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1988-1998 i dieci anni dall'Ecclesia Dei..... e il Giubile del 2000

Ultimo Aggiornamento: 25/08/2012 19:39
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«Forme liturgiche diverse non sono contro l’unità»

Unità nella fede, libertà nei riti, carità in ogni cosa


In occasione dei dieci anni del motu proprio Ecclesia Dei (1988-1998), il cardinale Joseph Ratzinger ha partecipato a una tavola rotonda organizzata da cattolici fedeli alla messa di san Pio V


di Gianni Cardinale tratto da 30giorni del 1998

Ha compiuto dieci anni il 2 luglio la Pontificia Commissione «Ecclesia Dei», il dicastero vaticano fondato da Giovanni Paolo II con l’omonimo motu proprio con il compito di cercare di «facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose finora in vario modo legati alla Fraternità fondata da monsignor Marcel Lefebvre, che desiderino rimanere uniti al successore di Pietro nella Chiesa cattolica, conservando le loro tradizioni spirituali e liturgiche». Non sono mancate iniziative per ricordare l’avvenimento.

Il 15 giugno Giovanni Paolo II ha invitato a pranzo i vertici del dicastero (il cardinale Angelo Felici, presidente, e monsignor Camille Perl, segretario). Erano anni che non accadeva. Questa volta, forse, oltre che l’anniversario ha influito sulla particolare attenzione pontificia anche il fatto che in Polonia, territorio che finora ne era immune, si fa sempre più vivace la presenza del movimento lefebvriano, cosa di cui si sono lamentati i presuli locali durante le visite
ad limina svolte nei primi mesi dell’anno. A fine ottobre poi, sempre per il decennale, migliaia di sacerdoti (appartenenti a realtà come la Fraternità sacerdotale San Pietro e l’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote) e fedeli tradizionalisti, ma non lefebvriani, sono venuti in pellegrinaggio a Roma.

L’avvenimento ha avuto ampio risalto sui mass media francesi (tre articoli benevoli su
Le Figaro, uno, critico, su Le Monde). Provenienti soprattutto dalla Francia, dagli Stati Uniti – presente anche il vescovo di Scranton (Pennsylvania), James C. Timlin – e dalla Germania i pellegrini tradizionalisti il 26 ottobre sono stati ricevuti in udienza da Giovanni Paolo II il quale nel suo discorso ha comunque ribadito che «spetta in primo luogo ai vescovi, in comunione con il successore di Pietro, esercitare con fermezza e chiarezza la guida del gregge, affinché la fede cattolica sia salvaguardata ovunque». Una delle indicazioni presenti nel motu proprio Ecclesia Dei
è quella, indirizzata ai vescovi, di essere larghi nel concedere l’indulto, la possibilità cioè, ai fedeli che ne facessero richiesta, di partecipare ad una messa secondo il rito cosiddetto di san Pio V o tridentino. E proprio sulla questione dell’indulto non mancano attriti, soprattutto in Francia, ma anche negli Stati Uniti, tra fedeli tradizionalisti e vescovi che si rifiutano di concederlo. Di questo problema si è discusso nell’appuntamento forse più importante del pellegrinaggio tradizionalista, la tavola rotonda tenutasi il 24 ottobre nell’Hotel Ergife (con circa 2500 fedeli presenti) cui hanno partecipato l’abate di Sainte-Madeleine-du-Barroux, dom Gérard Calvet, il presidente dell’associazione internazionale Una Voce, Michael Davies, il professore tedesco Robert Spaemann e, ospite d’onore, il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Moderatore dell’incontro è stato monsignor Perl.
E proprio da questo incontro sono tratti i documenti pubblicati in queste pagine, e cioè l’introduzione del cardinale Ratzinger, l’intervento di dom Gérard in cui si chiedono ulteriori richiami perché i vescovi riluttanti concedano l’indulto, e ampi brani della replica del porporato tedesco. Pubblichiamo inoltre una breve intervista concessa dallo stesso Ratzinger ed una dell’arcivescovo francese Jean-Louis Tauran, “ministro degli Esteri” della Santa Sede. Nell’intervento di risposta a dom Gérard Calvet e nell’intervista, il cardinale Ratzinger, pur mostrando comprensione per le richieste dell’abate e per quelle – simili – di Davies, ha ribadito di non prevedere ulteriori interventi della Santa Sede su questo argomento.
In effetti negli ultimi mesi erano filtrate indiscrezioni riguardo a due nuovi documenti vaticani: uno per sollecitare i vescovi ad una maggiore disponibilità nel concedere l’uso della messa tridentina, l’altro di più esplicita condanna del movimento lefebvriano. Entrambi sono stati, per il momento, rinviati.
Da una parte infatti non si vuole ferire alcuni episcopati particolarmente riluttanti ad applicare l’indulto. Dall’altra non si vuole rompere definitivamente i ponti con i seguaci di monsignor Lefebvre.


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[SM=g1740733] Intervista con Joseph Ratzinger

Su Ecclesia Dei nessun documento in arrivo


A margine della manifestazione per i dieci anni di Ecclesia Dei il cardinale Joseph Ratzinger ha accettato di rispondere ad alcune domande di 30Giorni


Intervista con il cardinale Joseph Ratzinger di Gianni Cardinale

Eminenza, lei ha citato più volte i documenti conciliari. Questo vuol dire che l’applicazione della riforma liturgica non è stata fedele allo spirito e alla lettera del Concilio?

JOSEPH RATZINGER: Direi che se si celebra la messa realmente secondo il Messale di Paolo VI si è fedeli. Il problema è soltanto che ci sono tante creatività, tante arbitrarietà che deformano l’essenza di questa messa. La fedeltà è presente nel libro voluto da papa Paolo VI, ma la fedeltà deve realizzarsi nella comunità viva e nella celebrazione viva e lì ci sono dei problemi, forse non tanto in Italia ma altrove.

Lei diceva ai pellegrini di avere pazienza. Quindi non è imminente nessun documento riguardo ad una più larga applicazione dell’indulto…


RATZINGER: No, non credo. Prima di qualsiasi misura giuridica l’importante è comprendersi. Comprendere che siamo nella stessa Chiesa e che la liturgia fondamentalmente è identica. Solo se nasce una nuova comprensione, una apertura dei cuori, può anche aver senso qualche cosa di giuridico.


Qual è il significato della sua presenza a questa manifestazione?


RATZINGER: Mostrare che siamo realmente nella comunione della Chiesa, che questa non è una specie di disubbidienza contro il Papa ma una delle possibilità nella pluralità delle espressioni della fede nella Chiesa. Quindi ricchezza della Chiesa e quindi anche un elemento che ha il suo posto giusto e corretto all’interno della Chiesa.


È un modo anche di recuperare la crisi lefebvriana?


RATZINGER: Lo speriamo sempre.

[SM=g1740771]


[Modificato da Caterina63 25/08/2012 15:25]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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25/08/2012 15:23
 
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Liturgie diverse. Una ricchezza per l’unica Chiesa


«...la presenza dell’antica liturgia non turba né minaccia l’unità, ma è piuttosto un dono destinato a costruire il corpo di Cristo del quale tutti noi siamo servitori»


L’intervento del cardinale Joseph Ratzinger al convegno sui 10 anni di Ecclesia Dei


Quale bilancio possiamo fare oggi, a dieci anni dalla pubblicazione del motu proprio Ecclesia Dei? Penso che prima di tutto sia un’occasione per esprimere il nostro ringraziamento. Le varie comunità sorte grazie a questo documento pontificio hanno regalato alla Chiesa un gran numero di vocazioni sacerdotali e religiose che con zelo e gioia e in comunione profonda con il Papa rendono servizio al Vangelo in quest’epoca storica.
Grazie ad esse, molti fedeli hanno rafforzato o hanno conosciuto per la prima volta la gioia di poter prendere parte alla liturgia e l’amore verso la Chiesa. In numerose diocesi sparse per il mondo tali comunità servono la Chiesa collaborando attivamente con i vescovi e instaurando un rapporto positivo e fraterno con i fedeli che si sentono a loro agio nella forma rinnovata della liturgia. Tutto ciò non può che suscitare oggi la nostra gratitudine.


Tuttavia, sarebbe irrealistico tacere che in molti luoghi non mancano le difficoltà, allora come adesso, perché alcuni vescovi, sacerdoti e fedeli considerano l’attaccamento alla vecchia liturgia (quella dei testi liturgici del 1962) come un elemento di divisione che turba la pace della comunità ecclesiale e lascia supporre una certa riserva nell’accettazione del Concilio e, più in generale, nell’obbedienza dovuta ai pastori legittimi della Chiesa.

Le domande che dobbiamo porci sono dunque le seguenti: come si possono superare tali difficoltà? Come possiamo creare il clima di fiducia necessario per far sì che i gruppi e le comunità legati alla vecchia liturgia si inseriscano pacificamente e proficuamente nella vita della Chiesa? Queste questioni però ne sottintendono un’altra: qual è la ragione profonda di questa diffidenza o, addirittura, del rifiuto del proseguimento della vecchia liturgia? Vi sono senza dubbio delle ragioni preteologiche legate al temperamento dei singoli individui, al contrasto tra i diversi caratteri o ad altre circostanze esterne. Ma certamente esistono anche altre cause, più profonde e meno fortuite.


Sono due le ragioni che più spesso vengono addotte: la non obbedienza al Concilio che ha riformato i testi liturgici e la rottura dell’unità derivante dall’esistenza di forme di liturgia diverse. È relativamente semplice confutare ambedue i ragionamenti. Non è stato propriamente il Concilio a riformare i testi liturgici, esso ne ha ordinato la revisione e, a tal fine, ha fissato alcune linee fondamentali. Il Concilio ha dato soprattutto una definizione di liturgia che fissa la misura interna delle singole riforme e, contemporaneamente, stabilisce il criterio valido per ogni legittima celebrazione liturgica.

L’obbedienza al Concilio verrebbe violata nel caso in cui non fossero rispettati tali criteri fondamentali interni e venissero messe da parte le
normae generales, formulate ai numeri 34-36 della Costituzione sulla sacra liturgia. Bisogna giudicare secondo tali criteri le celebrazioni liturgiche, siano esse basate sui vecchi o sui nuovi testi.
Il Concilio non ha, infatti, come già accennato, prescritto o abolito dei testi, bensì ha dato delle norme di base che tutti i testi devono rispettare.
In tale contesto giova ricordare quanto dichiarato dal cardinale Newman: la Chiesa nel corso della sua storia non ha mai abolito o vietato forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa. Una liturgia ortodossa, ossia che è espressione della vera fede, infatti, non è mai una semplice raccolta di cerimonie diverse fatta sulla base di criteri pragmatici, delle quali si può disporre in maniera arbitraria, oggi in un modo e domani in un altro. Le forme ortodosse di un rito sono realtà viventi, nate dal dialogo d’amore tra la Chiesa e il suo Signore.
Sono espressioni della vita della Chiesa, in cui si condensano la fede, la preghiera e la vita stessa delle generazioni e nelle quali si sono incarnate in una forma concreta e in uno stesso momento l’azione di Dio e la risposta dell’uomo. Tali riti possono estinguersi se sparisce storicamente il soggetto che ne è stato il portatore o se questo soggetto si è inserito con la sua eredità in un altro contesto di vita. In situazioni storiche diverse, l’autorità della Chiesa può definire e limitare l’uso dei riti, ma non li vieta mai
tout-court. Così, il Concilio ha ordinato una riforma dei testi liturgici e, di conseguenza, delle manifestazioni rituali, ma non ha messo al bando i vecchi libri. Il criterio espresso dal Concilio è al contempo più ampio e più esigente: esso invita tutti a un esame di coscienza.


Su questo punto ritorneremo più tardi.
Nel frattempo è necessario prendere in esame l’altro argomento, quello della – presunta – rottura dell’unità. A questo proposito bisogna distinguere l’aspetto teologico da quello pratico della questione. Per quanto concerne la componente teoretica e fondamentale, dobbiamo constatare che del rito latino sono sempre esistite più forme che sono progressivamente cadute in disuso a causa dell’unificazione degli spazi di vita in Europa.
Fino all’epoca del Concilio, accanto al rito romano convivevano quello ambrosiano, quello mozarabico di Toledo, il rito dei Domenicani e forse molti altri ancora a me sconosciuti. Nessuno si è mai scandalizzato per il fatto che i Domenicani, spesso presenti nelle nostre parrocchie, non celebrassero la messa come i parroci, bensì seguissero un rito proprio. Tutti noi sapevamo che il loro rito era cattolico al pari di quello romano e andavamo fieri della ricchezza di tante tradizioni diverse. Inoltre, non bisogna dimenticare che spesso si abusa della libertà di spazio che il nuovo
Ordo Missae lascia alla creatività e che la differenza tra i vari modi in cui la liturgia viene di fatto messa in pratica e celebrata nei diversi luoghi sulla base dei nuovi testi, spesso è maggiore rispetto a quella tra vecchia e nuova liturgia. Un cristiano privo di una cultura liturgica particolare distingue a malapena una messa cantata in latino secondo il vecchio Messale da una cantata in latino secondo il nuovo, mentre può essere enorme la differenza tra una liturgia celebrata rispettando fedelmente i dettami del Messale di Paolo VI e le varie forme di celebrazioni liturgiche in lingua viva, ampiamente diffuse, che lasciano largo spazio alla creatività e all’inventiva.


Con queste considerazioni siamo passati dalla teoria alla pratica dove, ovviamente, le cose si complicano perché abbiamo a che fare con persone vive e reali che entrano in relazione tra di loro.

A me sembra che i contrasti a cui abbiamo accennato sono di considerevole entità perché si tende a mettere in relazione le due forme di celebrazione con due diversi atteggiamenti spirituali, ossia due modi diversi di comprendere la Chiesa e l’essere cristiani. Le ragioni di tale atteggiamento sono molteplici, ma ciò è dovuto soprattutto al fatto che si giudicano le due forme liturgiche a partire da elementi esterni e si arriva così ad avere due opposti atteggiamenti di base. Il cristiano medio considera essenziale nella nuova liturgia che essa sia celebrata in lingua viva e rivolti ai fedeli, che consenta ampio spazio alla creatività e che in essa i laici svolgano una funzione attiva. Nella vecchia liturgia, al contrario, considera essenziale che essa sia celebrata dal sacerdote in latino e rivolto all’altare, che il rito segua una prescrizione severa e che i fedeli seguano la messa in silenziosa preghiera senza avere una funzione attiva. Nell’accogliere la liturgia si dà dunque un’importanza decisiva alla sua fenomenologia e non a ciò che la liturgia stessa considera come essenziale. Ma in fin dei conti dovevamo aspettarci che i fedeli avrebbero interpretato la liturgia a partire da forme concrete visibili, che sarebbero stati determinati spiritualmente da quelle forme e che non sarebbero stati in grado di penetrare facilmente nelle profondità della liturgia.

Le contraddizioni e i contrasti a cui abbiamo or ora accennato non sono in alcun modo da imputare allo spirito del Concilio né a quanto scritto nei testi conciliari. Nella stessa Costituzione sulla sacra liturgia non si accenna minimamente al fatto se si debba celebrare la messa rivolti all’altare o ai fedeli e, per quanto concerne la lingua, essa dice che il latino deve essere mantenuto pur dando uno spazio maggiore alla lingua viva, «specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti» (n. 36 § 2).

Quanto alla partecipazione dei laici, la
Costituzione inizialmente ribadisce in generale che la liturgia nella sua essenza riguarda l’intero corpo di Cristo, capo e membra (n. 7). Di conseguenza, la sua celebrazione appartiene «all’intero corpo mistico della Chiesa» (n. 26) e comporta «una celebrazione comunitaria con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli» (n. 27). Il testo poi precisa: «Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o fedele, svolgendo il proprio ufficio, compia soltanto e tutto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza» (n. 28). E ancora: «Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni del popolo, le risposte, la salmodia, le antifone, i canti come pure le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, il sacro silenzio» (n. 30).


Tutti dobbiamo riflettere su queste direttive del Concilio. Alcuni liturgisti moderni hanno la tendenza a rifarsi all’impostazione conciliare ma purtroppo ne sviluppano le idee in una sola direzione, ribaltando così le intenzioni stesse del Concilio. Il ruolo del prete è ridotto da alcuni a qualcosa di puramente funzionale. Il fatto che il soggetto della liturgia sia l’intero corpo di Cristo viene spesso stravolto a tal punto che la comunità locale diventa il vero soggetto della liturgia e ne distribuisce i diversi ruoli.
Vi è poi un altro atteggiamento preoccupante che tende a minimizzare il carattere sacrificale della messa e a fare sparire quasi completamente il mistero e, in generale, il sacro, con il pretesto di una maggiore comprensibilità. Infine, constatiamo la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo in rilievo esclusivamente il carattere comunitario dell’ufficio divino. La liturgia diventa così appannaggio della comunità che distribuisce i ruoli.


Fortunatamente però è presente al contempo anche una forte avversione per i razionalismi e i pragmatismi banali tipici di alcuni liturgisti e si nota un decisivo ritorno al mistero, all’adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come testimonia la Oxford-Declaration on Liturgy del 1996. D’altra parte, bisogna riconoscere che la celebrazione della vecchia liturgia spesso si era trasformata in un qualcosa di troppo individualistico e privato e che, di conseguenza, la comunione tra prete e popolo era insufficiente. Provo un grande rispetto per i nostri vecchi che durante la liturgia recitavano le loro orazioni leggendole dai libri di preghiere, ma certamente ciò non può essere visto come la forma ideale della celebrazione liturgica.
Queste forme ridotte di celebrazione sono forse la ragione profonda per cui in molti Paesi la scomparsa dei vecchi testi liturgici non è stata percepita come un fatto determinante. Non c’era mai stato, infatti, un vero e proprio contatto con la liturgia.

D’altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva saputo suscitare un amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio, come per esempio la partecipazione di tutti nella preghiera all’evento liturgico, il dolore causato da una riforma liturgica intrapresa con eccessiva fretta e limitata spesso al solo aspetto esteriore è stato grande. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito, la riforma è stata accolta senza traumi. I problemi sono sorti in maniera sporadica là dove una creatività del tutto arbitraria aveva fatto sparire il mistero.


Ecco perché è importante attenersi ai criteri essenziali della Costituzione sulla sacra liturgia anche durante la celebrazione della liturgia secondo i vecchi testi. Nel momento in cui tale liturgia tocca profondamente i fedeli per la sua bellezza, allora sarà amata e non sarà più in opposizione inconciliabile con la nuova liturgia.
A condizione che i criteri vengano applicati così come ha voluto il Concilio.

Naturalmente, continueranno ad esistere accenti spirituali e teologici differenti, ma non saranno più visti come due maniere opposte di essere cristiani, piuttosto saranno il patrimonio di una sola e unica fede.
Quando alcuni anni fa qualcuno aveva proposto un “nuovo Movimento liturgico” per evitare che le due forme di liturgia si allontanassero troppo l’una dall’altra e per mettere in risalto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno temuto che ciò fosse solo uno stratagemma o un’astuzia per poter infine fare piazza pulita della vecchia liturgia. Queste paure dovrebbero cessare di esistere una buona volta. Se in ambedue le forme di celebrazione emergono chiaramente l’unità della fede e l’unicità del mistero, ciò non può essere altro che motivo di gioia profonda e di ringraziamento. Quanto più noi crediamo, viviamo e agiamo secondo tali motivazioni, tanto più riusciremo a convincere i vescovi che la presenza dell’antica liturgia non turba né minaccia l’unità ma è piuttosto un dono destinato a costruire il corpo di Cristo del quale tutti noi siamo servitori.

Vorrei esortare voi tutti, cari amici, a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere nella liturgia la forza necessaria per dare testimonianza al Signore in questa nostra epoca.

Nostra traduzione dall’originale tedesco



UN BRANO DI GIOVANNI PAOLO I

«Vorrei che Roma desse il buon esempio»

«Vorrei pure che Roma desse il buon esempio in fatto di liturgia celebrata piamente e senza “creatività” stonate. Taluni abusi in materia liturgica hanno potuto favorire, per reazione, atteggiamenti che hanno portato a prese di posizione in se stesse insostenibili e in contrasto col Vangelo. Nel fare appello, con affetto e con speranza, al senso di responsabilità di ognuno di fronte a Dio e alla Chiesa, vorrei poter assicurare che ogni irregolarità liturgica sarà diligentemente evitata» (dall’omelia pronunciata da Giovanni Paolo I il 23 settembre 1978 in occasione della presa di possesso della cattedra di vescovo di Roma nella Basilica di San Giovanni in Laterano, AAS 70, 1978, 750).


[SM=g1740771]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Perché cessi la guerra dei riti


L’intervento dell’abate di Sainte-Madeleine-du-Barroux


L’intervento di dom Gérard Calvet al convegno


Eminenza, ci siamo riuniti innanzitutto per esprimere il nostro ringraziamento al Santo Padre per aver firmato e promulgato il motu proprio Ecclesia Dei. Questo grande documento è un atto solenne del Magistero che ha reso possibile l’accesso alla liturgia tradizionale e ha liberato un rito secolare.
In secondo luogo, è a lei, eminenza, che dobbiamo esprimere tutta la nostra gratitudine per essere stato al centro di tutti gli interventi operati dalla Santa Sede per porre fine, da un lato, a quello che può essere definito uno spaventoso disordine liturgico, dall’altro, alla reazione spropositata di taluni ambienti tradizionalisti, feriti, bisogna ammetterlo, nel loro attaccamento al vecchio rito.

Bisogna, infine, menzionare la dedizione che i cardinali che si sono succeduti alla presidenza, il segretario e il personale della Pontificia Commissione «Ecclesia Dei» hanno mostrato in condizioni rese talvolta ancora più difficili da un margine d’azione spesso ridotto.

D’altra parte, mi permetto di farmi portavoce del grandissimo sconforto che affligge moltissimi fedeli, soprattutto giovani, che ci scrivono centinaia di lettere da tutte le parti della Francia, rattristati per il silenzio che i vescovi oppongono al “grido dei poveri”. Per quanto concerne alcuni preti, essi sono stati emarginati, quasi fossero cittadini di seconda classe, per aver scelto un catechismo e un culto tradizionali. Molti fedeli, d’altronde, hanno abbandonato la Chiesa (o perlomeno le chiese) in punta di piedi. Il danno è talmente evidente che lei stesso, eminenza, ha potuto scrivere: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene concepita “etsi Deus non daretur” [...]»1.

Una soluzione alla crisi, tuttavia, è stata data dal Santo Padre il 2 luglio 1988 con la lettera apostolica Ecclesia Dei, dove si dice testualmente: «A tutti questi fedeli cattolici, che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina, desidero manifestare anche la mia volontà – alla quale chiedo che si associno quelle dei vescovi e di tutti coloro che svolgono nella Chiesa il ministero pastorale – di facilitare la loro comunione ecclesiale, mediante le misure necessarie per garantire il rispetto delle loro giuste aspirazioni. [...] Inoltre, dovrà essere ovunque rispettato l’animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina, mediante un’ampia e generosa applicazione delle direttive, già da tempo emanate dalla Sede Apostolica, per l’uso del Messale Romano secondo l’edizione tipica del 1962»2.

Ma, purtroppo, sono stati ben pochi i vescovi che si sono associati alla volontà di papa Giovanni Paolo II, e così, in Francia, soltanto la metà delle diocesi ha concesso almeno un luogo di culto riservato ai fedeli legati alle forme tradizionali della liturgia latina. Bisogna inoltre sottolineare che un’interpretazione restrittiva del motu proprio Ecclesia Dei fa sì che il più delle volte i vescovi limitino l’uso del luogo di culto esclusivamente alla celebrazione del sacrificio eucaristico e al sacramento della penitenza, escludendo gli altri sacramenti.
Oltretutto, in generale, è consentita la celebrazione della messa solo la domenica, e talvolta addirittura solo una domenica al mese. Pochi vescovi autorizzano i sacerdoti incaricati del ministero “tradizionalista” a occuparsi del catechismo, della preparazione al matrimonio, ecc. Si può dunque ancora parlare di «rispetto delle
nostre giuste aspirazioni» e di «ampia e generosa applicazione»? Fortunatamente non mancano le eccezioni, quali le diocesi di Versailles, Parigi, Lione, Saint-Dié, Fréjus-Toulon, Perpignan-Elne, Gap, Strasburgo, tanto per limitarci alle principali.


Alcuni vescovi arguiscono che un atteggiamento più liberale potrebbe provocare divisioni all’interno delle loro diocesi. Ma ciò non significa forse dimenticare, secondo quanto dichiara l’Ecclesia Dei, «che tutti i pastori e gli altri fedeli prendano nuova consapevolezza, non solo della legittimità ma anche della ricchezza che rappresenta per la Chiesa la diversità di carismi, tradizioni di spiritualità e di apostolato, che costituisce anche la bellezza dell’unità nella varietà: di quella “sinfonia” che, sotto l’impulso dello Spirito Santo, la Chiesa terrestre eleva verso il cielo»3? Allora, per quale ragione vengono respinte senza alcun riguardo le domande dei cattolici che desiderano una liturgia diversa da quella praticata abitualmente? E, d’altra parte, siamo proprio certi che tale liturgia sia ancora una sola? In quante parrocchie francesi si celebra ancora la liturgia di Paolo VI in modo strettamente conforme all’edizione del Messale del 1970?

Nella lettera apostolica Apostolos suos, Sua Santità ricorda che: «“Compete al Vescovo diocesano nella diocesi affidatagli tutta la potestà ordinaria, propria e immediata che è richiesta per l’esercizio del suo ufficio pastorale, fatta eccezione per quelle cause che dal diritto o da un decreto del Sommo Pontefice sono riservate alla suprema oppure ad altra autorità ecclesiastica”»4. Urge dunque richiedere all’autorità suprema un’interpretazione autentica che precisi dal punto di vista giuridico come debba essere applicata l’Ecclesia Dei. Per esempio, una lettera della Santa Sede indirizzata a tutti i vescovi diocesani potrebbe indicare opportunamente le diverse soluzioni. Tra quelle possibili ne indichiamo alcune.
A un più alto livello, appare indispensabile ampliare i poteri della Pontificia Commissione «Ecclesia Dei» al fine di sbloccare le numerose situazioni senza via di uscita.

A un livello inferiore, menzioniamo uno statuto ispirato a quello degli ordinariati militari, elaborato dalla costituzione apostolica Spirituali militum curae. Tale figura giuridica, estremamente aperta, presenterebbe il vantaggio di consentire ai fedeli che ne esprimessero il desiderio, di dipendere dall’autorità “di rito tradizionalista” per ciò che concerne gli atti e i luoghi di culto “tradizionalisti” e di continuare a dipendere dal vescovo diocesano per gli altri atti e luoghi di culto. Ci rammarichiamo che questa soluzione, già proposta dai nostri amici americani, non sia stata ulteriormente approfondita sia a livello dei singoli Paesi, sia a livello internazionale.

Un’altra soluzione, per molti aspetti analoga alla precedente, potrebbe essere la creazione di una sorta di vicario apostolico per i “tradizionalisti”, mettendo così in pratica il motu proprio Ecclesia Dei. A tutt’oggi non conosciamo la posizione della Santa Sede in merito a questa proposta che risale al 1990. Più blandamente, si potrebbe anche prevedere un delegato apostolico che dipenda dalla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei» e ne sia, per così dire, il rappresentante itinerante incaricato di proporre ai vescovi diocesani o una soluzione che dipenda da loro (come è stato fatto già in molte diocesi) oppure, nel caso in cui essi preferiscano non occuparsi del culto “tradizionalista”, una soluzione che non dipenda da loro bensì dal delegato apostolico il quale prenderà in considerazione caso per caso. Sotto questa nuova forma, l’ipotesi a noi sembra estremamente interessante.

Si possono prendere in considerazione anche altre tre soluzioni che sono già state messe in pratica con successo a livello locale. La prima prevede che la parrocchia sia divisa tra due parroci in solidum, dei quali l’uno assicuri la celebrazione del nuovo rito e l’altro quella del vecchio. Questo sistema ha funzionato per nove anni nella chiesa di Saint-Eugène a Parigi. La seconda prevede che il parroco di una parrocchia assicuri entrambi i riti; è questa la soluzione attualmente in vigore in quella stessa chiesa. Infine, l’ultima ipotesi prevede la quasi-parrocchia personale affidata interamente ed esclusivamente alle cure di una comunità di sacerdoti sottoposta alla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei».
È il caso, per esempio, di Notre-Dame-des-Armées e di Port-Marly nella diocesi di Versailles.

Dobbiamo ringraziare il vescovo del luogo, monsignor Jean-Charles Thomas, per aver elaborato tali soluzioni che incontrano la nostra approvazione. Ma cosa si può fare quando un vescovo si rifiuta di applicare soluzioni analoghe? Ecco che ci troviamo di fronte al problema di cui parlavamo all’inizio. Tuttavia, se la Santa Sede provasse ai vescovi fino a questo momento reticenti, che tali soluzioni funzionano in modo ottimale, allora certamente qualcun altro si convincerà.


D’altra parte, sarebbe comunque auspicabile prendere nuovamente in considerazione la possibilità per tutti i sacerdoti di celebrare, seguendo liberamente il Messale del 1962 oppure quello del 1970. In attesa che tale disposizione possa entrare in vigore, chiediamo per lo meno che l’Ordo Missae del ’62 venga inserito come fascicolo ad libitum in tutte le edizioni del nuovo Messale, a disposizione dei sacerdoti per la celebrazione della santa messa.
Ciò presenterebbe il vantaggio non solo di soddisfare in parte le aspirazioni dei fedeli affezionati al vecchio rito, ma anche di sostenere nella loro pietà i sacerdoti che celebrano la messa secondo il nuovo. Così circa duecento sacerdoti francesi e non, soprattutto giovani, sono venuti al nostro monastero per apprendere
5 a celebrare la messa secondo il vecchio Messale. Tra loro c’era un prete americano che ci ha confessato che l’essere stato iniziato al rito classico gli consentiva di celebrare meglio il nuovo, al quale si doveva abitualmente attenere. Quest’esempio mostra quali siano la portata e la virtù educativa della nostra grande liturgia tradizionale.


Per finire, richiediamo insistentemente che cessi una volta per tutte questa guerra dei riti che lacera gli individui e le famiglie. I fedeli chiamati dal motu proprio Ecclesia Dei si augurano di tutto cuore che la persecuzione, ampiamente diffusa, faccia posto a un periodo di pace liturgica stabile e duraturo, dove nessuno possa essere accusato di tradimento e dove, conformemente alle promesse della Santa Sede «tutte le misure saranno prese per garantire la loro identità nella piena comunione della Chiesa cattolica»6.

Lo scandalo provocato dalla divisione deve cessare perché si ripristinino la concordia, l’armonia e l’unità. È in questo spirito di pace e comunione che il 27 aprile del ’95 ho accettato di celebrare la messa assieme al Santo Padre, desiderando mostrare che noi tutti che ci battiamo per la conservazione del vecchio Messale crediamo nella validità e nell’ortodossia del nuovo rito. Tuttavia, per usare le parole di monsignor Joseph Madec, vescovo di Fréjus-Toulon: «Una revisione della riforma liturgica è [...] possibile ed auspicabile: essa riporterebbe forse la pace negli animi e nei cuori»7.

Ricapitoliamo le tre soluzioni principali che continuiamo a proporre:

1) l’ampliamento dei poteri della Pontificia Commissione «Ecclesia Dei», oppure l’istituzione di una autorità intermediaria, sottoposta alla stessa Commissione, sotto forma di una delegazione apostolica che regolasse sul posto ogni questione assieme ai vescovi diocesani;

2) la creazione da parte dell’autorità vescovile o della Santa Sede di quasi-parrocchie personali in ogni diocesi dove un numero minimo di fedeli ne abbia fatto richiesta;

3) l’inserimento del vecchio
Ordo Missaead libitum” in tutti i nuovi messali, se non addirittura il permesso a tutti i preti di celebrare secondo il Messale del 1962.


Concludiamo citando il noto adagio Opus iustitiae pax. Anche la pace liturgica è opera della giustizia e, aggiungiamo noi, della carità.


Note

1) J. Ratzinger, La mia vita, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo, 1997, pp. 112-113.
2) Motu proprio Ecclesia Dei nn. 5c e 6c. Il corsivo è dell’autore.
3) Ibidem n. 5a.
4) Il canone 381 § 1 del Codice di diritto canonico citato nella lettera apostolica in forma di motu proprio Apostolos suos n. 19. Il corsivo è nostro. Si tratta in ogni caso del richiamo di una verità dogmatica.
5) O riapprendere, nel caso dei meno giovani.
6) Nota informativa della Santa Sede sul caso Lefebvre, 16 giugno 1988. Il corsivo è dell’autore.
7) J. Madec, Enquête sur la messe traditionnelle, Paris, La Nef, 1998, p. 74.




[SM=g1740771]

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740733]  «...formare una nuova generazione di prelati in grado di vedere che non si tratta di un attacco contro il Concilio ma di una realizzazione, oserei dire, anche più fedele di ciò che attualmente si presenta come realizzazione del Concilio»

Brani dalla Conclusione del cardinale Joseph Ratzinger


Joseph Ratzinger dopo l’intervento di dom Gérard Calvet ha ripreso la parola rispondendo a braccio ai problemi sollevati dall’abate. Ecco alcuni passaggi:

«[...] Tra la posizione di dom Gérard, quella di Michael Davies e la mia c’è una certa differenza. Loro due hanno fatto delle proposte essenzialmente di tipo giuridico: quali possono essere le misure che consentano ai laici che lo desiderino di acquisire una posizione più forte e che rendano più incisivo il ruolo del dicastero competente, ossia la Commissione «Ecclesia Dei».
Tutto questo è molto importante [...].

Non avevo parlato del problema [il problema di rendere effettivo quanto stabilito dall’EcclesiaDei] perché penso che bisogna sempre tener presente anche l’altra dimensione. Sulla base dell’esperienza fatta presso la Congregazione di cui sono prefetto, con misure esclusivamente giuridiche alla fine non si ottengono i risultati sperati se non vi è anche un’apertura di cuore, una persuasione, una convinzione che fanno comprendere alle persone di buona volontà le ragioni per cui si desidera una cosa.

[...] Certamente bisogna cercare una soluzione in ambito giuridico, ma è necessario sapere come operare al meglio presso i vescovi, perché anche se alcuni di loro si mostrano molto duri, se alcuni di loro, come ha detto Spaemann, qualche volta abusano della loro discrezione e non rispettano i diritti dei fedeli, tuttavia non sono persone di cattiva volontà.
Si tratta piuttosto di una situazione culturale, spirituale, di una determinata educazione, di una determinata formazione di spirito che non consente loro di capire bene il perché e la necessità di aprire le porte alla celebrazione della vecchia liturgia. Essi hanno avuto una formazione, un’educazione che fanno vedere loro la questione come ormai chiusa, perché rappresenta una minaccia contro l’unità e soprattutto contro un Concilio ecumenico che ha il diritto di essere accettato con obbedienza da parte di tutti i fedeli.
Questa mentalità ben precisa, quest’educazione ha formato non solo dei vescovi ma anche una larga parte del laici. Per queste ragioni è impossibile per loro accettare delle misure giuridiche che non siano molto ben preparate. È questo il motivo profondo per cui il Santo Padre tarda a dare delle nuove misure giuridiche, perché vede che i cuori non sono sufficientemente aperti e manca la capacità di capire che la questione non va contro il Concilio, contro l’unità della Chiesa e della comunità. Questa difficoltà di capire non deriva da una cattiva volontà, ma piuttosto dalla formazione.


[...] In base alla mia esperienza, sono convinto soprattutto che dobbiamo fare il possibile per formare una nuova generazione di prelati in grado [lungo applauso da parte dei pellegrini] di vedere che non si tratta di un attacco contro il Concilio ma di una realizzazione, oserei dire, anche più fedele di ciò che attualmente si presenta come realizzazione del Concilio, per usare le parole del professor Spaemann. Bisogna destare dunque il cuore e la ragione dal sogno della realizzazione del Concilio, aiutare i preti e i vescovi di buona volontà a vedere che celebrare la liturgia sulla base dei vecchi testi non significa oscurantismo. Non si tratta di tradizionalismo esasperato che si rifiuta di convivere con la Chiesa di oggi e di domani, che non vuole inserirsi nel cammino della Chiesa, che è un organismo vivo. Non si tratta di oscurantismo che è il semplice ritorno al passato, bensì si tratta del reale desiderio di essere nella fedeltà, nel presente della Chiesa, e nell’obbedienza.

[...] Penso dunque che si debbano approfondire i nostri argomenti, nel senso di vedere le intenzioni profonde del Concilio che non riguardano propriamente la riforma del testo ma piuttosto la comunità vivente nella preghiera, nel dialogo del corpo di Cristo con il suo Capo, nel dialogo della Chiesa con il suo Signore. In questo senso, accetto pienamente quanto detto in questa sede, tuttavia penso che [sia opportuna] un’opera di educazione e di sensibilizzazione anche di noi stessi per comprendere meglio gli altri, per essere maggiormente capaci di convincerli su una questione di primaria importanza [...].
Se noi diciamo soltanto che vogliamo avere i diritti delle persone giuridiche ecc., non arriveremo mai da nessuna parte. Armati della stessa grande pazienza che il Signore mostra sempre nei nostri confronti, dobbiamo fare il possibile per comprendere più approfonditamente l’essenza della liturgia e, contemporaneamente, celebrarla con la più grande devozione possibile e divenire capaci di aprire il cuore dei nostri vescovi e dei nostri amici laici».



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Segno di fede profonda


«Il verbo “correre” mi piace moltissimo perché è conseguente ad un contenuto di fede profonda, e penso che il cuore di Pietro sia sempre spalancato». Il cardinale Darío Castrillón Hoyos commenta così la dichiarazione rilasciata il mese scorso a 30Giorni dal superiore generale dei lefebvriani: «Se il Papa mi chiama, io vado. Subito. Anzi, corro»


Intervista con il cardinale Darío Castrillón Hoyos di Gianni Cardinale 30giorni novembre del 2000


«Il verbo “correre” mi piace moltissimo perché è conseguente ad un contenuto di fede profonda, e penso che il cuore di Pietro sia sempre spalancato». Al cardinale Darío Castrillón Hoyos non è dispiaciuta la dichiarazione rilasciata a 30Giorni dal superiore generale dei lefebvriani Bernard Fellay («Se il Papa mi chiama, io vado. Subito. Anzi, corro», cfr. 30Giorni, n. 9, settembre 2000, pp. 36-39). Non solo. Il porporato colombiano ritiene che alcune richieste specifiche annunciate dallo stesso Fellay «se verranno fatte, saranno esaminate con rispetto e nell’ottica dell’autentico bene dell’intera comunità ecclesiale».

Il cardinale 
Darío Castrillón Hoyos

Il cardinale Darío Castrillón Hoyos

Il cardinale Castrillón Hoyos, dal ’96 prefetto della Congregazione per il clero, dallo scorso aprile guida anche la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, l’organismo vaticano che dal 1988 ha il compito di facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose finora in vario modo legati alla Fraternità fondata da monsignor Marcel Lefebvre. Castrillón ha accettato di spiegare a 30Giorni i motivi di questa sua nomina e alcuni suoi primi atti, come il commissariamento della Fraternità San Pietro, che raccoglie sacerdoti tradizionalisti, ex lefebvriani e non. All’interno di questa Fraternità infatti dal ’99 era in corso un aspro confronto.
Argomenti del contendere, la possibilità, per i suoi membri, di poter celebrare la messa anche secondo il messale di Paolo VI, nonché la possibilità di concelebrare. La maggioranza dei sacerdoti, guidata da padre Josef Bisig, superiore generale dalla fondazione (1988), era contraria a queste ipotesi. Una minoranza, guidata dal padre Arnaud Devillers, superiore del distretto nordamericano, era invece favorevole. E Castrillón, a fine giugno, ha d’autorità nominato proprio Devillers alla guida della Fraternità San Pietro.

Castrillón, 71 anni, prima di approdare nella curia romana, è stato vescovo a Pereira (’71-92) e arcivescovo di Bucaramanga (’92-96) in Colombia. Dall’87 al ’91 ha anche ricoperto l’incarico di presidente del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam).

Eminenza, si aspettava questa nomina a presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei?
DARÍO CASTRILLÓN HOYOS: Come prefetto della Congregazione per il clero può immaginare quanto la mia agenda sia già abbastanza fitta di impegni. Ma l’ubbidienza è un atteggiamento fondamentale. Ed essere incaricato di questa delicata materia lo considero un servizio finalizzato a facilitare la piena comunione ecclesiale di coloro che si sentono legati ad alcune venerande espressioni liturgiche nelle quali tante generazioni si sono santificate e che desiderano rimanere uniti al successore di Pietro nella Chiesa cattolica.

Come mai, per la prima volta, per guidare Ecclesia Dei si è preferito scegliere un cardinale ancora in carica come prefetto di una Congregazione?

CASTRILLÓN HOYOS: Evidentemente si è ritenuto opportuno stabilire un certo collegamento tra la sfera di competenza della Congregazione per il clero e quella della Commissione Ecclesia Dei, perché le associazioni di chierici dipendono normalmente da questa congregazione. La sua espressione “cardinale in carica” potrebbe forse sminuire la portata dell’impegno dei miei stimati predecessori, i cardinali Paul Augustin Mayer, Antonio Innocenti ed Angelo Felici, i quali hanno, invece, prestato un servizio ammirevole a Ecclesia Dei.

Perché è stato scelto proprio il prefetto della Congregazione per il clero?

CASTRILLÓN HOYOS: La Congregazione per il clero risale alla Sacra Congregatio cardinalium Concilii Tridentini interpretum, istituita nel 1564 allo scopo di curare la retta interpretazione e la pratica osservanza delle norme sancite dal Concilio di Trento. In un certo senso sarà anche mio compito, quale presidente della Commissione Ecclesia Dei, aiutare i fedeli cosiddetti “tradizionalisti” a meglio scoprire la continuità dottrinale fra il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano II. D’altronde credo che una delle urgenze pastorali attuali, per tutti, sia quella di evidenziare che la Chiesa di oggi è la Chiesa di sempre, che il Magistero procede in eodem sensu, che non si potrebbe costruire – come già diceva Paolo VI – la Chiesa di oggi sulle macerie di quella di ieri e che lo Spirito Santo non può dire in un periodo il contrario di quanto dice in un altro. Lo Spirito dice cose nuove e cose antiche. Il cristiano fedele, in questo senso, è necessariamente “tradizionalista” e necessariamente “aperturista”. I santi ne costituiscono l’esempio più sicuro ed entusiasmante.

Negli ultimi mesi la vita all’interno della Fraternità di San Pietro è stata piuttosto turbolenta. A fine giugno lei ha deciso di nominare d’autorità Arnaud Devillers come nuovo superiore generale, il quale normalmente viene eletto dal capitolo generale. Perché questa specie di commissariamento?

CASTRILLÓN HOYOS: Nella fase attuale ritengo occorra aiutare i membri della Fraternità a mantenere l’equilibrio fra l’autentica interpretazione del carisma originale, le sue implicanze, e le conseguenze del loro inserimento nella attuale realtà ecclesiale. La perseveranza ben comprensibile nella volontà dei fondatori deve armonizzarsi con le necessità pastorali di tutta la Chiesa. La legittimità di una posizione particolare propria di quelli che si sentono legati ad alcune forme della liturgia latina antecedenti l’ultima riforma liturgica non abolisce e non può togliere a nessuno il diritto di accogliere la norma liturgica in vigore in tutta la Chiesa. Non riesco a capire poi il rifiuto sistematico a concelebrare una volta con l’Ordinario diocesano e i fratelli presbiteri, specie in occasione della santa messa crismale. Vorrei sottolineare il fatto, da non dimenticare, che tutti i riti approvati nella Chiesa cattolica non si fanno reciprocamente concorrenza. Dobbiamo spogliarci di un atteggiamento “hegeliano” nell’ambito liturgico, secondo cui l’origine e lo sviluppo di un rito si svolgerebbe soltanto a sfavore di un altro, come se ci fossero tesi e antitesi, come se si escludessero a vicenda.

Ritiene che l’indulto previsto dal motu proprio Ecclesia Dei sia adeguatamente concesso nella Chiesa? In alcuni Paesi, in Francia ad esempio, c’è chi ne lamenta una scarsa applicazione...

CASTRILLÓN HOYOS: Intanto vorrei esprimere la mia personale gratitudine a tutti i vescovi che hanno concesso coraggiosamente (di fronte a non poche pressioni contrarie) e generosamente di celebrare secondo il Messale del 1962 nelle loro diocesi. Non è da escludere che ci siano alcuni Paesi nei quali il motu proprio potrà essere applicato in modo più ampio. L’applicazione del motu proprio dovrebbe orientarsi nel senso di una apertura reciproca di quanti chiedono quest’eccezione e di coloro che la concedono: i vescovi si aprano ai fedeli di tale orientamento liturgico e i fedeli si aprano alla realtà della norma liturgica di oggi. Credo che, per questo, sia indispensabile formare chierici e fedeli laici rispettosi delle autentiche norme liturgiche, osservanti dei veri orientamenti della costituzione Sacrosanctum concilium del Vaticano II. Sarebbe gravemente ingiusto usare due pesi e due misure.

Alcuni considerano i fedeli alla messa cosiddetta di San Pio V come un residuo del passato. È proprio così?

CASTRILLÓN HOYOS: Il passato della Chiesa e il suo tempo presente non possono essere contrapposti. Sarebbe una ecclesiologia falsa se si volesse considerare la Chiesa cattolica come un partito politico con fazioni di destra e di sinistra in perenne conflittualità. I fedeli che esprimono la loro fede tramite la messa di san Pio V seguono lecitamente l’eucaristia in questo rito, in quanto l’autorità competente ha permesso una tale celebrazione. Si tratta di un rito venerabile, che ha favorito il fiorire di tanti santi e modellato il volto della Chiesa per molti secoli. I fedeli non sono mai da considerare un “residuo del passato”. Sono uomini e donne che meritano rispetto ed ogni più delicato sforzo pastorale.

Ritiene risolvibile in futuro la crisi lefebvriana?

CASTRILLÓN HOYOS: Con la grazia di Dio ogni crisi è sempre risolvibile. Il fenomeno del vescovo Marcel Lefebvre è, allo stesso tempo, una richiesta e un mezzo per l’esame di coscienza su come noi celebriamo l’eucaristia, sulla maniera in cui viene espressa la fede all’inizio del terzo millennio e sulla misura di quanto siamo davvero vigilanti sempre e dovunque circa la doverosa ortodossia di ciò che affermiamo nelle omelie e nelle diverse istruzioni o per il tramite degli strumenti di comunicazione. Se la santa messa e gli altri sacramenti vengono celebrati in maniera degna, osservando scrupolosamente le norme e le indicazioni contenute nei libri liturgici, se il Santissimo Sacramento viene custodito con amore e con la dovuta riverenza, se le nostre omelie sono eco fedele del Catechismo della Chiesa cattolica e delle dichiarazioni dell’ininterrotto Magistero, allora avremo già stabilito i migliori presupposti per far avvicinare alle nostre parrocchie e diocesi tutti quei fedeli che pensano che nella Chiesa sia stata operata una rottura fra passato e presente. D’altra parte è un dolore non piccolo rilevare lo spirito ipercritico di coloro che vorrebbero diventare giudici implacabili di tutta la vita della Chiesa con un mal celato, oserei dire, catarismo.
Dovrebbero ricordare ciò che dice san Paolo: «Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» (
Rm 11, 18). Sappiamo che la Chiesa è madre e maestra e dunque possiamo affidarci tranquillamente al suo giudizio, alle sue decisioni e disposizioni. La soluzione della “crisi lefebvriana” starà anche nel superamento della diffidenza su ambedue i fronti e in una fondamentale riacquisizione di fiducia nella Chiesa, nel suo mistero e nella sua stabilitas invicta.


Cosa pensa del pellegrinaggio giubilare effettuato dai fedeli lefebvriani a Roma nello scorso agosto?
CASTRILLÓN HOYOS: Penso sia stato un atto di fede apostolica e di buona volontà. Tutto ciò che è buono unisce e genera altro bene.

È vero che ha incontrato a cena i vescovi lefebvriani ordinati nel 1988? Perché?

CASTRILLÓN HOYOS: Mi pare semplicemente doveroso favorire la conoscenza, il rispetto, la cordialità, la sincera fraternità.

Cosa pensa delle affermazioni rilasciate da monsignor Bernard Fellay sul numero di settembre di 30Giorni, e cioè: la disponibilità di correre a Roma, se convocato dal Papa; la richiesta di un indulto diretto a tutti i sacerdoti per celebrare la messa di san Pio V; la richiesta di formare una Commissione ad hoc per i lefebvriani?

CASTRILLÓN HOYOS: Il verbo “correre” mi piace moltissimo perché è conseguente ad un contenuto di fede profonda e penso che il cuore di Pietro sia sempre spalancato. Per le richieste alle quali lei si riferisce, se verranno fatte, penso che saranno esaminate con rispetto e nell’ottica dell’autentico bene dell’intera comunità ecclesiale.

In altre interviste lei ha dichiarato l’intenzione di rivedere alcune parti del Messale del ’62. Di cosa si tratta?

CASTRILLÓN HOYOS: Non si tratta di “rivedere”. La Commissione può soltanto fornire delle indicazioni sul buon uso di ciò che è stato concesso dall’indulto del 1984, e poi dal motu proprio Ecclesia Dei del 1988. Si pensa ad un testo sull’uso del Messale del ’62, con alcune possibilità nella linea delle rubriche del 1965, come è già stato concesso a certe comunità. Si tratterebbe dunque piuttosto di una istruzione sul modo di usare, con prudenza pastorale e senso liturgico, il rito tale e quale, e le rubriche che ne regolano l’uso oggi. Questo ultimo punto è importante perché dopo il Concilio Vaticano II, certe acquisizioni liturgiche possono essere valide per tutta la Chiesa, come ad esempio i lezionari, o i nuovi santi che si vorrebbero celebrare anche nel rito antico, ecc. Questa istruzione avrebbe per scopo una certa unità nelle celebrazioni nel rito antico, e favorirebbe anche i vincoli tra le due tradizioni, nel rispetto dell’identità di ciascuna. Naturalmente si tratta solo di un progetto ancora allo studio.

In questo anno sono state celebrate nelle basiliche romane cerimonie giubilari in molti riti, persino in quello mozarabico. Come mai non è stata prevista una celebrazione secondo il rito tridentino? Nessuno l’ha chiesto?

CASTRILLÓN HOYOS: C’è stata una petizione in questo senso nel 1998. Ma poiché era indirizzata al Santo Padre, non solo non ho la competenza per rispondere, ma ancora di più, credo che sia un dovere di tutti difendere e rispettare la libertà del Santo Padre come uno dei beni più importanti per la vita della Chiesa. Non sono pochi coloro che hanno sofferto il martirio per difendere questa libertà: si può rispettosamente proporre, ma non fare indebite pressioni. In assenza di una risposta, si può ritenere che in una vita di famiglia non sempre il padre risponde alle sollecitazioni, e questo non significa che non abbia sentito.

[SM=g1740733] segue l'intervista a mons. Fellay del settembre 2000



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«Se il Papa mi chiama, io vado. Anzi, corro»


«Noi siamo cattolici romani, e per un cattolico è normale fare il Giubileo». Il vescovo Bernard Fellay racconta il pellegrinaggio delle migliaia di fedeli tradizionalisti nella Città eterna. E spiega lo stato dei rapporti tra Ecône e Roma


Intervista con Bernard Fellay di Stefano Maria Paci 30giorni settembre 2000


«Se il Papa mi chiama, io vado. Subito. Anzi, corro». È in questa frase sorprendente, pronunciata nell’intervista che segue dal superiore generale della Fraternità San Pio X, il vescovo Bernard Fellay, che si misura la portata storica di quanto sta accadendo all’interno dei lefebvriani. Un nuovo clima di dialogo, che potrebbe portare, se intelligentemente valorizzato da chi ha per mandato divino il compito di garantire l’unità della Chiesa, a dei passi decisivi per sanare una frattura che è stata, e resta, dolorosa. Per capire come sia cambiato il clima all’interno della Fraternità, basti pensare che monsignor Lefebvre rifiutò, nei giorni precedenti la consacrazione dei vescovi che causò lo scisma, di rispondere all’appello pressante di Giovanni Paolo II, che gli aveva inviato una macchina pregandolo insistentemente di recarsi da lui, in Vaticano, per incontrarsi ancora una volta prima di sancire la rottura definitiva.
Ma non è questa l’unica sorpresa che riserva l’intervista di monsignor Fellay. Che dalla sua residenza in Svizzera, lancia un appello al Vaticano: apriteci dei canali ufficiali di dialogo.

Il pellegrinaggio dei lefebvriani nella Basilica di San Paolo l’8 agosto 2000
(il secondo da destra è il vescovo Fellay)

Il pellegrinaggio dei lefebvriani nella Basilica di San Paolo l’8 agosto 2000 (il secondo da destra è il vescovo Fellay)

Eccellenza, lei è un vescovo formalmente scomunicato. Perché ha deciso di venire, con tutta la sua Fraternità, in pellegrinaggio a Roma, di pregare solennemente nella Basilica di San Pietro e di farlo anche per il Papa che l’ha allontanata dalla comunione della Chiesa cattolica?
BERNARD FELLAY: Io non mi considero scomunicato. Quella scomunica non è valida. Per questo credo sia stato importante aver mostrato a tutti la nostra volontà di essere e mantenerci cattolici. Pregare in San Pietro ne è stato un segno. Per me non c’è stata nessuna contraddizione. Ma immagino che per gli uomini del Vaticano non sia stato così, e devono aver considerato tutto questo come una contraddizione. Però la contraddizione, quella vera, è avere lanciato la scomunica su dei cattolici fedeli e devoti.


Per poter effettuare questo pellegrinaggio ci sono state trattative con Roma durate due anni. Le vostre richieste sono state tutte accolte?

FELLAY: All’inizio avevamo chiesto anche di poter dire la messa dentro San Pietro, ma sinceramente sapevo che ci sarebbe stato risposto che non era possibile. Abbiamo chiesto il massimo per ottenere il possibile.

Ha mai avuto il timore di un rifiuto totale?

FELLAY: A dire il vero, no. Politicamente parlando, non credo che ci potesse essere un’altra soluzione, visto il clima attuale della Chiesa. Un “no” del Vaticano avrebbe causato uno scandalo enorme, e sarebbe stato in palese contraddizione con il suo atteggiamento ecumenico. Si fanno venire a Roma i capi delle Chiese scismatiche e i leader non cristiani, e il Papa prega con loro. Come avrebbe potuto dire di no proprio a noi, che ci diciamo e siamo cattolici?

A molti però questo pellegrinaggio a Roma è sembrato una provocazione, il tentativo di muovere le acque per rimettere in discussione una scomunica mai accettata. È così?

FELLAY: Assolutamente no. Noi siamo cattolici romani, ed è normale per un cattolico fare il Giubileo.

Il cardinale Ratzinger è intervenuto su questa decisione di farvi venire a Roma?

FELLAY: Non ufficialmente. Suppongo di sì, ma non ho alcun indizio di questo.

Monsignor Fellay, lei venne ordinato vescovo il 30 giugno del 1988 e il giorno stesso venne scomunicato latae sententiae. Il giorno dopo, monsignor Lefebvre mi confidò, in un’intervista “a cuore aperto”: «Queste ordinazioni ho dovuto farle, altrimenti la mia opera sarebbe scomparsa e con essa la Tradizione della Chiesa. Ma entro quattro, cinque anni al massimo, Roma finirà per trovare un accordo con noi». Di anni invece ne sono passati oramai dodici: cosa è successo?

FELLAY: È difficile prevedere le azioni umane. È chiaro che la Chiesa non può proseguire ancora per troppo tempo nella direzione attuale, e che un giorno dovrà ritornare alla Tradizione, se non vuole perdere del tutto la sua credibilità. Monsignor Lefebvre pensava che questo sarebbe accaduto prima: cinque anni, le aveva detto. Purtroppo, di anni ne sono passati tanti e noi siamo ancora considerati fuori dalla comunione.

Lei, oggi, che previsioni può fare?

FELLAY: Una previsione? Oggi è più difficile da fare che non dieci anni fa. In Vaticano le tendenze diverse sono molto più forti di allora. Quale prevarrà? La fede ci dice che alla fine prevarrà l’ordine giusto, ma attraverso quali passi ci si arrivi, non lo sappiamo. La situazione è tale che si può immaginare che la ricomposizione possa avvenire in un anno, ma anche in venti.

Lei parla di tendenze diverse che si combattono nella Chiesa. Eppure si parla spesso di una Chiesa “wojtylizzata”, per intendere che questo Papa ha dato un’impronta marcatamente personale alla Chiesa universale, che appare molto unita e compatta.

FELLAY: È vero. L’apparenza è più armonizzata. Ma non è così. È un errore di valutazione. La Chiesa è più divisa di venti anni fa. Ci sono vescovi che fanno dichiarazioni contro Roma, e Roma non fa quasi nulla per controbatterli. Anche venti anni fa c’erano questo tipo di dichiarazioni, ma Roma interveniva. Oggi non lo fa più, ammettendo così una perdita di potere.

Non è singolare che sotto un Papa considerato più progressista, come Paolo VI, voi siate rimasti, nonostante le difficoltà, dentro la comunione della Chiesa, e sotto un Pontefice come papa Wojtyla, da molti accusato di essere troppo tradizionalista, siate stati scomunicati? Come se lo spiega?

FELLAY: In Giovanni Paolo II ci sono due volti, quasi contraddittori. Karol Wojtyla è una personalità molto complessa. Le sue posizioni sulla morale, sulla famiglia, sull’aborto, danno un’impressione tradizionale. Ma su temi come l’ecumenismo e le relazioni con il mondo, è molto avanzato. Siamo lieti quando mostra il volto tradizionalista, ma l’altro ci spaventa. Wojtyla per me è un mistero, e in parte, forse, lo è anche per se stesso.

Vi aspettate forse che con un futuro papa le cose potrebbero cambiare?

FELLAY: Dio può cambiare un cuore quando vuole, e quindi le cose potrebbero mutare anche da subito. Spesso, anche tra i cattolici, si dimentica che la Chiesa non è un organismo semplicemente umano, ma è essenzialmente soprannaturale. Non è il risultato delle azioni degli uomini: anche il buon Dio ha qualcosa da dire. È questo che costituisce il mistero della Chiesa. Ci aspettiamo di più da un futuro papa? Lo speriamo. Ma non si può dire molto altro. Il futuro è incerto.

Però il pellegrinaggio a Roma ha avuto degli esiti notevoli. Quale sarà la prossima mossa?

FELLAY: Sto pensando se vale la pena chiedere un’udienza al Papa. Il Papa sarà disposto a riceverci? E ancora: cosa ci aspettiamo da un’udienza? Sto riflettendo su questi due punti, prima di decidere.

Prima ha detto che Roma non poteva ragionevolmente impedire il vostro pellegrinaggio. Difficile quindi pensare che il Papa non accetti di ricevervi: non ha mai rifiutato a nessuno un’udienza.

FELLAY: Sì. Ma non voglio fare un atto politico, non voglio incontrare il Papa per avere i titoli sui giornali. Se incontro il Papa, è per parlare della situazione della Chiesa.

Ma non pensa che incontrare Giovanni Paolo II possa essere in ogni caso utile per aprire un dialogo diretto?

FELLAY: È difficile da dire. Può darsi, ma non ne sono certo. Vedendo tutto quello che accade nella Chiesa, vedendo come funziona la curia romana, sono perplesso. Le confesso che sono di fronte a una scelta molto difficile, che non ho ancora risolto.
Ma non dico per principio che non voglio vedere il Papa.

E se il Papa la chiamasse?

FELLAY: Se mi chiama, io vado. Subito. Anzi, corro. Questo è certo. Per obbedienza. Per filiale rispetto verso il capo della Chiesa.
La processione verso la Porta Santa 
di San Pietro

La processione verso la Porta Santa di San Pietro


Eccellenza, sono sorpreso. A volte, al vostro interno, sono affiorate delle tendenze sedevacantiste, che affermavano che il Papa non è più il legittimo capo della Chiesa. O che, perlomeno, ne mettevano in dubbio l’autorità. E anche questo ha spesso reso più difficile il dialogo. Lei in questo momento sta dicendo recisamente il contrario, ed è una novità. Quelle tendenze sono state definitivamente sconfitte?

FELLAY: Non pensiamo tutti all’unisono. Un altro, vista la situazione attuale, potrebbe rispondere in senso meno aperturista, in maniera più dura. Tra di noi, uno potrebbe usare parole più severe, un altro più concilianti. Ma credo che oggi ci sia una linea generale che è la stessa per tutti. Non ho molti timori.

Tra l’altro lei ha pregato per il Papa, dentro San Pietro. Ricordando certi toni di notevole asprezza usati dalla Fraternità in questi anni, anche questo è sorprendente.
FELLAY: E neanche su questo ci sono stati contrasti all’interno della Fraternità. Forse la nostra posizione è un po’ difficile da capire. La riassumo: per noi c’è una sola Chiesa, e il suo capo in terra è il Papa. È normale che preghiamo per il Papa, anche se non siamo contenti di tutto ciò che fa.

Pensa che se monsignor Lefebvre fosse vivo oggi, la sua autorità faciliterebbe un eventuale rientro di tutta la Fraternità in piena comunione con Roma?
FELLAY: La questione è difficile. E spesso mi chiedo come si comporterebbe oggi. Lui percorreva due strade: dialogare con Roma, e insieme condannarne gli errori. E noi stiamo facendo lo stesso. Sono sempre state le questioni dottrinali a creare il problema. E queste questioni non sono ancora state risolte.

Provi a dire, sinteticamente, qual è il problema.

FELLAY: Il problema è questo: Roma accetta o no la nostra posizione come una posizione cattolica? Per esempio sull’ecumenismo. È normale che si cerchi l’unione di tutti i cristiani. La vogliamo anche noi: quando si dice che noi siamo contro l’ecumenismo, si dice una falsità. Non è questo il punto. È il metodo praticato che noi mettiamo in discussione. Un metodo che ha come unico obiettivo una convivenza pacifica, e non la conversione di chi sbaglia. Ma è solo tenendo fermi i punti dottrinali che si dimostra un vero desiderio di dialogo. Il problema è: abbiamo il diritto di dire queste cose, o chi le sostiene deve essere messo fuori dalla comunione ecclesiale? Purtroppo il Vaticano II ha confuso le idee a molti nella Chiesa.

Monsignore, siamo realisti. È davvero difficile pensare che Roma possa dire: col Concilio Vaticano II ci siamo sbagliati. Allora, cosa potrebbe fare, concretamente, il Vaticano, per ritessere i legami con voi?

FELLAY: Nei passi pratici, su come fare per risolvere i problemi, la sapienza e l’abilità di Roma è grandissima. Quindi può trovare le formule adeguate. Ha ragione lei: occorre essere realisti. Non ci aspettiamo che il Vaticano effettui un grande mea culpa, dicendo cose del tipo: “Abbiamo promulgato una falsa messa”. Non vogliamo che l’autorità della Chiesa venga ancor di più sminuita. Lo è stata anche troppo: adesso basta. Ma Roma potrebbe mostrare con i fatti un segnale di un chiaro cambio di direzione.

Monsignore, insisto: faccia un esempio di quello che riterrebbe sufficiente per indicare questo cambio di direzione. Un esempio, appunto, realistico.

FELLAY: Un atto chiarissimo sarebbe quello di permettere a tutti i sacerdoti del mondo la possibilità, solo la possibilità, di dire la messa tridentina. La messa che per secoli e secoli è stata la messa della Chiesa. E che ora è diventata fuorilegge.
Non ci sarebbe bisogno di dire che sono stati fatti degli errori con la nuova messa: sarebbe sufficiente concedere ai sacerdoti che lo vogliono la possibilità di celebrare la messa col rito che preferiscono.


Ci sono altre richieste, o sarebbe sufficiente questo perché voi riconosciate un segno di quello che voi chiamate un cambio di direzione?

FELLAY: Questo è il punto fondamentale.

Ammettiamo allora che Giovanni Paolo II, o un futuro papa, decida di permettere a tutti i sacerdoti del mondo di celebrare, se vogliono, la messa secondo il rito tridentino. Voi cosa fareste? Vi sentireste autorizzati a chiedere che la scomunica venga tolta?

FELLAY: Se questo fosse fatto, in pochissimo tempo tutto l’ambiente ecclesiale cambierebbe, e sarebbe molto, ma davvero molto più favorevole a una armonizzazione piena.

Eppure, non sembra una decisione molto difficile da prendere, questa, per Roma, in cambio del rientro di uno scisma. Del resto quella messa è stata per così tanto tempo la messa ufficiale della Chiesa cattolica...

FELLAY: No, non sarebbe difficile. Anzi, le posso dire che Roma stessa, nel 1986, in una riunione di cardinali, aveva discusso se prendere questa decisione. Vuol dire che il Vaticano ha già preso in considerazione la possibilità di poterlo fare...

E quindi, se accadesse...?

FELLAY: Non voglio parlare di rientro, perché noi non ci consideriamo fuori. Ma posso dire con certezza che cambierebbe tutto. Sì, cambierebbe tutto se si concedesse, a noi e a chiunque lo voglia, la semplice libertà di poter dire la messa che la Chiesa ha sempre detto.

Monsignore, lei è il superiore generale della Fraternità. Attraverso quali canali fa conoscere le vostre richieste in Vaticano?

FELLAY: Abbiamo solo contatti personali con alcune persone che hanno autorità nella Chiesa. Nient’altro.

È curioso, questo. Si fanno molti sforzi per il dialogo con protestanti ed eretici e non c’è un canale ufficiale di dialogo con voi. Siete voi che lo rifiutate?

FELLAY: Credo che il Vaticano si trovi di fronte ad un problema. Quale congregazione romana è competente per parlare con noi? Da una parte, Roma non ha formalmente detto che tutta la Fraternità è scismatica: ha scomunicato solo noi vescovi. Quindi, non può essere il Consiglio per l’unità dei cristiani, che tiene i rapporti con i non cattolici, a doversene occupare. Dovrebbe essere un compito affidato a qualcuna delle altre congregazioni romane. Ma quale? Non ce n’è nessuna che possa dirsi competente.

Ma visto che si è fatta una commissione ad hoc, l’Ecclesia Dei, per il dialogo con quei lefebvriani che dopo le scomuniche volevano rientrare in comunione con Roma, si potrebbe fare una commissione ad hoc anche con voi, no?

FELLAY: Sì. Si potrebbe. Perché no? Potrebbe essere un’ottima idea. Anzi, posso dirle ufficialmente, come superiore della Fraternità San Pio X, che, se ci fosse proposta una commissione del genere, saremmo aperti all’ipotesi di parteciparvi.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740717] [SM=g1740720] La loro fede era evidente


Per devozione quello dei lefebvriani è stato un pellegrinaggio giubilare modello. Ed è stato anche un segnale della volontà di essere in piena comunione con Roma


di Stefano Maria Paci settembre 2000 da 30giorni


«È stato uno dei pellegrinaggi più edificanti che ho visto in questo Anno Santo». Socchiude gli occhi, monsignor Granito Tavanti, responsabile liturgico della Basilica di Santa Maria Maggiore, quasi a ripercorrere quelle immagini di metà agosto.
Poi li riapre e aggiunge, deciso: «Quelle migliaia di persone che hanno pregato qui, dopo aver attraversato la Porta Santa, hanno impressionato non solo me, ma tutti coloro che le hanno viste: pietà e compostezza, il vero modello del pellegrinaggio giubilare. La loro fede era evidente».

Cosa c’è di tanto sorprendente nel giudizio di monsignor Tavanti, da fargli meritare una citazione?
C’è che il pellegrinaggio di cui sta parlando è certamente il più clamoroso e inaspettato di quest’anno giubilare. Già, perché è la prima volta che quattro vescovi, ordinati senza mandato apostolico e quindi di per sé incorsi nella pena della scomunica, seguiti da centinaia di sacerdoti e da migliaia di fedeli, attraversano la Porta Santa di San Pietro, si radunano sulla tomba del Principe degli apostoli per ottenere l’indulgenza del Giubileo.
E poi fanno lo stesso nelle altre basiliche romane. Insomma, il “pellegrinaggio modello”, come lo definisce monsignor Tavanti, è stato compiuto da fedeli considerati scismatici! L’incredibile è accaduto a metà agosto, protagonista la Fraternità San Pio X, fondata da monsignor Marcel Lefebvre. Un gesto destinato a pesare e a segnare una nuova tappa nella lunga storia di questo scisma anomalo.


Il pellegrinaggio giubilare alla Basilica di San Pietro si conclude con un momento 
di preghiera sulla tomba di san Pio X

Il pellegrinaggio giubilare alla Basilica di San Pietro si conclude con un momento di preghiera sulla tomba di san Pio X

«La trattativa è iniziata due anni fa» racconta l’abbé Franz Schmidberger, svizzero, che è stato il primo successore di monsignor Lefebvre alla guida della Fraternità. L’ha guidata per dodici anni prima di lasciare le redini al vescovo Bernard Fellay, ed è lui che ha condotto i colloqui con il Vaticano per questa “marcia su Roma”. «Abbiamo pensato che, essendo cattolici, fosse normale andare a Roma a compiere il Giubileo. E così abbiamo scritto al Vaticano, per informarli. Sono iniziate le trattative. Caratterizzate da una peculiarità: il silenzio di una delle due parti. Ogni tre, quattro mesi rinnovavamo la richiesta, ma non ci arrivava mai nessuna risposta ufficiale».
Ad affiancare l’abbé Schmidberger c’era un altro membro della Fraternità, il francese Emmanuel du Chalard, direttore della rivista
Sì sì no no. Le sue conoscenze dell’ambiente curiale, e le amicizie che vi coltiva, hanno permesso l’instaurarsi di una trattativa parallela: se ufficialmente a Ecône, quartier generale dei lefebvriani, non arrivava nessuna risposta, ufficiosamente venivano informati dello status quaestionis, quale iter seguiva la loro richiesta e quali difficoltà incontrava.
«La nostra domanda sembra sia passata per più cardinali» continua l’abbé Schmidberger «e alla fine è arrivata nella Segreteria di Stato vaticana e al Comitato per il Giubileo».


E finalmente, il 12 luglio 2000, arriva la risposta ufficiale del Vaticano. È la prima, dopo due anni di attese. Ed è un sì: il pellegrinaggio lefebvriano potrà essere effettuato, le porte delle basiliche romane si apriranno. «Non c’è difficoltà ad accogliere il programma previsto» si legge nella lettera del Comitato per il Grande Giubileo del 2000. Firmato: cardinale Roger Etchegaray. Ma manca meno di un mese: le date stabilite per il pellegrinaggio sono l’8, il 9 e il 10 agosto. Sembrerebbe un disastro, visto che il pellegrinaggio ha bisogno di una laboriosa preparazione dato che vuole far confluire su Roma migliaia di fedeli che arrivano dai vari continenti, moltissimi anche dall’Asia. Ma non è così. La diplomazia parallela aveva dato i suoi frutti.
«Ufficiosamente» ci confida sorridendo padre Du Chalard «avevamo già avuto la risposta. Sei mesi prima della data stabilita, ci era stato assicurato che avremmo potuto compiere senza problemi il nostro pellegrinaggio a Roma».


E così la macchina organizzativa dei lefebvriani si mette in moto. E l’8 agosto arrivano a Roma insieme a quattro vescovi, 100 sacerdoti, 130 seminaristi, suore, frati e oltre cinquemila fedeli. Un vero esercito. L’appuntamento è alle 9 e 30 di fronte alla Basilica di San Paolo. Compiuto il passaggio per la Porta Santa e pregato sulla tomba dell’Apostolo delle genti, ci si dà appuntamento per il pomeriggio, alle 14 e 30, in via della Conciliazione. Nessun giornalista è presente, nessuno è informato di questo straordinario evento.
I comunicati che nei giorni precedenti i lefebvriani avevano inviato all’
Ansa stranamente non erano stati ripresi dall’agenzia di stampa. Ma quelle tonache lunghe e quelle migliaia di fedeli che avanzano lentamente e in lunghe file ordinate, pregando e salmodiando, verso la Basilica di San Pietro in un caldo pomeriggio d’agosto, non passano inosservate. I primi ad accorgersene sono i giornalisti della Rai che hanno le loro postazioni in una palazzina a ridosso di via della Conciliazione. Anche se oramai abituati ai pellegrinaggi giubilari, vengono richiamati dai canti in latino e rimangono stupiti da quell’insolito spettacolo.
Quando si avvicinano per chiedere spiegazioni, scoprono che si tratta dei lefebvriani, e parte un tam-tam con i colleghi. Nelle redazioni dei quotidiani vengono allertati i vaticanisti, che giungono trafelati e stupiti. Poiché nessuno aveva informato la stampa, si pensa a un colpo di mano dei lefebvriani che cercano di sorprendere il Vaticano. E così, quando all’ingresso di piazza San Pietro la polizia non lascia passare i fedeli, tra i giornalisti presenti si diffonde la voce che il pellegrinaggio non è autorizzato, e che i lefebvriani si accingono a sfondare i cordoni di sicurezza. Un giornalista sta dettando alla propria agenzia di stampa la notizia-bomba, quando viene fermato appena in tempo da un collega. «In realtà» spiega divertito l’abbé Michel Simoulin, superiore del distretto italiano, «era semplicemente accaduto che il Vaticano non aveva informato la polizia italiana del nostro pellegrinaggio, e questa ci aveva bloccato all’ingresso della piazza chiedendo spiegazioni. Ma è bastato un breve giro di telefonate con le autorità della Santa Sede, e tutto si è chiarito».


I lefebvriani possono quindi passare per la Porta Santa della Basilica di San Pietro. Possono pregare sulla tomba del Principe degli apostoli. L’appartamento del Pontefice che li ha condannati è a pochi metri di distanza, ma sotto le antiche volte risuona la voce del vescovo lefebvriano che prega anche per lui. Poi, sacerdoti e fedeli si spostano sulla tomba di san Pio X e alle 16 e 30 inizia il deflusso: la Santa Sede era stata rigorosa, e aveva chiesto il rigido rispetto degli orari: entro le 17 la Basilica doveva essere sgomberata. Così è avvenuto.

Il giorno dopo, mercoledì 9, il giubileo dei lefebvriani continua nelle basiliche di San Giovanni e di Santa Maria Maggiore. E giovedì 10, i mille fedeli che sono rimasti compiono una pratica devozionale cara ai romani: la visita delle Sette Chiese. L’aveva inventata san Filippo Neri, e i seguaci di monsignor Lefebvre venuti da tutto il mondo la ripetono nell’anno 2000: percorrendo 23 chilometri a piedi, si recano a pregare nelle principali basiliche della Città eterna. E in quella di Santa Croce, l’ennesima sorpresa di questo singolare pellegrinaggio.
Il responsabile della Basilica, commosso per l’afflusso e per la devozione, apre la teca in cui è protetta la preziosa reliquia portata dalla madre dell’imperatore Costantino. La prende con rispetto, e consegna il pezzo della Croce su cui è morto nostro Signore Gesù Cristo al vescovo, perché benedica i fedeli. Che si inginocchiano, commossi.



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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