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Gesù e la dignità della Donna nella storia e nella Chiesa. La vera schiavitù della Donna oggi

Ultimo Aggiornamento: 18/01/2017 14:53
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10/08/2012 22:19
 
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[SM=g1740733] E la suora inventò l’infermiera

Inchiesta sul ruolo delle religiose nella storia della cura

Il compito di alleviare le sofferenze dei malati, considerato poco nobile nella gerarchia sociale, è delegato da sempre al sesso femminile, garante dello sviluppo e del mantenimento della specie. Ma per le suore arrivare a praticare l’assistenza ai malati è stato difficile. Il contatto con i corpi sembrava prerogativa delle donne che quei corpi li conoscevano: quelle sposate o addirittura le prostitute. L’assistenza agli infermi è stata la prassi delle beghine nel nord Europa, cioè donne Henriette Browne, «Suore al lavoro in convento» (XIX secolo)che si univano in gruppi spontaneamente, senza l’approvazione ecclesiastica, per condurre una vita religiosa, a cui si ispirarono, nell’Italia del XIII secolo, i Terzi ordini legati a domenicani e francescani. Tutti ricordano che Caterina da Siena, che faceva parte del terz’ordine domenicano, aveva curato i malati di peste fino a mettere a repentaglio la sua vita, ma si trattava di situazioni di emergenza che richiedevano misure eccezionali.

Il primo a vincere il tabù che separava le religiose dalla cura dei corpi fu nel 1617 san Vincenzo de’ Paoli, con la fondazione delle Figlie della Carità. «Per monastero le case dei malati — scrive san Vincenzo de’ Paoli — per cella una camera d’affitto, per cappella la chiesa parrocchiale, per chiostro le vie della città, per clausura l’obbedienza, per grata il timor di Dio, per velo la santa modestia».

Nasce la prima compagnia di religiose col caratteristico copricapo con le ali, pronte ad andare «dove nessuno va», pagando anche con la vita: quattordici Figlie della Carità ghigliottinate durante la rivoluzione francese, dieci uccise nel 1870 in Cina, dieci durante l’ultima rivoluzione spagnola e molte altre ancora. Le numerose congregazioni nate nel XIX secolo cominciarono ad affiancare all’insegnamento anche la fondazione di ospedali e di organizzazioni di assistenza ai malati a domicilio, nonostante la normativa ecclesiastica ancora imponesse alle religiose di non assistere nessuno a domicilio, ed escludesse comunque partorienti e malati di sesso maschile.

Ma le suore infermiere, in nome della loro missione, molto spesso disattendevano queste disposizioni, non negando il loro aiuto ai sofferenti e aprendo quindi continue discussioni con l’istituzione ecclesiastica, come testimonia l’inchiesta generale avviata dalla Sacra Congregazione dei Religiosi nel 1909 in tutto il mondo cattolico, in seguito alle molte proteste per la prassi consolidata delle religiose a prestare assistenza infermieristica, sia a domicilio che negli ospedali, anche agli uomini.

Alla fine le suore la spuntarono e, consapevoli dell’esigenza di una preparazione professionale, ottennero anche da san Pio X, nel 1905, la possibilità di fondare la prima scuola professionale per infermiere. Il welfare della Chiesa, ancora oggi vitale, radicato nel territorio e “supplente” del pubblico ha quindi una storia antica ed eroica.

Racconta la sua esperienza di cura una veterana: suor Odilia D’Avella. Figlia della Carità a vent’anni, a 26 già dirige la scuola dell’Ospedale dei Pellegrini a Napoli e per due decenni forma generazioni di infermiere, battendosi per sottrarre la professione infermieristica dal ruolo ancillare a quella medica, per cambiare i profili professionali e promuovere i diritti del malato. Molte le cariche guadagnate sul campo: presidente delle direttrici per scuole infermieristiche della federazione italiana religiose ospedaliere, per 15 anni presidente dell’Ipasvi (Federazione Nazionale Collegi Infermieri professionali), membro per la formazione infermieristica della Comunità europea e del Consiglio superiore di Sanità. Cinquant’anni a stretto contatto con un mondo laico senza sentirne il peso. «Una lunga esperienza vissuta nel rispetto reciproco — sottolinea suor D’Avella —. Il valore etico comune è il rispetto della vita e l’obiezione di coscienza».

L’Ipasvi non registra la condizione delle religiose infermiere: non censite, parificate ma non omologabili, le religiose si sentono diverse. «Ci deve essere più cuore in quelle mani — racconta suor D’Avella —. Possono esserci laiche più brave e competenti delle religiose ma solo in un luogo di lavoro con un’identità religiosa si può manifestare pienamente il proprio carisma. È un privilegio».

Le religiose infermiere che vivono l’ospedale come una missione, senza orario e riposo settimanale, facendo riferimento alle responsabili della loro comunità religiose e versando lì il proprio stipendio, rischiano essere viste come nemiche? «Non sono mancati i conflitti. Dalle convenzioni con le comunità religiose gli ospedali hanno sempre ricavato un vantaggio economico — risponde suor D’Avella — ma anche un rapporto fiduciario: sanno che i malati sono assistiti nella loro totalità. Fino agli anni Sessanta le caposala erano tutte delle religiose, oggi le laiche le hanno soppiantate. Eravamo degli eserciti, ora siamo poche ma buone». L’atteggiamento dei medici è diverso con le religiose infermiere? «Più deferenza, ma dipendeva sempre dalla loro autorevolezza e preparazione». E quello dei malati? «C’è più rispetto e fiducia. Persone semplici, in momenti difficili, mi hanno chiesto di essere confessate. Si fidavano e volevano essere ascoltate e assolte: cercavano Dio e per ignoranza, o per paura della morte, non facevano differenze».

Oltre alla cura è importante la difesa dei diritti. «Non sempre il malato è messo al centro del sistema sanitario e spesso si fa passare un diritto come un privilegio. Nel 1978 con l’istituzione del servizio sanitario nazionale ho sentito un amministratore affermare: “Le Usl potrebbero funzionare bene se non ci fossero i malati”. E allora chi? Al centro non devono esserci gli interessi privati, la politica, gli affari, le mafie, ma solo la persona». Cose che non succedono nella sanità gestita da religiosi? «Non dovrebbero».

La laicizzazione pone nuovi temi: bioetica, eutanasia e testamento biologico. Le religiose infermiere rispondono al medico di guardia ma soprattutto a Dio. «A Dio e alla propria coscienza — sottolinea suor D’Avella —. La medicina non è onnipotente e non tutto quello che scientificamente è possibile è eticamente lecito». Con la legge del 1971 in Italia i corsi infermieristici aprono anche agli uomini. Cosa cambia? «L’arrivismo — commenta suor D’Avella —. Sin dall’inizio hanno voluto occupare i posti dirigenziali. Prima i capi erano tutte suore, poi suore e laiche, oggi sono in prevalenza uomini». Maschilismo anche tra i medici? «Sicuramente, ma ce n’è anche nelle gerarchie della Chiesa. Se la Chiesa gerarchica è maschilista, quella carismatica è al femminile».

Secondo i dati riportati dal libro Religiose nel mondo della salute di Angelo Brusco e Laura Biondo (Torino, Edizioni Camilliane, 1992), dal 1975 al 1992 in Italia il numero delle suore ospedaliere è passato da 15.234 a poco più di 10.000. E dal 1992 i dati sono gradualmente in calo. Le strutture sanitarie si laicizzano, l’infermiere generico va a esaurirsi, nel 2001 nasce quello laureato. E le religiose la professione infermieristica sembra preferiscano esercitarla nelle missioni. «Trincee con bisogni più urgenti» dichiara suor Emilia Balbinot, ostetrica, 68 anni, brasiliana di origine italiana, delle Ministre degli infermi di San Camillo, prima caposala al cto di Firenze e poi per 26 anni in missione in Kenia. «Ho vissuto in villaggi poverissimi: senza mezzi e in frontiera, ho fatto nascere bambini tagliando il cordone ombelicale alla luce di una pila elettrica. E ogni volta ho pensato di essere davanti a un tabernacolo che si apre alla vita dando la luce a un nuovo essere voluto da Dio. Soprattutto in missione si realizza la chiamata e la consacrazione. Lì trovi il Gesù abbandonato».

«Quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe una goccia in meno» diceva Madre Teresa di Calcutta, una delle molte infermiere diventate sante o beate. «Ci si guadagna il regno di Dio, che è anche su questa terra, tra chi ha bisogno — sottolinea suor D’Avella —. Ci sono malati che non sono in un letto d’ospedale: la sofferenza morale, il disagio mentale, l’assuefazione all’alcool e alla droga. Un mondo di invisibili, sofferenti ed emarginati». Oggi suor D’Avella, a 74 anni, dirige «Il sentiero», un servizio per persone e famiglie con problemi di alcol e droga. «Sono in trincea da quando avevo 20 anni e alla ritirata non penso proprio».

  Cinzia Leone
Osservatore Romano 30 giugno 2012

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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