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Gesù e la dignità della Donna nella storia e nella Chiesa. La vera schiavitù della Donna oggi

Ultimo Aggiornamento: 18/01/2017 14:53
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Sesso: Femminile
10/08/2012 22:46
 
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[SM=g1740733] La Visitazione....

Due donne incinte che si incontrano e si abbracciano. Sono da sempre il simbolo dell’aiuto reciproco fra donne nel momento topico femminile, il parto. Ma anche di un momento fondamentale nella storia dell’Incarnazione: è una donna, Elisabetta, la prima a riconoscere in Maria la madre del Messia. E a insegnarci le parole con cui rivolgerci a lei. Per questo l’immagine della Visitazione da secoli è l’icona del rapporto fra donne nella cultura cristiana: aiuto e riconoscimento reciproco sono il messaggio che ancora oggi ci suggerisce.




[SM=g1740757] [SM=g1740750] [SM=g1740752]

Le uniche a non abbandonarlo

Portatrici di aromi per scongiurare le tenebre

Quando nella Settimana santa ascoltiamo il racconto della passione di Cristo, della sua crocifissione e morte, ci colpisce sempre un particolare: la fedeltà a Lui di pochi seguaci, prevalentemente donne, di cui nel Vangelo non si dice quasi nient’altro. I discepoli di Cristo erano fuggiti tutti, abbandonandolo. Giuda l’aveva tradito. Pietro aveva abiurato per tre volte.

Intere folle avevano seguito Cristo durante la sua predicazione. Tutti si attendevano da lui qualcosa: si attendevano aiuto, miracoli, guarigioni, si attendevano la liberazione dall’odiato giogo romano, il riassetto dei propri affari terreni. Il senso del suo insegnamento — la predicazione del sacrificio di sé, dell’amore, di una dedizione senza riserve — tutte Cima da Conegliano, «Lamentazioni sul corpo di Cristo con santi carmelitani» (XV-XVI secolo)queste innumerevoli persone non lo capivano bene, e non ci facevano neppure molto caso. Cristo poteva aiutarle, e loro si rivolgevano a lui e lo seguivano.

Ma poi crebbe nei suoi confronti l’odio dei capi del popolo e dei potenti. Nella predicazione di Cristo, incentrata sull’amore, cominciarono a echeggiare predizioni sul fatto che ora Lui stesso si sarebbe immolato per amore. E la folla cominciò a diradarsi, a dissolversi. Per l’ultima volta la gloria terrena, il successo umano di Cristo conobbero una vivida fiammata nel giorno del suo ingresso trionfale a Gerusalemme, quando, come dice il Vangelo, «tutta la città fu presa da agitazione» (Matteo 21, 10). Ma fu solo un istante. E, del resto, la gente non accolse con tanta esultanza e solennità Cristo perché ancora una volta si attendeva da Lui, voleva da Lui un regno terreno, una vittoria terrena, di forza e gloria?

Tutto questo finì subito. La luce si spense, e alla Domenica delle palme seguirono il buio, la solitudine e la disperata tristezza della Settimana di passione. In questi ultimi giorni la cosa più terribile fu probabilmente il tradimento dei suoi, dei discepoli, di coloro a cui Cristo si era donato interamente. Nell’orto del Getsemani perfino i tre più intimi non seppero resistere e si addormentarono, mentre Gesù negli spasimi, inondato di sudore di sangue, si preparava a una morte orribile. Sappiamo che Pietro, sebbene avesse protestato con veemenza che sarebbe morto insieme a Cristo, all’ultimo momento tremò, venne meno, abiurò, tradì… «E allora — scrive l’evangelista — tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Matteo 26, 56).

In realtà, non tutti fuggirono. Ai piedi della croce sopraggiunge l’ora della fedeltà umana, dell’amore umano. Quelle che nel momento del “successo” sembravano tanto lontani, che noi quasi non incontriamo nelle pagine del Vangelo, quelle a cui, secondo le parole dell’Evangelista, Cristo non aveva parlato della sua resurrezione e per le quali, dunque, in questa notte ai piedi della Croce tutto era finito, irrimediabilmente perduto, ebbene costoro gli rimasero fedeli, riaffermarono il proprio amore umano. Scrive san Giovanni: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala» (Giovanni 19, 25).

Poi, dopo la morte di Gesù, «venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù. Questi si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato allora ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia; rotolata poi una grande pietra all’entrata del sepolcro, se ne andò» (Matteo 27, 57-60). Trascorso il sabato, all’alba del terzo giorno le medesime donne si recarono al sepolcro per imbalsamare il cadavere con aromi, secondo la consuetudine. E proprio a esse, per la prima volta, apparve Cristo risorto, esse per prime udirono da Lui il «Salute a voi!» che sarebbe poi divenuto l’essenza della forza cristiana.

A queste persone, a queste donne Cristo non aveva svelato, come aveva fatto con i dodici apostoli che si era scelto, i misteri del futuro. Esse non conoscevano né il senso della sua morte, né i misteri della futura vittoria, della futura resurrezione. Per loro la morte del maestro e dell’amico era la morte, la fine, e una morte orribile, oltraggiosa, un’orribile fine, uno strappo. Rimasero ai piedi della croce solo perché amavano Gesù, lo amavano e ne avevano pietà. Non abbandonarono questo povero corpo martoriato, ma compirono tutto quello che da sempre compie l’amore nell’ultimo distacco. Coloro a cui Cristo aveva chiesto di rimanere con Lui nell’ora della terribile lotta, quando, come dice il Vangelo, «cominciò a provare tristezza e angoscia» (Matteo 26, 37), lo abbandonarono, fuggirono, abiurarono.

Invece, quelli a cui non aveva chiesto niente, rimasero fedeli al proprio semplice amore umano. «Maria stava vicino al sepolcro e piangeva». Così per l’eternità piange l’amore, come Cristo stesso aveva pianto al sepolcro del suo amico Lazzaro. Ed è proprio questo amore a venire a sapere per primo della vittoria. A questo amore, a questa fedeltà per primi viene concesso di sapere che non bisogna più piangere, che la «morte è stata inghiottita dalla vittoria», e che non esiste, non esisterà mai più questo disperante distacco.

È qui il senso dell’episodio delle mirofore al sepolcro. Esso ci ricorda che l’amore e la fedeltà rifulsero, unici, in questa oscurità senza fondo. Ci chiama a far sì che l’amore e la fedeltà non muoiano, non soccombano nel mondo. È un giudizio sulla nostra pusillanimità, sulla nostra paura, sul nostro perpetuo e servile tentativo di giustificarci. I pressoché sconosciuti Giuseppe e Nicodemo, oppure queste donne che all’alba si recarono al sepolcro occupano così poco posto nel Vangelo. Eppure proprio qui si decide il destino eterno di ciascuno di noi.

Io penso che ai nostri giorni abbiamo un bisogno particolare di far memoria di questo amore e della semplice fedeltà umana. È venuto infatti il tempo in cui anche queste esperienze vengono dissacrate dalla falsa dottrina sull’uomo e sulla vita umana che impera nel mondo. Nei secoli, sia pur fievolmente, ha continuato a splendere e a brillare nel mondo un riflesso della fedeltà, dell’amore, della compassione che silenziosamente erano presenti al cospetto della passione di quell’Uomo, abbandonato da tutti. E noi dobbiamo aggrapparci come a un’ancora di salvezza a tutto ciò che nel nostro mondo ancora vive del calore, della luce di questo semplice, concreto amore umano. L’amore non chiede all’uomo teorie o ideologie, si rivolge al suo cuore e alla sua anima.

Romba la storia umana, nascono e crollano i regni, la cultura si evolve, ribollono guerre sanguinose, ma sempre, immutabilmente sulla terra, nella nostra torbida, tragica storia risplende la figura femminile, simbolo di sollecitudine, dedizione, amore, compassione. Senza questa presenza, senza questa luce, il nostro mondo sarebbe solo un mondo orribile, nonostante tutte le sue riuscite e conquiste. Si può dire, senza tema di esagerazione, che è stata, che è la donna a salvare l’umanità dell’uomo, e non attraverso parole, idee, ma proprio con questa sua presenza silenziosa, sollecita, amorosa.

E se, nonostante tutto il male imperante nel mondo, non viene meno la misteriosa festa della vita, se essa si celebra con altrettanta gioia in una povera stanza, a un misero desco come in un palazzo, la gioia e la luce di questa festa sono racchiuse in essa, nella donna, nel suo amore e nella sua fedeltà inesauribili. «Non hanno più vino». Finché c’è lei — madre, sposa, amata — ci sarà sempre vino, amore, ci sarà luce per tutti.

Aleksandr Šmeman nasce a Revel’ in Estonia il 13 settembre 1921. A otto anni emigra con la famiglia a Parigi, dove trascorre la giovinezza negli ambienti dell’emigrazione russa. Compie studi teologici e nel 1943 si sposa con Uljana Ossorgina’ga. Tre anni dopo è ordinato sacerdote ortodosso. Nel 1951 emigra a New York, dove insegna teologia al Seminario ortodosso di San Vladimir. Divenuto un’autorità soprattutto per la sua teologia eucaristica, mantiene in sé le profonde radici spirituali dell’oriente ortodosso, lo sradicamento dell’emigrato e la capacità di adattamento a ogni nuova situazione. La sua fede si è sviluppata e arricchita fra queste contraddizioni. Per trent’anni ha tenuto regolari programmi sulla liturgia e le Scritture per Radio Liberty, che trasmetteva in lingua russa per i Paesi oltrecortina. È morto a New York il 13 dicembre 1983. Le trasmissioni di padre Aleksandr Šmeman su Pasqua, mirofore, incredulità di Tommaso e ascensione sono uscite in versione integrale sulla rivista «La Nuova Europa» (n. 4, 2012).

  Aleksandr Šmeman


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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