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Il mito del... progresso... e le utopie della modernità

Ultimo Aggiornamento: 13/01/2018 15:56
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[SM=g1740758] Il mito del progresso


Una riflessione firmata da Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l'Urbaniana


di Rodolfo Papa

ROMA, mercoledì, 8 agosto 2012 (ZENIT.org) - Il mito del progresso sembra essere uno dei miti più forti prodotti dalla modernità, tanto da resistere persino alla relativizzazione e al debolismo tipici della mentalità postmoderna. Il mito del progresso ha impregnato fortemente la riflessione sulla storia, e intrattiene un rapporto peculiare con la storicizzazione dell’arte.

Ancora oggi, la maggior parte dei manuali propone la storia delle arti come una successione continua “dal peggio al meglio” secondo un puro criterio cronologico, secondo il quale ciò che viene dopo è senz’altro migliore rispetto a ciò che viene prima [1].

Ma dove nasce questo mito? La nozione di progresso accompagna ogni riflessione umana, ma il mito moderno del progresso, inteso come «filo conduttore della comprensione unitaria e organica degli eventi storici», affonda le radici in modo peculiare nell’Illuminismo del XVIII secolo; infatti, come lo storico della filosofia Miccoli ha messo in evidenza, le progrès funge da «denominatore comune nella proporzione ottimistica stabilita tra l’accrescimento quantitativo delle scoperte scientifiche e l’incremento qualitativo della felicità che accompagna l’evoluzione del genere umano sotto forma di storia della civilizzazione» [2].

Il mito del progresso è strettamente legato ad una visione meccanicistica e quantitativa della realtà, nella quale ogni aumento viene registrato come sommatorio e come positivo. È intimamente connesso all’entusiasmo sollevato dal progresso scientifico; già Bacone, nel suo Novum Organon del 1620, sembra identificare il progresso in quanto tale con quello delle scienze, da lui intese come somma di conoscenza e potere, dunque dominio della natura: «non si tratta solo della felicità della contemplazione, ma del destino e della fortuna del genere umano e di tutta la potenza delle opere. L’uomo, infatti, ministro e interprete della natura, tanto opera e comprende quanto, dell’ordine della natura, avrà osservato, con l’attività sperimentale o con la teoria»[3].

Il progresso è soprattutto un modo di valutare la storia e il passaggio del tempo, nella convinzione che l’uomo, grazie allo sviluppo delle proprie capacità, riesca a dominare la realtà e a costruire un mondo ed una società via via migliori. Il mito del progresso è, infatti, alla base delle grandi utopie della modernità, a partire dalla Nuova Atlantide dello stesso Bacone, e viene condiviso da pensatori assai diversi.

Il mito del progresso si rivela, infatti, come una sorta di filo conduttore, entro il quale è possibile leggere esperienze del pensiero e della cultura assai diverse e distanti fra di loro.

Nel corso dell’Ottocento, per esempio, appaiono filosofie progressive tanto l’idealismo quanto il materialismo positivista, tanto Hegel quanto Comte. Sia la dialettica di Hegel che la legge dei tre stadi di Comte, che traduce “la marche progressive de l’esprit humain” non cadono nelle ingenuità del progresso lineare, essendo la prima segnata dalla peculiarità del processo della dialettica storica dello Spirito e la seconda dalle serie di oscillazioni variabili quasi biologiche.

Tuttavia il mito del progresso si semplifica via via nella visione del tempo secolarizzata: una linea retta verso il meglio, che non è più historia salutis ma histoire de la civilisation. Il futuro diventa il paradigma per il presente, un futuro fatto di tecnologia e innovazione, così nel Manifesto del futurismo scritto da Filippo Tommaso Marinetti nel 1909, leggiamo: «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno […]

Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo [...] un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia […] Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli! [...] Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente».

Il progresso entra in dialogo, e per certi versi sussume, le concettualità diverse dello sviluppo e dell’evoluzione, entrambe derivate dalle scienze biologiche. L’idea di sviluppo introduce l’idea di una crescita organica, teleologicamente motivata, mentre di contro l’evoluzione illustra un processo verso il più complesso dominato dal caso.

Entrambe, tuttavia, sia lo sviluppo che l’evoluzione, sembrano nutrire il mito stesso del progresso, che si rivela quanto mai onnivoro e invadente.

Tuttavia, è un mito che mostra presto i propri limiti e le proprie ambiguità. Inizialmente la critica al progresso appartiene a pochi che si soffermano a riflettere, successivamente, soprattutto dopo le Due Guerre Mondiali, appaiono evidenti a ciascuno le crepe di un mito ormai caduto.

Ma il mito del progresso viene denunciato già entro le soglie del XIX secolo. In modo particolare Nietzsche nella Seconda Considerazione Inattuale. Sull’utilità e il danno della storia per la vita del 1874, traccia, secondo alcuni, il confine finale della modernità [4]. Nietzsche critica la cultura occidentale, e in modo speciale lo storicismo che rende l’uomo incapace di storia, e che è un prodotto del razionalismo del progresso, della fede positivista nella scienza.

Ma ancora prima di Nietzsche, è Leopardi a porre una critica radicale a questa visione della storia, soprattutto nella Ginestra scritta nel 1836, dove la grande tracotanza moderna appare ritratta nella sua ridicola e tragica sconfitta: «Dipinte in queste rive/ Son dell’umana gente /Le magnifiche sorti e progressive/ Qui mira e qui ti specchia/ Secol superbo e sciocco,/Che il calle insino allora/Dal risorto pensier segnato innanti/Abbandonasti, e volti addietro i passi,/Del ritornar ti vanti,/E proceder il chiami».

E ancora più incisivamente, la superbia e la sciocchezza del secolo che crede nelle sorti magnifiche e progressive appare nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo del 1824, in cui viene illustrata la scomparsa della specie umana: «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». E gli uomini sono spariti per loro propria causa: « Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l'un l'altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male»; ma il mondo continua ad andare avanti e lo gnomo afferma: «Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli» .

Una critica molto forte all’idea di progresso e soprattutto agli aspetti intrinsecamente negativi del progresso scientifico e tecnologico proviene nel secolo XX dalla Scuola di Francoforte, che si distanzia in questo dal marxismo classico. Il dominio recato dalla scienza è in realtà una forma di schiavitù. Ben lontano dal “promontorio estremo dei secoli”, ma anche ben oltre la denuncia del “secolo superbo e sciocco”, Horkeimer mostra il mondo che «sembra andare verso una catastrofe, o meglio trovarvisi già» [5]. Adorno, quando denuncia la “cattiva coscienza” del progresso, che mentre libera distrugge, diffida anche dell’estremo antiprogressismo, che può rovesciarsi nell’irrazionalismo.

L’immagine più suggestiva dell’ambiguità del progresso è, forse, quella offerta da Walter Benjamin: «C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.

Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta»[6].

Il progresso viene, dunque, rappresentato come una tempesta che proviene dal paradiso, spinge verso un futuro che non vediamo, mentre si accumulano i detriti del passato.

Il mito del progresso sembra dunque svelato nella sua valenza mitica, ma può, tuttavia, dirsi superato? Il termine rimane ancora investito di valenza fortemente positiva: «Noi diamo per scontato che qualsiasi progresso tecnologico sia, per definizione, un progresso. Sì e no. Dipende da cosa intendiamo per progresso.

Di per sé, progredire è solo un “andare avanti” che comporta un aumento. E non è detto che questo aumento debba essere positivo. Anche di un tumore si può dire che è in progresso; e in questo caso quel che aumenta è un male, una malattia. In molto contesti, allora, la nozione di progresso è neutra. Ma in riferimento al progredire della storia la nozione di progresso è positiva. Per l’illuminismo, e ancor oggi per noi, progresso è una crescita di civiltà, un aumento in meglio, un miglioramento» [7].

Eppure la nozione di progresso, sebbene per più versi demitizzata, continua ad essere uno dei motori più forti della storicizzazione artistica, soprattutto di tipo manualistico. La sua persistenza ci obbliga a riflettere ancora.

*

NOTE

[1] Per quanto segue, cfr. R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012, cap. III.

[2] P. Miccoli, La voce di Clio. Lineamenti di filosofia della storia, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008, p. 131.

[3] F. Bacone, Nuovo organo [1620], trad.it., Rusconi, Milano 1998, VI, pp. 57-58.

[4] «Appare, dunque, comprensibile il rifiuto nietzscheiano del mito del Progresso e della Storia: la seconda Considerazione inattuale (1874) chiude l’epoca della modernità e pare il periodo fluido e incerto, poliedrico e danzante della postmodernità. La concezione lineare della storia, propria in forma religiosa del secondo uomo ed in forma utopica del terzo uomo, viene ibernata» G. Morra, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità?, Armando editore, Roma 1992, p. 18.

[5] M. Horkheimer, Materialismo e morale [1933], in Teoria critica. Scritti 1932-1941, trad.it. Einaudi, Torino 1974, p. 95.

[6] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia [1940], in Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it., Einaudi, Torino 2006, p. 79.

[7] G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 19.

[SM=g1740771]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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  Bignami laicista per «leoni da tastiera»

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lion

Fra i tanti effetti del successo ormai planetario del social network come modalità di comunicazione istantanea e condivisa ve n’è uno che merita di essere messo in evidenza in quanto particolarmente significativo, vale a dire la progressiva diffusione del «leone da tastiera» anticattolico. Di chi si tratta? Di soggetti di varie fasce di età anche se in prevalenza giovani che, pur non di rado contraddistinti da un elevato livello di istruzione, proprio non riescono a trattenere in generale il loro astio nei confronti delle religioni, ritenute oppio dei popoli, e, in particolare, quello contro la Chiesa cattolica, vista come l’Istituzione simbolo di tutte le peggiori nefandezze e dei più efferati crimini a sfondo confessionale commessi nel corso della storia.

Il modus operandi del «leone da tastiera» – che appunto predilige i “botta e risposta” su internet mentre nelle discussioni dal vivo, se messo alle strette, finisce sovente per perdere le parole assumendo le sembianze di un agnellino indifeso – è caratterizzato da una contraddizione e da diversi luoghi comuni. La contraddizione è quella di proclamarsi amante della libertà ma di esibire forte insofferenza verso quella del culto che osi sbucare dalle catacombe: in pratica, anche se si professa campione della democrazia, il «leone da tastiera» è un inconsapevole nostalgico dei fascismi. L’aspetto più interessante del «leone da tastiera» è però il repertorio di luoghi comuni che, quando capita, spara come pallottole che, però, possono trasformarsi in boomerang. Vediamone alcuni.

Il primo luogo comune per essere un buon «leone da tastiera» è quello di ricordare sempre, alla prima occasione, che in nome di Dio si sono commesse atrocità: vero, purtroppo. Ma generalizzare o esagerare, in tutti i casi incluso questo, sarebbe sbagliato. In seguito ad un accurato esame di quasi milleottocento conflitti si è infatti potuto appurare come meno del sette percento di questi, in realtà, sia stato originato da motivi religiosi (cfr.Encyclopedia of Wars, 2004); per quanta ostilità si possa avere verso la religione, le cause delle peggiori crudeltà vanno, dunque, ricercate altrove. Non a caso la gran parte dei conflitti moderni – dalla campagna napoleonica alla guerra in Corea, dalla Rivoluzione Americana a quella Russa – non sono di natura confessionale.

Negli stessi dittatori novecenteschi, più che una ispirazione religiosa, è l’anticristianesimo ad essere stato ben presente: da Benito Mussolini (1883-1945) – che dopo i Patti Lateranensi, davanti al Gran Consiglio del fascismo, disse un eloquente «Abbiamo fatto la pace con la Chiesa…Ora che la pace è fatta, si può pure riprendere la guerra!» – ad Adolf Hitler (1889–1945), per il quale il cristianesimo era «un’invenzione di cervelli malati», un insieme di «mistificazioni ebraiche manipolate dai preti». Impressionanti, in particolare, le parole pronunciate dal padre del nazionalsocialismo la notte tra l’11 e il 2 luglio 1941: «Il colpo più duro che l’umanità abbia ricevuto è l’avvento del cristianesimo. Il bolscevismo è un figlio illegittimo del cristianesimo».

Un secondo, immancabile “must” di ogni buon «leone da tastiera» è l’Inquisizione che nel Medio Evo avrebbe spedito al rogo – si narra – milioni di persone. Ora, a parte che ad eseguire le condanne era in ogni caso l’autorità secolare, e a parte che il solo parlare di “milioni” di roghi evidenzia notevole incompetenza rispetto all’effettiva dimensione, molto più ridotta, del fenomeno, c’è da dire che l’apice delle caccia alle streghe si registrò durante il Rinascimento e nelle regioni germaniche protestanti più che in quelle cattoliche: dunque quella sulla sanguinaria Santa Inquisizione del Medio Evo è solo un’invenzione come dimostrano pure il contenuto ricorso alla tortura e le sentenze di morte, relativamente poche accanto a quelle di quasi tutti gli altri tribunali italiani dell’epoca.

Non è un caso che, ripetendo sostanzialmente il pensiero anche di altri studiosi, la storica abbia Anne Schutte si sia spinta ad affermare come quel sistema inquisitoriale avesse «offerto la migliore giustizia criminale possibile nell’Europa dell’età Moderna». Lo dimostra il fatto – anche questo accertato dagli storici – che l’Inquisizione del Sant’Uffizio, ben lungi dall’essere quell’infernale e sanguinario tribunale che molti immaginano, adottasse nell’accertamento delle colpe metodologie più scettiche e rigorose di quanto facessero, negli stessi anni, i tribunali laici e le gerarchie ecclesiastiche locali, più facilmente inclini a cedere alle istanza fanaticamente persecutorie espresse dalla società civile. Insomma, chi parla della “terribile” Santa Inquisizione nel Medioevo non sa proprio, di fatto, che sta dicendo.

Terzo cavallo di battaglia per ogni buon «leone da tastiera» è poi, collegato a quello inquisitoriale, il processo di Galileo Galilei (1594-1642). L’argomento, anche qui, è non di rado tirato in ballo da chi ancora crede che costui sia stato processato per aver detto che la Terra era rotonda (questione risolta in realtà prima di Cristo) o da chi pensa che abbia dovuto subire indicibili torture mentre invece, dopo la condanna, la vita dello scienziato pisano continuò – è il caso di dirlo – di villa in villa: prima nel Giardino di Trinità dei Monti (alloggio a cinque camere, vista sui giardini vaticani e cameriere personale), poi nella magnifica Villa dei Medici al Pincio, quindi a Siena presso l’amico e arcivescovo Ascanio Piccolomini (1590–1671), in seguito a Firenze nella sua casa di Costa San Giorgio e, infine, nella Villa di Arcetri, presso il Monastero delle Clarisse di San Matteo dove vivevano le sue due figlie suore.

Non ha neppure senso, a ben vedere, considerare il processo a Galilei come quel terribile ed epocale scontro fra Scienza e Fede di cui spesso si sente dal momento che furono anzitutto invidie e rivalità accademiche a precederlo e a generarlo. Tutto questo, va da sé, il «leone da tastiera» lo ignora, ma uno studioso serio come Federico Di Trocchio (1949-2013) non aveva per esempio difficoltà ad ammettere come, in realtà, sia stato «gruppo di scienziati pisani e fiorentini a suscitare il fatale scontro tra Galileo e la Chiesa, mossa che costituiva l’unica possibilità di arrestare il copernicanesimo, vista l’impossibilità di contrastarlo sul piano scientifico». Inoltre è da considerare come non fu quello che lo scienziato pisano sosteneva – l’eliocentrismo – a procurargli processo e condanna, bensì come lo sosteneva, cioè vantando una sicurezza che nel processo, di fatto, non seppe supportare con i giusti argomenti

E che dire, continuando, dell’8×1000 alla Chiesa Cattolica? Non c’è «leone da tastiera» che su questo non si scateni ricordando come al riguardo abbia speso parole critiche anche la Corte dei Conti. Ora, a parte che dette critiche hanno fatto sobbalzare – tanto sono parse opinabili – giuristi del calibro del professor Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, due sono i fatti che stentano, ogni volta, ad essere capiti. Il primo riguarda la natura dell’8×1000 che, più che un regalo alle confessioni religiose, è in realtà un caso di democrazia nell’indirizzo della spesa pubblica con cui i cittadini possono partecipare alla destinazione della spesa tra finalità confrontabili: non è quindi certo colpa della Chiesa se l’ottanta percento dei contribuenti che esprimono una preferenza lo faccia in suo favore.

Il secondo aspetto da considerare è che, se da un lato è vero che grazie all’8×1000 una consistente quantità di fondi viene destinata alla Chiesa – nel 2015 sono stati così assegnati novecentonovantacinque milioni di euro -, dall’altro il risparmio che la Chiesa, con scuole, assistenza e servizi vari assicura allo Stato italiano, è decisamente maggiore ed è stato stimato in undici miliardi di euro annui (Cfr. Rusconi G. Come la Chiesa italiana accompagna la società nella vita di ogni giorno, Rubbettino 2013). Questo significa che se per magia la Chiesa in Italia sparisse – scenario che ogni buon «leone da tastiera», in cuor suo, sogna ardentemente – per lo Stato italiano sarebbero guai seri. E, soprattutto, lo sarebbero per le tasche di noi contribuenti, già messe alla prova da una pressione fiscali che, com’è noto, non ha pari al mondo.

Un quarto intramontabile argomento del «leone da tastiera», quando vuole mettere in seria difficoltà un interlocutore sospettato di essere cattolico, è quello delle Crociate. Una esperienza storica, si lascia intendere, vergognosa e criminale nella quale i cristiani avrebbero gettato la maschera rivelando tutto il loro spirito guerrafondaio. Quello che il «leone da tastiera» non dice è però che sono stati anzitutto mussulmani, con ancora il profeta Maometto in vita, ad iniziare la Jihad conquistando prima l’Arabia, a quell’epoca ancora in gran parte pagana, quindi Gerusalemme e i Luoghi Santi. Sbagliato sarebbe dunque attribuire al Cristianesimo la responsabilità originale delle crociate le quali, comunque, iniziarono dopo cinque secoli la grande e persistente offensiva islamica alla Cristianità.

Questo significa che, allorquando presero avvio, le vituperate Crociate – ognuna delle quali ha avuto luogo, giova rammentarlo, sotto espressa autorizzazione pontificia -, ben lungi dall’essere una cinica guerra di conquista, furono in primo luogo una risposta militare a secoli di incontrastato imperialismo mussulmano al quale, appunto, si replicò solo quando maturarono le condizioni e la forza per poterlo fare adeguatamente. Va quindi sottolineato come le Crociate furono inaugurate con tre finalità la cui legittimità è difficilmente contestabile. La prima, come detto, era la riconquista dei Luoghi Santi; la seconda era la difesa dell’incolumità dei pellegrini; la terza, la risposta militare a ben cinque secoli di conflitti fino a quel momento solo ed esclusivamente subiti.

Il quinto cavallo di battaglia del «leone da tastiera» è quello della pedofilia all’interno della Chiesa. Come per i crimini commessi in nome di Dio – che purtroppo non sono una creazione letteraria – anche in questo caso è bene sottolineare che non si tratta di un problema inventato: i pedofili preti sono esistiti e non è da escludere che, in quale realtà, possano ancora esistere. Tuttavia non va dimenticato come quello della pedofilia nella Chiesa sia una questione spesso strumentalizzata a fini anticristiani: non è un caso che in Germania, nel maggio 1937 – guarda caso subito dopo che, nel marzo dello stesso anno, Papa Pio XI (1857-1939) aveva condannato l’ideologia nazista con l’enciclica Mit brennender sorge – ad iniziare una feroce campagna contro i preti pedofili arrestando centinaia di sacerdoti, sia stato un certo Joseph Goebbels (1897-1945), ministro della propaganda del Terzo Reich.

Questo non significa, lo si ripete, che il problema della pedofilia nella Chiesa non esista: anche un solo pedofilo prete è qualcosa d’inaccettabile, così come del tutto inaccettabili sono le parole di chi giustifica gli abusi o non fosse chiaro nel condannarli. Ad ogni modo è bene sapere quanto il sociologo Massimo Introvigne, commentando i più recenti studi dell’americano John Jay College of Criminal Justice, fa osservare, vale a dire che oggi la diffusione degli abusi sui minori nelle scuole pubbliche, nelle società sportive giovanili e fra i boy scout non cattolici che è sedici volte maggiore di quella riscontrata nelle scuole e parrocchie cattoliche, ambienti dunque sedici volte più sicuri. Una realtà molto diversa da quella che – come anche sull’Inquisizione, sul processo Galilei e tutto il resto – i «leoni da tastiera» amano presentare. Fino a quando, ovvio, non incontrano qualcuno di minimamente preparato: allora, per loro, si mette davvero male.

(“La Croce”, 19.11.2015, p.2)

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  ecco il mito progressista portato alle estreme conseguenze....

“Arturo Sosa Abascal, generale dei Gesuiti, intervistato: mi identifico in Papa Francesco, la parola è relativa e il Vangelo è scritto da esseri umani” di Finan Di Lindisfarne

Intervistato da una testata svizzera, il capoccione dei Gesuiti – o forse sarebbe meglio chiamarli Sataniti – ha proferito parole eretiche e pericolosissime per le anime dei fedeli. Leggete:

D. – Il cardinale Gerhard L. Műller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, ha detto a proposito del matrimonio che le parole di Gesù sono molto chiare e “nessun potere in cielo e in terra, né un angelo né il papa, né un concilio né una legge dei vescovi, ha la facoltà di modificarle”.

R. – Intanto bisognerebbe incominciare una bella riflessione su che cosa ha detto veramente Gesù. A quel tempo nessuno aveva un registratore per inciderne le parole. Quello che si sa è che le parole di Gesù vanno contestualizzate, sono espresse con un linguaggio, in un ambiente preciso, sono indirizzate a qualcuno di definito.

(Traduzione: il Vangelo è inaffidabile perchè non esistevano i registratori. La testimonianza degli Apostoli va presa con le pinze. N.d.r.)

D. – Ma allora, se tutte le parole di Gesù vanno esaminate e ricondotte al loro contesto storico, non hanno un valore assoluto.

R. – Nell’ultimo secolo nella Chiesa c’è stato un grande fiorire di studi che cercano di capire esattamente che cosa volesse dire Gesù… Ciò non è relativismo, ma certifica che la parola è relativa, il Vangelo è scritto da esseri umani, è accettato dalla Chiesa che è fatta di persone umane… Perciò è vero che nessuno può cambiare la parola di Gesù, ma bisogna sapere quale è stata!

(Traduzione: si chiama relativismo, che è in contrasto con la Fede Cattolica, che si fonda su verità ASSOLUTE. Il Satanita insiste sul fatto che “bisogna capire cosa ha esattamente detto Gesù”. Quindi il Vangelo non è affidabile. N.d.r.)

D. – È discutibile anche l’affermazione in Matteo 19, 3-6: “Non divida l’uomo ciò che Dio ha congiunto”?

R. – Io mi identifico con quello che dice papa Francesco. Non si mette in dubbio, si mette a discernimento…

(Traduzione: tra la Parola di Dio e la parola di Bergoglio, scelgo Bergoglio. Dubbio e discernimento… ma non prenderci in giro, Sosa! N.d.r.)

D. – Ma il discernimento è valutazione, è scelta tra diverse opzioni. Non c’è più un obbligo di seguire una sola interpretazione…

R. – No, l’obbligo c’è sempre, ma di seguire i risultati del discernimento.

(Traduzione: c’è l’obbligo di seguire i dettami di Bergoglio e delle sue eresie. N.d.r.)

D. – Però la decisione finale si fonda su un giudizio relativo a diverse ipotesi. Prende in considerazione dunque anche l’ipotesi che la frase “l’uomo non divida…” non sia esattamente come appare. Insomma mette in dubbio la parola di Gesù.

R. – Non la parola di Gesù, ma la parola di Gesù come noi l’abbiamo interpretata. Il discernimento non sceglie tra diverse ipotesi ma si pone in ascolto dello Spirito Santo, che – come Gesù ha promesso – ci aiuta a capire i segni della presenza di Dio nella storia umana.

(Traduzione: le Parole di Gesù sono chiarissime e fatte per essere capite da tutti. Questo falsario invece usa le parole come facevano i sofisti. Vade retro, Gesuita! N.d.r.)

D. Ma come discernere?

R. – Papa Francesco fa discernimento seguendo sant’Ignazio, come tutta la Compagnia di Gesù: bisogna cercare e trovare, diceva sant’Ignazio, la volontà di Dio. Non è una ricerca da burletta. Il discernimento porta a una decisione: non si deve solo valutare, ma decidere.

(Traduzione: No, decisamente! Bergoglio non fa come Sant’Ignazio! Non diciamo castronerie, Sua Diabolicità, per favore. N.d.r.)

D. – E chi deve decidere?

R. – La Chiesa ha sempre ribadito la priorità della coscienza personale.

(Traduzione: Altra menzogna. La Chiesa ha sempre ribadito l’oggettività dell’insegnamento. Lei, invece, “Padre”, propone la religione del relativismo, ovvero “ognuno faccia come vuole”, che si sposa benissimo con la dottrina luterana. Che infatti vi piace tanto. N.d.r.)

D. – Quindi se la coscienza, dopo il discernimento del caso, mi dice che posso fare la comunione anche se la norma non lo prevede…

R. – La Chiesa si è sviluppata nei secoli, non è un pezzo di cemento armato. È nata, ha imparato, è cambiata. Per questo si fanno i concili ecumenici, per cercare di mettere a fuoco gli sviluppi della dottrina. Dottrina è una parola che non mi piace molto, porta con sé l’immagine della durezza della pietra. Invece la realtà umana è molto più sfumata, non è mai bianca o nera, è in uno sviluppo continuo.

(Traduzione: La Dottrina vi fa schifo, perchè vi fa schifo la Parola di Dio. Si vergogni e si tolga l’abito. La realtà è sfumata? Mi viene il dubbio che lei abbia delle turbe psichiche. N.d.r.)

D. – Mi par di capire che per lei ci sia una priorità della prassi del discernimento sulla dottrina.

R. – Sì, ma la dottrina fa parte del discernimento. Un vero discernimento non può prescindere dalla dottrina.

(Traduzione: il Discernimento, come diceva il suo Santo Fondatore, è un dono che consente di “discernere” se uno spirito proviene da Dio, da Satana, o dall’uomo. La Dottrina invece è l’eredità che Cristo ci ha lasciato e mantenuta e difesa dalla Chiesa nei Secoli. La sua affermazione è un controsenso. Se lei, poi, dice che “un vero discernimento non può prescindere dalla dottrina”, allora non può sostenere che Gesù vada reinterpretato.)

D. – Però può giungere a conclusioni diverse dalla dottrina.

R. – Questo sì, perché la dottrina non sostituisce il discernimento e neanche lo Spirito Santo.

(Traduzione: mi chiamo Sosa, sono il generale dei gesuiti e sono convinto di essere superiore a Dio. Quindi cambio la dottrina insieme ai miei amiconi come Spadaro, Bergoglio e gli altri. N.d.r.)

(Fonte: http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/02/22/matrimonio-e-divorzio-il-generale-dei-gesuiti-anche-gesu-va-reinterpretato/)

Ho voluto un pò scherzare tra le righe, ma la cosa è preoccupante.

La Chiesa ha bisogno di purificazione. Soprattutto da mele marce come questo eretico Gesuita.

Quello che viene proposto è un veleno pericolosissimo che Benedetto XVI chiamò “DITTATURA DEL RELATIVISMO”.

E fece bene a chiamarla dittatura, perchè chi osa affermare l’oggettività della Dottrina viene subito messo a tacere dal capo supremo, anch’egli gesuita relativista.

Vi lascio a contemplare la foto di questo “Generale in magliettina”. Diffidate da chi vi propone una religione basata solo sulla coscienza personale!

Gesù è venuto a salvarci ed è andato in Croce. C’è poco da reinterpretare.

Finan di Lindisfarne

 

https://anonimidellacroce.wordpress.com/



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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