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Ignazio di Loyola e la riforma cattolica. Discernere la volontà di Dio e mettere ordine nella propria vita.

Ultimo Aggiornamento: 31/07/2013 18:24
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2.7B/ Opzione fondamentale, opzione vitale e scelte particolari/scelta sul senso della vita, scelta di uno stato di vita, scelte particolari

cfr. su questo Le decisioni irrevocabili nella vita cristiana: scelta di fede e scelta di uno stato di vita, orizzonte delle scelte particolari, di Klaus Demmer (su www.gliscritti.it )

2.8/ Ogni vocazione cristiana è “per” gli altri, è a servizio

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 34
Ed ecco che, giunto a una cappella in località detta «La Storta», vicino a Isola Farnese, «facendo orazione, ha sentito tale mutazione nell'anima sua e ha visto tanto chiaramente che Iddio Padre lo metteva con Christo Suo Figliolo, che non gli basterebbe l'animo di dubitare di questo: che Dio Padre lo metteva col suo Figliolo»
.

Dobbiamo comprendere bene questa particolare «mistica ignaziana».
In un'altra versione di questo stesso episodio, Ignazio precisò che Dio Padre «lo metteva con Cristo» e poi gli diceva «Voglio che tu ci serva».
«Servire» fu la grande parola Ignazio: Cristo è un Re venuto nel nostro misero mondo conquistarlo e arricchirlo, per ricondurlo al Suo Dio e Creatore; ma la sua opera non è ancora compiuta: Egli ha bisogno di amici fidati e di cooperatori generosi.
Per questo Ignazio inventò un modo nuovo di consacrarsi a Dio
: pur stimandoli moltissimo, non volle per i suoi né le lunghe preghiere corali, né le penitenze e gli usi monastici, ma una sola cosa: una obbedienza assoluta come disponibilità a lasciarsi inviare e utilizzare dovunque la Gloria di Cristo lo esigesse.
Perinde ac cadaver
, come un cadavere nelle mani di chi ti rappresenta Cristo e ti indica la sua volontà.

Formula dura e urtante se non si capisce che essa indica l'abbandono totale, a corpo morto, nel più ardente, generoso e attivo amore.

da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22
Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.
1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.
2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95». In questo brano risulta evidente:
-che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;
-che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;
-che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.
3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio».
Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.
Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.
Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati.
Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.
Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.

-il vivere “per” oggi: pensiamo anche solo per un istante alla fecondità, ai figli, alle nuove generazioni ed al loro servizio

2.9/ Il servizio dell’educazione, via di carità

-Ignazio non è di per sé un intellettuale; torna a scuola a 33 anni, perché capisce l’importanza del formarsi e del formare al pensare

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 37
Alla passione missionaria egli legava, in forma ugualmente stringente, quella educativa.
Perciò volle che i suoi figli diventassero gli educatori delle nuove generazioni cristiane
: nelle corti dei re e dei nobili, come nelle più prestigiose università, come nei più piccoli villaggi.

Uno dei loro più celebri educatori Juan Bonifacio - quand' era ancora giovanissimo insegnava lettere umanistiche a Medina del Campo, verso la metà del sec. XVI. Usava dire che «formare i bambini significa rinnovare il mondo!».
E non sapeva quanta ragione avesse: tra quei ragazzi della sua scuola c'era il piccolo Juan de Yepes, il futuro Dottore mistico, san Giovanni della Croce.
I primi collegi gesuiti in Italia furono fondati a Padova nel 1542, a Bologna nel 1546, a Messina nel 1548
.

In particolare - per l'enorme prestigio e influenza che acquisterà in brevissimo tempo-ricordiamo quel «Collegio Romano» aperto nel 1551: «Schola de grammatica, d'humanità e dottrina cristiana gratis», si leggeva simpaticamente sul cartello posto sulla prima casa affittata allo scopo.
Cinque anni dopo questo collegio sarà già riconosciuto come Università (è l'attuale «Gregoriana»).
Prima che Ignazio muoia, e dunque in poco più di un decennio - oltre alle normali case per la formazione e la vita dei suoi membri - la Compagnia avrà aperto ventun collegi in Italia, diciotto in Spagna, quattro in Portogallo, due in Francia, cinque in Germania, cinque in India, tre in Brasile, uno in Giappone.

2.10/ La Compagnia

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, pp. 35-36
La loro selezione era severa, sulla base del principio che «chi non era buono per il mondo non era buono nemmeno per la Compagnia», e che «per la Compagnia era buono soltanto chi sapeva vivere e farsi valere anche nel mondo». [...]
Anche se solitario nelle lande più sperdute, egli [Francesco Saverio] si sentiva legato ai suoi fratelli, più che a una famiglia di sangue: «Noi, stando – gli scriveva nelle sue lettere - siamo opera di voi tutti»
.

E, della Compagnia, voleva conoscere tutto: chiedeva che gli inviassero dall'Europa «lettere sì lunghe che bisognassero otto giorni per leggerle»; e anch'egli non avrebbe mai smesso di scrivere:
«Quando incomincio a parlare della Compagnia non so più come uscire dall'argomento, non so più come finire la mia lettera ... , ma bisogna terminare, mio malgrado, perché i vascelli devono partire. Non trovo migliore conclusione che giurare a tutti della Compagnia che se io dovessi dimenticarla, che si dissecchi prima la mia mano destra!».
«Compagnia di Gesù, compagnia d'Amore», questa era la bella definizione che ne dava, e non temeva di apparire sentimentale, quando narrava:
«Vi faccio sapere, fratelli carissimi, che dalle lettere che mi avete scritto ho ritagliato i vostri nomi, scritti dalla vostra stessa mano e, assieme alla formula della mia professione, li porto sempre con me, per la consolazione che ne ricevo»: infatti teneva tutto in una piccola custodia che portava sul petto.
Come è ovvio, egli sentiva soprattutto, con indicibile fede e passione, la «compagnia» di Ignazio.
Conclude così una lettera che gli invia: «Termino pregando la santa carità vostra, venerando Padre dell’anima mia, mentre vi scrivo, in ginocchio per terra, come se foste  davanti a me, di raccomandarmi molto a Dio Nostro Signore ... perché mi doni la grazia di concedere in questa vita la Sua santissima volontà, e la forza di compierla fedelmente. Amen. La stessa preghiera faccio a tutti quelli della Compagnia. Vostro minimo e inutile figlio, Francesco».
La tenerezza del «Padre» non era minore: «Tutto tuo, senza poterti mai dimenticare. Ignazio», così gli scriveva ...
E Francesco: «Con le lacrime ho letto queste parole e con le lacrime le trascrivo ricordandomi del tempo passato e del molto amore che sempre avete avuto e avete per me ... Mi scrivete di quale grande desiderio abbiate di vedermi, prima di terminare questa vita. Dio sa quale emozione hanno suscitato nell'anima mia queste parole...».


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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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