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La Vocazione Sacerdotale e il suo servizio in video canti e musiche (2)

Ultimo Aggiornamento: 16/01/2014 12:00
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[SM=g1740733]Cari Amici, e soprattutto cari Amici Sacerdoti, perchè a Voi è dedicato questo spazio e tutta la sezione, dopo il successo del primo thread sull'argomento: La Vocazione Sacerdotale e il suo servizio in video canti e musiche ..... eccoci ad aprire una nuova pagina affinchè si possa raccogliere nuove informazioni e leggerle in modo facile e semplice...

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«La grandezza della piccolezza»


Così Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, descrisse la figura di don Serafino Morazzone, il “Curato di Chiuso” beatificato lo scorso giugno. Vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, questo parroco della diocesi ambrosiana fu amico di Alessandro Manzoni, che ne tracciò il profilo nella prima stesura dei Promessi sposi


di Giovanni Ricciardi


 

Piazza del Duomo a Milano gremita di fedeli, durante la cerimonia di beatificazione di don Serafino Morazzone, suor Enrichetta Alfieri e padre Clemente Vismara, il 26 giugno 2011 [© ITL/Melloni]

Piazza del Duomo a Milano gremita di fedeli, durante la cerimonia di beatificazione di don Serafino Morazzone, suor Enrichetta Alfieri e padre Clemente Vismara, il 26 giugno 2011 [© ITL/Melloni]

 

«Il Curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sé una memoria illustre, se la virtù solo bastasse a dare gloria agli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l’amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale; la cura continua di fare il suo dovere era: tutto il bene possibile; credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l’illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù ch’egli possedeva in grado raro, ma che egli studiava sempre di acquistare. Se ogni uomo fosse nella propria condizione quale egli era nella sua, la bellezza del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più confidenti.
I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano; la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero intorno al suo cadavere; pareva a quei semplici che il mondo dovess’essere commosso, poiché un gran giusto ne era partito. Ma dieci miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, e non lo saprà mai: e in questo momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù che tutto può illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso».

Non capita tutti i giorni che a un uomo di Chiesa sia riservato un elogio così eloquente a poca distanza dalla morte; specie se l’elogio è contenuto in un romanzo e se questo romanzo è il più famoso della storia della letteratura italiana. Perciò i lettori ci perdoneranno se abbiamo voluto citarlo per intero all’inizio di questo articolo. Era la fine del 1822 quando Alessandro Manzoni, mettendo mano al III tomo del Fermo e Lucia, la prima stesura del capolavoro che poi avrebbe intitolato I promessi sposi, inseriva fra i suoi personaggi la figura di un sacerdote che aveva conosciuto, frequentato e che forse era stato anche suo confessore nei periodi trascorsi nella villa di famiglia a Lecco. Un anacronismo palese e perciò fortemente voluto, dato che don Serafino Morazzone era morto solo pochi mesi prima, il 13 aprile di quello stesso anno.

La descrizione del suo funerale sembra indicare che il Manzoni sia stato presente, e abbia visto coi propri occhi quella folla commossa che iniziò da subito a chiedere e ottenere grazie da quest’umile prete, il quale, dal giorno della sua ordinazione a quello della morte aveva desiderato svolgere bene solo e soltanto il suo dovere di parroco di un paesino sul lago di Como, con poche centinaia di anime.

 

«Ah, Chiuso! Dov’è quel buon curato!»

Il “personaggio” di don Morazzone compare nel Fermo e Lucia al momento dell’incontro fra l’Innominato e il cardinale Federigo, che Manzoni aveva scelto di ambientare proprio nella canonica della parrocchia di Chiuso, immaginando che il Borromeo si trovasse in visita nel paese di don Serafino. Qui avviene la conversione dell’Innominato e il lungo colloquio tra i due, che sottrae tempo alla visita pastorale del cardinale. Ma, aggiunge Manzoni, «la vigna di quel buon prete Morazzone era tanto ben coltivata che aveva poco bisogno della ispezione di Federigo». È ancora don Serafino a indicare al cardinale una “buona donna” da mandare insieme a don Abbondio al castello dell’Innominato per liberare Lucia. E quando Lucia sente pronunciare il nome del paese dove potrà riabbracciare sua madre, esclama: «Ah, Chiuso! Dov’è quel buon curato!», con un’espressione tanto semplice quanto esaustiva.

Ma nell’edizione definitiva dei Promessi sposi il paese di Chiuso e la figura storica di don Serafino non vengono più citati. Non è difficile immaginarne il motivo: ed è che Manzoni era poeta, ma non profeta. «Dieci miglia lontano di là», aveva scritto nel 1822, «il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, e non lo saprà mai». Invece, la fama di santità di questo parroco, già diffusa in vita, in pochi anni si era allargata ben oltre le dieci miglia fissate dal Gran Lombardo, a tal punto che l’anacronismo gli doveva ormai apparire troppo stridente per lasciarlo nelle pagine di una storia ambientata nel Seicento.

Prova ne è il fatto che la curia di Milano apre il suo processo di beatificazione già nel 1864 e raccoglie in tre anni 34 testimonianze di persone che lo avevano conosciuto, soprattutto suoi parrocchiani. I quali, senza intendere bene le sottigliezze degli interrogatori canonici, rilasceranno, nella loro semplicità, dichiarazioni molto simili a quella immaginaria di Lucia Mondella. «Aveva tutte le virtù in un fascio», lascerà scritto agli atti del processo uno di loro, Santino Corbetta. «Dico tutto di lui con queste parole: era un uomo giusto», affermerà Pietro Gilardi. Nomi che dicono poco, parole che dicono molto. Tra esse, due definizioni inconsapevolmente poetiche che di lui diedero altri testimoni. La prima, di un tal Giuseppe Chea: «Tante persone accorrevano dai paesi vicini al grido della sua santità». E in ultimo, la più bella, di Carlo Riva: «Quando lo si vedeva passare era volgare [“era espressione comune”, ndr] il dire che passa un ladro, intendendosi da tutti ladro di Paradiso».

 

 

Don Serafino Morazzone

Don Serafino Morazzone

Ladro di Paradiso

Questo “ladro di Paradiso” veniva da una famiglia numerosa, che abitava a Milano in una zona molto popolare, e la sua biografia è presto detta. Nato il 1° febbraio 1747 da un venditore di granaglie e presto divenuto orfano di madre, a 13 anni chiede e ottiene di entrare in seminario e i gesuiti lo accolgono a titolo gratuito nel loro collegio di Brera. Studia poi teologia mantenendosi con il servizio di accolito in Duomo, che gli vale dieci lire mensili. La mattina serve all’altare, il pomeriggio è chino sui libri. E deve aver dato un buon frutto questo suo studio se riesce, risultando primo davanti a due sacerdoti e cinque chierici, lui che non era ancora suddiacono, a vincere il “concorso” bandito dalla diocesi di Milano – secondo la prassi di allora – per l’assegnazione della piccola parrocchia di Chiuso. Quella destinazione, dove celebra la sua prima messa il 10 maggio del 1773, sarà anche l’unica, fino alla morte. In mezzo, quarantanove anni di servizio ininterrotto, da prete: ore in confessionale, ore trascorse in preghiera fin dal primo mattino, ore a fare scuola elementare gratuita ai bambini, ore a dispensare carità ai poveri, ore a far visita agli infermi.

Si racconta, di tanto in tanto, tra la gente, che le sue preghiere sui malati possano più delle medicine; che un ragazzo caduto nella calce viva e recuperato in condizioni gravi dopo mezz’ora sia risanato dalla sua benedizione; che una bambina rimasta aggrappata per un’ora al ramo di un albero per non precipitare in un canale e che da allora è in preda alle convulsioni sia guarita per le preghiere di don Serafino. Ma se qualcuna di queste storie giunge alle sue orecchie, lui non ci bada e attribuisce tutto all’intercessione di san Girolamo Emiliani, il cui santuario di Somasca si trova a pochi chilometri dalla sua parrocchia.

«In mezzo a questa sua fama di santità», racconta ancora il testimone Pietro Gilardi, «egli solo non si reputava tale, e quando venivano a lui persone forestiere, era solito rimandarle ai loro parroci, e cioè da parte sua cercava di indurli ad avere confidenza nella benedizione del proprio parroco, che valeva lo stesso».

Tra questi testimoni non figura Alessandro Manzoni. Non è dato sapere il perché. Forse perché quello che aveva da dire lo aveva già scritto. È molto probabile che si riferisca a don Serafino quando nelle Osservazioni sulla morale cattolica scrive:«Sì, ci sono dei preti che spregiano quelle ricchezze di cui annunziano la vanità ed il pericolo; dei preti che avrebbero orrore di ricevere i doni del povero e che si spogliano invece per soccorrerlo; che ricevono dal ricco con un nobile pudore e con un interno senso di ripugnanza; che stendendo la mano si consolano solo pensando che l’apriranno ben tosto per rimettere al povero quella moneta che è ben lungi dal compensare agli occhi loro un ministero il quale non ha prezzo degno altro che la carità». Queste parole coincidono perfettamente con molte delle testimonianze rese al processo sull’eroismo con cui don Serafino praticava la carità, sovvenendo ai parrocchiani bisognosi, e vivendo personalmente in una povertà pressoché assoluta.

Di don Serafino si conserva anche una lettera indirizzata allo scrittore. Il padre di Manzoni era stato il più grande proprietario terriero della zona di Lecco, ma prima di lasciare il figlio Alessandro erede universale dei suoi beni aveva provveduto a vendere gran parte di questi terreni. Don Serafino scrive così al poeta per intercedere in favore di uno degli acquirenti, che non riusciva più a pagare il debito contratto a suo tempo col padre: «Illustrissimo Signore», esordisce, «Francesco Polvara di Pescarenico, sapendo il buon affetto che Vostra Signoria Illustrissima ha per me, desidera che faccia buon ufficio presso di lei». E aggiunge che si è spinto a “sfruttare” questo affetto soprattutto per amore dei sei bambini di quest’uomo: «Son sei figlij pupilli. A questi vorrei giovare. Pupillis tu eris adjutor». Non sappiamo che cosa rispose Manzoni, ma possiamo immaginarlo dall’annotazione vergata di suo pugno sul retro della missiva: «Lettera di un Curato Santo».

 

 

Il cardinale Dionigi Tettamanzi durante la celebrazione di ringraziamento per la beatificazione di don Serafino Morazzone nella parrocchia di Chiuso (Lecco) il 27 giugno 2011

Il cardinale Dionigi Tettamanzi durante la celebrazione di ringraziamento per la beatificazione di don Serafino Morazzone nella parrocchia di Chiuso (Lecco) il 27 giugno 2011

«Il senso cristiano del popolo ci ha preceduto»

Tuttavia, dopo la raccolta delle testimonianze, conclusa nel 1867, il processo di beatificazione viene trascurato per più di ottant’anni. Ma anche questo finisce per diventare un segno della santità di don Serafino. Perché, se per varie ragioni la diocesi ambrosiana si disinteressa così a lungo di questa causa, la devozione della gente non verrà mai meno, tanto che il cardinal Ferrari, ai primi del Novecento, applicando le leggi liturgiche del tempo, sarà costretto a impedire che si pongano sulla tomba molto frequentata di don Serafino ex voto e lampade con cui i fedeli, in numero sempre crescente, esprimevano la gratitudine per le grazie ottenute dalla sua intercessione.

Fu il cardinal Schuster a sollecitare la riapertura della causa e a ottenerla nel 1950. In una lettera indirizzata tre anni prima a un sacerdote di Lecco, scriveva, a proposito di quello che definì “il nostro Curato d’Ars”, che a intendere la sua grandezza «il senso cristiano del popolo ci ha già preceduto». Che la gente, insomma, come aveva detto un testimone tanti anni prima, continuava ad «accorrere al grido della sua santità».

Ma ci vollero ancora quarantacinque anni per arrivare a depositare la Positio presso la Congregazione delle Cause dei santi, altri tre perché ottenesse l’approvazione, e solo nel 2007 si è giunti a proclamare “le virtù eroiche” di don Serafino. L’epilogo, con l’approvazione del miracolo, si è avuto nel corso di quest’anno, e la cerimonia di beatificazione in piazza Duomo a Milano il 26 giugno 2011 è stata uno degli ultimi atti dell’arcivescovo Dionigi Tettamanzi. Il quale, celebrando la messa nella parrocchia di Chiuso nel 2003, aveva detto: «È stato Lui, il Signore, a donare don Serafino alla Sua Chiesa. Per la verità il Signore continua a donarlo alla Sua Chiesa, come testimonia la devozione da cui questo santo sacerdote è sempre stato circondato e tuttora viene circondato. E questo è il segno potente, vivo, della gente, che è il popolo di Dio, che l’ha venerato e continua a venerarlo come vero uomo di Dio, come un santo».

Nelle sue parole risuona l’eco di un altro arcivescovo ambrosiano, Giovanni Battista Montini, che lo aveva preceduto, molti anni prima, in pellegrinaggio sulla tomba di don Serafino nell’anniversario della morte, il 13 aprile del 1956. In quella occasione, davanti al suo popolo, aveva detto: «Vi invito a pensare alla sua grandezza. È indubbio che egli è grande se fa parlare di sé dopo 134 anni dalla sua morte. Ma che cosa ha fatto di straordinario per essere grande? La sua non è grandezza esteriore, politica o sociale, di ricchezza, di ingegno.
La grandezza di don Serafino è la grandezza della piccolezza, la grandezza evangelica. Fu grande perché ha seguito la parola del Signore. Questo santo ha raccolto le parole di Gesù, le ha fatte sue e le ha personificate. Egli è grande perché è povero, perché è umile, perché ha dato e ha cercato di dare. E qui comincia il suo prodigio. Egli è un santo di popolo. Infatti ci sono diverse categorie di santi. Ci sono santi che sono diventati tali perché il loro cuore era vicino al popolo. Don Serafino è stato l’amico di tutti con un cuore così grande, lui così piccolo, con un cuore così ricco coi poveri, coi poveri di cuore, con gli umili e soprattutto con chi ama e sa donare». Se Manzoni non era profeta, aveva però visto giusto.


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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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