pensiero di essere incapace a tutto, inetto a tutto… che per me non c’è più speranza di nulla, mi opprime fino all’inverosimile e all’indicibile. Eppure quelli sono i soli momenti in cui mi conosco a fondo».

«Come è facile essere portati da Lui»
«Tu vedi o Signore, cosa posso darti io? E dire che la gente parla di me come di persona che può far qualcosa; io solo sento, o Signore, con evidenza, che non potrò far nulla, che sono finito! Ma neppure questo m’abbatte, tu solo basti, in nomine tuo laxabo retes!». Con queste brevi note don Giuseppe consegna al Signore il suo sacerdozio: l’ordinazione avviene il 3 maggio del 1931, e già il mese successivo al novello prete viene assegnato il primo incarico come minutante alla Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi. Anche quest’impiego non corrisponde affatto alle sue aspirazioni. Si sente chiamato all’insegnamento o alla predicazione, ministeri per cui, a detta di molti conoscenti, possiede un’evidentissima propensione: «Ho una vita così diversa da quella sognata, un’attività così difforme da quella che avrei voluto! Pazienza, tu mi sosterrai, o mio Signore, ed io ti offrirò tutto».
Il 21 dicembre 1932 si laurea in Diritto canonico: ha ventisette anni e quattro lauree, incrocio di numeri che parlano di speditezza, la stessa con cui si sposta per la città in quegli anni, a piedi o con una “Topolino”: «Andava sempre “de prescia”», racconta uno dei tanti che hanno a che fare con lui nelle svariate occasioni in cui si dedica – dopo l’orario di lavoro o durante le vacanze – al suo ministero prediletto: la predicazione. Si reca ovunque lo chiamino, e lo chiamano dappertutto, a tenere conferenze su san Benedetto e su san Francesco, su Benedetto XV e su Bellarmino, su Carlo Magno e Giambattista Vico; parla di apologetica e teologia, di catacombe romane e di diritto, di Guerra e pace e di Papini… Poi tiene esercizi spirituali ed esortazioni in ogni angolo della città. E insieme ad alcuni amici inizia a dare forma a un’opera fondata sul laicato contemplativo, la “Familia Christi”, il cui statuto sarà approvato nel 1938.
Intanto cambia casa, si stabilisce a via Monserrato come assistente delle Brigidine, ed è nominato cappellano di Sant’Ivo alla Sapienza, sede dell’Università di Roma. Nel 1937 diventa assistente della Fuci capitolina. E anche monsignore: «E adesso famo l’Arlecchino», ironizza assumendo le insegne connesse al titolo onorifico.
Le parole del diario sono un fiume carsico che scorre silenzioso sotto il rumore della giornata: «Come è facile andare insieme con Lui, come è facile, portandolo, essere portati da Lui!». Tutto si fa più semplice quando don Giuseppe è in compagnia del destinatario delle sue preghiere scritte, dei suoi “poveri appunti”: «Signore, mantieni l’anima mia in questi desideri; so, Signore, che non è possibile restarci senza il perenne aiuto della tua grazia». In quelle pagine annota anche pensieri per le omelie, come quelli sulla parabola evangelica del figlio che, avendo dapprima rifiutato di sottomettersi a un ordine del padre, alla fine obbedisce: «… quell’angoletto di Vangelo mi piace tanto perché è così pieno di discrezione, così pieno di compassione verso la nostra debolezza… Perché è così umano… Appunto perché è così stupendamente divino, mi pare che ci passi dentro, inavvertita quasi, una misteriosa compiacenza di Dio verso quelle povere resistenze della natura che si contorce nella sua debolezza prima di cedere alla invasione della carità». Spesso si tratta di brevi contemplazioni in cui prevale la meraviglia per una bellezza intravista: «Come è santa la legge del Signore! Mi piace tanto quel lungo salmo della domenica in cui essa è glorificata in ogni forma possibile! Ma stamane pensavo specialmente a quel versetto: “iudicia tua iucunda”. Com’è gioconda nel cuore la legge del Signore! [...] E come è bello sentire vicino a quell’invito all’osservanza dei precetti la promessa del Paraclito… Come è bello! Sembra che il Signore non la possa domandare senza promettere l’aiuto… a farci intendere che questa stessa osservanza non sarà nostra, ma sua, che sarà il diffondersi in noi e fuori di noi del promesso Spirito di Dio».

Don Giuseppe Canovai sul ponte della motonave “Oceania” che lo portò in Argentina nel dicembre 1939 [© Opera Familia Christi]

Don Giuseppe Canovai sul ponte della motonave “Oceania” che lo portò in Argentina nel dicembre 1939 [© Opera Familia Christi]

«Con mucho gusto, Señor»
«Questa mattina sua eccellenza Montini mi ha proposto di partire uditore per Buenos Aires! Che triste Pentecoste! Sento una pena immensa… Ma vorrà proprio questo il Signore?». È il 27 maggio 1939. A don Giuseppe pare che tutto si muova in direzione ostinatamente contraria ai suoi desideri: prima le “scartoffie” della Congregazione romana, ora la proposta di Montini, sostituto della Segreteria di Stato, di partire per l’Argentina come uditore della locale nunziatura apostolica, dove le “scartoffie” sarebbero state con ogni probabilità ancora più numerose e onerose. Con gli amici, che sa di dover salutare forse per sempre, ride in romanesco della novità: «Ora faremo er diplomatico… E sa’, quella è ‘na gran brutta vita… Perché er diplomatico, poveraccio, campa sempre co’ la paura de l’ incidente, che vor di’ l’accidente…».
Naturalmente, dopo essersi consigliato con alcuni padri della Compagnia, come Felice Cappello, obbedisce, e la prima alba del 1940 la vede sorgere sulle coste della capitale argentina. Il 1º gennaio di quell’anno sbarca nel Nuovo Mondo.
«Di’ al Signore una frase che ho imparato qui e che ripeto nel cuore al buon Dio tutte le volte – né sono poche – in cui devo fare ciò che non amo: “Con mucho gusto, Señor”». Monsignor Canovai studia lo spagnolo, e lo impara in fretta, anche perché pure nella Ciudad Porteña viene chiamato a predicare un po’ ovunque, a pronunciare una parola «che non è nostra; è grazia infinita che Dio ci conceda di pronunziarla: amarla, venerarla, dare la nostra vita per annunziarla degnamente». La vita lavorativa, quella che lui considera da “travet”, pure se d’un certo rango, è sempre affidata alla preghiera: «Tutta la mia giornata è lavoro, e molto per la corrispondenza che è forte; preghiera, adorazione soprattutto, e giornali. Chi mi avesse detto di dover leggere tanti giornali!». Prova «una grande calma e tranquillità; io sperimento in questo un vero e particolarissimo aiuto della grazia […]. Vivo nella continua attesa della santa messa e del breviario».
L’uditore si ritrova spesso a disagio nei ricevimenti («indove si vedono tante bojerie», spiegava prima di partire ai suoi amici di Roma: «E tu devi fa’ l’inchino a li ministri, a li senatori, a li deputati, a li rappresentanti, a tutti li sbafatori internazionali…»), ma se la cava eccellentemente, come s’addice a un diplomatico, nonostante i suoi appunti siano, come sempre, colmi di appassionata umiliazione: «Mi è dolce non solo sapere, ma sentire, assaporare l’imperfezione e la miseria di cui sono piene tutte le opere mie, gustarla fino nei più piccoli particolari, fino nell’intimo, perché allora mi sembra che la misericordia del perdono penetri in ogni fibra della vita e mi sembra che ogni attimo, ogni istante della mia vita sia sorretto dalla effusione della misericordia»
Tutto quello che considera necessario per la sua vita, anche lì, è «… battere e bussare e insistere sempre per una cosa sola: la unica che è certamente buona: la comunione amorosa e confidente, umile e serena alla croce del Figlio di Dio». Il suo conforto è l’amicizia con Gesù, che l’aveva accompagnato fino laggiù: «Consolazione indicibile sentendo che ho detto la messa in modo incomparabilmente migliore di quello con cui celebrai la mia prima: dopo dieci anni di infedeltà e di miserie, questo tratto di misericordia del mio Dio è apparso dono soave di perdono e certezza di amicizia divina».

«Come un fiore su un bocciolo di primavera»
Don Giuseppe Canovai morirà l’11 novembre del 1942, a Buenos Aires, in una clinica in cui era stato ricoverato per una peritonite. Era da poco tornato dal Cile, dove s’era trattenuto da gennaio a luglio come incaricato d’affari ad interim. La malattia lo aveva sfinito. Aveva trentotto anni. In uno degli ultimissimi appunti, di metà ottobre, scrive: «Gioia di preghiera viva e lacrime di pentimento. Gioia nel ricevere il mio nuovo giorno da Dio, come un grande dono divino. Che grande avvenimento un nuovo giorno! Un nuovo invito all’Amore. Alla fine della mia meditazione il breviario è sbocciato nell’anima come un fiore su un bocciolo di primavera».
La giornata del sacerdote romano giungeva al traguardo finale, tra le preghiere di chi gli stava intorno, e le sue, le più semplici: «Mi ha commosso soprattutto», aveva appuntato nel 1941, «la ricerca di Dio nella più umile delle preghiere, la preghiera vocale… il Rosario, i Pater, le Ave, ripetute qua e là durante la nostra giornata, le giaculatorie dette quasi a mezza bocca quando l’anima è stanca e affaticata, la Via Crucis, le formule delle preghiere preferite che si pronunziano quasi solo accennando le sillabe tanto sono note, le litanie della Vergine, le litanie dei santi, i salmi della penitenza e della gioia, tutte parole sante con cui si chiede Dio, con cui si implora la sua vasta discesa nel nostro spirito, in cui l’anima si apre per essere invasa, si umilia, si atterra avanti a Dio per essere raccolta dalla sua misericordia. Piccole e umili preghiere delle nostre labbra stanche! […] Quando mancheranno le forze per ornare la casa interiore dell’anima e tutto sarà consumato, quando le labbra morenti appena potranno muoversi, voi umili sorelle minori della mia meditazione segreta, voi fiorirete ancora sulle mie labbra spente a cercare la misericordia di Gesù e la dolcezza di Maria».


Fraternamente CaterinaLD

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Le “stazioni” di monsignor Ubique


A Roma lo chiamavano così per la sua instancabile operosità. Fu cerimoniere di due papi, studioso di musica sacra, appassionato cultore di archeologia cristiana. Riportò in auge, negli anni Trenta, le “stazioni quaresimali” per diffondere tra la gente la venerazione dei martiri. Ritratto di monsignor Carlo Respighi


Intervista con Pasquale Iacobone di Giovanni Ricciardi


Non aveva il dono dell’ubiquità, ma qualcuno cominciava a sospettarlo, nel vederlo sempre e dappertutto, con quel fare nobile e popolare al tempo stesso di chi è romano de Roma. E non era solo perché, per più di trent’anni, era stato cerimoniere del papa, e lo si vedeva sempre impeccabile, in tutte le occasioni, al fianco del pontefice. Era uno dei pochi – ricorda monsignor Domenico Bartolucci – che si permetteva di dare del tu a Pio XII: «Non farmi fare brutta figura!», gli aveva detto subito dopo la sua elezione, prima che si affacciasse alla Loggia delle benedizioni. Poteva permetterselo, lui che era stato il suo capo-camerata al Collegio Capranica. Poliedrico, instancabile, allegro, «di un’attività prodigiosa», come ricorda il senatore Andreotti che lo conobbe e lo frequentò negli anni Trenta, Carlo Respighi era per questo chiamato monsignor Ubique.

Studiò liturgia, creò la Rivista gregoriana in cui si ospitava il dibattito storico-musicale sul modo corretto di eseguire il canto gregoriano e che diresse fino al 1914; fu tra i fondatori dell’Istituto del Dramma sacro. Ma queste sono solo le “appendici” meno importanti della sua attività. A lui si deve soprattutto il recupero a Roma di un’antichissima tradizione liturgica, quella delle stazioni quaresimali, che per sessant’anni, all’indomani della presa di Porta Pia, con la proibizione delle processioni pubbliche nella città, era stata pressoché dimenticata. Di questo e della figura di Carlo Respighi parliamo con monsignor Pasquale Iacobone, sacerdos della Pontificia Accademia «Cultorum Martyrum», il sodalizio che collabora assiduamente con la diocesi di Roma per la celebrazione delle “stazioni”.

Monsignor Pasquale Iacobone, sacerdos della Pontificia Accademia «Cultorum Martyrum»

Monsignor Pasquale Iacobone, sacerdos della Pontificia Accademia «Cultorum Martyrum»

Tutti coloro che ricordano monsignor Respighi sottolineano la multiforme ricchezza della sua attività e dei suoi interessi…

PASQUALE IACOBONE: È vero, ma questa attività aveva un suo centro nell’amore per Roma, per la Chiesa e per le memorie dei martiri. Sentiva questa tradizione come una cosa viva. Lo scrisse molto bene il suo amico monsignor Giulio Belvederi, all’indomani della morte improvvisa di Respighi, nel giugno 1947: «Più che conoscerle per una intellettuale compiacenza, amò di vivere le memorie sacre di Roma in quanto diventarono, nelle sue aspirazioni, fonte della sua stessa vita spirituale».

Come nasce questo amore per le memorie dei martiri?

IACOBONE: La famiglia di Respighi viveva nella Torre del Campidoglio. Lui era nato “lassù” nel 1873, dove il padre Lorenzo dirigeva l’Osservatorio astronomico di Roma. Ma ai piedi della rampa del Campidoglio abitava Giovanni Battista De Rossi, intimo amico della famiglia. E così, da ragazzo, Respighi accompagnava spesso il maestro dell’archeologia cristiana nelle sue visite alle catacombe. La sua vocazione sacerdotale si sviluppa così a contatto con la memoria dei martiri. Tant’è vero che uno dei suoi primi incarichi, che durerà poi per tutta la vita, sarà quello di membro della Commissione di Archeologia sacra di cui, dal 1917 alla morte, ricoprì il delicato ruolo di segretario. Sono per Respighi anni di grande attività: si dà sistemazione al complesso di San Sebastiano, si scoprono il cimitero di Panfilo, quelli sulla via Latina, si eseguono gli scavi sotto la Basilica Lateranense, e soprattutto quelli della tomba di Pietro in Vaticano. E a questa attività è legato il primo incontro tra Respighi – che allora era già prefetto delle Cerimonie apostoliche, un altro “polo” fondamentale del suo ministero – e Pio XI, poche ore dopo la sua elezione a papa.

Che cosa voleva Pio XI da Respighi?

IACOBONE: Ce lo riporta lo stesso Respighi in un appunto personale e commosso: «Rientrando nella cameretta toccatagli in sorte per il conclave, con ancora nella mente la visione superba della colossale magnificenza con cui i popoli hanno esaltato la povertà della tomba del primo Papa, Pio XI pensò forse agli umili e travagliati inizi della Chiesa santa, ai trofei insanguinati ma gloriosi dei suoi primi antecessori nascosti nelle catacombe. Dall’alto del Vaticano ebbe la visione della Roma sotterranea cristiana, e di questa in quel primo colloquio mi parlò; volle conoscere lo stato dei sacri cimiteri; i bisogni, le idealità della Commissione nostra e le sue iniziative; parlò, ascoltò, promise». Di lì a poco la Commissione di Archeologia sacra fu elevata a Istituto Pontificio di Archeologia cristiana.

E sotto il pontificato di Pio XI, Respighi ebbe l’idea di riprendere le stazioni quaresimali…


IACOBONE: Questa iniziativa è legata a un altro dei campi in cui operò Respighi: il Collegium Cultorum Martyrum, fondato nel 1879 dai primi discepoli del De Rossi: Armellini, Hytreck, Marucchi e Stevenson. Il loro scopo era quello di far rifiorire, accanto allo studio e alle scoperte degli antichi cimiteri cristiani, il culto dei martiri romani. Come ho detto, l’amore per la memoria dei martiri è forse alla base della vocazione di Respighi, ed egli fu scelto come sacerdos del Collegio già nel 1900. Poi, nel 1931, ne divenne magister, cioè presidente, e fu allora che mise in atto l’idea di far rivivere le stazioni quaresimali, così profondamente legate al culto dei martiri.

Una tradizione molto antica che era caduta in disuso…


IACOBONE: Dopo Porta Pia, a Roma era stato vietato ogni atto di culto pubblico fuori dal perimetro delle chiese. Il papa e i vescovi non uscivano più per guidare le processioni, e le stazioni quaresimali erano state accantonate. Ma all’indomani dei Patti Lateranensi, con il clima nuovo che si era venuto a creare, Respighi colse subito l’occasione per riportare in auge questa tradizione così connaturata alla sua formazione, alla sua sensibilità e al suo ruolo. C’era la possibilità di restituire al culto non solo le chiese, ma anche le vie della città. E lui, come prefetto delle Cerimonie del papa e dunque punto di riferimento per tutta la liturgia della città di Roma, pensa subito alle stazioni quaresimali. Abbiamo parlato della sua competenza storica e archeologica. Questi diversi campi d’azione, la liturgia, il culto dei martiri, l’archeologia sacra, trovano una coincidenza e una sintesi proprio in queste processioni penitenziali, in cui si percorrono le strade dell’antica Roma, si toccano le chiese e le basiliche stazionali, e si valorizzano le memorie dei martiri presenti nelle varie chiese. Insieme al Collegium riuscì a coinvolgere moltissimi fedeli, in queste celebrazioni che risalgono alla Chiesa dei primi secoli.

Un ritratto di monsignor Carlo Respighi; sullo sfondo, un’immagine 
del Campidoglio con il Foro romano. 
Respighi nacque e visse nella Torre del Campidoglio, dove il padre dirigeva l’Osservatorio astronomico di Roma

Un ritratto di monsignor Carlo Respighi; sullo sfondo, un’immagine del Campidoglio con il Foro romano. Respighi nacque e visse nella Torre del Campidoglio, dove il padre dirigeva l’Osservatorio astronomico di Roma


Possiamo tracciarne un breve profilo?


IACOBONE: La prima notizia storica ufficiale sulle stazioni l’abbiamo con papa Ilaro (461-468). Nel Liber pontificalis si dice che il Papa dona alla Chiesa di Roma una serie di vasi sacri da utilizzare nelle chiese in cui avvenivano le stationes, che erano fondamentalmente connesse alla memoria solenne di alcuni santi e martiri: Pietro e Paolo, innanzitutto, poi Lorenzo, Agnese, Cecilia. Fin dall’inizio furono legate ai diversi tituli in cui era suddivisa la comunità cristiana di Roma: le antiche parrocchie, per dire così, che custodivano la memoria e le reliquie dei martiri. Lo schema di queste cerimonie è tutt’ora sostanzialmente identico a quello degli inizi. C’è un momento di colletta in cui il vescovo raduna i fedeli, in una chiesa vicina a quella stazionaria. Poi una processione, detta letania, con cui, al canto, appunto, delle litanie dei santi, si raggiunge la chiesa stazionale, dove si svolge una veglia di preghiera, successivamente sostituita dalla celebrazione della messa. In questo modo, con una liturgia semplice, ma carica di significato, si sottolinea il legame tra la Chiesa celeste – rappresentata dai martiri e dall’avvicinarsi fisico alle loro reliquie – e quella terrestre, che vive nel mondo ma è in pellegrinaggio verso il Cielo.


Le “stazioni” sono rimaste sempre le stesse?


IACOBONE: In origine non venivano celebrate tutti i giorni della Quaresima, ma nel corso dei secoli se ne sono aggiunte di nuove, fino ad arrivare all’attuale scansione, che comincia il Mercoledì delle Ceneri, con la solenne stazione presieduta dal papa a Santa Sabina, e finisce a San Pancrazio la domenica dopo Pasqua.


Si tratta di una tradizione solo romana?


IACOBONE: La “forma” romana fu ripresa, anche in antico, da altre diocesi, per cui questa tradizione liturgica da Roma si diffuse via via in tutto il mondo occidentale, dall’Africa del Nord a Ravenna, dalla Germania alla Gallia. La pratica delle stazioni ha poi, nella storia, i suoi alti e bassi. Decade notevolmente durante l’esilio avignonese, viene ripresa in alcuni momenti, ad esempio con san Carlo Borromeo e col papa san Pio V, e perdura fino al 1870, quando le stationes non hanno più luogo, per riprendere nel 1931 grazie all’opera di monsignor Respighi, che da allora e fino alla morte ne fu un instancabile promotore.


L’intuizione di monsignor Respighi ha un seguito ancora oggi?



IACOBONE: Da quando le reintrodusse, non sono più state abbandonate e il Collegio, ora Pontificia Accademia «Cultorum Martyrum», continua a promuoverle. Dopo una forte flessione negli anni Settanta, in cui questa pratica era in parte percepita dallo stesso clero come obsoleta, assistiamo oggi a una certa ripresa. Negli ultimi tempi le stazioni sono state riprese anche fuori da Roma, per esempio a Chieti e in alcune diocesi degli Stati Uniti.
Anche noi abbiamo cercato di promuovere meglio e di più tra i fedeli romani la conoscenza di questa forma di preghiera penitenziale tipica della Quaresima. La semplice iniziativa, presa quest’anno, di stampare un manifesto da affiggere in tutte le parrocchie con l’orario e il nome della chiesa stazionale ha avuto un buon riscontro e il numero dei partecipanti va spesso oltre quello dei sodali dell’Accademia. Stiamo iniziando anche a proporre alle parrocchie della periferia dei “gemellaggi” con una chiesa stazionale, un esperimento che intendiamo allargare, perché dove si è realizzato ha avuto un buon esito: un pellegrinaggio quaresimale semplice, ma in cui si ha l’occasione di pregare e di invocare i santi martiri che ci guardano dal Paradiso.

[SM=g1740738]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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17/08/2012 23:01
 
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[SM=g1740722] Il nuovo prete americano: 31 anni, dice il rosario e fa l'adorazione eucaristica
 
 

Dal sito web “Catholic Culture.org”, apprendiamo che la Chiesa cattolica negli Stati Uniti ha promosso un interessante sondaggio sull’identikit dei giovani candidati al sacerdozio in questo anno 2011. Eccone la traduzione.

 

Secondo un sondaggio di 329 giovani su 480 candidati all’Ordinazione presbiterale negli Stati Uniti in questo anno 2011, si apprende che il nuovo sacerdote tipo americano ha l’età media di 31 anni, è cattolico dalla nascita e che, prima di entrare in seminario, pregava regolarmente con il Rosario e faceva Adorazione Eucaristica.

Il sondaggio è stato condotto dal Centro di Ricerca Applicata all’Apostolato. Ecco alcuni dei risultati:

- l’età media degli ordinandi è dai 31 ai 34 anni
- l’età media degli ordinandi diocesani è di 30 anni; per gli ordinandi religiosi, di 36
- l’ordinando diocesano tipo vive nella sua diocesi da almeno 15 anni
- il 69% sono bianchi, il 15% latini, il 10% asiatici e il 5% afro-americani
- il 33% è nato fuori dagli USA, mediamente entrato negli USA nel 1998 a 25 anni; i Paesi di origine più comuni sono la Colombia, il Messico, le Filippine, la Polonia e il Vietnam
- il 52% degli ordinandi religiosi è nato fuori dagli USA
- l’8% è costituito da giovani convertiti, mediamente entrati nella Chiesa a 25 anni
- il 60% ha completato gli studi prima di entrare in seminario
- il 47% ha frequentato una scuola elementare cattolica, il 39% ha frequentato una scuola superiore cattolica e ancora il 39% era studente di università cattoliche; il 4% ha ricevuto un’istruzione a casa propria
- il 34% ha un parente sacerdote diocesano o religioso
- nell’82% dei casi, entrambi i genitori sono cattolici
- il 37% ha quattro o più fratelli e sorelle; il 16% ha tre fratelli e/o sorelle
- il 94% aveva un lavoro a tempo pieno, prima di entrare in seminario
- l’8% ha fatto esperienza militare, e il 19% ha un genitore in carriera militare
- il 66% ha avuto un parroco a incoraggiarlo nella vocazione sacerdotale; il 42% è stato incoraggiato dalla propria madre, e il 27% dal proprio padre
- il 52% ha avuto un genitore che lo ha scoraggiato nella vocazione; il 20% è stato scoraggiato da un sacerdote diocesano e l’8% scoraggiato da un religioso
- a 16 anni mediamente, gli ordinandi hanno cominciato a pensare per la prima volta al sacerdozio
- il 48%, prima di entrare in seminario, ha fatto parte di un gruppo giovanile parrocchiale, il 30% era nei Boy Scout e il 23% era nei Cavalieri di Colombo
- il 21% ha partecipato alla Giornata Mondiale della Gioventù e l’8% ha frequentato una Conferenza giovanile dell’Università francescana di Steubenville (n.d.t: prestigiosa accademia universitaria nello Stato dell’Ohio, di forte impronta cattolica)
- il 71% ha servito all’altare da ministrante, e il 55% da lettore durante la Liturgia della Parola nella Santa Messa
- il 70%, prima di entrare in seminario, pregava regolarmente con il Rosario, e il 65% faceva Adorazione Eucaristica.

 

traduzione a cura di don Giorgio Rizzieri
 

> ARTICOLO ORIGINALE <


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Costruire una cultura delle vocazioni

Intervista al Cardinale Timothy Dolan, Arcivescovo di New York

di Matthew E. Bunson

 

 

 

Tra noi cattolici si sente sempre dire che c'è "una crisi delle vocazioni". Generalmente ci si riferisce alle vocazioni per il sacerdozio. Ma l'impegno per discernere una vocazione non è limitato al sacerdozio.
 
Tutti siamo chiamati a discernere ciò che Dio vuole che facciamo della nostra vita - sia un giovane che medita sul sacerdozio, o giovani uomini e donne che pensano di entrare nella vita religiosa, o un uomo che si sente chiamato al diaconato permanente, o una coppia che decide per il matrimonio, o qualcuno che si orienta verso una vita secolare consacrata. Tuttavia oggi, ci sono molti ostacoli per ascoltare la chiamata di Dio, e il compito della Chiesa è quello di assistere uomini e donne nel discernere la via che li condurrà alla vera felicità e alla vita eterna.
 
In vista della celebrazione della Settimana Nazionale di Consapevolezza sulla Vocazione (dal 9 al 14 gennaio 2012), la rivista "Catholic Answer" ha intervistato l'Arcivescovo di New York, Timothy M. Dolan, su come costruire una "cultura delle vocazioni".
 
Il Cardinal Dolan è stato rettore del Collegio nord-americano, il seminario per i giovani americani a Roma, dal 1994 al 2001; arcivescovo di Milwaukee dal 2002 al 2009, e nominato arcivescovo di New York nel 2009. Nel 2010, è stato eletto presidente della Conferenza Episcopale Cattolica degli Stati Uniti. Ha anche un suo blog: http://blog.archny.org/.

 

 

THE CATHOLIC ANSWER: Eminenza, forse il modo migliore per incominciare è con una domanda di fondo: qual è la comprensione della Chiesa sulla vocazione?
 

CARD. TIMOTHY DOLAN: C'è un senso generico di vocazione e c'è un senso preciso di vocazione. E non credo che possiamo parlare del senso preciso, se prima non capiamo il senso generico. Noi crediamo - fa parte della visione complessiva della Chiesa - che Dio ha un progetto su ciascuno di noi. Egli ci invita a vivere un'esistenza che ci riporti a Lui. Ci chiama per questo. La parola latina per chiamata è vocatio. Perciò, in un senso generale, l'intero siginificato del discepolato, l'intero significato della Divina Provvidenza, l'intero senso che Dio ha un progetto per noi, discende da ciò che si potrebbe chiamare il senso generico della vocazione.
 
E in qualche modo, questa è la domanda più decisiva alla quale si deve rispondere: come vuole Dio che io spenda la mia vita? In modo generico, sappiamo che Dio vuole che percorriamo una via che ci riconduca a Lui.
 
Un senso preciso di vocazione è la maniera particolare attraverso la quale Dio vuole che la percorriamo. Ecco allora il sacerdozio, la vita consacrata, la vita religiosa, la vita coniugata e la vita secolare consacrata.
 
Penso sempre che perdiamo il treno se noi non parliamo del matrimonio come vocazione. Voglio dire, questa è la crisi più grande nella Chiesa oggi, se me lo chiede. Quando soltanto la metà dei nostri cattolici si sposano, non ci stupiamo se abbiamo una crisi nei numeri delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa.
 
Appena l'altro giorno, una giovane coppia di fidanzati mi ha detto che avevano chiesto al loro parroco - e lui ha voluto che venissero a chiederlo al loro Arcivescovo - se andava bene, per le loro nozze in chiesa, prostrarsi entrambi sul pavimento e cantare insieme la Litania dei Santi. Ho pensato, "Wow, perché no?".
 
Ora, quella giovane coppia: parliamo di avere un senso della vocazione; loro sigillano la loro vocazione. Noi diciamo alle coppie che si sposano: "Ciò che voi due state facendo, è dire che insieme volete andare in Cielo. Volete aiutarvi l'un l'altra per raggiungere il vostro destino eterno. E, ovviamente, volete farlo attraverso la vocazione al matrimonio".

 

 

TCA: Perché è così difficile per noi scoprire la volontà di Dio e sapere come vivere in accordo a quella volontà?
 

CARD. DOLAN: Beh, perché, penso, come S. Tommaso d'Aquino ci ricorderebbe, che l'impulso più naturale e costitutivo che tutti abbiamo nella nostra vita, è di essere felici.  Noi nasciamo volendo essere felici. E sappiamo, dalla Rivelazione di Dio, che l'unico modo per essere veramente felici in questa vita e nell'altra, è fare la volontà di Dio. Dio desidera ardentemente la nostra felicità e ci ha insegnato la via per essere felici. Perciò, nel seguire il Suo progetto, nel discernere la Sua volontà, nell'obbedire alla Sua legge, noi giungeremo alla felicità in questa vita e nell'altra.
 
Molti credono che la Chiesa dica di no a tutto, ma noi non diciamo no, la Chiesa è un grande "sì". Sì a tutto ciò che ci rende felici in questa vita e nell'altra. E noi sappiamo da lunga esperienza - e il Signore sa che la Santa Madre Chiesa è saggia e ha imparato lungo il cammino - che se tu vai contro la volontà di Dio, alla fine non sarai felice. Col passare degli anni, ce ne accorgiamo sempre di più, no? E' quello che dicono i Salmi, la letteratura sapienziale del Vecchio Testamento. Scuoti la testa e dici che in quel modo si andrà incontro al disastro.

 

 

TCA: Come vede il ruolo della famiglia per il discernimento di una vocazione?
 

CARD. DOLAN: Sa quanto è triste parlare con un giovane del suo desiderio di diventare sacerdote, mettersi a chiacchierare e vedere che ha un vero interesse, che ha ingegno, conoscenza, entusiasmo e sincerità, e a un certo punto gli chiedo: "Posso seguirti? Chiamarti qualche volta al telefono?" E talvolta - ti si spezza il cuore - il giovane risponde, "Non chiami in casa, perché i miei genitori si arrabbieranno se sentono che io sto pensando a diventare prete".
 
E' quella che potremmo definire la parte negativa della famiglia. Posso ammettere che vi sia una spiegazione benevola a tale reazione, perché i genitori in fondo vogliono solo che i loro ragazzi siano felici, e pensano che i preti non siano felici. E se credono che i preti siano acidi e lamentosi, non vogliono che i loro figli siano così. Per questo, dico sempre ai sacerdoti: "Dobbiamo essere uomini di gioia, altrimenti quale genitore vorrà che suo figlio diventi sacerdote?".
 
Penso che le cose stiano cambiando, e noi abbiamo un'influenza positiva. Quando la famiglia è luminosa, quando la famiglia incoraggia, quando la famiglia favorisce. Mi vedete spesso scrivere o parlare di una "cultura delle vocazioni". Quello che intendo per cultura delle vocazioni è che quando i nostri giovani crescono in una cultura che incoraggia a fare la volontà di Dio e che conforti chiunque desideri diventare sacerdote, non c'è dubbio che si diventa sacerdoti. Io sono cresciuto in questa cultura. Quando dissi ai miei insegnanti alla scuola elementare: "Penso di voler diventare sacerdote", si illuminarono e fecero il possibile per incoraggiarmi. E anche il mio parroco. E i miei. E i vicini. E la parrocchia. Ricordo che un giorno - avrò avuto 9 o 10 anni - ero a farmi tagliare i capelli, e il barbiere mi chiese: "Ehi, ometto, cosa vuoi diventare da grande?", e io risposi: "Voglio diventare sacerdote". Il barbiere non era nemmeno cattolico, ma mi disse: "Ehi, non è fantastico?". Ora, questa è la cultura delle vocazioni di cui la Chiesa ha bisogno.
 
Temo che, per un certo tempo, abbiamo avuto una cultura che ha scoraggiato le vocazioni. E a volte ne han fatto parte anche le famiglie. Rimango sempre meravigliato, tutte le volte che celebro l'ordinazione di un sacerdote, di come spesso essa diventi l'occasione di un recupero alla fede della famiglia che si era allontanata. E talvolta oggi nella Chiesa, abbiamo dei giovani ordinati che sono neo-convertiti. Erano stati allevati da cattolici in modo men che entusiastico, avevano abbandonato la fede, in genere al tempo della scuola superiore e all'università, e poi ritrovano la fede e la abbracciano verso i 20 anni, e da qui la vocazione. Per la famiglia, intanto, la fede è nel dimenticatoio, per lo più non sono contrari, ma indifferenti. E molto spesso, quando incontro i seminaristi, mi dicono: "La mia famiglia è alquanto sconvolta della mia scelta", o "La mia famiglia non sa come gestire la cosa", o "La mia famiglia continua a tentare di farmi cambiare idea". Ma assai spesso l'ordinazione è un'occasione di unità familiare e la famiglia ritorna alla pratica della fede e sono gioiosi per la scelta del loro figlio, soprattutto quando vedono una cultura delle vocazioni in seminario; quando vedono il proprio figlio felice; quando vedono delle buone persone attorno a lui che condividono i suoi valori e il senso di quella chiamata. E questo è un miracolo che avviene.

 

 

TCA: Si usa a volte l'espressione che stiamo vivendo una nuova primavera nelle vocazioni sacerdotali. Lei è d'accordo?
 

CARD. DOLAN: Beh, lo vediamo nella Chiesa universale. Lo vediamo in Africa; lo vediamo in Asia; lo vediamo in parti dell'America centrale e dell'Europa orientale. Lo vediamo in diversi movimenti. Credo che dobbiamo essere realistici. Penso che siamo ancora ai primi di marzo, per cui è un po' presto per dire che è primavera. La Chiesa vive sapendo sempre che la primavera arriva. Ma dobbiamo essere realistici.
 
Credo che la vera risposta sia  il discorso che abbiamo fatto all'inizio: il rinnovamento di un significato di vocazione nel più ampio senso dato dalla Chiesa. Ma, in qualche modo, non intendo quel denominatore minimo generico di predicare che "tutti hanno una vocazione". Dico sempre ai miei preti che quando devono predicare sulle vocazioni al sacerdozio, lo devono fare in modo diretto, non apologetico - non annacquandolo, dicendo "non voglio svalutare le altre vocazioni", o "come sarebbe bello ordinare uomini sposati", roba del genere. Alla fine, la gente è confusa: come si fa poi a dare un messaggio forte sulle vocazioni sacerdotali?
 
Dobbiamo parlare delle vocazioni presbiterali in modo diretto e immediato. Sì. Ma, allo stesso tempo, non dobbiamo mai dimenticare nella nostra predicazione ordinaria di sviluppare un senso della Provvidenza di Dio, che Dio ha un progetto su tutti noi, che la questione più importante nella vita, come ci ricorda S. Ignazio di Loyola, è che tutto ciò che facciamo sia ordinato alla nostra salvezza eterna. Abbiamo la Provvidenza, abbiamo il nostro destino eterno e sviluppiamo un senso del nostro essere amministratori.
 
Per amministratori, intendo che Dio ci ha dato tutto, compreso il prossimo respiro che facciamo, come dono abbondante e totalmente immeritato. Vogliamo perciò vivere una risposta di umile gratitudine ed esercitare una adeguata cura di quei doni, affinché siano usati per raggiungere sia il loro destino eterno che l'amore e il servizio verso il prossimo. Se noi acquisiamo queste tre cose... senso della Provvidenza, senso della nostra eterna salvezza e senso di essere amministratori, queste sono le tre virtù bibliche dalle quali sono convinto sgorgheranno le vocazioni. A queste dunque si deve sempre allacciare la nostra predicazione. Ed è questo che ci condurrà alla primavera.

 

 

TCA: Che consiglio dà a un giovane che pensa al sacerdozio?
 

CARD. DOLAN: Per prima cosa, senso del discepolato. Si comincia coltivando un rapporto con Gesù Cristo. Vogliamo conoscere Gesù, Gli parliamo, Gli diciamo che abbiamo bisogno di Lui, che Lo amiamo, che senza di Lui non possiamo fare nulla. Gli diciamo che Egli è il nostro Signore e Salvatore, ma Gli diciamo anche che Lo consideriamo il nostro migliore amico. Gli diciamo che vogliamo passare il resto della nostra vita, qui e nell'eternità, con Lui. Gli chiediamo la Sua grazia e misericordia e virtù. Leggiamo il Suo Vangelo. Stiamo davanti a Lui nella Sua presenza eucaristica. Desideriamo con tutto il cuore riceverLo nella santa Comunione; desideriamo con tutto il cuore ascoltare la certezza della Sua misericordia nel sacramento della Riconciliazione; desideriamo con tutto il cuore condividere tutto ciò con buoni amici in una comunità sana; desideriamo con tutto il cuore incontrarLo nel volto dei poveri, nei nostri atti di servizio. Papa Benedetto XVI lo ha insegnato a tutti noi nella sua omelia inaugurale: "Io vi chiamo alla santità, che è l'amicizia con Gesù".
 
Se un ragazzo mi dice: "Penso davvero di voler diventare sacerdote, per questo farei meglio a lavorare sulla mia vita spirituale", io credo che sarà ripagato. Lavori sulla tua vita spirituale - fai del tuo meglio per pregare, partecipi frequentemente alla Messa, ami di ricevere nostro Signore nella santa Comunione e di trascorrere del tempo visitandoLo, ami le sacre Scritture, sei immerso nella vita dei santi, vuoi conoscere sempre meglio la tua fede cattolica, coltivi amicizia con coloro che condividono i tuoi valori, ami la Chiesa e la tua parrocchia, sei coinvolto in opere di servizio. Tutte queste cose intensificano una vita di amicizia con Gesù, che significa santità. Se facciamo tutto questo, se sviluppiamo la santità, se sviluppiamo il discepolato, allora la chiamata al sacerdozio verrà.

 

 

fonte: Our Sunday Visitor per The Catholic Answer, 01/01/2012
www.osv.com/tabid/7631/itemid/8752/Building-a-Culture-of-Vocations.aspx

trad. it. di d. Giorgio Rizzieri 

 

(12/12/2011)




[SM=g1740766]


[Modificato da Caterina63 17/08/2012 23:32]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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06/12/2012 00:06
 
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A Marsiglia un giovane parroco (sempre in talare) evangelizza e fa rifiorire la fede dove si era inaridita. E suscita conversioni

Padre Michel-Marie, una tonaca nella Marsiglia profonda.
Vita, opere e "miracoli" di un parroco di una città di Francia. Che ha fatto rifiorire la fede dove si era inaridita
di Sandro Magister, da Chiesa del 4.12.2012

ROMA, 4 dicembre 2012 – Il titolo di questo servizio è lo stesso che "Avvenire" ha dato a un reportage da Marsiglia della sua inviata Marina Corradi, sulle tracce del parroco di un quartiere dietro il vecchio porto.

Un parroco le cui messe sono stracolme di gente. Che confessa ogni sera fino a tarda ora. Che ha battezzato tanti convertiti. Che indossa sempre la veste talare affinché tutti lo riconoscano come prete anche da lontano.

Michel-Marie Zanotti-Sorkine è nato nel 1959 a Nizza da una famiglia un po' russa e un po' corsa. Da giovane canta nei locali notturni di Parigi, ma poi con gli anni prorompe in lui la vocazione al sacerdozio, avuta fin da bambino. Gli fanno da guida padre Joseph-Marie Perrin, che fu direttore spirituale di Simone Weil, e padre Marie-Dominique Philippe, fondatore della congregazione di Saint Jean. Studia a Roma all'Angelicum, la facoltà teologica dei domenicani. È ordinato prete nel 2004 dal cardinale Bernard Panafieu, allora arcivescovo di Marsiglia. Scrive libri, l'ultimo dei quali ha per titolo "Au diable la tiédeur", al diavolo la tiepidezza, ed è dedicato ai sacerdoti. È parroco a Saint-Vincent-de-Paul.

E in questa parrocchia sulla rue Canabière, che risale dal vecchio porto tra case e negozi dimessi, con molti clochard, immigrati, rom, dove i turisti non si avventurano, in una Marsiglia e in una Francia dove la pratica religiosa è quasi ovunque ai minimi termini, padre Michel-Marie ha fatto rifiorire la fede cattolica.
Come? Marina Corradi l'ha incontrato. E racconta.

Il reportage è uscito su "Avvenire", il quotidiano della conferenza episcopale italiana, il 29 novembre. Primo di una serie che vuole presentare dei testimoni della fede noti e meno noti, capaci di generare stupore evangelico in chi li incontra.
 
Di seguito l'articolo su don Zanotti di Marsiglia
 
"IL PAPA HA RAGIONE: TUTTO DEVE RICOMINCIARE DA CRISTO"
di Marina Corradi su Avvenire del 29.11.2012
 
Quella tonaca nera svolazzante sulla rue Canabière, tra una folla più maghrebina che francese, ti fa voltare. Toh, un prete, e vestito come una volta, per le strade di Marsiglia. Un uomo bruno, sorridente, eppure con un che di riservato, di monacale. E che storia, alle spalle: cantava nei locali notturni di Parigi, solo otto anni fa è stato ordinato e da allora è parroco qui, a Saint-Vincent-de-Paul.
Ma la storia in realtà è anche più complicata: [...]

Perché la talare? "Per me – sorride – è una divisa da lavoro. Vuole essere un segno per chi mi incontra, e soprattutto per chi non crede. Così sono riconoscibile come sacerdote, sempre. Così per strada sfrutto ogni occasione per fare amicizia. Padre, mi chiede uno, dov’è la posta? Venga, l’accompagno, rispondo io, e intanto si parla, e scopro che i figli di quell’uomo non sono battezzati. Me li porti, dico alla fine; e spesso quei bambini, poi, li battezzo. Cerco in ogni modo di mostrare con la mia faccia un’umanità buona. L’altro giorno addirittura – ride – in un bar un vecchio mi ha chiesto su quali cavalli puntare. Io gli ho dato i cavalli. Ho chiesto scusa alla Madonna, fra me: ma sai, le ho detto, è per fare amicizia con quest’uomo. Come diceva un prete, che è stato mio maestro, a chi gli chiedeva come convertire i marxisti: 'Occorre diventare loro amici', rispondeva".

Problemi, in strade a così forte presenza di musulmani immigrati? No, dice semplicemente: "Rispettano me e questa veste".
Più tardi poi lo intravedi da lontano, per strada, con quella veste nera mossa dal passo veloce. "La porto – ti ha detto – perché mi riconosca uno che magari altrimenti non incontrerei mai. Quello sconosciuto, che mi è estremamente caro".

Poi, in chiesa, la messa è severa e bella. Il prete affabile della Canabière è un prete rigoroso. Perché cura tanto la liturgia? "Voglio che tutto sia splendente attorno all’eucarestia. Voglio che all’elevazione la gente capisca che Lui è qui, davvero. Non è teatro, non è pompa superflua: è abitare il Mistero. Anche il cuore ha bisogno di sentire".

In confessionale, padre Michel-Marie va tutte le sere, con assoluta puntualità, alle cinque, sempre. (La gente, dice, deve sapere che il prete c’è, comunque). Poi resta in sacristia fino alle undici, per chiunque desideri andarci: "Voglio dare il segno di una disponibilità illimitata". A giudicare dal continuo pellegrinaggio di fedeli, a sera, si direbbe che funzioni. Come una domanda profonda che emerga da questa città, apparentemente lontana. Cosa vogliono? "La prima cosa è sentirsi dire: tu sei amato. La seconda: Dio ha un progetto su di te. Non bisogna farli sentire giudicati, ma accolti. Occorre far capire che l’unico che può cambiare la loro vita è Cristo. E Maria. Due sono le cose che secondo me permettono un ritorno alla fede: l’abbraccio mariano, e l’apologetica appassionata, che tocca il cuore"."

«Chi mi cerca – continua – prima di tutto domanda un aiuto umano, e io cerco di dare tutto l’aiuto possibile. Non dimenticando che il mendicante ha bisogno di mangiare, ma ha anche un’anima. Alla donna offesa dico: mandami tuo marito, gli parlo io. Ma poi, quanti vengono a dire che sono tristi, che vivono male... Allora chiedo: da quanto lei non si confessa? Perché so che il peccato pesa, e la tristezza del peccato tormenta. Mi sono convinto che ciò che fa soffrire tanta gente è la mancanza dei Sacramenti. Il Sacramento è il divino alla portata dell’uomo: e senza questo nutrimento non possiamo vivere. Io vedo la grazia operare, e che le persone cambiano».

Giornate totalmente donate, per strada, o in confessionale, fino a notte. Dove prende le forze? Lui – quasi pudicamente, come si parla di un amore – dice di un profondo rapporto con Maria, di una confidenza assoluta con lei. «Maria è l’atto di fede totale, nell’abbandono sotto alla Croce. Maria è assoluta compassione. È pura bellezza offerta all’uomo». E ama il rosario, l’umiltà del rosario, il prete della Canabière: «Quando confesso, spesso dico il rosario, il che non mi impedisce di ascoltare; quando do la Comunione, prego». Lo ascolti intimidita. Ma allora, tutti i preti dovrebbero avere una dedizione assoluta, quasi da santi? «Io non sono un santo, e non credo che tutti i preti debbano essere santi. Però possono essere uomini buoni. La gente sarà attratta dal loro volto buono».

Problemi, in strade a così forte presenza islamica? No, dice semplicemente: «Rispettano me e questa veste». In chiesa accoglie chiunque con gioia, «anche le prostitute. Do loro la Comunione. Che dovrei dire, "diventate oneste, prima di entrare qui"? Cristo è venuto per i peccatori e io ho l’ansia, nel negare un Sacramento, che Lui un giorno me ne possa rendere conto. Ma noi sappiamo ancora la forza dei Sacramenti? Ho il dubbio che abbiamo troppo burocratizzato l’ammissione al battesimo.

Penso al battesimo di mia madre, ebrea, che fu, quanto alla richiesta di mio nonno, solo formale: eppure, anche da quel battesimo è venuto un sacerdote». La nuova evangelizzazione? «Vede – dice al congedo, nella sua canonica claustrale – più invecchio e più capisco ciò che ci dice Benedetto XVI: tutto davvero ricomincia da Cristo. Possiamo solo tornare alla sorgente». Più tardi poi lo intravedi da lontano, per strada, con quella veste nera mossa dal passo veloce. («La porto – ti ha detto – perché mi riconosca uno che magari altrimenti non incontrerei mai. Quello sconosciuto, che mi è estremamente caro"».


Marina Corradi


(fonte qui )

[SM=g1740738]




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Pour l'amour de l'Amour - P. Michel-Marie Zanotti-Sorkine, moderno ma sempre in talare; moderno ma devozionale e sacramentale.....
video stupendo su un sacerdote che sta facendo commuovere la Marsiglia
Un parroco le cui messe sono stracolme di gente. Che confessa ogni sera fino a tarda ora. Che ha battezzato tanti convertiti. Che indossa sempre la veste talare affinché tutti lo riconoscano come prete anche da lontano, andando fra le gente con il rosario in mano.....
Già Sandro Magister ne aveva parlato nel suo sito... guardate questo video, vi farà davvero bene [SM=g1740733] ;-)

it.gloria.tv/?media=369887


Video sintesi della cerimonia di ordinazione di 31 sacerdoti celebrata nella basilica di sant'Eugenio. Si riporta anche l'omelia del Prelato e un link a interviste a diversi nuovi sacerdoti.
Omelia nella Messa di ordinazione presbiterale di diaconi della Prelatura

www.gloria.tv/?media=440388

Mons. Javier Echevarría, Prelato dell'Opus Dei
Roma, Basilica di sant'Eugenio, 4-V-2013

Carissimi ordinandi. Cari fratelli e sorelle.

1. Nelle scorse settimane siamo stati testimoni e protagonisti di un grande evento nella vita della Chiesa: l'inizio di un nuovo pontificato. Testimoni perché abbiamo contemplato ancora una volta l'agire sovrano dello Spirito Santo, che oltrepassa le previsioni umane. Protagonisti perché, in quanto membri vivi della Chiesa, abbiamo pregato molto e continuiamo a farlo, affinché queste circostanze siano di stimolo perché tutti noi cattolici ci sforziamo ancora di più nella santificazione personale e nell'apostolato.

Il tempo pasquale ci fa presente Cristo glorioso, vincitore del peccato e di ogni male. Il Signore desidera che tutti noi lo facciamo presente negli ambienti familiari, sociali, professionali, in cui siamo inseriti. La vocazione divina — insegna san Josemaría — ci affida una missione, ci invita a partecipare al compimento della Chiesa, a essere testimoni di Cristo dinanzi agli uomini, nostri uguali, e a portare a Dio tutte le cose[1].

Vi invito dunque a domandarvi se la gioia e i buoni desideri che abbiamo sperimentato in occasione dell'elezione del Romano Pontefice, e anche in questi giorni di Pasqua, hanno forgiato in noi decisioni concrete di miglioramento personale, di zelo per la salvezza delle anime. Non possiamo accontentarci dei buoni sentimenti, ma dobbiamo sforzarci con l'aiuto di Dio per tradurli in realtà pratiche.

2. Assistiamo oggi all'ordinazione presbiterale — un gran dono di Dio alla sua Chiesa— che può e deve significare, per tutti, un impulso nella direzione di voler esercitare la nostra anima sacerdotale al servizio di tutti gli altri. La prima lettura ci parla dell'esempio di Paolo e Barnaba, uomini che hanno rischiato la vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo (At 15, 26). Infatti, essi difesero strenuamente le caratteristiche essenziali della fede cristiana, di fronte a coloro che volevano snaturarla. Anche noi dobbiamo impegnarci seriamente nella difesa e propagazione della nostra fede. Ora che siamo nella seconda parte dell'Anno della fede, possiamo esaminare se abbiamo chiesto con insistenza al Signore un incremento di questa virtù teologale, insieme alla speranza e alla carità, consapevoli che si tratta di un dono di Dio che non possiamo acquistare con le nostre sole forze. Un luogo privilegiato dove attingerle a piene mani sono i sacramenti, per mezzo dei quali Gesù ci dona da Dio Padre lo Spirito Santo. Cerchiamo, in particolare, di prepararci al meglio per ricevere con molto frutto sia la Confessione sia l'Eucaristia, che sono le sorgenti principali della grazia.

La seconda lettura ci ha mostrato la nuova Gerusalemme, la città santa che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio (Ap 21, 10). È un richiamo a desiderare fortemente la Patria definitiva, dove il Signore è andato a preparare un posto per noi (cfr. Gv 14, 2-3). La solennità dell'Ascensione, che celebreremo la settimana prossima, è un invito a non perdere di vista che la nostra dimora definitiva è il Cielo; una verità che, allo stesso tempo, dà senso alla nostra esistenza sulla terra. Infatti — scrive san Josemaría —, la vocazione cristiana ci convince, con la luminosità della fede, del perché della nostra vita terrena. Tutta la nostra vita, quella presente, quella passata e quella che verrà, acquista un nuovo rilievo, una profondità mai prima immaginata. Tutti gli eventi e tutte le circostanze occupano ora il loro vero posto: comprendiamo dove il Signore vuole condurci e ci sentiamo come trascinati da questa missione che Egli ci affida[2].

3. Non posso fare a meno di parlare ai novelli sacerdoti. Considerate, figli miei, le parole del vangelo di san Giovanni che abbiamo ascoltato. Nell'intimità dell'ultima cena, dopo aver istituito l'Eucaristia e il sacerdozio, Gesù disse: se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 23). Tra poco scenderà su di voi, in un modo nuovo, lo Spirito Santo. Riceverete la sua unzione, che farà di voi strumenti vivi della grazia di Dio, mediante il potere di consacrare in persona Christi il Corpo e il Sangue di Nostro Signore, la facoltà di perdonare i peccati e l'incarico di predicare con la sua autorità la Parola di Dio. È una grandezza compatibile con la nostra pochezza: il Signore ci affida questi doni perché possiamo guidare le anime alla vita eterna. Chiediamo con san Josemaría, per tutti i sacerdoti, la grazia di compiere santamente le cose sante, di rispecchiare con la nostra stessa vita lo splendore delle grandezze del Signore[3]. Una buona strada per riuscire in questo scopo, è amare sempre di più l’Ostia Santa. Pensiamo più spesso a quel punto di Cammino: trattatemelo bene, trattatemelo bene[4].

Ricordiamo altre parole del fondatore dell'Opera. In occasione di un'ordinazione sacerdotale di fedeli dell'Opus Dei, scriveva: diventano sacerdoti per servire. Non per comandare, non per brillare, ma per donarsi — in un silenzio incessante e divino — al servizio di tutte le anime[5]. Dovete dunque, figli miei, uscire da voi stessi per pensare solo alle anime che saranno affidate alle vostre cure pastorali. «Il sacerdote che esce poco da sé — diceva di recente Papa Francesco —, invece di essere mediatore, diventa poco a poco un intermediario, un gestore»[6]. E non deve essere così. Il sacerdote è mediatore tra Dio e gli uomini in Cristo Gesù (cfr. Eb 5, 1-3), affinché la grazia divina vivifichi tutto.

Prima di concludere, vi invito a pregare molto per il Santo Padre, specialmente in questi primi mesi del suo ministero di supremo Pastore; pregate anche per i suoi collaboratori nel governo della Chiesa, per i vescovi e i sacerdoti di tutto il mondo, per le vocazioni sacerdotali. E, logicamente, per questi sacerdoti novelli della Prelatura. Mi congratulo particolarmente con le loro famiglie che hanno collaborato con la preghiera, con il buon esempio, in diversi altri modi, alla loro vocazione sacerdotale. Lo dico sempre, e in modo più speciale in queste occasioni: è un dovere di tutti i cristiani pregare ogni giorno perché il Signore mandi molti seminaristi ai seminari di tutto il mondo. Facciamolo come un obbligo gioioso.

La Madonna, Madre di tutti e specialmente dei sacerdoti, ci benedica e ci protegga sempre. Così sia.

Sia lodato Gesù Cristo!

[1] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 45.

[2] Ibid.

[3] San Josemaría, Omelia Sacerdote per l'eternità, 13-IV-1973.

[4] San Josemaría, Cammino, n. 531.

[5] San Josemaría, Omelia Sacerdote per l'eternità, 13-IV-1973.

[6] Papa Francesco, Omelia nella Messa crismale, 28-III-2013.

Link utili
31 nuovi sacerdoti dell'Opus Dei di 12 Paesi
www.opusdei.it/art.php?p=53322



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[Modificato da Caterina63 11/12/2013 00:28]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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21/10/2013 19:52
 
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sacerdote



Segnalo la figura di padre ALDO GIACHI gesuita e missionario, ordinato grazie a papa Pio XII quando era già da tempo costretto in carrozzella. Missionario tra i malati dell'America Latina, nel terribile anno 1968, dirà:

"È da molto tempo che la grande gioia della mia giornata è la mia Messa. Il poter dare la vita, il poter rendere presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità Gesù stesso in forma di vittima nelle mani di un sacerdote vittima; il poter parlare con Dio, il poter adorarlo e visitarlo nel SS.mo Sacramento, il poter chiedere direttamente forza, coraggio, sorriso, il poter chiedere consiglio a Lui con semplicità, questa è la grande gioia della mia giornata".

Scrive: "Gesù, della sua vita ha voluto perpetuare solo la passione nella S. Messa e farne il centro del culto e del Cristianesimo, per ricordarci come ci ha redento". Allora, conclude: "Darsi all’apostolato è darsi alla Croce. Darsi a Dio è darsi alla Croce. Darsi alle anime è darsi alla Croce. Le anime si pagano di persona".





  Don Fabrizio De Michino, giovane sacerdote napoletano, scrive al Papa prima di morire. La sua lettera:
pubblicato il 03 Gennaio 2014 da scriviadany

A Sua Santità Papa Francesco

Santo Padre,

nelle mie quotidiane preghiere che rivolgo a Dio, non smetto di pregare per Lei e per il ministero che il Signore stesso Le ha affidato, affinchè possa darle sempre forza e gioia per continuare ad annunciare la bella notizia del Vangelo.

Mi chiamo Fabrizio De Michino e sono un giovane sacerdote della Diocesi di Napoli. Ho 31 anni e da cinque sacerdote. Svolgo il mio servizio sia presso il Seminario Arcivescovile di Napoli come educatore del gruppo dei diaconi, che in una parrocchia a Ponticelli, che si trova alla periferia est di Napoli. La Parrocchia, ricordando il miracolo avvenuto sul colle Esquilino, è intitolata alla Madonna della Neve e nel 2014 celebrerà il primo centenario dell’Incoronazione della statua lignea del 1500, molto cara a tutti gli abitanti.

Ponticelli è un quartiere degradato con molta criminalità e povertà, ma ogni giorno scopro davvero la bellezza di vedere quello che il Signore opera in queste persone che si fidano di Dio e della Madonna.

Anch’io da quando sono in questa parrocchia ho potuto ampliare sempre più il mio amore fiducioso verso la Madre Celeste, sperimentando anche nelle difficoltà la sua vicinanza e protezione. Purtroppo sono tre anni che mi trovo a lottare contro una malattia rara: un tumore proprio all’interno del cuore e da qualche mese anche nove metastasi al fegato e alla milza. In questi anni non facili, però, non ho mai perso la gioia di essere annunciatore del Vangelo. Anche nella stanchezza percepisco davvero questa forza che non viene da me ma da Dio che mi permette di svolgere con semplicità il mio ministero. C’è un versetto biblico che mi sta accompagnando e che mi infonde fiducia nella forza del Signore, ed è quello di Ezechiele: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno Spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.” (Ez 36, 26)

In questo tempo molto vicina è la presenza del mio Vescovo, il Card. Crescenzio Sepe, che mi sostiene costantemente, anche se a volte mi dice di riposarmi un po’ per non affaticarmi troppo.

Ringraziando Dio anche i miei familiari e i miei amici sacerdoti mi aiutano e sostengono soprattutto quando faccio le varie terapie, condividendo con me i vari momenti d’inevitabile sofferenza. Anche i medici mi assistono tantissimo e fanno di tutto per trovare le giuste terapie da somministrarmi.

Santo Padre,

sarò stato un po’ lungo in questo mio scritto, ma volevo solamente dirLe che offro al Signore tutto questo per il bene della Chiesa e per Lei in modo particolare, perché il Signore La benedica sempre e La accompagni in questo ministero di servizio e amore.

Le chiedo, nelle Sue preghiere di aggiungere anche me: quello che chiedo ogni giorno al Signore è di fare la Sua volontà, sempre e comunque. Spesso, è vero, non chiedo a Dio la mia guarigione, ma chiedo la forza e la gioia di continuare ad essere vero testimone del suo amore e sacerdote secondo il suo cuore.

Certo delle Sue paterne preghiere, La saluto devotamente.

Don Fabrizio De Michino

Fabrizio era nato a Napoli, l'8 settembre 1982. Migliaia, forse tremila persone, si sono riunite oggi a Ponticelli (NA), per dargli l’ultimo saluto nella Basilica della Madonna della Neve, dove era vice parroco.





 

[Modificato da Caterina63 04/01/2014 10:25]
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"Roga Filium tuum..."
   

«Dalla Vergine si debbono ottenere i sacerdoti, i missionari, gli apostoli che ancora mancano alla Chiesa».
  

Durante un corso di Esercizi spirituali, tenuto alle Figlie di San Paolo nel luglio del 1947 sul tema:Ragioni per cui Maria è apostola e quale parte ha la Regina degli apostoli nell’Istituto, don Giacomo Alberione affermò: «È la Vergine che suscita le vocazioni buone, che ha suscitato la vostra vocazione.

Noi spesso diamo tanto peso alle cause umane; sì, questi sono mezzi di cui si serve il Signore. Ma è Maria che vi ha ottenuto la grazia di intraprendere una vita di perfezione, di scegliere la parte migliore, di poter consacrare tutto il cuore a Dio. E questa è la più grande grazia della vita: a cui seguirà poi quella della buona morte e del Paradiso...

Le vocazioni dipendono da Maria: e noi l’abbiamo ottenuta da Maria la vocazione...

Dovete però continuare a chiederla, poiché non basta incominciare, ma bisogna perseverare. E sarà la Regina degli apostoli colei che vi darà la grazia di corrispondere fino all’ultimo giorno».

Suore apostoline della prima ora (anni '60) con don Giacomo Alberione.
Suore apostoline della prima ora (anni ’60) con don Giacomo Alberione (Archivio Storico Paolono).

Il grande apostolato

Un suo articolo del 1950 è come il compendio di un trattato sull’argomento: «Maria ha dato Gesù "Via, Verità e Vita" al mondo: questo è il grande apostolato. Maria fu proclamata madre di tutti, ma specialmente degli apostoli, da Gesù sul Calvario. Maria compì nel Cenacolo tra gli apostoli l’ufficio di madre degli apostoli.

Maria in ogni tempo custodì, guidò, difese la Chiesa.

Maria è la regina dell’Azione cattolica. Maria suscitò nei secoli vocazioni, apostoli, sacerdoti, missionari.

Da Maria si debbono ottenere i sacerdoti, i missionari, gli apostoli che ancora mancano alla Chiesa.

La divozione alla Regina degli apostoli è la grande divozione di oggi, di domani. Sempre più e sempre meglio le famiglie, i sacerdoti, i membri dell’Azione cattolica, tutte le suore, che esercitano qualche apostolato, ricorrono a Maria.

Seminari, istituti, missionari, parrocchie, diocesi, missioni, vocazionari, sotto la protezione dellaRegina apostolorum. Al mondo occorrono sacerdoti, missionari, religiosi, religiose, apostoli, formati sulle ginocchia di Maria.

Questi saranno il sale della terra che risana il mondo; la luce che fugherà l’ignoranza, l’errore, l’eresia; la città posta sul monte, a vista dell’umanità, perché rivolga il suo passo verso il cielo.

La strada per trovare Dio e il Paradiso è Gesù Cristo Via, Verità e Vita; ma la via a Gesù Cristo è Maria. Ella offre Gesù Cristo al mondo».

«Tutto è più facile»

In un altro articolo, intitolato Maria e le vocazioni, don Alberione dice: «A Maria regina degli apostoli si chiedono operai per la messe evangelica. A Maria si affidano i chiamati nella giovinezza, nel periodo della formazione. Con Maria ed in Maria compiamo il nostro lavoro apostolico.

Assistiti da Maria intendiamo chiudere i nostri occhi alla luce terrena per aprirli alla luce perpetua in cielo. Con Maria tutto è più facile, tutto è più lieto, tutto è più fruttuoso, tutto è più santo. Consacrare a Maria noi stessi e tutti i mezzi del nostro apostolato. Consacrare a Maria i nostri vocazionari...

Sentire con Cristo il quotidiano assillo: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi". Diffondere la devozione a Maria regina degli apostoli e di ogni apostolato è preparare il terreno per buone vocazioni».

 

«Confidiamo che...»

In un intervento, durante la novena per la dedicazione del santuario Regina apostolorum, il Fondatore disse: «Per mezzo di Maria noi speriamo le vocazioni e speriamo che le vocazioni corrispondano al volere di Dio. Confidiamo che i chiamati, una volta arrivati sul campo del lavoro, con l’assistenza di Maria, raccolgano per sé tanti meriti e siano luce a tante anime, siano sale per la terra e siano come la città posta sul monte che deve indicare agli uomini la strada di Dio, la strada per cui si arriva alla salvezza... Centro vocazionario il santuario Regina apostolorum».

Identica missione

Nel 1956 don Alberione volle che la redazione della rivista mariana Aurora si trasferisse a Roma presso il Santuario di Maria regina apostolorum e riprendesse il suo titolo originale, La Madre di Dio, per essere l’organo e l’araldo del Santuario. Nel primo numero dell’edizione romana, don Alberione scrisse: «Il santuario Regina apostolorum è un centro irradiatore di pietà, una sede regale, convegno di tante anime che aspirano a consacrarsi al Signore.

Le relazioni di Maria con le vocazioni si desumono dalla parte attiva e sublime che ella ebbe in riguardo a Gesù Cristo ed agli apostoli.

Maria fu l’immacolata madre di Gesù, il Figlio di Dio incarnato. A lui ella diede l’essere umano, così da divenirne vera e naturale madre del Sacerdote eterno, del Maestro dell’umanità, dell’Ostia di propiziazione...

Cosicché Maria e Gesù compirono, pur con diverso ufficio, una identica missione.

Gesù e Maria amarono sempre di particolare affetto le anime apostoliche, che condividono la loro stessa missione sacerdotale».

Dieci anni prima, quando il Santuario era all’inizio della sua realizzazione, don Alberione aveva scritto: «Sarà la chiesa delle vocazioni scelte, formate e vissute secondo il cuore di Gesù Cristo. Qui specialmente si adempirà il precetto-invito del Maestro divino: "Pregate il Padrone della messe che mandi buoni operai per la mietitura". Diremo molte volte: "Accoglici, o Madre e Regina nostra, prega il tuo Figlio, padrone della messe, perché mandi buoni operai alla sua messe"».

«Suscipe nos...»

Durante la solenne ora di adorazione del 30 novembre 1954, per la novena della dedicazione, richiamò l’attenzione sul motto vocazionale, che aveva voluto fosse inciso nel pavimento dell’entrata:«Suscipe nos, Mater, Magistra, Regina nostra: roga Filium tuum ut mittat operarios in messem suam.E tradusse spiegando: accoglici, o Madre, Maestra e Regina nostra; prega il tuo Figlio perché mandi operai alla sua messe. Vocazioni per tutti gli apostolati, vocazioni per tutti gli istituti religiosi, vocazioni per tutti i seminari, vocazioni per tutte le nazioni: fra esse, specialmente, le vocazioni per gli apostolati più urgenti, più moderni, più efficaci».

Giovanni Perego, ssp





Maria e i sacerdoti
   

Pietà liturgica e pietà popolare: quando «si sradicò senza piantare e si demolì senza ricostruire».
 

Paolo VI (1963-1974), il grande e tenace prosecutore del Concilio, colui che ha avuto la pesante responsabilità di guidare i primi difficili, ma entusiasmanti, passi della sua recezione dottrinale e pastorale, si è interessato con grande convinzione, congruità e originalità alla questione mariana.

In questo periodo qualcuno denunziava una sorta di «epoca mariana glaciale»; ma non vi era crisi né contestazione negli atteggiamenti cultuali della maggioranza dei fedeli, i quali continuavano a venerare con amore la Vergine e a ricorrere costantemente alla sua materna sollecitudine, a utilizzare le tradizionali pratiche di devozione e ad affollare i suoi santuari.

Celebrazione della Messa (rito bizantino-albanese) a San Demetrio Corone (Diocesi di Lungro, provincia di Cosenza).
Celebrazione della Messa (rito bizantino-albanese) a San Demetrio Corone
(Diocesi di Lungro, provincia di Cosenza
 - foto A. Giuliani).

In alcuni ambienti e persone appartenenti al mondo teologico e accademico, si passava in più occasioni con troppa disinvoltura dall’enfatico De Maria numquam satis, in voga nell’epopea pre-Vaticano II, ai disincantati se non ostili De Maria numquam o al De Maria satis post-conciliari! La crisi possedeva essenzialmente connotazioni intellettuali; in tale contesto di (parziale o totale) afasia mariana, in alcuni ambienti e da alcuni autori, scrive il documento dei frati Servi di Maria Fate quello che egli vi dirà, del 1983, si osserva che «furono messe in risalto numerose carenze nelle forme espressive della pietà mariana, soggette inevitabilmente all’usura del tempo e ai mutamenti della temperie culturale, ma non ci si dispose – salvo poche eccezioni – a sostituire le forme decadute con altre più efficaci e più attuali».

Nel campo degli esercizi mariani, prosegue il documento, «furono contrapposte, anziché armonizzate (cf Sacrosanctum Concilium, 13; Marialis cultus, 31), le espressioni della pietà liturgica a quelle della pietà popolare; furono abbandonati, per i loro difetti formali, pii esercizi e pratiche che pur contenevano valori perenni.

Senza esagerazione si può dire che, in questo campo, si sradicò senza piantare e si demolì senza ricostruire».

Paolo VI, con sapienza e pazienza, contribuì molto a far superare il guado della crisi che attanagliava la Chiesa. Dal punto di vista pastorale si deve molto a questo grande Pontefice in ordine al rinnovamento della talora contestata pietà mariana ecclesiale e popolare.

Il reverendo Isaac Thomas Hecker (1819-1888), fondatore della Società dei sacerdoti missionari di san Paolo apostolo (Paolisti).
Il reverendo Isaac Thomas Hecker (1819-1888), fondatore della Società dei sacerdoti missionari
di san Paolo apostolo (Paolisti).

Su tale versante menzioniamo la grande opera da lui svolta per l’inclusione della dottrina mariana nel documento sulla Chiesa del Concilio vaticano II e la giustificazione teologica che ne fece; la solenne proclamazione di Maria a Madre della Chiesa compiuta in aula conciliare il 21 novembre 1964.

Citiamo i suoi importanti documenti mariani quali l’esortazione apostolica Signum magnum, del 13 maggio 1967, la Sollemnis professio fidei, più comunemente conosciuta come Credo del popolo di Dio, del 30 giugno 1968, ove si riafferma con vigore e chiarezza i punti essenziali della fede messi in dubbio o contestati o riletti in modo non conforme in un tempo di contestazione, ma anche di aggiornamento ecclesiale; negli articoli 14 e 15 della Professio il Papa condensa e conferma anche la dottrina mariana, a partire dal dogma efesino del 431 a quello della verginità perpetua del 649, ai dogmi moderni sanciti ex cathedra da Pio IX nel 1854 e da Pio XII nel 1950, alla dottrina comune riguardante la cooperazione di Maria alla salvezza di Cristo riaffermata e autorevolmente chiarita dal Vaticano II (cf Lumen gentium, 60-63); non si può trascurare l’esortazione apostolica Marialis cultus, del 2 febbraio 1974, ove si è voluto proporre una sapiente ed efficace trattazione teologico-liturgica finalizzata a mettere in luce il posto che la Madre di Gesù possiede nel culto liturgico e popolare della Chiesa.

Salvatore M. Perrella

Invito all’approfondimento: D. Barsotti, Le responsabilità dei preti, San Paolo 2010, pp. 222, € 13,00; P.J. Cordes, Perché sacerdote? Risposte attuali con Benedetto XVI, San Paolo 2010, pp. 256, € 14,00



 

[Modificato da Caterina63 16/01/2014 12:00]
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