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Anno Fidei: i Padri, Dottori e Santi della Chiesa “ ricordateli. Imitatene la fede ”

Ultimo Aggiornamento: 09/05/2013 21:32
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17/08/2012 11:54
 
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“ Ricordatevi dei vostri capi. Imitatene la fede ”

Le prediche di Quaresima sui grandi Padri della Chiesa

di p. Raniero Cantalamessa

1. Sant'Atanasio e la fede nella divinità di Cristo 

2. San Gregorio Nazianzeno, maestro della fede nella Trinità

3. San Basilio e la fede nello Spirito Santo

4.

 

 

 

 

Sant'Atanasio
e la fede nella divinità di Cristo


Prima Predica di Quaresima
Venerdì 9 marzo '12

In preparazione all’anno della fede indetto dal Santo Padre Benedetto XVI (12 Ottobre 2012 -24 Novembre 2013), le quattro prediche di Quaresima si propongono di attingere slancio e ridare freschezza al nostro credere, mediante un rinnovato contatto con i “giganti della fede” del passato. Da qui il titolo, tratto dalla lettera agli Ebrei, dato all’intero ciclo: “Ricordatevi dei vostri capi. Imitatene la fede” (Ebr 13,7).
Ci metteremo ogni volta alla scuola di uno dei quattro grandi dottori della Chiesa orientale –Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno e Gregorio Nisseno – per vedere cosa ognuno di essi dice a noi oggi, a proposito del dogma di cui è stato il campione, e cioè, rispettivamente, la divinità di Cristo, lo Spirito Santo, la Trinità, la conoscenza di Dio. In altro momento, a Dio piacendo, faremo la stessa cosa per i grandi dottori della Chiesa occidentale: Agostino, Ambrogio e Leone Magno.

Ciò che vorremmo imparare dai Padri non è tanto come annunciare la fede al mondo, cioè l’evangelizzazione, e neppure come difendere la fede contro gli errori, cioè l’ortodossia; è piuttosto l’approfondimento della propria fede, riscoprire, dietro di essi, la ricchezza, la bellezza e la felicità del credere, passare, come dice Paolo, “di fede in fede” (Rom 1,17), da una fede creduta a una fede vissuta. Sarà proprio un accresciuto “volume” di fede all’interno della Chiesa a costituire poi la forza maggiore nell’annuncio di essa al mondo e la difesa migliore della sua ortodossia.

Il Padre de Lubac ha affermato che non c’è stato mai nella storia un rinnovamento della Chiesa che non sia stato anche un ritorno ai Padri. Non fa eccezione il Concilio Vaticano II di cui ci apprestiamo a ricordare il 50 anniversario. Esso è intessuto di citazioni dei Padri; molti dei suoi protagonisti erano dei Patrologi. Dopo la Scrittura, i Padri costituiscono il secondo “strato” di terreno su cui poggia e da cui trae linfa la teologia, la liturgia, l’esegesi biblica e l’intera spiritualità della Chiesa.
In certe cattedrali gotiche del medio evo si vedono delle statue curiose: dei personaggi dalla statura imponente che reggono, seduti sulle spalle, degli uomini piccoli piccoli. È la rappresentazione sulla pietra di una convinzione che i teologi del tempo formulavano con queste parole: “Noi siamo come nani che siedono sulle spalle dei giganti, di modo che possiamo vedere più cose e più lontano di loro, non per l’acutezza del nostro sguardo o con l’altezza del corpo, ma perché siamo portati più in alto e siamo sollevati ad altezza gigantesca” . I giganti erano naturalmente i Padri della Chiesa. Così avviene anche oggi per noi.

 

1. Atanasio, il campione della divinità di Cristo

Iniziamo la nostra rassegna con sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, nato nel 295 e morto nel 373. Pochi Padri hanno lasciato un segno così profondo nella storia della Chiesa lui. Viene ricordato per molte cose: per l’influsso che ebbe nella diffusione del monachesimo, grazie alla sua “Vita di Antonio”, per essere stato il primo a rivendicare la libertà della Chiesa anche in uno stato cristiano” , per la sua amicizia con i vescovi occidentali, favorita dai contatti avuti durante l’esilio che segna un rafforzamento dei vincoli tra Alessandria e Roma…
Ma non è di tutto questo che vogliamo occuparci. Kierkegaard, nel suo Diario, ha un pensiero curioso: “La terminologia dommatica della Chiesa primitiva è come un castello fatato, dove riposano in un sonno profondo i prìncipi e le principesse più leggiadre. Basta soltanto svegliarli, perché balzino in piedi in tutta la loro gloria” . Il dogma che Atanasio ci aiuta a “risvegliare” e far risplendere in tutta la sua gloria è quello della divinità di Cristo; per essa subì sette volte l’esilio.

Il vescovo di Alessandria è ben convinto di non essere lo scopritore di questa verità. Tutta la sua opera consisterà, al contrario, nel mostrare che questa è stata sempre la fede della Chiesa; che nuova non è la verità, ma l’eresia contraria. Il suo merito, in questo campo, è stato semmai quello di rimuovere gli ostacoli che avevano impedito fino allora un riconoscimento pieno e senza reticenze della divinità di Cristo nel contesto culturale greco.

Uno di tali ostacoli, forse il principale, era l’abitudine greca di definire l’essenza divina con il termine agennetos, ingenerato. Come proclamare che il Verbo è vero Dio, dal momento che esso è Figlio, cioè generato dal Padre? Era facile per Ario stabilire l’equivalenza: generato = fatto, cioè passare gennetos a genetos, e concludere con la celebre frase che fece esplodere il caso: “Ci fu un tempo in cui non c’era!” (in greco, ancora più lapidariamente: en ote ouk en: c’era quando non c’era). Questo equivaleva a fare di Cristo una creatura, anche se non “come le altre creature”. Atanasio difese a spada tratta il genitus non factus di Nicea, “generato, ma non fatto”. Egli risolve la controversia con la semplice osservazione: “Il termine agenetos fu inventato dai greci i quali non conoscevano il Figlio” .

Un altro ostacolo culturale al pieno riconoscimento della divinità di Cristo, meno avvertito al momento, ma non meno operante, era la dottrina di una divinità intermedia, il deuteros theos, legato alla creazione del mondo materiale. Da Platone in poi, essa era diventata un dato comune a molti sistemi religiosi e filosofici dell’antichità. La tentazione di assimilare il Figlio, “per mezzo del quale erano state create tutte le cose”, a questa entità intermedia era rimasta strisciante nella speculazione cristiana, anche se non nella vita della Chiesa. Ne risultava uno schema tripartito dell’essere: al vertice di tutto, il Padre ingenerato – dopo di lui, il Figlio (e più tardi anche lo Spirito Santo) e infine le creature.
La definizione dell’homoousios, del “genitus non factus”, rimuove per sempre il principale ostacolo dell’ellenismo al riconoscimento della piena divinità di Cristo e opera la catarsi cristiana dell’universo metafisico dei greci. Con tale definizione, una sola linea di demarcazione è tracciata sulla verticale dell’essere e questa linea non divide il Figlio dal Padre, ma il Figlio dalle creature. Volendo racchiudere in una frase il significato perenne della definizione di Nicea, potremmo formularla così: in ogni epoca e cultura, Cristo deve essere proclamato “Dio”, non in una qualche accezione derivata o secondaria, ma nell’accezione più forte che la parola “Dio” ha in tale cultura.

Atanasio ha fatto, del mantenimento di questa conquista, lo scopo della sua vita. Quando tutti, imperatori, vescovi e teologi, oscillavano tra un rifiuto e un tentativo di accomodamento, egli è rimasto irremovibile. Ci furono momenti in cui la futura fede comune della Chiesa viveva nel cuore di un solo uomo: il suo. Dall’atteggiamento verso di lui si decideva da che parte ognuno stava.

 

2. L’argomento soteriologico

Ma più importante che insistere sulla fede di Atanasio nella piena divinità di Cristo, che è cosa nota e pacifica, è sapere cosa lo motiva nella battaglia, da dove gli viene una certezza così assoluta. Non dalla speculazione, ma dalla vita; più precisamente, dalla riflessione sull’esperienza che la Chiesa fa della salvezza in Cristo Gesù.
Atanasio sposta l’interesse della teologia dal cosmo all’uomo, dalla cosmologia alla soteriologia. Ricollegandosi alla tradizione ecclesiastica antecedente a Origene, specie a Ireneo, Atanasio valorizza i risultati elaborati nella lunga battaglia contro lo gnosticismo, che aveva portato a concentrarsi sulla storia della salvezza e della redenzione umana. Cristo non si colloca più, come nell’epoca degli apologisti, tra Dio e il cosmo, ma piuttosto tra Dio e l’uomo. Che Cristo sia Mediatore non significa che egli sta tra Dio e l’uomo (mediazione ontologica, spesso intesa in senso subordinazionista), ma che unisce Dio e l’uomo. In lui Dio si fa uomo e l’uomo si fa dio, cioè viene divinizzato .
Su questo sfondo ideale, si colloca l’applicazione che Atanasio fa dell’argomento soteriologico in funzione della dimostrazione della divinità di Cristo. L’argomento soteriologico non nasce con la controversia ariana; esso è presente in tutte le grandi controversie cristologiche antiche, da quella antignostica a quella antimonotelita.
Nella sua formulazione classica esso suona: “Quod non est assumptum non est sanatum”, “Ciò che non è assunto non è salvato” . Esso viene adattato a seconda dei casi, in modo da controbattere l’errore del momento, che può essere la negazione della carne umana di Cristo (gnosticismo), o della sua anima umana (apolinnarismo), o della sua volontà libera (monotelismo).

Nell’uso che ne fa Atanasio, esso può essere così formulato: “Ciò che non è assunto da Dio non è salvato”, dove la forza è tutta in quella breve aggiunta “da Dio”. La salvezza esige che l’uomo non sia assunto da un intermediario qualsiasi, ma da Dio stesso: “Se il Figlio è una creatura – scrive Atanasio – l’uomo rimarrebbe mortale, non essendo unito a Dio”, e ancora: “L’uomo non sarebbe divinizzato, se il Verbo che divenne carne non fosse della stessa natura del Padre” . Atanasio ha formulata molti secoli prima di Heidegger, e prendendola con ben altra serietà, l’idea che “solo un Dio ci può salvare”, nur noch ein gott kann uns retten .

Le implicazioni soteriologiche che Atanasio trae dall’homoousios di Nicea sono molteplici e profondissime. Definire il Figlio “consostanziale” con il Padre significava collocarlo ad un livello tale, per cui nulla assolutamente poteva rimanere fuori del suo raggio d’azione. Significava anche radicare il significato di Cristo nello stesso fondamento in cui veniva radicato l’essere di Cristo, cioè nel Padre. Gesù Cristo, si viene a dire, non costituisce, nella storia e nell’universo, una seconda presenza additiva rispetto a quella di Dio; al contrario, egli è la presenza e la rilevanza stessa del Padre. Scrive Atanasio:
“Buono com’è, il Padre, con il suo Verbo che è anche Dio, guida e sostiene il mondo intero, perché la creazione, illuminata dalla sua guida, dalla sua provvidenza e dal suo ordine, possa persistere nell’essere … L’onnipotente e santissimo Verbo del Padre, penetrando tutte le cose e arrivando ovunque con la sua forza, dà luce ad ogni realtà e tutto contiene ed abbraccia in se stesso. Non c’è essere alcuno che si sottragga al suo dominio.
Tutte le cose da lui ricevono interamente la vita e da lui sono mantenute in essa: le creature singole nella loro individualità e l’universo creato nella sua totalità” .

Occorre tuttavia fare una precisazione importante. La divinità di Cristo non è un “postulato” pratico, come è, per Kant, l’esistenza stessa di Dio . Non è un postulato, ma la spiegazione di un “dato”. Sarebbe un postulato, e dunque una deduzione umana teologica, se si partisse da una certa idea di salvezza e se ne deducesse la divinità di Cristo come l’unica capace di operare tale salvezza; è invece la spiegazione di un dato se si parte, come fa Atanasio, da una esperienza di salvezza e si dimostra come essa non potrebbe esistere se Cristo non fosse Dio. Non è sulla salvezza che si fonda la divinità di Cristo, ma è sulla divinità di Cristo che si fonda la salvezza.

 

3. Corde creditur!

Ma è tempo di venire a noi e cercare di vedere cosa possiamo imparare oggi dall’epica battaglia sostenuta a suo tempo da Atanasio. La divinità di Cristo è oggi il vero “articulus stantis et cadentis ecclesiae”, la verità con la quale la Chiesa sta o cade. Se in altri tempi, quando la divinità di Cristo era pacificamente ammessa da tutti i cristiani, si poteva pensare che tale “articolo” fosse la “giustificazione gratuita per fede”, ora non è più così. Possiamo dire che il problema vitale per l’uomo d’oggi sia stabilire in che modo viene giustificato il peccatore, quando neppure si crede più di avere bisogno di una giustificazione, o si è convinti di trovarla in se stessi? “Io stesso oggi mi accuso – fa gridare dal palco a uno dei suoi personaggi Sartre – e solo io posso anche assolvermi, io l’uomo. Se Dio esiste l’uomo è nulla“ .
La divinità di Cristo è la pietra angolare che sorregge i due misteri principali della fede cristiana; la Trinità e l’incarnazione. Essi sono come due porte che si aprono e si chiudono insieme. Scartata quella pietra, tutto l’edificio della fede cristiana crolla su se stesso: se il Figlio non è Dio, da chi è formata la Trinità? Lo aveva già denunciato, con chiarezza, sant’ Atanasio, scrivendo contro gli ariani:
“Se il Verbo non esiste insieme con il Padre da tutta l’eternità, allora non esiste una Trinità eterna, ma prima ci fu l’unità e poi, con il passare del tempo, per aggiunta, ha cominciato ad esserci la Trinità” .
(Un’idea – questa della Trinità che si forma “per aggiunta” – che è tornata a essere proposta, in anni non lontani, da qualche teologo che ha applicato alla Trinità lo schema dialettico del divenire di Hegel!). Ben prima di Atanasio, san Giovanni aveva stabilito questo legame tra i due misteri: “Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre” (l Gv 2,23). Le due cose stanno o cadono insieme, ma se cadono insieme, allora dovremmo dire mestamente con Paolo che noi cristiani “siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19).

Dobbiamo lasciarci investire in pieno viso da quella domanda così rispettosa, ma così diretta di Gesù: “Ma voi, chi credete che io sia?”, e da quella ancora più personale: “Credi tu?” Credi veramente? Credi con tutto il cuore? San Paolo dice che “con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,10). In passato, la professione della retta fede, cioè il secondo momento di questo processo, ha preso a volte tanto rilievo da lasciare nell’ombra quel primo momento che è il più importante e che si svolge nelle profondità recondite del cuore. “ È dalle radici del cuore che sale la fede”, esclama sant’Agostino .
Bisogna forse demolire in noi credenti, e in noi uomini di Chiesa, la falsa persuasione di credere già, di stare a posto per quanto riguarda la fede. Bisogna provocare il dubbio – non, s’intende, su Gesù, ma su di noi – per poterci mettere poi alla ricerca di una fede più autentica. Chissà che non sia un bene, per un po’ di tempo, non volere dimostrare niente a nessuno, ma interiorizzare la fede, riscoprire le sue radici nel cuore!

Gesù chiese a Pietro tre volte: “ Mi ami tu? “. Sapeva che la prima e la seconda volta, la risposta era uscita troppo in fretta, per essere quella vera. Finalmente, alla terza volta, Pietro capì. Anche la domanda sulla fede ci deve essere posta così; per tre volte, con insistenza, finché anche noi non ci rendiamo conto ed entriamo nella verità: “ Credi tu? credi tu? credi veramente? “. Forse alla fine ci verrà da rispondere: “No, Signore, io non credo davvero con tutto il cuore e con tutta l’anima. Aumenta la mia fede! “.
Atanasio ci ricorda però anche un’altra verità importante: che la fede nella divinità di Cristo non è possibile, se non si fa anche l’esperienza della salvezza operata da Cristo. Senza questa, la divinità di Cristo diventa facilmente un’idea, una tesi, e si sa che a un’idea si può sempre opporre un’altra idea, e a una tesi, un’altra tesi. Solo a una vita –dicevano i Padri del deserto – non c’è nulla che si possa opporre.
L’esperienza della salvezza si fa leggendo la parola di Dio (e prendendola per quello che è, parola di Dio!), amministrando e ricevendo i sacramenti, soprattutto l’Eucaristia, luogo privilegiato della presenza del Risorto, esercitando i carismi, mantenendo un contatto con la vita della comunità credente, pregando. Evagrio, nel IV secolo, ha formulato la celebre equazione: “Se sei teologo, pregherai veramente e se preghi veramente sarai teologo” .

Atanasio impedì che la ricerca teologica rimanesse prigioniera della speculazione filosofica delle varie “scuole” e diventasse invece approfondimento del dato rivelato nella linea della Tradizione. Un eminente storico protestante ha riconosciuto ad Atanasio un merito singolare in questo campo: “Grazie a lui – ha scritto – la fede in Cristo è rimasta rigorosa fede in Dio e, conforme alla sua natura, nettamente distinta da tutte le altre forme –pagane, filosofiche, idealistiche – di fede…Con lui, la Chiesa è ridivenuta istituzione di salvezza, cioè, nel senso rigoroso del termine, ‘Chiesa’, il cui contenuto proprio e determinante è costituito dalla predicazione del Cristo” .

Tutto questo ci interpella oggi in maniera particolare, dopo che la teologia si è definita come una “scienza” ed è professata in ambienti accademici, molto più sganciati dalla vita della comunità credente di quanto lo fosse, al tempo di Atanasio, la scuola teologica, detta Didaskaleion, fiorita in Alessandria ad opera di Clemente e di Origene. La scienza esige dallo studioso che “domini” la sua materia e che sia “neutrale” di fronte all’oggetto della propria scienza; ma come “dominare” uno che poco prima hai adorato come il tuo Dio? Come rimanere neutrale di fronte all’oggetto, quando questo oggetto è Cristo? Fu uno dei motivi che mi spinsero, a un certo punto della mia vita, ad abbandonare l’insegnamento accademico per dedicarmi a tempo pieno al ministero della parola. Ricordo il pensiero che affiorava in me, dopo aver partecipato a congressi o dibattiti teologici e biblici, soprattutto all’estero: “Poiché il mondo universitario ha voltato le spalle a Gesù Cristo, io volterò le spalle al mondo universitario”.
La soluzione a questo problema non è certo quella di abolire gli studi accademici di teologia. La situazione italiana ci fa vedere gli effetti negativi prodotti dall’assenza di facoltà di teologia nelle università statali. La cultura cattolica e religiosa in genere è respinta in un ghetto; nelle librerie laiche non si trova un libro religioso, a meno che non sia su qualche tema esoterico o di moda. Il dialogo tra teologia e sapere umano, scientifico e filosofico, è svolto “a distanza”, e non è la stessa cosa. Parlando in ambienti universitari, io dico spesso di non seguire il mio esempio (che resta una scelta personale), ma di valorizzare al massimo il privilegio di cui godono, cercando semmai di affiancare allo studio e all’insegnamento anche qualche attività pastorale compatibile con esso.

Se non si può e non si deve togliere la teologia dagli ambienti accademici, c’è però una cosa che i teologi accademici possono fare ed è di essere abbastanza umili da riconoscere il loro limite. La loro non è la sola, né la più alta, espressione della fede. Il Padre Henri de Lubac ha scritto: “Il ministero della predicazione non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. È, al contrario, l’insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta. Questo era vero della prima predicazione cristiana, quella degli apostoli, ed è vero ugualmente della predicazione di coloro che sono ad essi succeduti nella Chiesa: i Padri, i Dottori e i nostri Pastori nell’ora presente” . H. U. von Balthasar, a sua volta, parla della “missione della predicazione nella Chiesa, alla quale è subordinata la stessa missione teologica” .

 

4. “Coraggio, ci sono io!”

Torniamo per concludere alla divinità di Cristo. Essa illumina rischiara l’intera vita cristiana.

Senza la fede nella divinità di Cristo:
Dio è lontano,
Cristo resta nel suo tempo,
il Vangelo è uno dei tanti libri religiosi dell’umanità,
la Chiesa, una semplice istituzione,
l’evangelizzazione, una propaganda,
la liturgia, rievocazione di un passato che non c’è più,
la morale cristiana, un peso tutt’altro che leggero e un giogo tutt’altro che soave.

Ma con la fede nella divinità di Cristo:
Dio è l’Emanuele, il Dio con noi,
Cristo, è il risorto che vive nello Spirito,
il Vangelo, parola definitiva di Dio a tutta l’umanità,
la Chiesa, sacramento universale di salvezza,
l’evangelizzazione, condivisione di un dono,
la liturgia, incontro gioioso con il Risorto,
la vita presente, inizio dell’eternità.

È scritto infatti: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna” (Gv 3, 36). La fede nella divinità di Cristo ci è soprattutto indispensabile in questo momento per mantenere viva la speranza sul futuro della Chiesa e del mondo. Contro gli gnostici che negavano la vera umanità di Cristo, Tertulliano levò, a suo tempo, il grido: “Parce unicae spei totius orbis”, non togliete al mondo la sua unica speranza! Noi dobbiamo dirlo oggi a coloro che si rifiutano di credere nella divinità di Cristo.

Agli apostoli, dopo aver sedato la tempesta, Gesù rivolse una parola che ripete oggi ai loro successori : “Coraggio! Sono io, non abbiate paura” (Mc 6,50).

 

NOTE

1. Bernardo di Chartres, in Giovanni di Salisbury, Metalogicon, III, 4 (Corpus Chr. Cont. Med., 98, p.116).
2. Atanasio, Historia Arianorum, 52,3: “Che ha a che fare l’imperatore con la Chiesa?”
3.S. Kierkegaard, Diario, II A 110 (Trad.ital. di C. Fabro, Brescia 1962, nr. 196).
4. Atanasio, De decretis Nicenae synodi, 31.
5.Cfr. Atanasio, De incarnatione 54, cfr. Ireneo, Adv. haer. V, praef.
6.Gregorio Nazianzeno, Lettera Cledonio (PG 37, 181).
7.Atanasio, Contra Arianos II 69 e I 70.
8.Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Pfullingen 1988.
9.Atanasio, Contra gentes 41-42.
10.I. Kant, Critica della ragion pratica, capp. III, VI
11. J.-P. Sartre, Il diavolo e il buon Dio, X, 4, Gallimard, Parigi 1951, p. 267 s.
12.Atanasio, Contra Arianos I, 17-18 (PG 26, 48).
13. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26,2 (PL 35,1607).
14.Evagrio, De oratione 61 (PG 79, 1165).
15.H. von Campenhausen, I Padri greci, Brescia 1967, pp. 103-104.
16.H. de Lubac, Exégèse médièvale, I, 2, Parigi 1959, p. 670.
17.H.U. von Balthasar, La preghiera contemplativa, citato ivi da De Lubac.
18.Tertulliano, De carne Christi, 5, 3 (CC 2, p. 881).

http://www.cantalamessa.org/?p=1459




[SM=g1740771]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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San Gregorio Nazianzeno
maestro della fede nella Trinità

 

Seconda predica di Quaresima
6 marzo 2012

 

In anni non lontani, si sono avute proposte teologiche che, nonostante le differenze profonde tra di loro, avevano uno schema di fondo comune, a volte chiaro, a volte sottinteso. Tale schema è semplicissimo, perché riduttivo. I due massimi misteri della nostra fede sono la Trinità e l’incarnazione: Dio è uno e trino; Gesù Cristo è Dio e uomo. Nelle proposte a cui mi riferisco, tale nucleo suona: Dio è uno, e Gesù Cristo è uomo. Viene a cadere la divinità di Cristo e, con essa, la Trinità.
Il risultato di questo processo è che si finisce per accettare tacitamente e ipocritamente l’esistenza di due fedi e due cristianesimi diversi, che non hanno più in comune tra di loro se non il nome: il cristianesimo del Credo della Chiesa, delle dichiarazioni ecumeniche congiunte, in cui, con le parole del simbolo Niceno-Costantinopolitano, si continua a professare la fede nella Trinità e nella piena divinità di Cristo, e il cristianesimo di larghi strati della cultura, anche esegetica e teologica, in cui queste stesse verità vengono ignorate o interpretate in tutt’altro modo.
In questo clima è quanto mai opportuna una rivisitazione dei Padri della Chiesa, non solo per conoscere il contenuto del dogma nel suo stato nascente, ma ancor più per ritrovare la vitale unità tra la fede professata e la fede vissuta, tra la “cosa” e la sua “enunciazione”. Per i Padri la Trinità e l’unità di Dio, la dualità delle nature e l’unità della persona di Cristo non erano verità da decidere a tavolino o discutere nei libri in dialogo con altri libri; erano realtà vitali. Parafrasando una battuta che circola negli ambienti sportivi, potremmo dire che tali verità non erano per essi questione di vita o di morte; erano molto di più!

 

Gregorio Nazianzeno, cantore della Trinità

Il gigante sulle spalle del quale vogliamo salire oggi è san Gregorio Nazianzeno, l’orizzonte che con lui vogliamo scrutare è la Trinità. Suo è il grandioso quadro che mostra il dispiegarsi della rivelazione della Trinità nella storia e la pedagogia di Dio che si rivela in esso. L’Antico Testamento, scrive, proclama apertamente l’esistenza del Padre e comincia ad annunziare velatamente quella del Figlio; il Nuovo Testamento proclama apertamente il Figlio e comincia a rivelare la divinità dello Spirito Santo; ora, nella Chiesa, lo Spirito ci concede distintamente la sua manifestazione e si confessa la gloria della beata Trinità. Dio ha dosato la sua manifestazione, adeguandola ai tempi e alla capacità recettiva degli uomini .
Questa triplice ripartizione non ha nulla a che vedere con la tesi, conosciuta sotto il nome di Gioacchino da Fiore, delle tre epoche distinte: quella del Padre, nell’Antico Testamento, quella del Figlio nel Nuovo e quella dello Spirito nella Chiesa. La distinzione di san Gregorio si colloca nell’ordine della manifestazione, non dell’essere o dell’agire delle Tre Persone, le quali sono presenti e operano insieme in tutto l’arco del tempo.
San Gregorio Nazianzeno ha ricevuto nella tradizione l’appellativo di “il Teologo” (ho Theologos), proprio per il suo contributo alla chiarificazione del dogma trinitario. Il suo merito è di aver dato all’ortodossia trinitaria la sua formulazione perfetta, con frasi destinate a diventare patrimonio comune della teologia. Il simbolo pseudo-atanasiano “Quicumque”, composto circa un secolo dopo, deve non poco a Gregorio Nazianzeno.

Ecco alcune delle sue formule cristalline:
“Era, ed era, ed era: ma era uno solo. Luce e luce e luce: ma una sola luce. Questo è quello che David si immaginò quando disse: ‘Nella tua luce noi vedremo la luce’ (Sal 35,10). E ora noi l’abbiamo contemplata e la annunciamo, dalla luce che è il Padre comprendendo la luce che è il Figlio nella luce dello Spirito: ecco la breve e concisa teologia della Trinità […] Dio, se è lecito parlare succintamente, è indiviso in esseri divisi l’uno dall’altro” .
Il contributo principale dei Cappadoci nella formulazione del dogma trinitario è quello di aver portato a termine la distinzione dei due concetti di ousia e ipostasi, sostanza e persona, creando la base concettuale permanente con cui si esprime la fede nella Trinità. Si tratta di una delle innovazioni più grandiose che la teologia cristiana ha introdotto nel pensiero umano. Da essa ha potuto svilupparsi il moderno concetto di persona come relazione.

Il lato debole della loro teologia trinitaria, da essi stessi avvertito, era il pericolo di concepire il rapporto tra l’unica sostanza divina e le tre ipostasi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo alla stregua del rapporto che esiste in natura tra la specie e gli individui (per esempio, tra la specie umana e i singoli uomini), prestando così il fianco all’accusa di triteismo .
Gregorio Nazianzeno si sforza di rispondere a questa difficoltà, affermando che ognuna delle tre persone divine non è meno unita alle altre due di quanto sia unita a se se stessa . Rifiuta, per lo stesso motivo, le similitudini tradizionali di “fonte, rivo, fiume” o “sole, raggio, luce” . Alla fine ammette, però, candidamente di preferire questo rischio a quello opposto del modalismo: “È meglio, dice, avere un’idea, magari insufficiente, dell’unione dei Tre, piuttosto che osare un’empietà assoluta” .

Perché scegliere san Gregorio Nazianzeno come maestro di fede nella Trinità? Il motivo è lo stesso per il quale abbiamo scelto Atanasio come maestro di fede nella divinità di Cristo e Basilio come maestro di fede nello Spirito Santo. È che per Gregorio la Trinità non è una verità astratta, o solamente un dogma; è la sua passione, il suo ambiente vitale, qualcosa che fa vibrare il suo cuore al solo nominarla
Gli ortodossi lo chiamano “il cantore della Trinità”. Ciò corrisponde perfettamente a quello che sappiamo della sua personalità umana. Il Nazianzeno è un uomo dal cuore più grande ancora della mente, un temperamento sensibile fino all’eccesso, tanto da procurargli non poche delusioni e sofferenze nei suoi rapporti con gli altri, a partire dal suo amico san Basilio.
È nella sua produzione poetica che si rivela soprattutto il suo entusiasmo per la Trinità. Egli usa espressioni come “la mia Trinità”, “la cara Trinità” . Gregorio è un innamorato della Trinità. Scrive di sé stesso:
“A partire dal giorno in cui ho rinunciato alle cose di questo mondo per consacrare la mia anima alle contemplazioni luminose e celesti, quando l’intelligenza suprema mi ha rapito da quaggiù per posarmi lontano da tutto ciò che è carnale, da quel giorno i miei occhi sono stati abbagliati dalla luce della Trinità…Dalla sua sublime sede essa spande su ogni cosa il suo irradiamento ineffabile… A partire da quel giorno io sono morto al mondo e il mondo è morto per me” .
Basta confrontare queste parole con le espressioni tecnicamente perfette, ma fredde del simbolo “Quicumque” che si recitava un tempo nell’ufficio divino della domenica, per renderci conto della distanza che separa la fede vissuta dei Padri da quella formale e ripetitiva che si instaura dopo di loro, anche se quest’ultima assolve anch’essa un compito importante.

 

Non possiamo vivere senza la Trinità

Ora, come al solito, qualche riflessione su quello che i Padri possono offrirci, in questo campo, per un rinnovamento della nostra fede. È risaputo che la teologia occidentale ha sempre dovuto difendersi dal rischio opposto a quello del triteismo da cui, abbiamo visto, deve difendersi il Nazianzeno; il rischio cioè di accentuare l’unità della natura divina, a scapito della distinzione delle persone.
Su questo terreno ha potuto svilupparsi la visione deistica di Cartesio e degli illuministi che prescinde del tutto dalla Trinità per concentrarsi unicamente su Dio, concepito come Essere supremo o come “la divinità”. Kant ne ha tratto la nota conclusione, secondo cui “dalla dottrina trinitaria, presa alla lettera, non è possibile ricavare alcunché di pratico” . Essa, in altre parole, sarebbe irrilevante per la vita degli uomini e della Chiesa.
Questo è stato senza dubbio uno dei fattori che hanno spianato la strada all’ateismo moderno. Se si fosse tenuto viva in teologia l’idea del Dio Uno e Trino, anziché parlare di un vago “Essere supremo”, non sarebbe stato tanto facile per Feuerbach far trionfare la sua tesi che Dio è una proiezione che l’uomo fa di se stesso e della propria essenza. Che bisogno avrebbe infatti l’uomo di scindersi in tre: in Padre, Figlio e Spirito Santo? E in che senso la Trinità può essere la proiezione e la sublimazione che lo spirito umano fa di se stesso? È il vago deismo che è demolito da Feuerbach, non la fede in Dio uno e trino.

Se però la visione latina della Trinità, da una parte, presta il fianco a questa deviazione deistica, dall’altra contiene il rimedio più efficace contro di essa. Non saremo mai abbastanza grati ad Agostino per aver impostato il suo discorso sulla Trinità sulla parola di Giovanni: “Dio è amore” ( 1 Gv 4,10). Dio è amore: per questo, conclude Agosti¬no, egli è Trinità! “L’amore suppone uno che ama, ciò che è amato e l’amore stesso” . Il Padre è, nella Trinità, colui che ama, la fonte e il principio di tutto; il Figlio è colui che è amato; lo Spirito Santo è l’amore con cui si amano.

Ogni amore è amore di qualcuno o di qualcosa, come ogni conoscenza, ha spiegato Husserl, è conoscenza di qualcosa. Non si dà un amore ” a vuoto”, senza oggetto. Ora chi ama Dio, per essere definito amore? L’uomo? Ma allora è amore solo da qualche centinaio di milioni di anni. L’universo? Ma allora è amore solo da qualche decina di miliardi di anni. E prima chi amava Dio per essere l’amore? I pensatori greci e, in genere, le filosofie religiose di tutti i tempi, concependo Dio soprattutto come “pensiero”, potevano rispondere: Dio pensava se stesso; era “puro pensiero”,”pensiero di pensiero”. Ma questo non è più possibile, nel momento in cui si dice che Dio è anzitutto amore, perché il “puro amore di se stesso” sarebbe puro egoismo, che non è l’esaltazione massima dell’amore, ma la sua totale negazione.

Ed ecco la risposta della rivelazione, esplicitata dalla Chiesa con la sua dottrina della Trinità. Dio è amore da sempre, ab aeterno, perché prima ancora che esistesse un oggetto fuori di sé da amare, aveva in se stesso il Verbo, il Figlio che amava con amore infinito, cioè “nello Spirito Santo”. Questo non spiega come l’unità possa essere contemporaneamente trinità (questo è un mistero inconoscibile da noi perché avviene solo in Dio), ma ci basta almeno per intuire perché, in Dio, l’unità deve essere anche pluralità, anche trinità.

Un Dio che fosse pura Conoscenza o pura Legge, o puro Potere non avrebbe certo bisogno di essere trino (questo anzi complicherebbe enormemente le cose); ma un Dio che è anzitutto Amore sì, perché “meno che tra due, non ci può essere amore”. ”Occorre -ha scritto de Lubac- che il mondo lo sappia: la rivelazione del Dio Amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito della divinità” .
Quella dell’amore non è cer¬tamente che un’analogia umana, ma è senza dubbio quella che meglio ci permette di gettare uno sguardo nelle profondità misteriose di Dio. In questo si vede come la teologia latina integra quella greca e le due non possono fare a meno l’una dell’altra. Il tema dell’amore è quasi del tutto assente nella teologia trinitaria degli orientali che usano di preferenza l’analogia della luce. Bisogna aspettare Gregorio Palamas per leggere, nell’ambito greco, qualcosa di analogo a quello che dice Agostino sull’amore nella Trinità .
Qualcuno vorrebbe oggi mettere tra parentesi il dogma della Trinità per facilitare il dialogo con le altre grandi religioni monoteistiche. È una operazione suicida. Sarebbe come togliere a una persona la spina dorsale per farla camminare più speditamente! La Trinità ha talmente improntato di sé teologia, liturgia, spiritualità e l’intera vita cristiana che rinunciare ad essa significherebbe iniziare un’altra religione, completamente diversa.

Quello che si deve fare è piuttosto, come ci insegnano i Padri, calare questo mistero dai libri di teologia nella vita, in modo che la Trinità non sia solo un mistero studiato e rettamente formulato, ma vissuto, adorato, goduto. La vita cristiana si svolge, dall’inizio alla fine, nel segno e in presenza della Trinità. All’alba della vita, fummo battezzati “nel nome del Padre e del Figlio dello Spirito Santo”, e alla fine, se avremo la grazia di morire cristianamente, accanto al nostro capezzale verranno recitate le parole: “Parti, anima cristiana, da questo mondo: nel nome del Padre che ti ha creata, del Figlio che ti ha redenta e dello Spirito Santo che ti ha santificata”.
Tra questi due momenti estremi, si collocano altri momenti cosiddetti “di passaggio” che, per un cristiano, sono contrassegnati tutti dall’invocazione della Trinità. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo gli sposi vengono congiunti in matrimonio e si scambiano l’anello e i sacerdoti e i vescovi vengono consacrati. Nel nome della Trinità iniziavano una volta i contratti, le sentenze e ogni atto importante della vita civile e religiosa. La Trinità è il grembo in cui siamo stati concepiti (cf. Ef 1,4) ed è anche il porto verso cui tutti navighiamo. È “l’oceano di pace” da cui tutto sgorga e in cui tutto rifluisce.

 

“O beata Trinitas!”

San Gregorio Nazianzeno dovrebbe aver suscitato in noi un desiderio ardito circa la Trinità: fare di essa la “nostra” Trinità, la “cara” Trinità, l’“amata” Trinità. Alcuni di questi accenti di commossa adorazione e stupore risuonano nei testi della solennità della Santissima Trinità. Dobbiamo farli passare dalla liturgia alla vita. C’è qualcosa di più beato che possiamo fare nei riguardi della Trinità che cercare di comprenderla, ed è entrare in essa! Noi non possiamo abbracciare l’oceano, ma possiamo entrare in esso; non possiamo abbracciare il mistero della Trinità con la nostra mente, ma possiamo entrare in esso!
La “porta” per entrare nella Trinità è una sola, Gesù Cristo. Con la sua morte e risurrezione egli ha inaugurato per noi una via nuova e vivente per entrare nel santo dei santi che è la Trinità (cf. Eb 10,19-20) e ci ha lasciato i mezzi per poterlo seguire in questo cammino di ritorno. Il primo e più universale è la Chiesa. Quando si vuole attraversare un braccio di mare, diceva Agostino, la cosa più importante non è starsene sulla riva e aguzzare la vista per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva. E anche per noi la cosa più importante non è speculare sulla Trinità, ma rimanere nella fede della Chiesa che va verso di essa .

Nella Chiesa, il mezzo per eccellenza è l’Eucaristia. La Messa è un’azione trinitaria dall’inizio alla fine; inizia nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e termina con la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Essa è l’offerta che Gesù, capo e corpo mistico, fa di se al Padre nello Spirito Santo. Attraverso di essa entriamo davvero nel cuore della Trinità.
Per i fratelli ortodossi un mezzo importante per entrare nel mistero è l’icona. La Trinità di Rublev è una sintesi visiva della dottrina trinitaria dei Cappadoci e in particolare di Gregorio Nazianzeno. In essa si percepisce, in uguale misura, moto incessante e sovrumana quiete, trascendenza e condiscendenza. Il dogma dell’unità e trinità di Dio viene espresso dal fatto che le figure presenti sono tre e ben distinte, ma somigliantissime tra loro. Esse sono contenute idealmente dentro un cerchio che mette in luce la loro unità; ma con il loro diverso movimento e disposizione proclamano anche la loro distinzione.
Il santo, per il cui monastero fu dipinta l’icona, san Sergio di Radonez, si era distinto nella storia russa per aver riportato l’unità tra i capi in discordia tra di loro e aver reso così possibile la liberazione della Russia dai Tartari che l’avevano invasa. Il suo motto – che Rublev si è sforzato di interpretare con l’icona – era: “Contemplando la Santissima Trinità, vincere l’odiosa discordia di questo mondo”.

San Gregorio Nazianzeno aveva espresso un pensiero simile in questi versi che sembrano il suo testamento spirituale:

Cerco la solitudine, un luogo inaccessibile al male,
Dove con mente indivisa cercare il mio Dio
E alleviare la mia vecchiaia con la dolce speranza del cielo.
Cosa lascerò alla Chiesa? Lascerò le mie lacrime!…
Volgo i pensieri alla dimora che non conosce tramonto,
Alla mia cara Trinità, unica luce,
Di cui la sola ombra oscura ora mi commuove” .

La spiritualità latina non è meno ricca di aiuti per fare della Trinità un mistero vicino, amato. Essa insiste anche sul movimento inverso: non noi che entriamo nella Trinità, ma la Trinità che entra in noi. Nella tradizione ortodossa, la dottrina dell’inabitazione è riferita di preferenza alla persona dello Spirito Santo. È la teologia latina che ha sviluppato, in tutte le sue potenzialità, la dottrina biblica dell’inabitazione di tutta la Trinità nell’anima: “Il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23) . Pio XII le ha riservato un posto nella sua Mystici corporis, dicendo che grazie ad essa noi “partecipiamo fin d’ora alla gioia e alla beatitudine della Trinità” .

San Giovanni della Croce dice che “l’amore che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rom 5,5) non è altro che l’amore con cui il Padre, da sempre, ama il Figlio. È un traboccare dell’amore divino dalla Trinità a noi. Dio comunica all’anima “lo stesso amore che comunica al Figlio, anche se ciò non avviene per natura, ma per unione…L’anima partecipa di Dio, compiendo, insieme con lui, l’opera della Santissima Trinità” . La beata Elisabetta della Trinità ci suggerisce un metodo semplice per tradurre tutto ciò in un programma di vita: “Tutto il mio esercizio consiste nel rientrare in me stessa e perdermi nei Tre che sono là” .
Io vedo in ciò un motivo in più, e tra i più profondi, per evangelizzare. Leggevo giorni fa, nella liturgia delle ore, le parole Dio in Isaia: “Ecco su chi io poserò lo sguardo: su colui che è umile, che ha lo spirito afflitto e trema alla mia parola” (Is 66,2). Sono stato colpito da un pensiero. Ecco, mi sono detto, in che consiste la grande differenza tra chi è battezzato e chi non lo è: su chi non è battezzato, Dio “volge lo sguardo”, è presente intenzionalmente, con il suo amore e la sua provvidenza; in chi è battezzato, egli non volge solamente lo sguardo ma viene ad abitare in lui di persona, anzi con tutte le tre divine Persone. È vero che una presenza intenzionale corrisposta può essere più accetta a Dio che una presenza battesimale trascurata o rifiutata (e questo deve riempirci di responsabilità e umiltà), ma sarebbe ingratitudine non riconoscere la differenza che fa l’essere o non essere cristiani.

Terminiamo recitando insieme la dossologia che conclude il canone della Messa e che costituisce la più breve e la più densa preghiera trinitaria della Chiesa: “Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen”.

 

note

1. Cf. Gregorio Nazianzeno, Oratio 31, 26. Trad. ital di C. Moreschini, I cinque discorsi teologici, Roma, Città Nuova, 1986.
2. Oratio 31, 3.14.
3. Cf. Basilio, Epistola 236,6.
4.Gregorio Naz., Oratio. 31,16.
5.Ib. 31, 31-33.
6.Ib. 31, 12.
7.Gregorio Naz., Poemata de seipso, I,15; I, 87 (PG 37, 1251 s.; 1434).
8.Ib., I,1 (PG 37, 984-985).
9.E. Kant, Il conflitto delle facoltà, A 50 (WW, ed. W. Weischedel, VI, p.303).
10.Agostino, De Trinitate, VIII, 10, 14.
11.H. de Lubac, Histoire et Esprit, Aubier, Parigi 1950, cap.5.
12.Gregorio Palamas, Capita physica, 36 (PG 150, 1144s.).
13.Agostino, De Trinitate, IV,15,30; Confessioni, VII, 21.
14.Gregorio Nazianzeno, Poemata de seipso, I,11 (PG 37, 1165 s.).
15.Cf. R. Moretti – G.-M. Bertrand, Inhabitation, in “Dict. Spir.”, 7, 1735.1767.
16.Pio XII, Mystici corporis, AAS, 35, 1943, pp.231 s.
17.S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, strofa 38.
18.Elisabetta della Trinità, Lettere, 151, (Scritti, Roma 1967, p. 274).


fonte: http://www.cantalamessa.org/?p=1565




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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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San Basilio
e la fede nello Spirito Santo [SM=g1740752]

 

Terza predica di Quaresima
23 marzo 2012

 

La fede termina alle cose

Il filosofo Edmund Husserl ha riassunto il programma della sua fenomenologia nel motto: Zu den Sachen selbst!, alle cose stesse, alle cose come sono in realtà, prima della loro concettualizzazione e formulazione. Un altro filosofo venuto dopo di lui, Sartre, dice che “le parole e, con esse, il significato delle cose e i modi del loro uso” non sono che “ i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie”: bisogna oltrepassarli per avere la rivelazione improvvisa, che lascia senza fiato, della “esistenza” delle cose1.

San Tommaso d’Aquino aveva formulato molto prima un principio analogo in riferimento alle cose o agli oggetti della fede: “Fides non terminatur ad enunciabile, sed ad rem”: la fede non termina negli enunciati, ma alla realtà2. I Padri della Chiesa sono modelli insuperati di questa fede che non si ferma alle formule, ma va alla realtà. Passata la stagione d’oro dei grandi padri e dottori, si assiste quasi subito a quello che uno studioso dei pensiero patristico definisce “il trionfo del formalismo”3. Concetti e termini, come sostanza, persona, ipostasi, sono analizzati e studiati per se stessi, senza il costante riferimento alla realtà che con essi gli artefici del dogma avevano cercato di esprimere.

Atanasio è forse il caso più esemplare di una fede che si preoccupa più della cosa che della sua enunciazione. Per diverso tempo, dopo il concilio di Nicea, egli sembra quasi ignorare il termine homousios, consustanziale, pur difendendo con la tenacia che abbiamo visto la volta scorsa il suo contenuto e cioè la piena divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre. È pronto anche ad accogliere termini per lui equivalenti, purchè fosse chiaro che si intendeva mantenere ferma la fede di Nicea. Solo in un secondo momento, quando si rese conto che quel termine era l’unico che non lasciava scappatoie all’eresia, egli ne fece sempre più largo uso.

Questo fatto va notato perché conosciamo i danni arrecati alla comunione ecclesiale dal dare più importanza all’accordo sui termini che a quello sui contenuti della fede. In anni recenti si è potuta ristabilire la comunione con alcune chiese orientali, cosiddette monofisite, avendo riconosciuto che il loro contrasto con la fede di Calcedonia era nel diverso significato attribuito ai termini ousia e ipostasi, e non nella sostanza della dottrina. Anche l’accordo tra la Chiesa cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane sul tema della giustificazione mediante la fede, firmato nel 1998, ha mostrato che il secolare contrasto su questo punto era più nei termini che nella realtà. Le formule, una volta coniate, tendono a fossilizzarsi, diventando bandiere e segni di appartenenza, più che espressione di fede vissuta.

 

San Basilio e la divinità dello Spirito Santo

Oggi saliamo sulle spalle di un altro gigante, san Basilio il Grande (329- 379), per scrutare con lui un’altra realtà della nostra fede, lo Spirito Santo. Vedremo subito come anche lui è un modello della fede che non si arresta alle formule ma va alla realtà.

Sulla divinità dello Spirito Santo, Basilio non dice né la prima né l’ultima parola, cioè non è colui che apre il dibattito e neppure colui che lo conclude. Chi aprì il discorso sullo statuto ontologico dello Spirito fu sant’Atanasio. Fino a lui, la dottrina intorno al Paraclito era rimasta nell’ombra, e si capisce anche perché: non si poteva definire la posizione dello Spirito Santo nella divinità, prima che fosse definita quella del Figlio. Ci si limitava perciò a ripetere nel simbolo di fede: “e credo nello Spirito Santo”, senza altre aggiunte.

Atanasio, nelle Lettere a Serapione, avvia il dibattito che porterà alla definizione della divinità dello Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli del 381. Insegna che lo Spirito è pienamente divino, consustanziale con il Padre e con il Figlio, che non appartiene al mondo delle creature, ma a quello del creatore e la prova, anche qui, è che il suo contatto ci santifica, ci divinizza, ciò che non potrebbe fare se non fosse lui stesso Dio.

Ho detto che Basilio non dice neppure l’ultima parola. Egli si trattiene dall’applicare al Paraclito il titolo di “Dio” e quello di “consustanziale”. Afferma con chiarezza la fede nella piena divinità dello Spirito usando espressioni equivalenti, come l’uguaglianza con il Padre e Figlio nell’adorazione (la isotimia), la sua omogeneità, e non eterogeneità, rispetto ad essi. Sono i termini con cui la divinità dello Spirito Santo fu definita nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 381e che costruiscono l’articolo di fede sullo Spirito Santo che professiamo ancor oggi nel credo.

Questo atteggiamento prudenziale di Basilio, volto a non allontanare ancora di più il partito avversario dei Macedoniani, gli attirò la critica di Gregorio Nazianzeno che colloca l’amico tra quelli che hanno avuto abbastanza coraggio per pensare che lo Spirito Santo è Dio, ma non abbastanza per proclamarlo tale esplicitamente. Rompendo ogni indugio, egli scrive. “Lo Spirito è dunque Dio? Certamente! È consustanziale? Sì, se è vero che è Dio”4.

Se dunque Basilio non dice, sulla teologia dello Spirito Santo, né la prima né l’ultima parola, perché scegliere proprio lui come nostro maestro di fede nel Paraclito? È che Basilio, come già Atanasio, è più preoccupato della “cosa” che della sua formulazione, più della piena divinità dello Spirito che dei termini con cui esprimere tale fede. La cosa, per esprimerci nei termini di Tommaso d’Aquino, gli interessa più che la sua enunciazione. Egli ci trasporta nel vivo della persona e dell’azione dello Spirito Santo.

Quella di Basilio è una pneumatologia concreta, vissuta, non scolastica, ma “funzionale” nel senso più positivo del termine, ed è quello che la rende particolarmente attuale e utile per noi oggi. A causa della nota questione del Filioque, la pneumatologia ha finito per restringersi nei secoli quasi solo al problema del modo della processione dello Spirito Santo: se dal Padre soltanto come dicono gli orientali, o anche dal Figlio, come professano i latini. Qualcosa della pneumatologia concreta dei Padri è passato nei trattati su “i Sette doni dello Spirito Santo”, ma limitato all’ambito della santificazione personale e alla vita contemplativa.

Il Concilio Vaticano II ha avviato un rinnovamento in questo campo, per esempio quando ha riportato i carismi dall’agiografia, cioè dalla vita dei santi, all’ecclesiologia, cioè alla vita della Chiesa, parlando di essi nella Lumen gentium5. Ma si è trattato solo di un inizio; resta molta strada da fare per mettere in luce l’azione dello Spirito Santo in tutto il vissuto del popolo di Dio. In occasione del XVI centenario del Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, il Beato Giovanni Paolo II scrisse una lettera apostolica in cui tra l’altro diceva: “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato…non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua forza”6. Basilio, vedremo, ci è di guida proprio in questo cammino.

 

Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa

È interessante conoscere l’origine del suo trattato sullo Spirito Santo. Essa è legata curiosamente alla preghiera del Gloria Patri. Durante una liturgia, Basilio aveva pronunciato la dossologia a volte nella forma: “Gloria al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”, altre volte nella forma: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”. Questa seconda forma metteva in luce più chiaramente della prima l’uguaglianza delle tre persone, coordinandole, anziché subordinarle, tra di loro. Nel clima surriscaldato delle discussioni sulla natura dello Spirito Santo, la cosa provocò delle contestazioni e Basilio scrisse la sua opera per giustificare il suo operato; in pratica, per difendere contro gli eretici macedoniani la piena divinità dello Spirito Santo.

Ma veniamo subito al punto per il quale, dicevo, la dottrina di Basilio si rivela particolarmente attuale: la sua capacità di mettere in luce l’azione dello Spirito in ogni momento della storia della salvezza e in ogni settore della vita della Chiesa. Inizia dall’opera dello Spirito nella creazione.

“Nella creazione degli esseri la causa prima di quanto viene all’esistenza è il Padre, la causa strumentale il Figlio, la causa perfezionatrice è lo Spirito. È per la volontà del Padre che gli spiriti creati sussistono; è per la forza operativa del Figlio che sono condotti all’essere ed è per la presenza dello Spirito che giungono alla perfezione…Se provi a sottrarre lo Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita appare senza legge, senza ordine, senza determinazione alcuna”7.

Sant’Ambrogio riprenderà da Basilio questo pensiero traendone una conclusione suggestiva. Riferendosi ai primi due versetti della Genesi (“la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”) egli osserva:

“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ”8.

In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” (mundus) appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmos. Ora noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre “è” creatore. Ciò significa che Spirito Santo è colui che continuamente fa passare l’universo, la Chiesa e ogni persona, dal caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è al lavoro in esso e guida a un fine la sua stessa evoluzione. Egli è colui che sempre “crea e rinnova la faccia della terra” (cf. Sal 104,30).

Questo non significa, spiegava Basilio in quello stesso testo, che il Padre aveva creato qualcosa di imperfetto e di “caotico” che aveva bisogno di correttivi; semplicemente, era il disegno e il volere del Padre di creare per mezzo del Figlio e condurre gli esseri alla perfezione mediante lo Spirito.

Dalla creazione il santo Dottore passa a illustrare la presenza dello Spirito nell’opera della redenzione:

“Per quanto riguarda il piano di salvezza (oikonomia) per l’uomo ad opera del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, stabilito secondo la volontà di Dio, chi potrebbe contestare che si compie per mezzo della grazia dello Spirito?”9

A questo punto, Basilio si abbandona a una contemplazione della presenza dello Spirito nella vita di Gesù che è tra i brani più belli dell’opera e apre alla pneumatologia un campo di ricerca che solo di recente si è cominciato a riprendere in considerazione10. Lo Spirito Santo è all’opera già nell’annuncio dei profeti e nella preparazione alla venuta del Salvatore; è per la sua potenza che si realizza l’incarnazione nel seno di Maria; è lui il crisma con il quale Gesù fu unto da Dio nel battesimo. Ogni sua opera fu realizzata con la presenza dello Spirito. Questi “era presente quando fu tentato dal diavolo, quando compiva miracoli, non lo lasciò quando risorse dai morti, e il giorno di Pasqua lo effuse sui discepoli (cf. Gv 20, 22 s.). Il Paraclito fu “il compagno inseparabile” di Gesù durante tutta la sua vita.

Dalla vita di Gesù, san Basilio passa a illustrare la presenza dello Spirito nella Chiesa:

“E l’organizzazione della Chiesa, non è chiaro e incontestabile che è opera dello Spirito? Egli stesso ha dato alla Chiesa, dice Paolo, ‘in primo luogo gli apostoli, poi i profeti, poi i maestri…Quest’ordine è organizzato secondo la diversità dei doni dello Spirito”11.

Nell’Anafora che porta il nome di san Basilio - che l’attuale nostra Preghiera eucaristica IV ha seguito da vicino -, lo Spirito Santo ha un posto centrale.

L’ultimo quadro riguarda la presenza dello Paraclito nell’escatologia: “Anche al momento dell’evento dell’attesa manifestazione del Signore dai cieli- scrive Basilio - non sarà assente lo Spirito Santo”. Questo momento sarà, per i salvati, il passaggio dalle “primizie” al possesso pieno dello Spirito” e per i reprobi la separazione definitiva, il taglio netto, tra l’anima e lo Spirito12.

 

L’anima e lo Spirito

San Basilio non si ferma però all’azione dello Spirito nella storia della salvezza e nella Chiesa. Da asceta e uomo spirituale, il suo interesse maggiore è per l’agire dello Spirito nella vita di ogni singolo battezzato. Pur senza stabilire ancora la distinzione e l’ordine delle tre vie che diventeranno classiche in seguito, egli mette meravigliosamente in luce l’azione dello Spirito Santo nella purificazione dell’anima dal peccato, nella sua illuminazione e nella divinizzazione che egli chiama anche “intimità con Dio”13.

Non possiamo fare a meno di leggere la pagina in cui, in continuo riferimento alla Scrittura, il santo descrive questa azione e lasciarci trasportare dal suo entusiasmo:

“Il rapporto di familiarità dello Spirito con l'a­nima, non è un avvicinamento nello spazio — come ci si potrebbe infatti accostare all'incorporeo corporal­mente? — ma piuttosto consiste nell'esclusione delle passioni, le quali, come conseguenza della loro attrazio­ne per la carne, giungono all'anima e la separano dall’unione con Dio. Purificati dalla lordura di cui ci si era impastati attra­verso il peccato e tornati alla bellezza naturale, come avendo restituito a una immagine regale l'antica forma mediante la purificazione, solo così è possibile accostar­si al Paraclito. Egli, come un sole, riconoscendo l'oc­chio purificato, ti mostrerà in se stesso l'immagine dell'Invisibile. Nella beata contemplazione dell'immagi­ne, vedrai la indicibile bellezza dell'archetipo. Per mez­zo di lui si elevano i cuori, i deboli sono presi per mano, coloro che progrediscono giungono alla perfezione. Egli, illuminando coloro che si sono purificati da ogni macchia, li rende spirituali per mezzo della comunione con lui. E come i corpi limpidi e trasparenti, quando un raggio li colpisce, diventano essi stessi splendenti e riflettono un altro raggio, così le anime portatrici dello Spirito sono illuminate dallo Spirito; esse stesse diven­gono pienamente spirituali e rinviano sugli altri la grazia. Da qui la preconoscenza delle cose future; la com­prensione dei misteri; la percezione delle cose nascoste; le distribuzioni di carismi, la cittadinanza celeste; la danza con gli angeli; la gioia senza fine; la permanenza in Dio; la somiglianza con Dio; il compimento dei desideri: divenire Dio”14.

Non è stato difficile per gli studiosi scoprire dietro il testo di Basilio immagini e concetti derivati dalle Enneadi di Plotino e parlare, a questo proposito, di una infiltrazione estranea nel corpo del cristianesimo. In realtà, si tratta di un tema squisitamente biblico e paolino che si esprime, come era doveroso, in termini familiari e significativi per cultura del tempo. Alla base di tutto Basilio non pone l’azione dell’uomo - la contemplazione -, ma l’azione di Dio e l’imitazione di Cristo. Siamo agli antipodi della visione di Plotino e di ogni filosofia. Tutto, per lui, comincia con il battesimo che è una nuova nascita. L’atto decisivo non è alla fine, ma all’inizio del cammino:

“Come nella corsa doppia degli stadi, una fermata e un riposo separano i percorsi in senso opposto, così anche nel cambiamento di vita appare necessario che una morte si frapponga alle due vite per mettere fine a ciò che precede e dare inizio alle cose successive. Come riuscire a discendere agli inferi? Imitando la sepoltura di Cristo per mezzo del battesimo”15.

Lo schema di fondo è lo stesso di Paolo. Nel capitolo sesto nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla della purificazione radicale dal peccato che avviene nel battesimo e nel capitolo ottavo descrive la lotta che, sostenuto dallo Spirito, il cristiano deve condurre, nel resto della sua esistenza, contro i desideri della carne, per avanzare nella vita nuova:

“Quelli che sono secondo la carne, pensano alle cose della carne; invece quelli che sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito.  Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace;  infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo;  e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio […]. Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne;  perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete” (Rom 8, 5-13).

Non c’è da stupirsi se per illustrare il compito descritto da san Paolo, Basilio abbia fatto uso di un’immagine di Plotino. Essa è all’origine di una delle metafore più universali della vita spirituale e parla a noi oggi non meno che ai cristiani di allora:

“Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita l’autore di una statua che deve riuscire bella: quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua. Similmente anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa’ che diventi lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il divino splendore della virtù ti brilli dinanzi”16.

Se la scultura, come diceva Leonardo da Vinci, è l’arte di levare, ha ragione il filosofo di paragonare la purificazione e la santità alla scultura. Per il cristiano non si tratta però di raggiungere un’astratta bellezza, di costruire una bella statua, ma di riportare alla luce e rendere sempre più splendente l’immagine di Dio che il peccato tende continuamente a ricoprire.

Si racconta che un giorno Miche­langelo, passeggiando in un cortile di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto di polvere e fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un improvviso lampo, disse ai presenti: "In questo masso di pietra è nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori!". E si mise a lavorare di scalpello per dare forma all'angelo che aveva intravisto. Così è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi di pietra grez­za, con addosso tanta "terra" e tanti pezzi inutili. Dio Padre ci guarda e dice: "In questo pezzo di pietra è nascosta l'immagine del mio Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me in cielo!" E per fare questo usa lo scalpello della croce, ci pota (cf. Gv. 15,2)

I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che vengono dall'esterno, ma collaborano anch'essi, per quanto è lo­ro concesso, imponendosi delle piccole, o grandi, mortificazioni volontarie e spezzando la loro volontà vecchia. Diceva un padre deserto:

"Se vogliamo es­sere completamente liberati, impariamo a spezzare la nostra volontà, e così, poco a poco, con l'aiuto di Dio, avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. È possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice: 'Guarda là!', ma lui ri­sponde al suo pensiero: 'No, non guardo!', e spezza la sua vo­lontà"17.

Questo antico Padre porta altri esempi tratti dalla vita monastica. Si sta parlando male di qualcuno, forse del superiore; il tuo uomo vecchio ti dice: "Partecipa anche tu; di' quello che sai. Ma tu ri­spondi: "No!". E mortifichi l'uomo vecchio … Ma non è difficile allungare la lista con altri atti di rinuncia, propri dello stato in cui si vive e dell’ufficio che si ricopre.

Finché si vive assecondando i desideri della carne noi somigliamo ai due famosi “Bronzi di Riace”, al momento in cui furono ripescati dal fondo del mare, tutti ricoperti di incrostazioni e appena riconoscibili come figure umane. Se vogliamo risplendere anche noi, come questi due capolavori dopo il loro restauro, la Quaresima è il tempo opportuno per mettere mano all’impresa.

 

Una mortificazione “spirituale”

C’è un punto in cui la trasformazione dell’ideale di Plotino in ideale cristiano è rimasta incompleta, o almeno poco esplicita. San Paolo, abbiamo sentito, dice: “mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. Lo Spirito non è dunque solo il frutto della mortificazione, ma anche ciò che la rende possibile; non è solo al termine del cammino, ma anche all’inizio. Gli apostoli non ricevettero lo Spirito a Pentecoste perché erano diventati fervorosi; diventarono fervorosi perché avevano ricevuto lo Spirito.

I tre Padri Cappadoci, erano fondamentalmente degli asceti e dei monaci; Basilio, in particolare, con le sue Regole monastiche (Asceticon!), fu il fondatore del monachesimo cenobitico. Questo li portò ad accentuare fortemente l’importanza dello sforzo dell’uomo. Il fratello e discepolo di Basilio, Gregorio Nisseno, scriverà in questa linea: “Nella misura in cui tu sviluppi le tue lotte per la pietà, in questa medesima misura si sviluppa anche la grandezza dell’anima per mezzo di queste lotte e di questi sforzi”18.

Nella generazione seguente, questa visione dell’ascesi verrà ripresa e sviluppata da autori spirituali, come Giovanni Cassiano, ma staccata dalla solida base teologica che aveva in Basilio e in Gregorio Nisseno. “È da questo punto –nota il Bouyer - che il pelagianesimo, ponendo lo sforzo umano prima della grazia, prenderà il suo avvio”19. Ma questo esito negativo non si può certo imputare a Basilio e ai Cappadoci.

Torniamo per concludere al motivo che rende la dottrina di Basilio sullo Spirito Santo perennemente valida e oggi, dicevo, più che mai attuale e necessaria: la sua concretezza e aderenza alla vita della Chiesa. Noi latini abbiamo un mezzo privilegiato per fare nostro e trasformare in preghiera questo stesso tipo di pneumatologia: l’inno del Veni creator.

Esso è da cima a fondo una contemplazione orante di ciò che lo Spirito concretamente fa: in tutta la terra e l’umanità come Spirito creatore; nella Chiesa, come Spirito di santificazione (dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale) e come Spirito carismatico (multiforme nei tuoi doni, dito della destra di Dio, che mette sulle labbra la parola); nella vita del singolo credente, come luce per la mente, amore per il cuore, guarigione per il corpo; come nostro alleato nella lotta contro il male e guida nel discernimento del bene.

Invochiamolo con le parole della prima strofa, chiedendogli di far passare anche il nostro mondo e la nostra anima dal caos al cosmo, dalla dispersione all’unità, dalla bruttezza del peccato alla bellezza della grazia.

Veni, Creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia
quae tu creasti pectora.

O Spirito che susciti il creato,
pervadi i tuoi fedeli nel profondo,
riversa la pienezza della grazia
nei cuori che creasti per te solo.

*

1 J.-P. Sartre, La Nausea, trad. ital, Milano 1984, p. 193 s.

2 Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae, q. 1,a.2,ad 2.

3 Cf. G. Prestige, God in Patristic Thought, London 1936, chap. XIII( trd. Ital., Dio nei pensiero dei Padri, Bologna, il Mulino, 1969, pp. 273 ss).

4 Gregorio Nazianzeno, Oratio 31, 5.10; cf. anche Oratio 6: “Fino a quando terremo nascosta la lampada sotto il moggio e non proclameremo a voce alta la piena divinità dello Spirito Santo?”

5 Cf. Lumen gentium, 12.

6 Giovanni Paolo II. “A concilio Costantinopolitano I”, in AAS 73, 1981, p. 521.

7 Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 38 (PG 32, 137B); trad. ital. di E. Cavalcanti, L’esperienza di Dio nei Padri Greci, Roma 1984.

8 Ambrogio, Sullo Spirito Santo, II, 32.

9 Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 39.

10 J.D.G.Dunn, Jesus and the Spirit, London 1988.

11 Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 39

12 Ib. XVI, 40.

13 Ib. XIX, 49.

14 Ib. IX,23.

15 Ib. XV,35.

16 Plotino, Enneadi I, 9 (trad. ital. di V. Cilento, vol. I, Laterza, Bari 1973, p. 108).

17 Doroteo di Gaza, Insegnamenti 1,20 (SCh 92, p. 177).

18 Gregorio Nisseno, De instituto christiano (ed. W. Jaeger, Two Rediscovered Works, Leida 1954, p.46).

19 L. Bouyer, La spiritualità dei Padri, Edizioni Dehoniane, Bologna 1968, p. 295.


http://www.zenit.org/article-30022?l=italian

 





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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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San Gregorio Nisseno
e la via [SM=g1740720] alla conoscenza di Dio


30 marzo 2012
La quarta predica di Quaresima

1. Le due dimensioni della fede

Sant’Agostino ha operato, a proposito della fede, una distinzione che è rimasta classica fino ad oggi: la distinzione tra le cose credute e l’atto di crederle: “Aliud sunt ea quae creduntur, aliud fides qua creduntur”[1], la fidea quae e la fides qua, come si dice in teologia. La prima è detta anche fede oggettiva, la seconda fede soggettiva. Tutta la riflessione cristiana sulla fede si svolge tra questi due poli.

Si delineano due orientamenti. Da una parte abbiamo quelli che accentuano l’importanza dell’intelletto nel credere e quindi la fede oggettiva, come assenso alle verità rivelate, dall’altra quelli che accentuano l’importanza della volontà e dell’affetto, quindi la fede soggettiva, il credere in qualcuno (“credere in”), piuttosto che credere qualcosa (“credere che”); da una parte quelli che accentuano le ragioni della mente e dall’altra quelli che, come Pascal, accentuano “le ragioni del cuore”.

In forme diverse questa oscillazione riappare a ogni tornante della storia della teologia: nel medio evo, nella diversa accentuazione tra teologia di san Tommaso e quella di san Bonaventura; al tempo della riforma tra la fede fiducia di Lutero e la fede cattolica informata dalla carità; più tardi tra la fede nei limiti della semplice ragione di Kant e la fede fondata sul sentimento di Schleiermacher e del romanticismo in genere; più vicino a noi tra la fede della teologia liberale e quella esistenziale di Bultmann, praticamente priva di ogni contenuto oggettivo.

La teologia cattolica contemporanea si sforza, come altre volte nel passato, di trovare il giusto equilibrio tra le due dimensioni della fede. Si è superata la fase in cui, per ragioni polemiche contingenti, tutta l’attenzione nei manuali di teologia aveva finito per concentrarsi sulla fede oggettiva (fides quae), cioè sull’insieme delle verità da credere. “L’atto di fede –si legge in un autorevole dizionario critico di teologia – nella corrente dominante di tutte le confessioni cristiane, appare oggi come la scoperta di un Tu divino.

L’apologetica della prova tende così a collocarsi dietro una pedagogia dell’esperienza spirituale che tende a iniziare a una esperienza cristiana, di cui si riconosce la possibilità inscritta a priori in ogni essere umano”[2]. In altre parole, più che far leva sulla forza di argomentazioni esterne alla persona, si cerca di aiutarla a trovare in se stessa la conferma della fede, cercando di risvegliare quella scintilla che c’è nel “cuore inquieto” di ogni uomo per il fatto di essere creato “a immagine di Dio”.

Ho fatto questa premessa perché ancora una volta essa ci permette di vedere l’apporto che i Padri possono dare al nostro sforzo per ridare alla fede della Chiesa il suo smalto e la sua forza d’urto. I più grandi tra di essi sono modelli insuperati di una fede che è oggettiva e soggettiva insieme, preoccupata, cioè, del contenuto della fede, cioè dell’ortodossia, ma al tempo stesso creduta e vissuta con tutto l’ardore del cuore.

L’Apostolo aveva proclamato: “corde creditur” (Rom 10,10), con il cuore si crede, e sappiamo che con la parola cuore, la Bibbia intende entrambe le dimensioni spirituali dell’uomo, la sua intelligenza e la sua volontà, il luogo simbolico della conoscenza e dell’amore. In questo senso i Padri sono un anello indispensabile per ritrovare la fede come la intende la Scrittura.

2. “Credo in un solo Dio”
In quest’ultima meditazione ci accostiamo ai Padri per rinnovare la nostra fede nell’oggetto primario di essa, in quello che si intende comunemente con la parola “credere” e in base a cui distinguiamo le persone tra credenti e non credenti: la fede nell’esistenza di Dio. Abbiamo riflettuto, nelle meditazioni precedenti, sulla divinità di Cristo, sullo Spirito Santo e sulla Trinità. Ma la fede nel Dio trino è lo stadio finale della fede, il “di più” su Dio rivelato da Cristo. Per giungere a questa pienezza bisogna prima aver creduto in Dio. Prima della fede nel Dio trino, c’è la fede nel Dio uno.

San Gregorio Nazianzeno ci ha ricordato la pedagogia di Dio nel rivelarsi a noi. Nell’Antico Testamento viene rivelato apertamente il Padre e velatamente il Figlio, nel Nuovo, apertamente il Figlio e velatamente lo Spirito Santo, ora, nella Chiesa, godiamo della piena luce della Trinità intera. Anche Gesù dice di astenersi dal dire agli apostoli quelle cose di cui essi non sono ancora in grado di “portare il peso” (Gv 16, 12). Dobbiamo seguire la stessa pedagogia anche noi nei confronti di coloro a cui vogliamo annunciare oggi la fede.

La Lettera agli Ebrei dice qual è il primo passo per accostarsi a Dio: “Chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Eb 11,6). È questo il fondamento di tutto il resto che rimane tale anche dopo che si è creduto nella Trinità. Cerchiamo di vedere come i Padri ci possono essere di ispirazione da questo punto di vista, tenendo sempre presente che il nostro scopo principale non è apologetico, ma spirituale, orientato cioè a consolidare la nostra fede, più che a comunicarla ad altri. La guida che scegliamo per questo cammino è san Gregorio Nisseno.

Gregorio Nisseno (331- 394), fratello carnale di san Basilio, amico e contemporaneo di Gregorio Nazianzeno, è un Padre e dottore della Chiesa di cui si va scoprendo sempre più chiaramente la statura intellettuale e l’importanza decisiva nello sviluppo del pensiero cristiano. “Uno dei pensatori più potenti ed originali che conosca la storia della Chiesa” (L. Bouyer), “il fondatore di una nuova religiosità mistica ed estatica” (H. von Campenhausen).

I Padri non si sono trovati, come noi, a dover dimostrare l’esistenza di Dio, ma l’unicità di Dio; non hanno dovuto combattere l’ateismo, ma il politeismo. Vedremo, però, come la strada da essi tracciata per giungere alla conoscenza del Dio unico, è la stessa che può portare l’uomo d’oggi alla scoperta di Dio tout court.

Per valorizzare il contributo dei Padri e in particolare del Nisseno, è necessario sapere come si presentava il problema dell’unicità di Dio a loro tempo. A mano a mano che veniva esplicitandosi la dottrina della Trinità, i cristiani si videro esposti alla stessa accusa che essi avevano sempre rivolto ai pagani: quella di credere in più divinità. Ecco perché il credo dei cristiani che, in tute le sue varie redazioni, per tre secoli, era cominciato con le parole “Credo in Dio” (Credo in Deum), a partire dal IV secolo, registra una piccola ma significativa aggiunta che non sarà più omessa in seguito: “Credo in un solo Dio (Credo in unum Deum).

Non è necessario rifare qui il cammino che portò a questo risultato; possiamo partire senz’altro dalla conclusione di esso. Verso la fine del IV secolo si concluse la trasformazione del monoteismo dell’Antico Testamento nel monoteismo trinitario dei cristiani. I latini esprimevano i due aspetti del mistero con la formula “una sostanza e tre persone”, i greci con la formula “tre ipostasi, una sola ousia”. Dopo un serrato confronto, il processo si concluse apparentemente con un accordo totale tra le due teologie. “Si può concepire – esclamava il Nazianzeno – un accordo più pieno e dire più assolutamente di così la stessa cosa, anche se con parole diverse?”[3].

Una differenza in realtà rimaneva tra i due modi di esprimere il mistero; oggi si è soliti esprimerla così: i Greci e i latini, nella considerazione della Trinità, muovono da versanti opposti; i greci partono dalle persone divine, cioè dalla pluralità, per giungere all’unità di natura; i latini, viceversa, partono dall’unità della natura divina, per giungere alle tre persone. “Il latino considera la personalità come un modo della natura; il greco considera la natura come il contenuto della persona”.[4]

Io credo che la differenza si possa esprimere anche in altro modo. Entrambi, latini e greci, partono dall’unità di Dio; sia il simbolo greco che quello latino comincia dicendo: “Credo in un solo Dio” (Credo in unum Deum”!). Soltanto che quest’unità per i latini è concepita ancora come impersonale o pre-personale; è l’essenza di Dio che si specifica poi in Padre, Figlio e Spirito santo, senza, naturalmente, essere pensata come preesistente alle persone.

Per i greci, invece, si tratta di un’unità già personalizzata, perché per essi “l’unità è il Padre, dal quale e verso il quale si contano le altre persone”.[5] Il primo articolo del credo dei greci suona anch’esso “Credo in uno solo Dio Padre onnipotente” (Credo in unum Deum Patrem omnipotentem”), solo che “Padre onnipotente” qui non è staccato da ‘unum Deum’, come nel credo latino, ma fa un tutt’uno con esso: “Credo in un solo Dio che è il Padre onnipotente”.

Questo è il modo in cui concepiscono l’unicità di Dio tutti e tre i Cappadoci, ma più di tutti san Gregorio Nisseno. L’unità delle tre divine persone è data, per lui, dal fatto che il Figlio è perfettamente (sostanzialmente) “unito” al Padre, come lo è anche lo Spirito Santo attraverso il Figlio” [6]. È questa precisa tesi che fa difficoltà per i latini che vedono in essa il pericolo di subordinare il Figlio al Padre e lo Spirito all’uno e all’altro: “Il nome ‘Dio’ – scrive Agostino – indica tutta la Trinità, non il solo Padre”.[7]

Dio è il nome che diamo alla divinità quando la consideriamo non in se stessa, ma in relazione agli uomini e al mondo, perché tutto ciò che essa opera fuori di sé lo opera congiuntamente, come unica causa efficiente. La conclusione importante che possiamo trarre da tutto ciò è che la fede cristiana è anch’essa monoteistica; i cristiani non hanno rinunciato alla fede ebraica in un solo Dio, l’hanno piuttosto arricchita, dando un contenuto e un senso nuovo e meraviglioso a questa unità. Dio è uno, ma non solitario!

3. “Mosè entrò nella nube”

Perché scegliere san Gregorio Nisseno come guida alla conoscenza di questo Dio davanti al quale stiamo come creature dinanzi al Creatore? Il motivo è che questo Padre, per primo nel cristianesimo, ha tracciato una via alla conoscenza di Dio che si rivela particolarmente rispondente alla situazione religiosa dell’uomo d’oggi: la via alla conoscenza che passa attraverso…la non-conoscenza.

L’occasione gli fu offerta dalla polemica con l’eretico Eunomio, il rappresentante di un arianesimo radicale contro cui scrivono tutti i grandi Padri vissuti nell’ultimo scorcio del IV secolo: Basilio, Gregorio Nazianzeno, il Crisostomo e, più acutamente di tutti il Nisseno. Eunomio identificava l’essenza divina nell’essere “ingenerato” (agennetos). In questo senso, per lui essa è perfettamente conoscibile e non presenta alcun mistero; noi possiamo conoscere Dio non meno di quanto lui conosca se stesso.

I Padri reagirono in coro sostenendo la tesi della “inconoscibilità di Dio” nella sua realtà intima. Ma mentre gli altri si fermarono a una confutazione di Eunomio basata più che altro sulle parole della Bibbia, il Nisseno, si spinse oltre dimostrando che proprio il riconoscimento di questa inconoscibilità è la via alla vera conoscenza (theognosia) di Dio. Lo fa riprendendo un tema già abbozzato da Filone[8]: quello di Mosè che incontra Dio entrando nella nube. Il testo biblico è Esodo 24, 15-18 ed ecco il suo commento:

“La manifestazione di Dio avviene dapprima per Mosè nella luce; in seguito egli ha parlato con lui nella nube, infine divenuto più perfetto, Mosè contempla Dio nella tenebra. Il passaggio dall’oscurità alla luce è la prima separazione dalle idee false ed erronee su Dio; l’intelligenza più attenta alle cose nascoste, conducendo l’anima attraverso le cose visibili alla realtà invisibile, è come una nube che oscura tutto il sensibile e abitua l’anima alla contemplazione di quello che è nascosto; infine l’anima che ha camminato per queste vie verso le cose celesti, avendo lasciato le cose terrestri per quanto è possibile alla natura umana, penetra nel santuario della conoscenza divina (theognosia) circondata da ogni parte dalla tenebra divina” [9].

La vera conoscenza e la visione di Dio consistono “nel vedere che egli è invisibile, perché colui che l’anima cerca trascende ogni conoscenza, separato da ogni parte dalla sua incomprensibilità come da una tenebra” [10]. In questo stadio finale della conoscenza, di Dio non si ha un concetto, ma quello che il Nisseno, con un’espressione divenuta famosa, definisce “un certo sentimento di presenza” (aisthesin tina tes parusia) [11].

Un sentire non con i sensi del corpo, s’intende, ma con quelli interiori del cuore. Questo sentimento non è il superamento della fede, ma la sua attuazione più alta: “Con la fede – esclama la sposa del Cantico (Cant 3, 6) – ho trovato l’amato”. Non lo “comprende”; fa di meglio, lo “prende”! [12].

Queste idee del Nisseno hanno esercitato un influsso immenso nel pensiero cristiano posteriore, al punto da essere considerato il fondatore stesso della mistica cristiana. Attraverso Dionigi Areopagita e Massimo il Confessore che riprendono da lui questo tema, il suo influsso si estende dal mondo greco a quello latino. Il tema della conoscenza di Dio nella tenebra ritorna in Angela da Foligno, nell’autore della Nube della non-conoscenza, nel tema della “dotta ignoranza” di Nicola Cusano, in quella della “notte oscura” di Giovanni della Croce e in molti altri.

4. Chi umilia davvero la ragione?

Ora vorrei mostrare come l’intuizione di san Gregorio Nisseno può aiutare noi credenti ad approfondire la nostra fede e a indicare all’uomo moderno, divenuto scettico delle “cinque vie” della teologia tradizionale, un qualche sentiero che lo porti a Dio.

La novità introdotta dal Nisseno nel pensiero cristiano è che per incontrare Dio bisogna oltrepassare i confini della ragione. Siamo agli antipodi del progetto di Kant di mantenere la religione “dentro i confini della semplice ragione”. Nella cultura odierna secolarizzata si è andati al di là di Kant: questi in nome della ragione (almeno della ragion pratica) “postulava” l’esistenza di Dio, i razionalisti posteriori negano anche questo.

Si capisce da ciò quanto sia attuale il pensiero del Nisseno. Egli dimostra che la parte più alta della persona, la ragione, non è esclusa dalla ricerca di Dio; che non si è costretti a scegliere tra il seguire la fede e il seguire l’intelligenza. Entrando nella nube, cioè credendo, la persona umana non rinuncia alla propria razionalità, ma la trascende, che è una cosa ben diversa. Il credente dà fondo, per così dire, alle risorse della propria ragione, le permette di porre il suo atto più nobile, perché, come afferma Pascal, “l’atto supremo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano” [13] .

San Tommaso d’Aquino, considerato giustamente uno dei più strenui difensori delle esigenze della ragione, ha scritto: “Si dice che al termine della nostra conoscenza, Dio è conosciuto come lo Sconosciuto perché il nostro spirito è pervenuto all’estremo della sua conoscenza di Dio quando alla fine si accorge che la sua essenza è al di sopra di tutto ciò che può conoscere quaggiù” [14].

Nell’istante stesso che la ragione riconosce il suo limite, lo infrange e lo supera. Capisce che non può capire, “vede che non può vedere”, diceva il Nisseno, ma comprende anche che un Dio compreso non sarebbe più Dio. È ad opera della ragione che si produce questo riconoscimento, che è, perciò, un atto squisitamente razionale. Essa è, alla lettera, una “dotta ignoranza”[15] , un ignorare “a ragion veduta”.

Si deve dunque dire piuttosto il contrario, e cioè che pone un limite alla ragione e la umilia colui che non le riconosce questa capacità di trascendersi. “Finora -ha scritto Kierkegaard- si è sempre parlato così: ‘Il dire che non si può capire questa o quella cosa, non soddisfa la scienza che vuol capire’. Ecco lo sbaglio. Si deve dire proprio il contrario: qualora la scienza umana non voglia riconoscere che vi è qualcosa che essa non può capire, o -in modo ancor più preciso- qualcosa di cui essa con chiarezza può ‘capire che non può capire’, allora tutto è sconvolto. È pertanto un compito della conoscenza umana capire che vi sono e quali sono le cose che essa non può capire”[16] .

Ma di che genere di oscurità si tratta? Della nube che, a un certo punto, si frappose tra gli egiziani e gli ebrei è detto che essa era “tenebrosa per gli uni e luminosa per gli altri” (cf Es14, 20). Il mondo della fede è oscuro per chi lo guarda dal di fuori, ma è luminoso per chi vi entra dentro. Di una luminosità speciale, del cuore più che della mente. Nella Notte oscura di san Giovanni della Crocera (una variante del tema della nube del Nisseno!) l’anima dichiara di procedere per la sua nuova strada, “senza altra guida e luce, fuor di quella che in cuore mi riluce”. Una luce, però, che è “più sicura che il sol di mezzogiorno”[17].

La beata Angela da Foligno, una delle massime rappresentanti della visione di Dio nelle tenebre, dice che la Madre di Dio “fu tanto ineffabilmente unita alla somma e assolutamente indicibile Trinità, che in vita godette della gioia di cui godono i santi in cielo, la gioia dell’incomprensibilità (gaudium incomprehensibilitatis), perché capiscono che non si può capire”[18].

È un complemento stupendo alla dottrina di Gregorio di Nissa sulla inconoscibilità di Dio.Ci assicura che lungi dall’umiliarci e privarci di qualcosa, tale inconoscibilità è fatta per riempire l’uomo di entusiasmo e di gioia; ci dice che Dio è infinitamente più grande, più bello, più buono, di quanto riusciremo mai a pensare, e che è tutto questo per noi, perché la nostra gioia sia piena; perché non ci sfiori ninimamente il pensiero che potremmo annoiarci a passare l’eternità vicino a lui!

Un’altra idea del Nisseno che si rivela utile per un confronto con la cultura religiosa moderna è quella del “sentimento di una presenza” che egli pone al vertice della conoscenza di Dio. La fenomenologia religiosa ha messo in luce, con Rudolph Otto, l’esistenza di un dato primario, presente, in gradi diverse di purezza, in tutte le culture e in tutte le età che egli chiama “sentimento del numinoso”, cioè il senso, misto di terrore e di attrazione, che coglie improvvisamente l’essere umano di fronte al manifestarsi del soprannaturale o del soprarazionale[19].

Se la difesa della fede, secondo gli ultimi orientamenti dell’apologetica ricordati all’inizio, “si colloca dietro una pedagogia dell’esperienza spirituale, di cui si riconosce la possibilità inscritta a priori in ogni essere umano”, non possiamo trascurare l’aggancio che ci offre la moderna fenomenologia religiosa.

Certo, il “sentimento di una certa presenza” del Nisseno è cosa diversa dal confuso senso del numinoso e dal brivido del soprannaturale, ma le due cose hanno qualcosa in comune. Uno è l’inizio di un cammino verso la scoperta del Dio vivente, l’altro ne è il termine.

La conoscenza di Dio, diceva il Nisseno, comincia con un passaggio dalle tenebre alla luce e termina con un passaggio dalla luce alla tenebra. Non si giunge al secondo senza passare per il primo; in altre parole, senza essersi prima purificati dal peccato e dalle passioni. “Avrei già abbandonato i piaceri -dice il libertino- se avessi la fede. Ma io rispondo, dice Pascal: Avresti già la fede se avessi abbandonato i piaceri”[20].

L’immagine che, grazie a Gregorio Nisseno, ci ha accompagnati in tutta questa meditazione, è stata quella di Mosè che sale sul monte Sinai ed entra nella nube. L’avvicinarsi della Pasqua ci spinge ad andare oltre questa immagine, di passare dal simbolo alla realtà. C’è un altro monte dove un altro Mosè ha incontrato Dio “mentre si faceva buio su tutta la terra” (Mt 27,45). Sul monte Calvario l’uomo Dio, Gesù di Nazareth, ha unito per sempre l’uomo a Dio. Al termine del suo Itinerario della mente a Dio, San Bonaventura scrive:

“Dopo tutte queste considerazioni, ciò che rimane alla nostra mente è di elevarsi speculando non solo al di sopra di questo mondo sensibile, ma anche al di sopra di se stessa; e in questa ascesa Cristo è via e porta, Cristo è scala e veicolo…Colui che guarda attentamente questo propiziatorio fissandolo sospeso in croce, con fede, speranza e carità, con devozione, ammirazione, esultanza, venerazione, lode e giubilo, compie con lui la Pasqua, cioè il passaggio”[21].

Che il Signore Gesù ci conceda di fare questa bella e santa Pasqua con lui!

*

[1] Agostino, De Trinitate XIII,2,5)

[2] J.-Y. Lacoste et N. Lossky, “Foi“ , in Dictionnaire critique de Théologie, Presses Universitaires de France 1998, p.479).

[3] Gregorio Nazianzeno, Oratio 42, 16 (PG 36, 477).

[4] Th. De Régnon, Études de théologie positive sur la Sainte Trinité, I, Paris 1892, 433.

[5] S. Gregorio Naz., Or. 42, 15 (PG 36, 476).

[6] Cf. Gregorio Nisseno, Contra Eunomium 1,42 (PG 45, 464)

[7] Agostino, De Trinitate, I, 6, l0; cf. anche IX, 1, 1 («credamus Patrern et Filium et Spiritum Sanctum esse unum Deum»).

[8] Cf. Filone Al., De posteritate, 5,15.

[9] Gregorio Niss., Omelia XI sul Cantico (PG 44, 1000 C-D).

[10] Vita di Mosè, II,163 (SCh 1bis, p. 210 s.).

[11] Omelia XI sul Cantico (PG 44, 1001B).

[12] Omelia VI sul Cantico (PG 44, 893 B-C).

[13] B.Pascal, Pensieri 267 Br.

[14] Tommaso, In Boet. Trin. Proem. q.1,a.2, ad 1.

[15] Agostino, Epistola 130,28 (PL 33, 505).

[16] S. Kierkegaard, Diario VIII A 11.

[17] Giovanni della Croce, Notte oscura, canto dell’anima, str.3-4.

[18] Il libro della beata Angela da Foligno, ed. Quaracchi 1985, p. 468.

[19] R. Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano 1966.

[20] Pascal, Pensieri, 240 Br.

[21] Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, VII, 1-2 (Opere di S. Bonaventura, V,1, Roma, Città Nuova 1993, p. 564).

[SM=g1740771]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740733] Vogliamo ricordare che nel 2007 il santo Padre Benedetto XVI ha dedicato le Catechesi del Mercoledì ai Santi Padri (qualcuno anche non ufficialmente dichiarato Padre come Tertulliano o Origene, ma indicativo come rispetto e per il proprio tempo significativo nel quale hanno dato un grande contributo alla formazione del Corpus Dottrinale della Chiesa...)...

Per una cronologia corretta, partite dal basso verso l'alto di questi collegamenti....






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[SM=g1740771] vi ricordiamo anche le Catechesi dedicate agli Apostoli e la Chiesa: CLICCATE QUI

per la cronologia iniziate da sotto.....






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9 aprile 2008, San Benedetto da Norcia
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La testimonianza dei Padri della Chiesa (Prima parte)


La trasmissione della fede nel mondo di oggi


di monsignor Enrico Dal Covolo,
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense

ROMA, lunedì, 2 luglio 2012 (ZENIT.org).- Prima di entrare nell'argomento specifico che mi è stato assegnato, conviene affrontare una questione di fondo: ma… la fede può essere «trasmessa»?

Se la fede, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), è un atto personale («è la libera risposta dell'uomo all'iniziativa di Dio, che si rivela», n. 166), questa decisione non può essere «trasmessa». La fede di Abramo – tanto per fare un esempio illustre – è il suo personaleatto di obbedienza alla Parola di Dio, e questo atto è solo suo. Può essere indicato come esempio, ma per essere trasmesso deve essere ripetuto da altri, che facciano propria la medesima obbedienza a Dio.

Tuttavia – come sappiamo bene – non c'è solo questo aspetto soggettivoe personale della fede: c'è anche un aspetto oggettivo, fatto di contenuti (enunciati, riti, comportamenti), che sono oggetto, appunto, di insegnamento, e che quindi possono essere trasmessi. Tutto questo ci permette «di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla, e di viverne sempre più intensamente» (CCC, n. 170).

In questo senso, già nella Lettera di Giuda troviamo l'esortazione «a combattere per la fede, che fu trasmessa ai santi», cioè a tutti i credenti, «una volta per sempre» (3).

È importante tenere presenti questi due aspetti dell'esperienza di fede. Essi articolano, in qualche modo, le nostre riflessioni.

Le distribuiamo in tre parti.

La prima parte sarà guidata da Ireneo (+ 202). Nato in Asia Minore, discepolo del vescovo Policarpo di Smirne, egli rappresenta in qualche modo i Padri della Chiesa d'Oriente; la secondae la terza parte, invece, saranno dominate da altre due grandi figure di vescovi, Ambrogio (+ 397) e Agostino (+ 430), alfieri della tradizione occidentale.

Più in particolare, nella prima parte, attenta soprattutto agli aspetti dottrinali, vedremo con quali criteri Ireneo ha creato il più antico «catechismo della dottrina cristiana». Qui parleremo soprattutto della trasmissione della fede in senso oggettivo, cioè dei contenutiin cui crediamo.

Nella seconda parte, invece, parlando di Ambrogio e di Agostino, vedremo in che modo i nostri Padri testimoniavano la fede come scelta personale di vita: perché, se è vero che l'atto di fede personale non può essere «trasmesso», esso può e deve essere efficacemente «testimoniato».

Nella terza parte, infine, vedremo come questi due formidabili pastori, Ambrogio e Agostino, educavano il loro popolo nella fede.

A mano a mano che procederemo nelle nostre riflessioni, ci accorgeremo che, in realtà, trasmettere la fede, testimoniare la fede, educare nella fedesono distinzioni che valgono fino a un certo punto nella mentalità e nella prassi pastorale dei nostri Padri.

Piuttosto, essi rimangono sempre consapevoli che l'integrità della dottrina e la testimonianza della vita devono procedere di pari passo, e sono entrambe indispensabili nella trasmissione e nel cammino della fede.

1. Ireneo di Lione: quale fede trasmettere? Quali sono i contenuti oggettivi della fede?

Ireneo non è un cattedratico, ma un uomo di fede e un pastore. Del buon pastore ha il senso della misura, la ricchezza della dottrina, l'ardore missionario.

Come scrittore, il suo scopo è duplice: quello di difendere la vera dottrina dagli assalti degli eretici (gli gnostici, in particolare), e quello di esporre con chiarezza le verità della fede.

A questi fini corrispondono esattamente le due opere che di lui ci rimangono: lo Smascheramento e confutazione della falsa gnosi (ovvero Contro le eresie, come citeremo noi; l'originale greco è andato perduto, ma ne possediamo una traduzione latina, verosimilmente assai letterale), e l'Esposizione della predicazione apostolica (il più antico «catechismo della dottrina cristiana»; neppure di quest'opera possediamo l'originale, ma all'inizio del secolo scorso ne è stata scoperta una traduzione armena).

In definitiva, Ireneo è il campione della lotta contro lo gnosticismo. Ma la sua opera va ben oltre la semplice confutazione dell'eresia. Si potrebbe dire – con un po' di enfasi – che Ireneo è il primo «teologo sistematico» della Chiesa. Tra i punti più importanti della sua dottrina c'è proprio la questione della regola della fedee della sua trasmissione.

La cura di conservare e spiegare rettamente la regola della fede – espressa nel Credo degli apostoli, e da loro trasmessa ai vescovi (il Credo dell'apostolo Giovanni è lo stesso del suo discepolo Policarpo, vescovo di Smirne, ed è il Credodi Ireneo, vescovo di Lione, discepolo di Policarpo) – spetta solo alla Chiesa, che proprio per questo ha ricevuto lo Spirito Santo.

Perciò il vero insegnamento è quello impartito dai vescovi, che possono provare di averlo ricevuto per mezzo di una tradizione ininterrotta dagli apostoli, in quanto Cristo lo ha affidato a loro. Occorre considerare in modo speciale l'insegnamento della Chiesa di Roma, massima e antichissima, che ha «maggiore apostolicità», perché trae origine dalle colonne del collegio apostolico, Pietro e Paolo: con lei devono accordarsi tutte le Chiese.

Proprio con questi argomenti Ireneo confuta dalle fondamenta le pretese degli eretici: anzitutto essi non posseggono la verità, perché non sono di origine apostolica; in secondo luogo la verità, e quindi la salvezza, non sono privilegio o monopolio di pochi, ma tutti le possono raggiungere attraverso la predicazione dei successori degli apostoli e soprattutto del vescovo di Roma.

In particolare – sempre polemizzando con il carattere segreto ed elitario della tradizione gnostica, e notandone l'esito multiplo e contraddittorio –, Ireneo si preoccupa di illustrare il genuino concetto di tradizione apostolica, che possiamo riassumere in tre punti:

a) la tradizione apostolica è pubblica, non privata né segreta. Per Ireneo non c'è alcun dubbio che la fede insegnata dalla Chiesa è quella ricevuta dagli apostoli e da Gesù. Non c'è altro insegnamento che questo. Pertanto chi vuole conoscere la vera dottrina basta che conosca «la tradizione che viene dagli apostoli e la fede annunciata agli uomini», tradizione e fede che «sono giunte fino a noi per successione di vescovi» (Contro le eresie3,3,3-4). Al punto che, «anche se gli apostoli non ci avessero lasciato le Scritture, si dovrebbe seguire l'ordine della tradizione, che hanno trasmesso coloro a cui [gli apostoli stessi] affidavano le Chiese» (3,4,1).

Di qui l'importanza della «successione apostolica» rappresentata dai vescovi, i quali godono del «carisma certo della verità» (4,26,2).

Secondo Ireneo, parte integrante di questo carisma episcopale non è soltanto la purezza della dottrina, ma anche una vita esemplare e irreprensibile (qui ritorna la questione dei rapporti inseparabili fra trasmettere la fede, testimoniare la fede, educare nella fede);

b) la tradizione apostolica è unica. Mentre infatti lo gnosticismo si suddivide in molteplici sètte, la tradizione ecclesiale è unica, grazie al suo contenuto, che Ireneo – come già abbiamo accennato – chiama regula fidei o veritatis: un contenuto sempre identico, nonostante la diversità delle lingue e delle culture.

Così si esprime al riguardo il vescovo di Lione: «Ricevuto questo messaggio e questa fede, la Chiesa, benché disseminata in tutto il mondo, lo custodisce con cura, come se abitasse una casa sola; allo stesso modo crede in queste verità, come se avesse una sola anima e un solo cuore; in pieno accordo con queste verità proclama, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca. Le lingue del mondo sono diverse, ma la potenza della tradizione è unica e la stessa. Né le Chiese fondate nelle Germanie hanno ricevuto o trasmettono una fede diversa, né quelle fondate nelle Spagne o tra i Celti o nelle regioni orientali o in Egitto o in Libia o nel centro del mondo» (1,10,2).

In questo modo Ireneo, guardando alla diffusione della Chiesa nell'ecumene, estende lo sguardo da Roma, «centro del mondo», verso i quattro punti cardinali, descrivendo un'Europa «allargata», ormai invasa dal Vangelo e dalla sua potenza unificatrice.

Diciamo tra parentesi che – grazie a questo atteggiamento, con cui la Chiesa dei Padri «in pieno accordo proclama, insegna e trasmette le verità ricevute, come se avesse una sola bocca» – l'insegnamento dei Padri diventa un fondamento ineludibile per l'identità culturale dell'Europa, oggi rinnegata di fatto da molte riletture cosiddette storiche;

c) la tradizione apostolica è pneumatica. Non si tratta di una trasmissione affidata all'abilità degli uomini, più o meno dotti, ma allo Spirito di Dio, che fa della tradizione una realtà divina. È questa la «vita» della Chiesa, ciò che rende la Chiesa sempre fresca e giovane, cioè feconda con i suoi molteplici carismi. Chiesa e Spirito, per Ireneo, sono inseparabili: «Questa (fede)», leggiamo ancora nel suo terzo libro Contro le eresie, «l'abbiamo ricevuta dalla Chiesa e la custodiamo: essa, per opera dello Spirito di Dio, come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene.

Alla Chiesa infatti è stato affidato il dono di Dio (...), affinché tutte le sue membra, partecipandone, siano vivificate (...). Infatti nella Chiesa, dice (Paolo), Dio ha posto apostoli, profeti e maestri e tutta la rimanente operazione dello Spirito. Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa, ma si privano della vita a causa delle loro false dottrine e azioni perverse. Perché dove è la Chiesa, lì è anche lo Spirito di Dio; e dove è lo Spirito di Dio, lì è la Chiesa e ogni grazia» (3,24,1).

Come si vede dalle citazioni riportate (e molte altre se ne potrebbero aggiungere, anche in riferimento all'Esposizione della predicazione apostolica), Ireneo non si limita a definire il concetto di trasmissione della fede, ma lo illustra in modo vitale. La fede va trasmessa quale deve realmente essere: cioè pubblica, unica, pneumatica. A partire da ciascuna di queste caratteristiche si può avviare un fecondo discernimento per una corretta trasmissione della fede, nell'oggi della Chiesa.

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La testimonianza dei Padri della Chiesa (Seconda parte)

 

La trasmissione della fede nel mondo di oggi

 

di monsignor Enrico Dal Covolo
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense

ROMA, martedì, 3 luglio 2012 (ZENIT.org).-

2. Ambrogio e Agostino: come testimoniare la scelta della fede?

Parliamo anzitutto dell'incontro tra i due, Ambrogio e Agostino, e da questo incontro ricaveremo alcuni tratti significativi circa la «testimonianza della fede» secondo i nostri Padri.

Dobbiamo ricomporre, con un po' di pazienza, le circostanze di questo celebre incontro, certamente uno dei fatti più notevoli della storia della Chiesa.1

Tormentato da un'inquieta ricerca della verità, deluso dalle dottrine manichee, frustrato nell'insegnamento dall'indisciplina degli allievi, Agostino nel 383 lascia Cartagine e si reca a Roma.

Ha ventinove anni, e si potrebbe dire che ha ormai raggiunto una piena maturità di vita. In realtà, nel suo intimo egli è più perplesso e angosciato che mai: nulla sembra offrirgli salde garanzie per il conseguimento di quella verità, a cui aspira con tutte le forze, come il senso ultimo della sua esistenza. Per di più nell'insegnamento incontra diverse difficoltà, perché – come egli stesso confessa – «a Cartagine la libertà è del tutto sfrenata, e gli studenti come delle furie turbano la disciplina» (Confessioni 5,8).

Così la partenza di Agostino da Cartagine in quella notte del 383 sa molto di una fuga. Monica si rende conto della fase critica che sta attraversando suo figlio, e non vorrebbe assolutamente lasciarlo partire in quello stato. Agostino deve ricorrere a uno stra­tagemma. Mia madre – racconta egli stesso – «pianse dirottamente, seguen­domi fino al mare. Allora io l'ingannai, fingendo di voler stare lì, per non lasciare solo un amico ad aspettare che si alzasse il vento per levare l'ancora. Riuscii a convincerla che, se non voleva tornare indietro senza di me, si ritirasse almeno a passare la notte in una chiesetta, vicino al luogo dov'era la nave; e in quella notte io partii di nascosto, ed ella rimase a piangere e a pregare» (ibidem).

In verità né Monica né Agostino se ne rendono conto, ma la fuga da Cartagine costituisce l'inizio di quell'episodio assoluta­mente centrale della vita di Agostino, che è l'incontro con Ambrogio, culminato nella conversione e nel battesimo.

Ma in un primo momento la destinazione di Agostino, esule da Cartagine, fu Roma. Se non che l'impatto con l'ambiente romano fu un'altra terribile delusione. Agostino si era illuso che gli studenti romani fossero più disciplinati di quelli africani: e invece si accorge che a Roma gli allievi sono solo più imbroglioni, e che non pagano neppure i loro insegnanti.

Agostino sta giusto facendo questa triste esperienza, quando al prefetto di Roma, Simmaco, giunge una richiesta dalla corte imperiale (che in quel momento aveva la sua sede a Milano): si è resa vacante la cattedra di eloquenza allo Studio Pubblico, e si vuole coprirla con un retore di sicuro prestigio. Il titolare della cattedra di eloquenza a Milano, infatti, è in qualche modo l'oratore ufficiale della corte imperiale. Simmaco pensa subito ad Agostino, e questi accetta. Portato dal cursus publicus (una sorta di vettura ufficiale, di rappresentanza), Agostino giunge a Milano.

Siamo ormai nell'autunno del 384.

Subito il gio­vane cattedratico dello Studio Pubblico inizia – come di consuetudine – la sua visita di cortesia alle varie autorità cittadine, e così incontra pure il vescovo Ambrogio.

La nostra fonte è ancora il libro quinto delle Confessioni.

Qui Agostino narra che Ambrogio lo accolse satis episcopaliter. È un avverbio un po' misterioso: che cosa intendeva dire Agostino? Probabilmente, che Ambrogio lo accolse con la dignità propria di un vescovo, con paternità, ma insieme con qualche distacco.

È certo che Agostino rimase affascinato da Ambrogio; ma è altrettanto certo che un incontro a tu per tu su ciò che ad Agostino maggiormente interessava, e cioè sui problemi fondamentali della fede, veniva di giorno in giorno differito, tanto che qualcuno ha potuto affermare che Ambrogio era molto freddo nei confronti di Agostino, e che poco o nulla egli ebbe a che fare con la sua conversione.

Eppure Ambrogio e Agostino s'incontrarono più volte. Però Ambrogio teneva il discorso sulle generali, facendo per esempio ad Agostino gli elogi di Monica, e congratulandosi con lui per avere una simile madre. Quando poi Agostino si recava appositamente da Ambrogio, lo trovava regolarmente impegnato con caterve di per­sone, piene di problemi per le cui necessità egli si prodigava; oppure, quando non era con loro (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il necessario, o ali­mentava lo spirito con letture.

E qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi. Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della pro­clamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva: che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità assolutamente singolare di conoscenza e di comprensione delle Scritture.

Agostino siede spesso in disparte, con discrezione, ad osser­vare Ambrogio; poi, non osando disturbarlo, se ne va in silenzio. «Così», conclude Agostino, «non mi era mai possibile interpellare, su ciò che mi interessava, l'animo di quel santo profeta, se non per questioni trattabili rapidamente. Invece quei miei travagli interiori lo avrebbero voluto disponibile a lungo per potersi riversare su di lui; ma questo non succedeva mai» (ibidem 6,3).

Sono parole molto gravi: tanto che ci verrebbe da dubitare della stessa sollecitudine pastorale di Ambrogio e della sua reale attenzione alle persone.

Personalmente, invece, sono convinto che quella di Ambrogio nei confronti di Agostino fosse un'autentica strategia, e che essa rappresenti efficacemente la figura di Ambrogio nel suo modo di trasmettere e di testimoniare la fede.

Ambrogio è informato della situazione spirituale di Agostino, oltre al resto perché gode delle confidenze e della piena fiducia di Monica. Con questo precedente, è credibile che Ambrogio non s'ac­corgesse di Agostino, quando questi entrava da lui, e pieno di sog­gezione si sedeva in disparte, mentre egli leggeva? No, non è credi­bile. Ma il vescovo non riteneva opportuno impegnarsi in un con­traddittorio dialettico con Agostino, dal quale lui, Ambrogio, avrebbe potuto anche uscire perdente...

Così Ambrogio sospende le parole, lascia parlare i fatti, e con la sua prassi afferma che la trasmissione della fede non si realizza attraverso le parole soltanto, ma deve passare soprattutto attraverso la testimonianza della vita.

Quali sono questi fatti?

Anzitutto, la testimonianza della vita di Ambrogio, intessuta di preghiera e di servizio nei confronti dei poveri. E Agostino rimane salutarmente impressionato dal fatto che Ambrogio si dimostra uomo di Dio e uomo totalmente donato al servizio dei fratelli, soprattutto dei più poveri. La preghiera e la carità, testimo­niate da questo formidabile pastore, subentrano alle parole e ai ragionamenti umani.

L'altro fatto che parla ad Agostino è la testimonianza della Chiesa milanese. Una Chiesa forte nella fede, radunata come un corpo solo nelle sante assemblee, di cui Ambrogio è l'animatore e il maestro (grazie anche ai celebri Inni da lui composti e musicati); una Chiesa capace di resistere alle pretese dell'imperatore Valentiniano e di sua madre Giustina, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di una chiesa per le cerimonie degli ariani.

Nella chiesa che doveva essere requisita, racconta Agostino, «il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio vescovo. Anche noi», e questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muovendosi nell'intimo di Agostino, «pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell'eccitazione di tutto il popolo» (ibidem 9,7).

Agostino insomma, pur non riuscendo ad affrontare in un dia­logo a quattr'occhi il vescovo Ambrogio, resta positivamente conta­giato dalla sua vita, dal suo spirito di preghiera, dalla sua carità verso il prossimo, e dal fatto che Ambrogio si manifesta uomo di Chiesa: lo vede impegnato nell'animazione delle liturgie, ne coglie il progetto coraggioso di edificare una Chiesa unita e matura.

In questo modo Agostino diviene la buona terra per il seme della fede.

L'attualizzazione di questa storia non è difficile. Propongo solo qualche spunto di riflessione.

Molte volte si incontrano pastori o catechisti scoraggiati, che constatano con amarezza la scarsa incisività del loro messaggio: in effetti, più che a conversioni come quella di Agostino, oggi assi­stiamo a un allarmante cedimento in ciò che riguarda l'impegno per i valori. Ma vorrei chiedere al pastore o al catechista scoraggiato:

Tu preghi? coloro che educhi alla fede ti vedono pregare? colgono il fatto che sei uomo di Dio, uomo della Parola? in altri termini, come è la dimensione contemplativa della tua vita?

Tu pratichi la carità? sai accogliere il «povero», il più bisognoso, il meno simpatico, quella persona che tutti mettono da parte perché dà fastidio? sai farti prossimo? sai stare insieme, dando la tua vita (non soltanto alcune parole) ai destinatari del Vangelo? solidarizzi con loro, anche quando ti sembra di perdere tempo?

Tu ami la Chiesa? ti impegni a contribuire con ogni forza alla sua edificazione sia nella liturgia sia nella pratica della vita quotidiana?

La figura del pastore, quale emerge dalla storia che abbiamo rievocato, è una figura compatta e forte nella testimonianza: una persona in cui le parole sono intercambiabili con i fatti.

Viene alla mente la testimonianza di Gandhi. Sir Stanley Jones gli si accostò, chiedendogli di rilasciare un messaggio per il mondo. Il Mahatma lo guardò, e gli rispose turbato: «Io non ho una parola da dire; la mia vita è il mio messaggio...».

Ebbene, per noi le cose vanno ben diversamente.

Noi l'abbiamo la Parola: noi abbiamo il lieto messaggio di Cristo, noi abbiamo il Credo degli apostoli e della Chiesa, noi abbiamo la fede da trasmettere. Ma questo Vangelo – stando all'in­segnamento dei nostri Padri – non può passare senza la testimo­nianza della vita...

Così nella trasmissione della fede non si potrà mai prescin­dere dai due elementi fondamentali che entrano in gioco: il conte­nuto oggettivo e la testimonianza personale (quale fede trasmettere, e come trasmetterla), che devono raccordarsi tra loro in una sintesi vitale.

(La prima parte è stata pubblicata ieri, lunedì 2 luglio. La terza puntata andrà in rete domani, mercoledì 4 luglio)

*

NOTE

1 Cfr. A. PINCHERLE, Ambrogio ed Agostino, «Augustinianum» 14 (1974), pp. 385-407; G. BIFFI, Conversione di Agostino e vita di una Chiesa, in A. CAPRIOLI - L. VACCARO (curr.), Agostino e la conversione cristiana, Palermo 1987, pp. 23-34; E. DAL COVOLO, Il pastore, ministro della Parola e della carità. L’esempio del vescovo Ambrogio, in M. CARDINALI (cur.), Pastori dinanzi all’emergenza educativa. Per la formazione dei formatori, Città del Vaticano 2011, pp. 33-58.

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La signoria di Cristo in cielo e sulla terra


L’omelia tenuta da san Carlo Borromeo nel Duomo di Milano nella solennità del Corpus Domini, il 9 giugno 1583
(anche se non è un "Padre" della Chiesa, lo è stato come eccellente Pastore e Vescovo, un vero Principe della Chiesa dal quale abbiamo ancora molto da apprendere ed imparare)


Omelia tenuta da san Carlo Borromeo nel Duomo di Milano nella solennità del Corpus Domini, il 9 giug


San Carlo Borromeo istituisce i corsi della dottrina cristiana, Antonio e Giulio Campi, chiesa di San Francesco da Paola, Milano

San Carlo Borromeo istituisce i corsi della dottrina cristiana, Antonio e Giulio Campi, chiesa di San Francesco da Paola, Milano

Tutti i misteri del nostro salvatore Gesù Cristo, anime carissime, sono sublimi e profondi: ­noi li veneriamo in unione con la sacrosanta madre Chiesa. Tuttavia il mistero odierno, l’istituzione del santissimo sacramento dell’Eucaristia, attraverso il quale il Signore si è donato in cibo alle anime fedeli, è così sublime ed elevato da superare ogni comprensione umana. Così grande è la degnazione del sommo Dio, in esso riluce tale amore che ogni intelligenza viene meno; nessuno potrebbe spiegarlo a parole né comprenderlo con la mente.
Siccome però è mio dovere parlarvene per l’ufficio e la dignità pastorale, vi dirò qualcosa anche di questo mistero. Brevemente, questa omelia sarà centrata soprattutto su due punti: quali siano le cause della istituzione di questo mistero e quali i motivi per cui ne facciamo memoria in questo tempo.


Nel Vecchio Testamento è narrata la nobilissima storia dell’agnello pasquale che doveva essere mangiato dentro casa da ogni famiglia; qualora poi ne fosse avanzato e non potesse essere consumato, lo si doveva bruciare nel fuoco. Quell’agnello era figura del nostro Agnello immacolato, Cristo Signore, da offrire per noi all’eterno Padre sull’altare della croce. Giovanni, il precursore, vedendolo disse: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo»1. Quella meravigliosa prefigurazione ci ha insegnato che l’Agnello pasquale non poteva essere totalmente mangiato con i denti della contemplazione, ma doveva essere completamente bruciato nel fuoco dell’amore 2.

Ma quando medito tra me e me che il Figlio di Dio si è completamente donato in cibo a noi, mi pare che non ci sia più spazio per questa distinzione: questo mistero è totalmente da bruciare nel fuoco dell’amore. Quale mo­tivo, se non l’amore soltanto, poté spingere il Dio buo­nissimo e grandissimo a donarsi in cibo a quella misera creatura che è l’uomo, ribelle dal principio, espulso dal Paradiso terrestre, in questa misera valle fin dall’inizio della creazione per aver gustato il frutto proibito? Que­sto uomo era stato creato a somiglianza di Dio, posto in un luogo di delizie, messo a capo di tutta la creazione: tutte le altre cose erano state create per lui.
Trasgredì al precetto divino, mangiando il frutto proibito e, «mentre era in una situazione di privilegio, non lo comprese»; perciò «fu assimilato agli animali che non hanno intel­letto»3; per questo fu costretto a mangiare il loro stesso cibo. Ma Dio ha sempre così tanto amato gli uomini da pensare al modo di risollevarli quando essi erano appena caduti; e perché non si nutrissero dello stesso cibo destinato agli animali – contemplate l’infinita carità di Dio! – ha dato Sé stesso in cibo all’uomo. Tu, Cristo Gesù, che sei il Pane degli angeli, non hai sdegnato di divenire il cibo degli uomini ribelli, peccatori, ingrati. Oh grandezza della dignità umana! Per una evenienza singolare quanto è più grande l’opera della riparazione, quanto questa dignità sublime supera la sventura! Dio ci ha fatto un favore singolare! Il suo amore per noi è inesplicabile! Solo questa carità poté spingere Dio a fare tanto per noi. Perciò come è ingrato chi nel suo cuore non medita e non pensa sovente a questi misteri!


Dio, creatore di tutte le cose, aveva previsto e conosciuto la nostra debolezza, e che la nostra vita spirituale avrebbe avuto bisogno di un cibo dell’anima così come la vita del corpo necessita di un cibo materiale; per questo ha disposto per noi che ci fosse abbondanza di ognuno di questi due nutrimenti: da una parte quello per il corpo; dall’altra quello di cui godono gli angeli in cielo e noi possiamo mangiare, qui in terra, nascosto sotto le specie del pane e del vino. La santissima serva di Dio, Elisabetta, avendo colto la venuta della Madre di Dio, non poté non esclamare: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?»4. Ma quanto più dovrebbe esclamare chi riceve in sé Dio stesso: «A che debbo che venga a me, peccatore, miserabile, ingrato, indegno, verme e non uomo, obbrobrio degli uomini e abiezione del popolo, che entri nella mia casa, nella mia anima che spesso ho ridotta a spelonca di malfattori, e vi abiti, il mio Signore, Creatore, Redentore e Dio mio, al cui cospetto gli angeli desiderano stare?».
Veniamo al secondo punto di riflessione.

Opportunamente la Chiesa oggi celebra la solennità di questo santissimo mistero. Poteva sembrare più op­portuno celebrarla nella Feria quinta in Coena Domini,giorno nel quale sappiamo che il salvatore nostro, Cristo, ha istituito questo sacramento. Ma la santa Chiesa è co­me un figlio, corretto e ben educato, il cui padre è giunto al termine dei suoi giorni e, mentre sta per morire, gli lascia un’eredità vasta e ricca; non ha tempo di tratte­nersi a pensare al patrimonio ricevuto: è totalmente rivolto a piangere il padre. Così la Chiesa, sposa e figlia di Cristo, è talmente intenta a piangere in quei giorni di passione e di atroci tormenti da non essere in grado di celebrare come vorrebbe questa immensa eredità a lei lasciata: i Santissimi Sacramenti istituiti in questi giorni.

Per tale motivo ha fissato questo giorno per la celebrazione: in esso, per l’immenso dono ricevuto, vorrebbe rendere in modo tutto particolare a Cristo quel meravi­glioso ringraziamento che a causa della nostra povertà noi non siamo capaci di offrire. Perciò il Figlio di Dio, che conosce tutto dalla eternità, si è fatto incontro alla nostra debolezza con l’istituzione di questo Santissimo Sacramento: per noi «Egli rese grazie» a Dio, «bene­disse e spezzò»5.
Con questa istituzione ci ha insegnato a ringraziarlo quanto più possiamo per un dono così grande. Ma perché la santa madre Chiesa ha fissato pro­prio questo tempo per fare memoria di tale mistero? Perché proprio dopo la celebrazione degli altri misteri di Cristo: dopo i giorni del Natale, della Resurrezione, dell’Ascensione al Cielo e l’invio dello Spirito Santo? Figlio, non temere: tutto ciò non è senza motivo! Questo miste­ro santissimo è così collegato a tutti gli altri, ed è rime­dio così efficace in vista di essi, che ben a diritto viene congiunto ad essi. Per mezzo di questo santissimo mi­stero dell’altare, attraverso la ricezione della vivificante Eucaristia, con questo Pane celeste i fedeli sono così efficacemente congiunti a Cristo da poter attingere con la loro bocca dal fianco aperto di Cristo gli sconfinati tesori di tutti i sacramenti.


Come un qualsiasi re, nell’atto di ricevere il possesso di un regno, si reca prima che in ogni altra città in quella che è capitale e metropoli del regno, così anche Cristo: insignito della signoria più ampia e di ogni diritto in cielo e in terra, per prima cosa prese possesso del cielo e da lì, quasi a dimostrazione, effuse sugli uomini i doni dello Spirito Santo. Ma avendo scelto di regnare anche in terra, ha lasciato Sé stesso qui, nel sacratissimo sacrificio dell’altare, in questo santissimo mistero che oggi veneriamo. Per questo motivo straordinario la Chiesa ordina che da tutti sia portato in processione in forma solenne per città e villaggi.

Ma c’è un’altra ragione per questo. Tra i misteri del Figlio di Dio che finora abbiamo meditato, l’ultimo fu l’Ascensione al Cielo. Essa è avvenuta perché Egli ricevesse a titolo suo e nostro il possesso del Regno dei Cieli e venisse manifestata quella signoria della quale poco prima aveva affermato: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra»6. Come un qualsiasi re, nell’atto di ricevere il possesso di un regno, si reca prima che in ogni altra città in quella che è capitale e metropoli del regno (e come un magistrato o principe che si appresta ad amministrare un regno in nome del re), così anche Cristo: insignito della signoria più ampia e di ogni diritto in cielo e interra, per prima cosa prese possesso del Cielo e da lì, quasi a dimostrazione, effuse sugli uomini i doni dello Spirito Santo. Ma avendo scelto di regnare anche in terra, ha lasciato Sé stesso qui, nel sacratissimo sacrificio dell’altare, in questo santissimo mistero che oggi veneriamo. Per questo motivo straordinario la Chiesa ordina che da tutti sia portato in processione in forma solenne per città e villaggi.

Quando il potentissimo re Faraone volle onorare Giuseppe, comandò che lo si conducesse lungo le vie della città e, perché tutti conoscessero la dignità di colui che aveva spiegato i sogni del Faraone, gli disse: «Tu stesso sarai il mio maggiordomo e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo: solo per il trono io sarò più grande di te. Ecco io ti metto a capo di tutto il Paese di Egitto. Il Faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe, lo rivestì di abiti di lino finissimo e glipose al collo un monile d’oro. Poi lo fece montare sul suo secondo carro e prima di lui un araldo gridava, in modo che tutti si inginocchiassero davanti a lui. E così lo stabilì su tutto il Paese diEgitto»7.

Anche Assuero, quando volle onorare Mardocheo, gli fece indossare le vesti regali, lo fece montare sul suo cavallo e a tale scopo comandò ad Aman di condurlo per la città e di gridare: «Ciò avviene all’uomo che il re vuole onorare»8.
Dio vuole essere il Signore del cuore dell’uomo; vuole essere onorato, come conviene, da tutti gli uomini. Per questo, oggi, in forma solenne, condotto dal clero e dal popolo, dai prelati e dai magistrati, percorre le vie delle città e dei villaggi. Per questa ragione la Chiesa professa pubblicamente che questi è il nostro Re e Dio, da cui tutto abbiamo ricevuto e al quale tutto dobbiamo.

O figli carissimi nel Signore, mentre poc’anzi camminavo per le vie della città, pensavo a quella così grande moltitudine e varietà di persone che fino a oggi, ai nostri giorni, è oppressa dalla miseria della schiavitù e per lungo tempo ha dovuto servire padroni così vili e crudeli. Intravvedevo un certo numero di giovani che si sono lasciati dominare da lascivia e libidine e, come dice l’Apostolo9, ha proclamato dio il proprio ventre. (Chiunque pone qualche cosa come fine della propria esistenza, costui vuole che tale cosa sia il suo dio. Dio infatti è al termine di tutto). Rinuncino, costoro, alla carne, alla lussuria, a frequentare le bettole e le osterie, le cattive compagnie; rinuncino ai peccati e riconoscano il vero Dio che la Chiesa professa per noi.
Piangevo sulla intollerabile superbia e sulla vanità di alcune donne che sono idoli a sé stesse e che dedicano quelle ore del mattino che dovrebbero consacrare alla preghiera al trucco del lorovolto e alla arricciatura dei capelli; che chiedono ogni giorno nuovi vestiti, così da rendere dei poveri infelici i loro mariti e mendichi i loro figli e da consumare i loro patrimoni. Da qui vengono mille mali, i contratti illeciti, il non pagare i debiti, il non adempiere ai pii legati; da qui la dimenticanza del Dio buonissimo e grandissimo, la dimenticanza della nostra anima. Vedevo tanti avari, mercanti di inferno, gente che a così caro prezzo compra per sé il fuoco eterno; di essi l’Apostolo ben a ragione disse: «L’avarizia è una forma di idolatria»10. Al di là del denaro non hanno altro Dio; le loro azioni e parole sono indirizzate a pensare e decidere come meglio guadagnare, acquistare campi, confrontare ricchezze.


Non potevo non vedere l’infelicità di alcuni che si dichiarano esperti nella scienza del governare e hanno solo questo davanti ai loro occhi. Sono coloro che non dubitano di schiacciare sotto i piedi la legge di Dio che essi dichiarano contraria a quella del loro governare (miseri e sventurati loro!) e costringono Dio a ritirarsi. Uomini da compiangere! E sono da chiamare cristiani costoro che stimano e dichiarano pubblicamente sé stessi e il mondo più importanti di Cristo?

Il Signore è venuto, con questa santa istituzione dell’Eucaristia, a distruggere tutti questi idoli cosicché, con il profeta Isaia, oggi possiamo gridare al Signore: «Solo in Te è Dio; non ce n’è altri, non esistono altri dei. Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, Salvatore»11. O Dio buono, fino a ora siamo stati asserviti alla carne, ai sensi, al mondo; fino a ora è stato dio per noi il nostro ventre, la nostra carne, il nostro oro, la nostra politica. Noi vogliamo rinunciare a tutti questi idoli: onoriamo Te solo come vero Dio, veneriamo Te che ci hai tanto beneficato e, soprattutto, hai lasciato Te stesso in cibo per noi. Fa’, ti scongiuro, che d’ora in poi il nostro cuore sia tuo, e nulla più ci strappi dal tuo amore. Preferiamo morire mille volte che offenderti anche minimamente. E così, migliorando in forza della Tua grazia, godremo in eterno della Tua gloria.
Amen.


Note
1 Gv 1,29.
2 Cfr. Es 12,10ss.
3 Sal 49,13.
4 Lc 1,43.
5 Mt 26,26; Lc 24,30.
6 Mt 28,18.
7 Gn 41,40ss.
8 Est 6,11.
9 Cfr. Fil 3,19.
10 Ef 5,5; Col 3,5.
11 Is 45,14ss.

(Omelia tratta da: San Carlo Borromeo, Omelie sull’Eucaristia
e sul sacerdozio, Edizioni Paoline,
Roma 1984)

[SM=g1740733]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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La testimonianza dei Padri della Chiesa (Terza ed ultima parte)


La trasmissione della fede nel mondo di oggi


di monsignor Enrico Dal Covolo
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense

ROMA, mercoledì, 4 luglio 2012 (ZENIT.org).-

3. Ancora Ambrogio e Agostino: come educare alla fede?

Occorre aggiungere, a questo punto, che – nel trasmettere la fede della Chiesa – Ambrogio e Agostino si servivano di un itinerario peculiare di edu­cazione alla fede.

3.1. La teoria catechetica di Ambrogio1

Nel ministero pastorale di Ambrogio l'educazione alla fede conosce tre tappe fondamentali. Oggi possiamo discutere sulla prio­rità dell'una rispetto all'altra: è certo però che esse rappresentano tre istanze irrinunciabili per ogni itinerario di fede.

a) La catechesi di Ambrogio è una catechesi molto concreta, che pretende di informare le scelte e i comportamenti pratici della vita. Egli partiva, appunto, dall'istruzione morale, e questa era la prima cosa che ricavava dalla lettura della Bibbia: «Abbiamo trat­tato ogni giorno di morale», diceva ai destinatari della sua cate­chesi, quando leggeva a loro le storie dei patriarchi e le massime dei Proverbi, «affinché, così formati e istruiti, voi vi abituaste ad entrare nella via dei padri e a seguire il cammino dell'obbedienza ai precetti divini, e – rinnovati dal battesimo – conduceste il genere di vita che conviene a coloro che sono stati purificati» (I misteri 1,1).

Da parte nostra, dobbiamo riconoscere che la fede cresce attraverso le esperienze della vita. Perciò chi educa alla fede è uno che promuove esperienze positive, atteggiamenti concreti, fatti..., che consentano questa circolarità feconda tra fede e vita.

b) In secondo luogo, la catechesi ambrosiana ha una robusta dimensione dogmatico-dottrinale. Al fedele – già «purificato» nella prima tappa – viene consegnato il Simbolo romano nei suoi dodici arti­coli fondamentali, e questo «breviario della fede» gli viene spiegato, in modo che egli lo assimili e possa restituirlo, trasmettendolo a sua volta e testimoniandolo con le parole e con la vita (Spiegazione del Simbolo 2).

Così chi educa nella fede deve essere provvisto di una precisa competenza teologica. Questa non potrà essere improvvisata, anzi­tutto per un'esigenza di rispetto nei confronti del depositum fidei: infatti chi educa nella fede non consegna un messaggio che gli appartiene in proprio; il messaggio che egli consegna lo supera, e va trasmesso ancora, dopo di lui.

c) Infine, la catechesi ambrosiana conduce ai sacramenti: il pastore accompagna per mano i fedeli nell'universo dello spirito, alzando il velo e comunicando una nuova capacità visiva, che gli consente di fare l'esperienza della salvezza nell'oggi della celebra­zione liturgica (i sacramenti, appunto).

«Sei andato», recita un celebre testo ambrosiano, «ti sei lavato, sei venuto all'altare, hai cominciato a vedere ciò che prima non eri riuscito a vedere. Cioè, mediante il fonte del Signore e l'annuncio della sua passione, i tuoi occhi si sono aperti in quel momento. Tu, che prima sembravi acce­cato nel cuore, hai cominciato a vedere la luce dei sacramenti» (I sacramenti 3,15).

Questo è precisamente il punto d'arrivo dell'itinerario di fede. Pertanto chi educa nella fede è uno che – segnando la strada – attua e vive in prima persona la «dimensione sacramentale», e si studia di testimoniarne efficacemente l'irrinunciabile valore.

In generale, riscontriamo nell'educazione ambrosiana alla fede il primato della vita sui concetti. E’ questo il realismo della fede, che, del resto, avevamo già registrato nella prassi pastorale di Ambrogio, ricordando la storia del suo incontro con Agostino. Il fatto è che per Ambrogio la Cosa (Res) più importante di tutte non è la dottrina: è una Persona vivente, Gesù Cristo. Cristo, esclama con entusiasmo il vescovo di Milano, «Cristo è tutto per noi: Omnia Christus est nobis!» (La verginità 16,99).

3.2. La teoria catechetica di Agostino2

Mi limito qui a richiamare una breve opera di Agostino, La catechesi ai semplici, indirizzata a Deogratias, diacono di Cartagine – un «catechista scoraggiato» –, verso il 400. Si tratta, come dice il titolo, di un piccolo manuale di catechesi, unico nel suo genere nella letteratura patristica.

Anche qui si possono rintracciare tre istanze fondamentali per una corretta trasmissione della fede.

a) Anzitutto il racconto della storia salvifica. Secondo Agostino, chi educa alla fede deve presentare un racconto completo della storia della salvezza, da «in principio Dio fece il cielo e la terra» (Genesi ,1), fino ai tempi della Chiesa. Naturalmente, si fermerà in partico­lare sui fatti essenziali, mentre tratterà quelli secondari attraverso rapidi cenni. Emergeranno i nodi centrali della storia della salvezza, soprattutto l'evento centrale, che è Cristo, sintesi di tutti gli altri. Di qui la continuità tra Antico e Nuovo Testamento: «L'Antico Testamento», scrive Agostino, «è il velo del Nuovo Testamento, e nel Nuovo si manifesta l'Antico». Così l'intera Scrittura «narra Cristo, e spinge ad amare» (La catechesi ai semplici 4,8).

Pare qui di sentire alcuni passi del «documento di base» per il Rinnovamento della Catechesi (= RdC), Roma 1970 («riconse­gnato» nel 1988 alla Chiesa italiana), testo che si è effettivamente ispirato in modo esplicito al libretto di Agostino. Si vedano soprat­tutto i paragrafi 105-108 di RdC, i quali riportano anche una cele­berrima citazione di san Gerolamo, contemporaneo di Agostino: «Ignorare la Scrittura sarebbe ignorare Cristo».

Proprio nel riferimento ad Agostino e a Gerolamo si possono individuare le più importanti fonti patristiche del cosiddetto biblio­centrismo della catechesi, sancito dai catechismi italiani postconci­liari (il catechista è uomo della Parola, perché per lui «la Scrittura è "il Libro": non un sussidio, fosse pure il primo»: RdC 107). Un bibliocentrismoche (in Agostino, discepolo di Ambrogio, e in generale nella corretta trasmissione della fede) equivale a un cristocentrismo: infatti il catechista «sceglie nella Scrittura, specialmente nei vangeli e negli altri libri del Nuovo Testamento, i testi e i fatti, i personaggi, i temi e i simboli che maggiormente convergono in Cristo... Nei per­sonaggi, si deve vedere la scelta che Dio ha fatto perché divenissero collaboratori, sia nel preparare la venuta del Salvatore, sia nel pro­lungarne la missione. Va messa in risalto la loro corrispondenza alla chiamata, l'orientamento verso Cristo» (RdC 108).

E si può citare anche il perentorio asserto della Catechesi Tradendae (= CT) di Giovanni Paolo II (1979): «Al centro stesso della catechesi noi tro­viamo essenzialmente una persona: quella di Gesù di Nazareth, unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità» (CT 5).

b) Un'altra istanza della trasmissione agostiniana della fede è quella di aprire alla speranza, la speranza che nasce dalla fede nella risurrezione. La speranza, infatti, ha un nome preciso: è Cristo risorto (La catechesi ai semplici 25,46). «E come è diventato la nostra speranza?» si chiede Agostino, in altro contesto. "Perché è stato tentato, ha patito ed è risorto. Così è diventato la nostra spe­ranza. In lui puoi vedere la tua fatica e la tua ricompensa: la tua fatica nella passione, la tua ricompensa nella resurrezione. È così che è diventato la nostra speranza. Perché noi abbiamo due vite: una è quella in cui siamo, l'altra è quella in cui speriamo. Quella in cui siamo ci è nota, quella in cui speriamo ci è sconosciuta (...). Con le sue fatiche, le tentazioni, i patimenti, la morte, Cristo ti ha fatto vedere la vita in cui sei; con la resurrezione ti ha fatto vedere la vita in cui sarai. Noi sapevamo solo che l'uomo nasce e muore, ma non sapevamo che risorge e vive in eterno. Per questo è diventato la nostra speranza nelle tribolazioni e nelle tentazioni, ed ora siamo in cammino verso la speranza» (Commento al Salmo 60,4).3

Si vede così che l'Agostino ventinovenne – «disperato» – ha ceduto il posto a uno dei più grandi cantori della speranza che la Chiesa abbia mai conosciuto nella sua storia bimillenaria. Decisivo per questo passaggio fu l'incontro con Ambrogio, e finalmente il battesimo che il vescovo di Milano gli amministrò nella notte di Pasqua del 387.

Ne possiamo desumere, da parte nostra, che chi trasmette la fede è uomo o donna della speranza, pronto egli stesso a rendere ragione della speranza che è in lui. Ne consegue inoltre che egli evi­terà toni distruttivi o ipercritici sul tempo presente. C'è in lui un sostanziale ottimismo, sostenuto dalla fede, e un'attenzione cor­diale a tutti i valori terreni, nella consapevolezza che la risurrezione è parola di fiducia e di speranza anche nei loro confronti.

c) Infine, chi trasmette la fede è uno che dona la gioia: anche quando parla, dice Agostino, si sforzi «di non essere pesante, di esprimersi in modo piacevole» (La catechesi ai semplici 2,3). Qui sembra di sentire qualcosa di don Bosco, quando Agostino afferma che, se c'è la gioia, i catechizzandi «pronunciano per bocca nostra le cose che ascoltano, e noi apprendiamo da essi le cose che inse­gniamo» (ibidem 12,17).

Chi educa alla fede, per dirla appunto con don Bosco, è uno che «studia di farsi amare», capisce e condivide gli interessi, gli affetti, le condizioni e le attese dei fedeli, per condurli nella gioia all'incontro con il Signore.

***

«A seconda della varia espressione del fedele», scriveva ancora Agostino, «il mio discorso prende avvio, procede e termina» (ibidem 15,23).

E noi terminiamo qui le nostre riflessioni.

Ma il messaggio dei Padri, che ci hanno preceduto, continua ad interpellare ciascuno di noi, e invita a ridisegnare non certo la regula fidei, bensì la figura e il metodo di chi intende trasmettere la fede nell'oggi della Chiesa.

(La seconda parte è stata pubblicata ieri, martedì 3 luglio)

*

NOTE

1 Cfr. F. BERGAMELLI, Ambrogio di Milano, in J. GEVART (cur.), Dizionario di Catechetica, Leumann (Torino) 1986, pp. 29-30; AA. VV., S. Ambrogio di Milano, «Evangelizzare» 23 (1997), pp. 597-620. Si vedano anche il sussidio curato da E. MARROCCO – G. MONZIO COMPAGNONI, Ambrogio di Milano. L’amore generi la fede. La catechesi sul Credo, Milano 2007, e la catechesi del Papa su sant’Ambrogio, in BENEDETTO XVI, I Padri della Chiesa…, pp. 147-152.

2 Cfr. O. PASQUATO, Agostino, in J. GEVAERT (cur.), Dizionario di Catechetica..., pp. 23-25. Si vedano anche le cinque catechesi che il Papa ha dedicato a sant’Agostino, in BENEDETTO XVI, I Padri della Chiesa…, pp. 199-233.

3 Cfr. G. VISONA’, La speranza nei Padri, Milano 1993, pp. 245-246.

[SM=g1740771]


La lectio divina alla luce dei Padri


La prefazione del primo collaboratore del Papa al volume di don Enrico dal Covolo, postulatore generale dei Salesiani


del cardinale Tarcisio Bertone dicembre 2007


Enrico dal Covolo, <I>Lampada ai miei passi. Leggere la Parola come i nostri Padri</I>, Elledici, Leumann (To) 2007, 240 pp., euro 14,00

Enrico dal Covolo, Lampada ai miei passi. Leggere la Parola come i nostri Padri, Elledici, Leumann (To) 2007, 240 pp., euro 14,00

L’itinerario della lectio divina, progressivamente riscoperto nei quarant’anni successivi al Concilio Vaticano II, è ormai familiare a molti fedeli, che intendono leggere e meditare la Scrittura nella tradizione vivente della Chiesa.
«Vorrei evocare», ha raccomandato ancora di recente Benedetto XVI nel quarantesimo anniversario della costituzione conciliare Dei Verbum, «l’antica tradizione della lectio divina: l’assidua lettura della Sacra Scrittura accompagnata dalla preghiera realizza quell’intimo colloquio in cui, leggendo, si ascolta Dio che parla e, pregando, gli si risponde con fiduciosa apertura del cuore (cfr. DV, n. 25).
Questa prassi, se efficacemente promossa, recherà alla Chiesa – ne sono convinto – una nuova primavera spirituale. Quale punto fermo della pastorale biblica, la
lectio divina va perciò ulteriormente incoraggiata, mediante l’utilizzo anche di metodi nuovi, attentamente ponderati, al passo con i tempi. Mai si deve dimenticare che la Parola di Dio è lampada per i nostri passi e luce sul nostro cammino (cfr. Sal 118/119, 105)»1.


L’originalità di questo sussidio, esito di un esercizio ormai trentennale di lectio divina, consiste in un più esplicito riferimento ai Padri della Chiesa e al loro modo di leggere la Parola di Dio. Molte volte, infatti, chi pratica la lectio coltiva le sue competenze in ambito biblico, e assai di meno (o niente affatto) in ambito patristico: viceversa, è proprio quest’ultimo il luogo proprio in cui si è sviluppata la lectio divina.

Così il primo capitolo di questo libro intende recuperare l’attenzione dovuta ai Padri nell’esercizio della lectio, illustrando in rapida sintesi l’itinerario storico della lectio divina dalla «svolta origeniana» alle Regole monastiche, fino a Guigo II, priore della Grande Certosa tra il 1174 e il 1180. In definitiva, queste pagine iniziali forniscono il modello patristico, a cui si conformano gli esempi di lectio raccolti nel sussidio: anzitutto la sacra pagina viene letta e meditata (lectio e meditatio), per essere poi dischiusa alla preghiera e alla conversione della vita (oratio e contemplatio).
Icona di questo modello patristico è Maria santissima, la quale – stando a Luca 2, 19 – non solo custodiva la Parola di Dio (ecco la lettura e la meditazione), ma anche la confrontava nel suo cuore (ed ecco la preghiera e la conversione della vita, cioè l’autentica contemplatio).

Riguardo infine agli esempi di lectio qui addotti, che costituiscono il corpo del volume spaziando dall’Antico al Nuovo Testamento, è necessario accogliere nella fede la severa ammonizione di Origene († 254), maestro indiscusso della theía anágnosis (in latino lectio divina), nelle sue Omelie sui Numeri, là dove egli scrive: «Io non chiamo la Legge un “Antico Testamento”, se la comprendo nello Spirito. La Legge diventa un “Antico Testamento” solo per quelli che vogliono comprenderla carnalmente», cioè fermandosi alla lettera del testo. Ma «per noi, che la comprendiamo e l’applichiamo nello Spirito e nel senso del Vangelo, la Legge è sempre nuova, e i due Testamenti sono per noi un nuovo Testamento, non a causa della data temporale, ma della novità del senso... Invece, per il peccatore e per quelli che non rispettano il patto della carità, anche i Vangeli invecchiano»2.

Viceversa, dice ancora papa Benedetto XVI, nella lettura orante della Scrittura e nel coerente impegno della vita «la Chiesa deve sempre rinnovarsi e ringiovanire, e la Parola di Dio, che non invecchia mai, né mai si esaurisce, è mezzo privilegiato a tale scopo. È infatti la Parola di Dio che, per il tramite dello Spirito Santo, ci guida sempre di nuovo alla verità tutta intera (cfr. Gv 16, 13)»3.

Introduco ben volentieri, e raccomando alla lettura, questo agile volume di don Enrico dal Covolo, sdb, professore di Letteratura cristiana antica nell’Università Pontificia Salesiana di Roma e consultore della Congregazione per la Dottrina della fede: fra l’altro, il sussidio può rivelarsi di qualche utilità anche in vista della prossima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (ottobre 2008), che il Papa, con felice intuito, ha voluto dedicare alla «Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa».


Note
1 Benedetto XVI, Ai partecipanti al Congresso internazionale per il XL anniversario della costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, L’Osservatore Romano, 17.9.2005, p. 5.
2 Origene, Omelia sui Numeri 9,4,2, edd. W.A. Baehrens – L. Doutreleau, SC 415, Paris 1996, p. 240.
3 Benedetto XVI, Ai partecipanti al Congresso internazionale per il XL anniversario della costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, cit.


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[Modificato da Caterina63 28/08/2012 19:37]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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27/08/2012 10:55
 
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30 APRILE. SANTA CATERINA DA SIENA E SAN PIO V.

[SM=g1740733] DUE GRANDI ESEMPI PER IL NOSTRO CATTOLICESIMO "TIEPIDO"

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di Cristina Siccardi

 

 

Oggi 30 aprile, il Santorale del Vetus Ordo festeggia Santa Caterina da Siena, mentre quello del Novus Ordo san Pio V. Tutti gli uomini hanno bisogno di modelli a cui guardare: c’è chi segue quelli negativi e a volte infimi, e chi, invece, segue quelli positivi o addirittura santi. Il popolo di Dio è interpellato dalla Chiesa a seguire questi ultimi. Fra i santi ci sono poi quelli “speciali”, gli eletti fra gli eletti: santa Caterina e san Pio V fanno parte degli “eletti speciali”, perché nei disegni di Dio ci sono i chiamati, ma anche quelli più chiamati degli altri, esattamente come accade nella distinzione dei cori angelici, dove, per esempio, san Michele Arcangelo ha un ruolo maggiore in confronto ad un angelo custode, a dispetto dell’egualitarismo di matrice illuminista.

Santa Caterina e san Pio V hanno operato in tempi molto difficili e critici; vengono perciò a dimostrare a noi, fedeli del secondo millennio, che Fede e Chiesa possono sempre essere difese, anche quando le circostanze appaiono avverse su tutti i fronti.

All’udienza generale del 24 novembre 2010 Benedetto XVI ha affermato, riferendosi a santa Caterina: «Il secolo in cui visse - il quattordicesimo - fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento».

 

Quando si pensa a santa Caterina da Siena (Siena, 25 marzo 1347 – Roma, 29 aprile 1380) vengono in mente tre aspetti di questa mistica nella quale sono stati stravolti i piani naturali: la sua totale appartenenza a Cristo, la sapienza infusa, il suo coraggio. I due simboli che caratterizzano l’iconografia cateriniana sono il libro e il giglio, che rappresentano rispettivamente la dottrina e la purezza.

s cat da sienaCaterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: ricevette dal Signore il dono di saper leggere e imparò anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura.

Al termine del Carnevale del 1367 si compiono le mistiche nozze: da Gesù riceve un anello adorno di rubini. Fra Cristo, il bene amato sopra ogni altro bene, e Caterina viene a stabilirsi un rapporto di intimità particolarissimo e di intensa comunione, tanto da arrivare ad uno scambio di cuore.

La mistica di Siena soffre indicibilmente per il mondo, che è in balia della disgregazione e del peccato, mentre l’Europa è pervasa dalle pestilenze, dalle carestie, dagli odi e dalle guerre.

 

Le lettere, che la mistica osa scrivere al Papa direttamente in nome di Dio, sono vere e proprie colate di lava, documenti di una realtà che impegna cielo e terra. Lo stile, tutto cateriniano, sgorga da sé, per necessità interiore: sospinge nel divino la realtà contingente, immergendo, con una iridescente e irresistibile forza d’amore, uomini e circostanze nello spazio soprannaturale. Ecco allora che le sue epistole sono un impasto di prosa e poesia, dove gli appelli alle autorità, sia religiose che civili, sono fermi e intransigenti, ma intrisi di materno sentire: forte e delicatissima donna, gigante della volontà; dolcissima figlia e sorella è allo stesso tempo rude ammonitrice di Pontefici, prelati e monarchi. I rimproveri e le minacce che ella si permette di avanzare sono compenetrati di amore inesausto. Usa espressioni tonanti, invitando alla virilità delle scelte e delle azioni, ma sa essere ugualmente tenerissima, come solo uno spirito muliebre è in grado di palesare.

La poesia di colei che scrive al Papa «Oimé, padre, io muoio di dolore, e non posso morire» è costituita da sublimi altezze e folgoranti illuminazioni divine, ma nel contempo, conoscendo che cosa sia il peccato e dove esso conduca, tocca abissi di indicibile nausea, perché Caterina intinge il pensiero nell’inchiostro della realtà tutta intera, quella fatta di bene e male, di angeli e demoni, di natura e sovranatura, dove il contingente si incontra e si scontra nell’Eterno.

 

Una brulicante «famiglia spirituale», formata da sociae e socii, confessori e segretari, vive intorno a questa madre che pungola, sostiene, invita, con forza e senza posa, alla Causa di Cristo, facendo anche pressioni, come pacificatrice, su casate importanti come i Tolomei, i Malavolti, i Salimbeni, i Bernabò Visconti…

Lotte con il demonio, levitazioni, estasi, bilocazioni, colloqui con Cristo, il desiderio di fusione in Lui e la prima morte di puro amore, quando l’amore ebbe la forza della morte e la sua anima fu liberata dalla carne… per un breve spazio di tempo.

I temi sui quali Caterina pone attenzione sono: la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, il ritorno della sede pontificia a Roma e la riforma della Chiesa. Passato il periodo della peste a Siena, nel quale non sottrae la sua attenta assistenza, il 1° aprile del 1375, nella chiesa di Santa Cristina, riceve le stimmate incruente. In quello stesso anno cerca di dissuadere i capi delle città di Pisa e Lucca dall’aderire alla Lega antipapale promossa da Firenze che si trovava in urto con i legati pontifici, che avrebbero dovuto preparare il ritorno del Papa a Roma. L’anno seguente partì per Avignone, dove giunse il 18 giugno per incontrare Gregorio XI (1330–1378), il quale, persuaso dall’intrepida Caterina, rientrò nella città di san Pietro il 17 gennaio 1377. L’anno successivo morì il Pontefice e gli successe Urbano VI (1318–1389), ma una parte del collegio cardinalizio gli preferì Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII (1342– 1394, antipapa), dando inizio al grande scisma d’Occidente, che durò un quarantennio, risolto al Concilio di Costanza (1414-1418) con le dimissioni di Gregorio XII (1326–1417), che precedentemente aveva legittimato il Concilio stesso, e l’elezione di Martino V (1368–1431), nonché con le scomuniche degli antipapi di Avignone (Benedetto XIII, 1328–1423) e di Pisa (Giovanni XXIII, 1370–1419).

Amando Gesù («O Pazzo d’amore!»), che descrive come un ponte lanciato tra Cielo e terra,  Caterina amava i sacerdoti perché dispensatori, attraverso i Sacramenti e la Parola, della forza salvifica. L’anima di colei che iniziava le sue cocenti e vivificanti lettere con «Io Catarina, serva e schiava de' servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo», raggiunge la beatitudine il 29 aprile 1380, a 33 anni, gli stessi di Cristo, nel quale si era persa per ritrovare l’autentica essenza.

 

 

s pio vSan Pio V, al secolo Antonio (in religione Michele) Ghislieri (Bosco Marengo, AL 17 gennaio 1504– Roma, 1º maggio 1572), è il Papa della Controriforma, della battaglia di Lepanto, del catechismo romano, del breviario romano riformato e del messale romano.

Negli anni di preparazione al sacerdozio, insieme a una solida formazione teologica, facilitata da una fervida intelligenza, manifestò quella austerità di vita che sempre lo caratterizzò. Nel 1528 ricevette l’ordinazione sacerdotale a Genova e già a quel tempo si distinse per la forza del suo credo: a Parma sostenne trenta proposte a supporto del seggio pontificio contro le eresie che si scagliavano contro di esso.

 

Come rettore di vari conventi domenicani si distinse per la rigida e santificante disciplina imposta, e ricevette la nomina di inquisitore della città di Como. Giunto a Roma nel 1550 divenne Commissario generale dell’Inquisizione romana.  Paolo IV (1476-1559) lo nominò vescovo di Sutri e Nepi nel 1556; fu in seguito creato cardinale con il titolo di Santa Maria sopra Minerva (1557). Nel 1558 divenne Grande Inquisitore e due anni dopo vescovo di Mondovì.

Il 7 gennaio 1566, fu inaspettatamente eletto Papa grazie ad un accordo stabilito fra i cardinali Federico Borromeo (1564-1631) e Alessandro Farnese (1520-1589). La sua elezione fece tremare la Curia romana e non solo quella. Serietà e inflessibilità iniziarono immediatamente: niente festeggiamenti e sontuosi banchetti per solennizzare l’elezione pontificia.

 

Cercò, con ogni mezzo, di migliorare i costumi della gente emettendo bolle, punendo l’accattonaggio, vietando le dissolutezze del carnevale, cacciando da Roma le prostitute, condannando i fornicatori e i profanatori dei giorni festivi. Per i bestemmiatori furono previste sanzioni economiche e corporali. Difese strenuamente il vincolo matrimoniale, infliggendo punizioni agli adulteri. Ridusse il costo della corte papale, impose l’obbligo di residenza dei vescovi e affermò l’importanza del cerimoniale. Le sue decisioni furono di enorme importanza: rafforzò gli strumenti della Controriforma per combattere l’eresia ed il Protestantesimo e diede nuovo impulso all’Inquisizione romana.

 

Risoluto e onesto, piemontese tutto d’un pezzo, fu rigido oppositore del nepotismo. Ai numerosi parenti accorsi a Roma con la speranza di ottenere da lui qualche privilegio e beneficio economico, Pio V disse che un parente del Papa può considerarsi sufficientemente ricco se non conosce la miseria.

Fu lui, l’11 aprile 1567, a dare  il titolo di dottore della Chiesa a san Tommaso d’Aquino (1225-1274). Nel 1568 lo stesso titolo fu concesso anche a quattro Padri della Chiesa d’Oriente: sant’Atanasio (295 ca.- 373), san Basilio Magno (329-379), san Giovanni Crisostomo (344/354-407) e san Gregorio Nazianzeno (329 – 390 ca.). Da questi suoi atti si evince la sua ferma volontà di custodire in sommo grado l’integrità della Fede e di difendere la Chiesa dagli avversari e dalle eresie, ben sapendo che il consenso nei suoi confronti avrebbe ricevuto duri colpi: la sua intransigenza e il suo zelo gli valsero molti nemici in tutta Europa e oltre. Celebri sono rimaste le volgari pasquinate dileggianti la sua persona.

Fu coraggioso difensore dei diritti giurisdizionali della Chiesa e per questo si scontrò con Filippo II di Spagna (1527-1598). Durante le guerre di religione in Francia, sostenne i cattolici contro gli ugonotti, mentre in Inghilterra appoggiò la cattolica Maria Stuarda (1542-1587) contro l’anglicana Elisabetta I (1533-1603), che scomunicò nel 1570 con la bolla Regnans in Excelsis.

Non ebbe paura della violenza musulmana e preoccupato delle mire geopolitiche dei turchi, promosse la «Lega Santa» dei principi cristiani contro la mezzaluna, unendosi in alleanza con Genova, Venezia e Spagna. Le forze navali della Lega si scontrarono, il 7 ottobre 1571, con la flotta ottomana nelle acque al largo di Lepanto, riportando una memorabile vittoria, che si verificò grazie, soprattutto, alla crociata di Rosari che erano stati recitati per ottenere l’aiuto divino. La vittoria venne comunicata “in tempo reale”: Pio V ebbe, infatti, una visione, dove vide cori di Angeli intorno al trono della Beata Vergine che teneva in braccio il Bambino Gesù e in mano la Corona del Rosario. Dopo l’evento prodigioso - era mezzogiorno - il Papa diede ordine che tutte le campane di Roma suonassero a festa e da quel giorno viene recitato l’Angelus a quell’ora. Due giorni dopo un messaggero portò la notizia dell’avvenuto trionfo delle forze cristiane. Il 7 ottobre del 1571 venne celebrato il primo anniversario della vittoria di Lepanto con l’istituzione della «Festa di Santa Maria della Vittoria», successivamente trasformata nella «Festa del Santissimo Rosario».

San Pio V nella sua vita non cercò mai altri interessi che quelli del Regno di Dio e prima di spirare dichiarò ai cardinali, radunati intorno al suo letto: «Vi raccomando la santa Chiesa che ho tanto amato! Cercate di eleggermi un successore zelante, che cerchi soltanto la gloria del Signore, che non abbia altri interessi quaggiù che l’onore della Sede Apostolica e il bene della cristianità».



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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02/09/2012 00:02
 
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[SM=g1740733] Importanti ed interessanti passi tratti dal Catechismo grande della dottrina cristiana di san Roberto Bellarmino, Dottore della Chiesa...

"Tra le virtù e i vizi c'è questo divario; che le virtù fanno come un coro intonato, e sono unite tra loro con una cotal naturale parentela e società. Tutte sono aiutate da tutte, e nessuna, divisa e separata dalle altre, può ritenere la propria energia, dignità, e perfezione. Per l'opposto nella repubblica dei vizi non è rispettata nessuna legge e non ci sono alleanze di pace: sempre sono in lite l'avarizia con la prodigalità: l'audacia rissa con la pusillanimità: e così è degli altri vizi. In egual modo il vero non solo non combatte il vero, ma anzi la verità adorna e rischiara la verità. Viceversa le menzogne sono piene di superbia, e una non sopporta l'altra: sono sempre in disaccordo fra loro, e l'una viene abbattuta e distrutta dall'altra".

"Mirate poi quegli uomini santi, che chiamiamo Padri e Dottori, quei lumi chiarissimi. che Dio volle che splendessero nel firmamento della Chiesa; acciocché per mezzo di essi fossero dissipate le tenebre tutte degli eretici: come per esempio, i santi Ireneo, Cipriano, Ilario, Atanasio, Basilio, i due Gregori, il Crisostomo e Cirillo.
Non vi pare, che la loro vita e i loro costumi risplendono quasi in specchi tersissimi, in quei monumenti, che ci hanno lasciato? Giacché «dalla pienezza del cuore parla la bocca» (Mt. 12, 34).
Deh quanta umiltà traspare nei libri dei santi Padri, congiunta con una somma erudizione! Quanta purità d'intenzione! Quanta sobrietà! Niente vidi osceno, niente di turpe, niente di maligno, niente di arrogante, niente di superbo.
Oh in quanti modi si manifesta nelle loro pagine lo Spirito Santo, che abita in loro! Chi può leggere attentamente S. Cipriano senza ardere subito di amore pel martirio? Chi si sarà dato allo studio diligente di Sant'Agostino, che non abbia imparato una profondissima umiltà? Chi ha avuto per mano con frequenza S. Girolamo, e non cominci ad amare la verginità e il digiuno? Spirano gli scritti dei santi: religione, castità, integrità, carità.
E, per servirmi delle parole di Sant'Agostino: «Questi sono dunque i vescovi e i pastori dotti, gravi, santi, zelantissimi difensori della verità, che succhiarono col latte la fede cattolica, e la mangiarono in cibo: e somministrarono il suo latte e il suo cibo ai piccoli e ai grandi» (Aug. lib. 2 contra Iulian), Dopo gli Apostoli la Chiesa santa crebbe con tali piantatori, irrigatori, edificatori, pastori, nutritori".


«Giacché non è il nostro Dio, come gli dèi loro: e ne siano pur giudici i nostri nemici» (Dt. 32, 31).
"E' nota la lettera di Plinio secondo a Traiano. In essa testimonia l'innocenza dei cristiani, che egli torturava con vari supplizi per ordine di Traiano.
Afferma, che i cristiani non erano ladri, non adulteri, non parricidi. non sediziosi: ma che mancavano solo in questo, che nelle ore prime di giorno onorano Dio con inni e lodi: e che conservano con grande costanza fino alla morte la parola che una volta hanno dato a Cristo. E' nota altresì la lettera di Marco Aurelio, savissimo imperatore, al senato e al popolo Romano. Con essa mostra splendidamente la debolezza dei loro dèi, e la potenza di Cristo, che egli aveva conosciuta a prova nella guerra contro la Germania.
Anche Tertulliano riferisce, che l’innocenza dei cristiani era tanta ben provata dai persecutori di Cristo, che, sebbene incrudelissero contro di tutti e generalmente li facessero ammazzare; tuttavia non volevano, che si discutesse la loro causa; perché sapevano con certezza, che essi non potevano esser convinti di alcun delitto. Secondo che ci fanno sapere Sant'Atanasio e S. Girolamo, anche i pagani veneravano Sant'Antonio e Santo Ilarione. S. Francesco aveva navigato al Sultano, cultore di Maometto, per predicargli il vangelo.
E' incredibile, con quanto ardore ammirasse quell'infedele e venerasse la santità e il disinteresse di quel santo servo di Dio: sicché allora si poteva dire: «Non è il Dio nostro, come gli dèi loro, ecc.». Anche oggi, nel mondo scoperto da poco, quando i pagani vedono la gravità religiosa dei nuovi cristiani, la modestia, la sobrietà, la castità, la carità, la pazienza, il disprezzo del mondo, e ben altra la santità,  altra la severità, altri i costumi dei sacerdoti cristiani, da quelli dei sacerdoti pagani; inarcano le ciglia, restano stupefatti, si convertono, e dicono: Davvero che non v'è Dio, come il Dio dei cristiani".



(san Roberto Bellarmino, Dottore della Chiesa - 1542 - 1621 - dal Catechismo grande della Dottrina cristiana - )

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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07/10/2012 09:10
 
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A colloquio con il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi
 
 
di Nicola Gori e Marta Lago
 
L'apertura della XIII assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi su «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana» avrà una cornice d'eccezione domenica 7 ottobre -- in piazza San Pietro -- con la proclamazione come «dottori della Chiesa» di san Giovanni d'Ávila -- sacerdote diocesano spagnolo -- e santa Ildegarda di Bingen -- monaca benedettina tedesca -- e con la celebrazione eucaristica presieduta da Benedetto XVI. In questo contesto, vengono proposti alla Chiesa universale due nuovi dottori, il cui significato, vicinanza e perenne attualità sottolinea il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in questa intervista concessa al nostro giornale.
 
Che cosa rappresenta oggi la proclamazione di un dottore della Chiesa? Dal punto di vista teologico e pastorale, quali aspetti risaltano con questo atto?
 
Diciamo subito che il titolo di dottore della Chiesa universale è conferito a quei santi e sante, come appunto santa Ildegarda di Bingen e san Giovanni d'Ávila, perchè, con la loro eminente dottrina, hanno contribuito all'approfondimento della conoscenza della divina Rivelazione, arricchendo il patrimonio teologico della Chiesa e procurando ai fedeli la crescita nella fede e nella carità. È questo, in estrema sintesi, il significato della proclamazione di un dottore della Chiesa. Da un punto di vista teologico, si evidenziano aspetti inediti della verità evangelica, e, da un punto di vista pastorale, si suscita nei fedeli un rinnovato appello alla coerenza di vita. Oltre alla santità di vita, quindi, i dottori della Chiesa si distinguono per una particolare eccellenza dottrinale e pastorale.
 
In che consiste l'eminens doctrina dei due dottori? Cosa dire, ad esempio, della badessa benedettina Ildegarda di Bingen?
 
La benedettina tedesca Ildegarda di Bingen (1098-1179), fondatrice e badessa di due monasteri, nelle sue opere enuncia una dottrina esimia per profondità, originalità e fedeltà al dato rivelato. Animata da un'autentica carità intellettuale, ella enuncia con densità di contenuto e freschezza di linguaggio il mistero di Dio Trinità, dell'Incarnazione, della Chiesa, dell'umanità.
 
Può fare qualche esempio?
 
Come esempio, diamo alcuni tratti della sua antropologia. Ildegarda parte dal racconto biblico dell'essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Genesi 1, 26). Ella vede l'immagine divina dell'uomo nella sua razionalità, fatta di intelletto e volontà. L'intelletto può distinguere il bene dal male e svolge la funzione di magister, che permette di capire ogni cosa, anche la divinità e l'umanità di Dio. La volontà spinge l'uomo a compiere ogni opera, sia buona che cattiva. La parola di Dio educa la volontà alla scelta del bene. Per Ildegarda, inoltre, l'essere umano è visto come unità corpo-anima con l'apprezzamento positivo della corporeità in ordine al merito. Che il corpo non sia stato concesso all'uomo solo come peso, lo dimostra il fatto che le anime dei santi desiderano ardentemente la riunificazione con il loro corpo mortale. Di conseguenza il compimento escatologico significa una trasformazione e una risurrezione del corpo per la vita eterna.
 
Cosa insegna Ildegarda nei confronti della relazione uomo-donna?
 
Nel rapporto uomo-donna Ildegarda riafferma la sostanziale uguaglianza creaturale delle due creature. Inoltre, la creazione di Eva dalla costola di Adamo viene vista in riferimento al fatto che la donna venne data all'uomo come socia: «in consortium dilectionis», «socia». Diversamente dagli autori del tempo, che vedevano nel peccato originale l'estrema fragilità femminile, per Ildegarda fu l'ardente amore di Adamo per Eva a dare occasione al demonio di tentare Eva per prima. La lettura della sua opera principale, Scivias, è istruttiva al riguardo.
 
Cosa dire di san Giovanni d'Ávila?
 
San Giovanni d'Ávila (1499/1500-1569) fu uno dei maestri spirituali più prestigiosi e consultati del suo tempo. Ricorsero alla sua sapienza per un retto orientamento di vita, fra gli altri, sant'Ignazio di Loyola, san Giovanni di Dio, san Francesco Borgia, san Tommaso di Villanova, san Pietro d'Álcantara, san Giovanni de Ribera, santa Teresa di Gesù, san Giovanni della Croce. San Giovanni d'Ávila era anche un eccellente catechista e predicatore e non tralasciò di fare un uso magistrale dello scritto per esporre i suoi insegnamenti. Una sua peculiarità è l'affermazione della chiamata universale alla santità per tutti i battezzati. Lungo i secoli i suoi scritti sono stati di grande ispirazione per la formazione sacerdotale e per l'educazione dei laici. Particolarmente attuale risulta la sua insistenza sulla santificazione dei sacerdoti, esperti della parola di Dio e della preghiera della Chiesa, come chiave della continua riforma della Chiesa.
 
Come è iniziato l'iter che ha portato al loro dottorato? Ovviamente non parliamo qui della procedura canonica, ma delle motivazioni ideali per promuovere e sostenere il loro dottorato.
 
Sono principalmente i pastori e i fedeli a sollecitare il Santo Padre a compiere questo passo. Per quanto riguarda Ildegarda di Bingen, ad esempio, in una delle ultime petizioni (1979), i vescovi tedeschi richiedevano con insistenza il dottorato per la santa badessa benedettina. Tra i firmatari, al terzo posto c'è la firma dell'allora cardinale Joseph Ratzinger. I vescovi evidenziavano sia l'eminens doctrina sia l'attualità del pensiero ildegardiano. In particolare: la sua capacità carismatica e speculativa, che può incentivare spiritualmente la teologia contemporanea; con Ildegarda si darebbero alle tante donne accademicamente formate in teologia un modello e uno stimolo per il loro impegno scientifico e pastorale; la comprensione della natura come creazione di Dio, molto presente negli scritti ildegardiani, è di particolare interesse oggi; il dottorato darebbe un forte impulso all'ideale femminile di consacrazione; infine, anche la sua opera musicale potrebbe avere una certa influenza positiva sull'odierna musica di chiesa.
 
E per quanto riguarda san Giovanni d'Ávila?
 
Per san Giovanni d'Ávila il movimento per la promozione del suo dottorato ebbe inizio fin dalla sua canonizzazione, avvenuta nel 1970. Il titolo di maestro, attribuito tradizionalmente al santo, motivava l'ipotesi di un dottorato, promosso soprattutto dalla Conferenza episcopale spagnola. Veniva evidenziato il carisma di sapienza a lui conferito dallo Spirito Santo per il bene della Chiesa e l'influenza benefica del suo insegnamento sul popolo di Dio e soprattutto sui sacerdoti.
 
L'ultima proclamazione di un dottore della Chiesa ebbe luogo nel 1997 con Teresa di Lisieux, una nostra quasi contemporanea. Quale attualità, allora, possono avere questi due nuovi dottori, vissuti rispettivamente nel XII e nel XVI secolo?
 
Credo che la loro attualità emerga da quanto detto prima. Non bisogna mai dimenticare che una dottrina originale ed eminente nel secolo XII o nel secolo XVI può esserlo ancora oggi. L'eminens doctrina -- al pari della santità -- non tramonta mai. I Padri della Chiesa ne sono una convincente testimonianza cogente.
 
Santa Ildegarda è una monaca benedettina e san Giovanni d'Ávila un sacerdote. Cosa possono dire ai fedeli laici?
 
Ai laici, come del resto a tutti, essi possono ispirare pensieri di santità, ma anche illuminarli con le loro riflessioni teologiche, spirituali, catechetiche, formative. Essi insegnano che l'unione con Dio e il compimento della volontà divina sono beni da desiderare grandemente. I cristiani si sentiranno incoraggiati a tradurre nella pratica della vita l'annuncio evangelico in questa nostra epoca. Inoltre questi dottori ammoniscono che il mondo può essere retto e amministrato con giustizia solo se lo si considera creatura del Padre amoroso e provvido che è nei cieli.
 
C'è una qualche ragione per proclamarli insieme Dottori della Chiesa?
 
Si tratta di coincidenza fortuita o, se vogliamo, di una eleganza della divina Provvidenza, il cui significato è tutto da scoprire. Da parte nostra, ringraziamo il Santo Padre per questo dono prezioso alla Chiesa di Cristo.
 
(L'Osservatore Romano 7 ottobre 2012)

OMELIA DEL SANTO PADRE
apertura Sinodo dei Vescovi Annus Fidei 7.10.2012

Venerati Fratelli,
 cari fratelli e sorelle!
 
Con questa solenne concelebrazione inauguriamo la XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che ha per tema: La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana.

Questa tematica risponde ad un orientamento programmatico per la vita della Chiesa, di tutti i suoi membri, delle famiglie, delle comunità, delle sue istituzioni. E tale prospettiva viene rafforzata dalla coincidenza con l’inizio dell’Anno della fede, che avverrà giovedì prossimo 11 ottobre, nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Rivolgo il mio cordiale e riconoscente benvenuto a voi, che siete venuti a formare questa Assemblea sinodale, in particolare al Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi e ai suoi collaboratori. Estendo il mio saluto ai Delegati fraterni delle altre Chiese e Comunità Ecclesiali e a tutti i presenti, invitandoli ad accompagnare nella preghiera quotidiana i lavori che svolgeremo nelle prossime tre settimane.
 Le Letture bibliche che formano la Liturgia della Parola di questa domenica ci offrono due principali spunti di riflessione: il primo sul matrimonio, che vorrei toccare più avanti; il secondo su Gesù Cristo, che riprendo subito. Non abbiamo il tempo per commentare questo passo della Lettera agli Ebrei, ma dobbiamo, all’inizio di questa Assemblea sinodale, accogliere l’invito a fissare lo sguardo sul Signore Gesù, «coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto» (Eb 2,9). La Parola di Dio ci pone dinanzi al Crocifisso glorioso, così che tutta la nostra vita, e in particolare l’impegno di questa Assise sinodale, si svolgano al cospetto di Lui e nella luce del suo mistero. L’evangelizzazione, in ogni tempo e luogo, ha sempre come punto centrale e terminale Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio (cfr Mc 1,1); e il Crocifisso è per eccellenza il segno distintivo di chi annuncia il Vangelo: segno di amore e di pace, appello alla conversione e alla riconciliazione. Noi per primi, venerati Fratelli, teniamo rivolto a Lui lo sguardo del cuore e lasciamoci purificare dalla sua grazia.

 Ora vorrei brevemente riflettere sulla «nuova evangelizzazione», rapportandola con l’evangelizzazione ordinaria e con la missione ad gentes.
La Chiesa esiste per evangelizzare. [SM=g1740721]

Fedeli al comando del Signore Gesù Cristo, i suoi discepoli sono andati nel mondo intero per annunciare la Buona Notizia, fondando dappertutto le comunità cristiane. Col tempo, esse sono diventate Chiese ben organizzate con numerosi fedeli. In determinati periodi storici, la divina Provvidenza ha suscitato un rinnovato dinamismo dell’attività evangelizzatrice della Chiesa. Basti pensare all’evangelizzazione dei popoli anglosassoni e di quelli slavi, o alla trasmissione del Vangelo nel continente americano, e poi alle stagioni missionarie verso i popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’Oceania. Su questo sfondo dinamico mi piace anche guardare alle due luminose figure che poc’anzi ho proclamato Dottori della Chiesa: San Giovanni d’Avila e Santa Ildegarda di Bingen. Anche nei nostri tempi lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa un nuovo slancio per annunciare la Buona Notizia, un dinamismo spirituale e pastorale che ha trovato la sua espressione più universale e il suo impulso più autorevole nel Concilio Ecumenico Vaticano II. Tale rinnovato dinamismo dell’evangelizzazione produce un benefico influsso sui due «rami» specifici che da essa si sviluppano, vale a dire, da una parte, la missio ad gentes, cioè l’annuncio del Vangelo a coloro che ancora non conoscono Gesù Cristo e il suo messaggio di salvezza; e, dall’altra parte, la nuova evangelizzazione, orientata principalmente alle persone che, pur essendo battezzate, si sono allontanate dalla Chiesa, e vivono senza fare riferimento alla prassi cristiana.

L’Assemblea sinodale che oggi si apre è dedicata a questa nuova evangelizzazione, per favorire in queste persone un nuovo incontro con il Signore, che solo riempie di significato profondo e di pace l’esistenza; per favorire la riscoperta della fede, sorgente di Grazia che porta gioia e speranza nella vita personale, familiare e sociale. Ovviamente, tale orientamento particolare non deve diminuire né lo slancio missionario in senso proprio, né l’attività ordinaria di evangelizzazione nelle nostre comunità cristiane. In effetti, i tre aspetti dell’unica realtà di evangelizzazione si completano e fecondano a vicenda.

 Il tema del matrimonio, propostoci dal Vangelo e dalla prima Lettura, merita a questo proposito un’attenzione speciale. Il messaggio della Parola di Dio si può riassumere nell’espressione contenuta nel Libro della Genesi e ripresa da Gesù stesso: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24; Mc 10,7-8). Che cosa dice oggi a noi questa Parola? Mi sembra che ci inviti a renderci più consapevoli di una realtà già nota ma forse non pienamente valorizzata: che cioè il matrimonio, costituisce in se stesso un Vangelo, una Buona Notizia per il mondo di oggi, in particolare per il mondo scristianizzato. L’unione dell’uomo e della donna, il loro diventare «un’unica carne» nella carità, nell’amore fecondo e indissolubile, è segno che parla di Dio con forza, con una eloquenza che ai nostri giorni è diventata maggiore, perché purtroppo, per diverse cause, il matrimonio, proprio nelle regioni di antica evangelizzazione, sta attraversando una crisi profonda. E non è un caso. Il matrimonio è legato alla fede, non in senso generico. Il matrimonio, come unione d’amore fedele e indissolubile, si fonda sulla grazia che viene dal Dio Uno e Trino, che in Cristo ci ha amati d’amore fedele fino alla Croce. Oggi siamo in grado di cogliere tutta la verità di questa affermazione, per contrasto con la dolorosa realtà di tanti matrimoni che purtroppo finiscono male. C’è un’evidente corrispondenza tra la crisi della fede e la crisi del matrimonio. E, come la Chiesa afferma e testimonia da tempo, il matrimonio è chiamato ad essere non solo oggetto, ma soggetto della nuova evangelizzazione. Questo si verifica già in molte esperienze, legate a comunità e movimenti, ma si sta realizzando sempre più anche nel tessuto delle diocesi e delle parrocchie, come ha dimostrato il recente Incontro Mondiale delle Famiglie.

 Una delle idee portanti del rinnovato impulso che il Concilio Vaticano II ha dato all’evangelizzazione è quella della chiamata universale alla santità, che in quanto tale riguarda tutti i cristiani (cfr Cost. Lumen gentium, 39-42). I santi sono i veri protagonisti dell’evangelizzazione in tutte le sue espressioni. Essi sono, in particolare, anche i pionieri e i trascinatori della nuova evangelizzazione: con la loro intercessione e con l’esempio della loro vita, attenta alla fantasia dello Spirito Santo, essi mostrano alle persone indifferenti o addirittura ostili la bellezza del Vangelo e della comunione in Cristo, e invitano i credenti, per così dire, tiepidi, a vivere con gioia di fede, speranza e carità, a riscoprire il «gusto» della Parola di Dio e dei Sacramenti, in particolare del Pane di vita, l’Eucaristia. Santi e sante fioriscono tra i generosi missionari che annunciano la Buona Notizia ai non cristiani, tradizionalmente nei paesi di missione e attualmente in tutti i luoghi dove vivono persone non cristiane. La santità non conosce barriere culturali, sociali, politiche, religiose. Il suo linguaggio – quello dell’amore e della verità – è comprensibile per tutti gli uomini di buona volontà e li avvicina a Gesù Cristo, fonte inesauribile di vita nuova.

 A questo punto, soffermiamoci un momento ad ammirare i due Santi che oggi sono stati aggregati alla eletta schiera dei Dottori della Chiesa. San Giovanni di Avila visse nel secolo XVI. Profondo conoscitore delle Sacre Scritture, era dotato di ardente spirito missionario. Seppe penetrare con singolare profondità i misteri della Redenzione operata da Cristo per l’umanità. Uomo di Dio, univa la preghiera costante all’azione apostolica. Si dedicò alla predicazione e all’incremento della pratica dei Sacramenti, concentrando il suo impegno nel migliorare la formazione dei candidati al sacerdozio, dei religiosi e dei laici, in vista di una feconda riforma della Chiesa.

 Santa Ildegarda di Bingen, importante figura femminile del secolo XII, ha offerto il suo prezioso contributo per la crescita della Chiesa del suo tempo, valorizzando i doni ricevuti da Dio e mostrandosi donna di vivace intelligenza, profonda sensibilità e riconosciuta autorità spirituale. Il Signore la dotò di spirito profetico e di fervida capacità di discernere i segni dei tempi. Ildegarda nutrì uno spiccato amore per il creato, coltivò la medicina, la poesia e la musica. Soprattutto conservò sempre un grande e fedele amore per Cristo e per la Chiesa.
 Lo sguardo sull’ideale della vita cristiana, espresso nella chiamata alla santità, ci spinge a guardare con umiltà la fragilità di tanti cristiani, anzi il loro peccato, personale e comunitario, che rappresenta un grande ostacolo all’evangelizzazione, e a riconoscere la forza di Dio che, nella fede, incontra la debolezza umana. Pertanto, non si può parlare della nuova evangelizzazione senza una disposizione sincera di conversione.
Lasciarsi riconciliare con Dio e con il prossimo (cfr 2 Cor 5,20) è la via maestra della nuova evangelizzazione. Solamente purificati, i cristiani possono ritrovare il legittimo orgoglio della loro dignità di figli di Dio, creati a sua immagine e redenti con il sangue prezioso di Gesù Cristo, e possono sperimentare la sua gioia per condividerla con tutti, con i vicini e con i lontani.

 Cari fratelli e sorelle, affidiamo a Dio i lavori dell’Assise sinodale nel sentimento vivo della comunione dei Santi, invocando in particolare l’intercessione dei grandi evangelizzatori, tra i quali vogliamo con grande affetto annoverare il Beato Papa Giovanni Paolo II, il cui lungo pontificato è stato anche esempio di nuova evangelizzazione. Ci poniamo sotto la protezione della Beata Vergine Maria, Stella della nuova evangelizzazione. Con lei invochiamo una speciale effusione dello Spirito Santo, che illumini dall’alto l’Assemblea sinodale e la renda fruttuosa per il cammino della Chiesa oggi nel nostro tempo .
Amen.


[Modificato da Caterina63 07/10/2012 13:34]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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18/01/2013 18:54
 
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[SM=g1740733] Sofronio Eusebio Girolamo, noto come san Girolamo, san Gerolamo o san Geronimo - Stridone (Croazia), 347 – Betlemme, 30 settembre 419/420 - è stato uno scrittore, teologo e santo romano, nonché padre e dottore della Chiesa. Tradusse la Bibbia dal greco e dall'ebraico al latino, la famosa Vulgata.


Dopo le brevi riflessioni con san Gerolamo:
www.gloria.tv/?media=384972

proseguiamo con altri video, brevi ma forti nel contenuto, che ci aiuteranno a meditare su Maria Santissima, la Chiesa e la dolcezza delle virtù che siamo chiamati a vivere.
Bello questo passo di sant'Agostino sulla Verginità, Maria e la Chiesa....

www.gloria.tv/?media=387259


Movimento Domenicano del Rosario
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video 1




VIDEO 2






[SM=g1740733] La grandezza dei Padri, Santi e Dottori della Chiesa risiede nel fatto che, per quanto abbiano scritto in lungo e largo, è davvero sufficiente prendere alcuni quadri dai loro Sermoni per avere dispiegata avanti a noi la bellezza del Mistero rivelato. Il Mistero resta perchè è tutto un prodigio e un prodigio non si svela se non quando vedremo l'Autore "a faccia a faccia", ma da questi insegnamenti dottrinali e catechetici a noi viene donata quella luce che rischiara l'anima e riscalda il cuore, senza lasciarci in balia delle tempeste dottrinali, o nell'ignoranza.

Così Sant'Ambrogio ci descriveva Maria Santissima nella Sua verginità virtuosa:
www.gloria.tv/?media=390209



Vi ricordiamo della stessa serie:

1. riflessioni con san Gerolamo:
www.gloria.tv/?media=384972

2. sant'Agostino sulla Verginità, Maria e la Chiesa....
www.gloria.tv/?media=387259


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[SM=g1740750]


[SM=g1740771]




[Modificato da Caterina63 25/01/2013 14:17]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740733]Per questo Anno della Fede, Benedetto XVI, lo aveva iniziato proclamando Santa Ildegarda, mistica e profeta, Dottore della Chiesa, poi, il giorno proprio in cui annunciò le sue dimissioni, aveva appena firmato per la proclamazione a Santi gli 800 martiri di Otranto.... Canonizzazione che sarà proclamata dal suo Successore, Papa Francesco.


Attesa per gli 800 Martiri di Otranto,
domenica diventeranno santi

In piazza San Pietro. La data decisa da Benedetto XVI, nel giorno in cui l'ex Pontefice annunciò le sue dimissioni

http://4.bp.blogspot.com/-ntBsQ5MAZac/UVsVJ21uVMI/AAAAAAAAHWI/x9zHu78uCHs/s1600/otranto%5B1%5D.jpg

OTRANTO (LE) - Grande attesa ad Otranto, in provincia di Lecce, perché domenica 12 maggio in piazza San Pietro si terrà la canonizzazione degli 800 Beati Martiri di Otranto. La data è stata stabilita il 12 febbraio scorso dal Papa Benedetto XVI, proprio nel giorno in cui l'ex Pontefice annunciava le sue dimissioni per il 28 febbraio scorso.

Durante l'assedio dei Turchi del 1480, i cittadini di Otranto dai quindici anni in su furono posti di fronte alla tragica alternativa di convertirsi all'Islam, rinnegando la fede cristiana, o ad essere uccisi. Il primo a rifiutarsi fu Antonio Primaldo, seguito da altri 800 uomini. Furono tutti decapitati sul colle della Minerva. La comunità di Otranto da giorni si sta preparando all'evento con un cammino di preghiera e di riflessione.

Stasera al Monastero delle Clarisse sul Colle del Martirio, l'arcivescovo Donato Negro celebra la Festa dei Giovani. Domenica la cerimonia di canonizzazione dei Beati Martiri sara' seguita da tante persone sia in piazza San Pietro che a distanza in città. Il programma delle celebrazioni si chiuderà il 30 maggio con una messa di ringraziamento per la canonizzazione, presieduta dal cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

[SM=g1740733]




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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