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DE CIVITATE DEI (approfondimenti)

Ultimo Aggiornamento: 25/08/2012 21:49
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«Quod si concorditer fieret, id ipsum fieret meliore successu; sed nulla esset gloria triumphantium» (De civitate Dei 5, 17)


Se il passaggio dal comunismo alla democrazia fosse avvenuto attraverso un compromesso avrebbe avuto un esito migliore. Ma non ci sarebbe stata la gloria di chi poteva dire di aver vinto il comunismo


di Lorenzo Bianchi


Sant’Agostino in un affresco del VI secolo, Laterano, Roma

Sant’Agostino in un affresco del VI secolo, Laterano, Roma

Per chi legge il De civitate Dei, è evidente che ad Agostino non interessa una teoria sulla guerra, sulla pace, sul potere, sul cambiamento di regimi politici, sulle leggi civili. Agostino, partendo da quel fatto non dovuto che è l’avvenimento della grazia (fatto in cui egli stesso era stato ed era coinvolto gratuitamente), osserva realisticamente come la vita di questo avvenimento si svolge nel tempo del suo camminare qui sulla terra. Il De civitate Dei è una osservazione realistica di come questo avvenimento di attrattiva e libertà si svolge nel tempo. Gli incontri di questo avvenimento, le cose che può utilizzare per il suo cammino, le opposizioni persino cruente al suo esserci, soprattutto le alternative ideali alla gratuità del suo accadere.


1. De civitate Dei, libro 15, 21
In questo primo brano Agostino sta accennando al capitolo quarto e al capitolo quinto del Libro della Genesi. Sta dicendo che nel capitolo quarto è descritta tutta la discendenza di Caino. Il testo della Genesi, quando parla di Caino e della sua discendenza, dice che egli costruì una città (cfr. Gen 4, 17). Dopo la discendenza di Caino, il testo ricomincia con la discendenza di Adamo. Da Adamo ed Eva nacque Seth, che ebbe come figlio Enos. Enos, cioè colui che ha posto la speranza nell’invocare il nome del Signore (cfr. Gen 4, 25-26). Ma l’autore sacro, dopo aver accennato a questo, riprende dicendo: Quando Dio creò Adamo… (cfr. Gen 5, 1-2). Agostino suggerisce una sua ipotesi sul motivo per cui, dopo aver descritto la discendenza che viene da Caino e dopo aver accennato a Seth e a Enos, colui che ha posto la speranza nell’invocare il nome del Signore, l’autore sacro ricomincia con Quando Dio creò Adamo.

Quod mihi videtur ad hoc interpositum, ut hinc rursus inciperet ab ipso Adam dinumeratio temporum, quam noluit facere, qui haec scripsit, in civitate terrena; tamquam eam Deus sic commemoraret, ut non computaret. / A me sembra che chi ha scritto queste cose abbia messo qui questo versetto [Quando Dio creò Adamo] per un preciso motivo, perché da qui, proprio da Adamo, nuovamente ricominciasse il computo dei tempi, cosa che l’autore sacro non volle fare per la città terrena; è come se Dio la ricordasse senza calcolarne il tempo.

Potremmo dire: la città terrena vive un tempo senza memoria. La città terrena evidentemente vive nel tempo. Ma è come un tempo senza avvenimenti; quindi è un tempo senza memoria. Cioè un tempo che passa, che trascorre, ma che non cresce come memoria, anzi, come scrive Péguy, decresce. Un tempo che non è l’accadere di una storia che va da avvenimento ad avvenimento. È solo un tempo che scorre. Invece il tempo della città di Dio è un tempo che cresce, andando da inizio in inizio, con inizi che non hanno fine.

Sed quare hinc reditur ad istam recapitulationem, postea quam commemoratus est filius Seth, homo qui speravit invocare nomen Domini Dei, / Ma perché si ricomincia con questa ripresa dall’inizio, dopo che è stato ricordato il figlio di Seth, l’uomo che ha posto la speranza nell’invocare il nome del Signore, / nisi quia sic oportebat istas duas proponere civitates, / se non perché a questo punto era necessario presentare le due città, / unam per homicidam usque ad homicidam / una che va da un omicida a un altro / (nam et Lamech duabus uxoribus suis se perpetrasse homicidium confitetur), / (infatti anche Lamech alle sue due mogli dice di aver commesso un omicidio), / alteram per eum, qui speravit invocare nomen Domini Dei? / l’altra che invece cammina attraverso l’uomo che ha posto la sua speranza nell’invocare il nome del Signore? / Hoc est quippe in hoc mundo peregrinantis civitatis Dei totum atque summum in hac mortalitate negotium […]. / Questa è infatti in questo mondo l’intera e somma attività della città di Dio mentre è pellegrina nella condizione mortale.

La città di Dio non ha altro compito proprio in questo mondo che porre la sua speranza nell’invocare il nome del Signore. Se non si coglie questo, non si comprende il cuore con cui Agostino parla della pace, della guerra, del potere, delle virtù morali che hanno fatto grande Roma, da un lato così simili in un certo senso a quelle cristiane e dall’altro così tentate di orgoglio e quindi di empietà… Mentre i cittadini della città del mondo hanno il problema di costruire la città, il negotium, il compito, l’attività propria dei cittadini della città di Dio è porre la speranza nel domandare. Se si prescinde da questo totum atque summum negotium, non c’è interesse vero, umano a dare giudizi, per esempio sull’89 e sulle sue conseguenze.

[…] Filius ergo Cain, hoc est filius possessionis, (cuius nisi terrenae?) habeat nomen in civitate terrena. / Il figlio di Caino, cioè il figlio del possesso, (quale possesso se non quello delle cose della terra?) pone la sua consistenza nel dare il proprio nome alla città terrena. / […] Filius autem Seth, hoc est filius resurrectionis, / Il figlio di Seth, cioè il figlio della risurrezione, / speret invocare nomen Domini Dei; / ha come speranza l’invocare il nome del Signore; / eam quippe societatem hominum praefigurat quae dicit: Ego autem sicut oliva fructifera in domo Dei speravi in misericordia Dei; / rappresenta quella società di uomini che dice: come un ulivo fecondo nella casa del Signore spero nella misericordia del Signore; / vanas autem glorias famosi in terra nominis non requirat; / non cerca la vuota gloria della fama del proprio nome sulla terra; / beatus est enim vir, cuius est nomen Domini spes eius, / infatti è felice l’uomo la cui speranza è il nome del Signore, / et non respexit in vanitates et insanias mendaces. / e non si preoccupa delle cose vane e di devianti falsità.

Il presidente russo Boris Eltsin in piedi su un mezzo blindato parla alla folla radunata nella piazza antistante il Parlamento di Mosca durante il colpo di Stato dell’agosto 1991

Il presidente russo Boris Eltsin in piedi su un mezzo blindato parla alla folla radunata nella piazza antistante il Parlamento di Mosca durante il colpo di Stato dell’agosto 1991

La città di Dio non cerca di essere famosa nel mondo, non cerca che il suo nome sia rinomato nel mondo perché è felice nel porre la speranza nel nome del Signore.

Propositis itaque duabus civitatibus, / Avendo davanti agli occhi queste due città, / una in re huius saeculi, altera in spe Dei […] / una determinata dalle cose di questo mondo, l’altra che vive nella speranza di Dio

«Una che vive nel possesso delle cose di questo mondo, l’altra che vive nella speranza di Dio», cioè, per usare le parole di Péguy, nella sorpresa, nello stupore della grazia di Dio. Questo stupore è solo un pegno, un anticipo, un inizio precario, eppure reale e certo. Quando Giovanni e Andrea Lo hanno incontrato, non era il possesso definitivo, che è proprio del Paradiso, ma era un anticipo reale di stupore certissimo.

[…] ut ex ipsa etiam comparatione vasorum irae / perché anche da questo paragone dei vasi d’ira / superna civitas discat, quae peregrinatur in terris, non fidere libertate arbitrii sui, sed speret invocare nomen Domini Dei. / la città di Dio che è pellegrina sulla terra impari a non fidarsi della propria libertà di scelta, ma riponga la speranza nell’invocare il nome del Signore Dio. / Quoniam voluntas in natura, quae facta est bona a Deo bono, / Poiché la volontà umana, creata buona dal Dio buono, / sed mutabilis ab immutabili, quia ex nihilo, et a bono potest declinare, ut faciat malum, / è mutevole, perché è creatura, e dal bene può abbassarsi fino a fare il male / quod fit libero arbitrio, / e ciò avviene per scelta libera, / et a malo, ut faciat bonum, quod non fit sine divino adiutorio. / ma che la volontà dal male faccia il bene, questo non avviene se non attraverso la grazia di Dio.

Dentro la città del mondo c’è un’altra città, cioè un uomo o una comunità di uomini, che ha come totalizzante e suprema attività il porre la speranza nell’invocare il nome del Signore. Dentro questo orizzonte sono tutte le altre cose. Come scrive Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Infatti non è che i cittadini della città di Dio non abbiano interesse vero, umano per una vita sociale ordinata e in pace. Anche per loro la pace della città del mondo è una cosa veramente buona. Tanto è vero che, dentro quell’orizzonte (il porre la speranza nell’invocare il nome del Signore), possono usare meglio anche della pace terrena.


2. De civitate Dei, libro 5, 17, inizio
Il secondo brano è tratto dal libro quinto del De civitate Dei. È un brano che da un lato dà conforto, qualunque sia la condizione mondana in cui la città di Dio si trova a vivere, e dall’altro dà il criterio ultimo di giudizio sul potere. Un criterio di giudizio così realistico che anche persone non credenti possono intuire ed evidenziare, come per esempio Alberto Asor Rosa in un articolo su la Repubblica dal titolo Il disegno dell’impero, scritto durante la guerra in Iugoslavia (cfr. A. Asor Rosa, Il disegno dell’impero, in la Repubblica, 6 aprile 1999, p. 1).

Quantum enim pertinet ad hanc vitam mortalium, quae paucis diebus ducitur et finitur, / Per quanto riguarda questa vita di noi creature mortali, vita che trascorre e finisce in pochi giorni, / quid interest sub cuius imperio vivat homo moriturus, / che interesse ha sotto quale potere viva l’uomo che deve morire / si illi qui imperant ad impia et iniqua non cogant? / se coloro che esercitano il potere non obbligano a cose empie e cattive?
«Impia et iniqua».
Impia: Giovanni, il discepolo prediletto, nell’Apocalisse scrive che è diabolico rivestire il potere mondano, che pure è dato da Dio, di abiti religiosi. L’empietà cui possono obbligare coloro che detengono il potere è accettare tale rivestimento. D’altra parte gli empi per Agostino sono coloro che non hanno la grazia della vera pietas che consiste nel «porre la speranza nella grazia e nella misericordia del vero Dio» (De civitate Dei 5, 19: «Spes posita in gratia et misericordia veri Dei»). Agostino non condanna «con rancore», per usare il termine di Péguy, questa condizione umana, storica, di empietà. Se così fosse non avrebbe potuto valorizzare, fino a commuoversi, fatti e persone della storia di Roma. Invece l’empietà quale alternativa ideale alla vera pietas si dà quando a fatti mondani, terreni, si attribuisce valenza religiosa e valenza salvifica. Così quel passaggio di potere che è stato il 1989 è empio in quanto rivestito di immagini religiose e di aspettative salvifiche. Credere che il 1989, con il crollo del muro di Berlino, portasse di per sé fede e quindi salvezza agli uomini è una cosa empia. Agostino dice che ai cittadini della città di Dio basta che coloro che ci governano / illi qui imperant non chiedano questo.
Et iniqua: cose inique. Da questo punto di vista potremmo dire che l’89 è stato di fatto un allargare spazi ai commerci della droga, della prostituzione, delle armi. Questo nella realtà è stato il 1989.

Berlino, 10 novembre 1989: all’indomani della caduta del Muro, la folla si raduna davanti alla Porta di Brandeburgo

Berlino, 10 novembre 1989: all’indomani della caduta del Muro, la folla si raduna davanti alla Porta di Brandeburgo

Aut vero aliquid nocuerunt Romani gentibus, quibus subiugatis imposuerunt leges suas, / E infatti che cosa altro hanno fatto di male i Romani quando ai popoli assoggettati hanno imposto le loro leggi / nisi quia id factum est ingenti strage bellorum? / se non che lo hanno fatto con grandi stragi di guerra? / Quod si concorditer fieret / Se invece avessero fatto la stessa cosa [per esempio il passaggio da un regime comunista a un regime più liberale] attraverso un compromesso / id ipsum fieret meliore successu; / la stessa cosa avrebbe avuto un esito migliore;

Se quel passaggio si fosse svolto concorditer «attraverso un compromesso» avrebbe avuto un esito migliore. Non avremmo avuto in questi dieci anni stragi continue di guerre. O forse ci sarebbero state altre guerre, ma non direttamente derivate dalla modalità ideologica dell’89.

sed nulla esset gloria triumphantium […]. / ma non ci sarebbe stata alcuna gloria di chi invece così poté proclamarsi vincitore.

Se avessero realizzato una transizione attraverso un compromesso, non ci sarebbe stata la gloria di chi poteva dire di aver vinto il comunismo.
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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3. De civitate Dei, libro 3, 17, 1

Il terzo brano è tratto dal libro terzo. Agostino accenna al fatto che molto prima delle guerre puniche la corruzione aveva dominato Roma e il potere di Roma. Per descrivere questa corruzione usa le parole dello storico romano Sallustio. La corruzione, una volta diminuita la paura, quella paura che può consigliare ai cittadini della città terrena la pratica di virtù, dilaga quando i patrizi servili imperio hanno sottomesso il popolo, con un potere che lo ha reso schiavo.

Proinde victoriae illae non solida beatorum gaudia fuerunt, / Così le vittorie di Roma non furono gioie vere e durature per gente felice / sed inania solacia miserorum / ma vuote consolazioni per la povera gente / et ad alia atque alia sterilia mala subeunda illecebrosa incitamenta minime quietorum. / e per coloro che sono sempre in agitazione [per gli impegnati, per i militanti, per coloro che sono in servizio permanente] spunto e occasione per altre sterili guerre. [Credo che i romani che mi ascoltano dire queste cose non si irriteranno con me, perché queste nostre affermazioni sul potere di Roma le fanno anche i loro autori in forme e contenuti ancora più duri]. / […] Porro si illi scriptores historiae ad honestam libertatem pertinere arbitrati sunt mala civitatis propriae non tacere, / Se questi storici romani hanno creduto che fosse diritto di una libertà onesta non tacere dei mali della loro città / quam multis locis magno praeconio laudare compulsi sunt, / e questi stessi storici in molte occasioni sono stati portati a idealizzarla riempiendola di lodi / cum aliam veriorem, quo cives aterni legendi sunt, non haberent: / perché, non essendo stati eletti in un’altra città, più bella, più reale, in cui abitare per sempre, quello era l’unico orizzonte della loro vita: / quid nos facere convenit, quorum spes quanto in Deo melior et certior, tanto maior debet esse libertas, / che cosa possiamo fare noi? Tanto più grande può essere la nostra libertà quanto più la nostra speranza è più reale e più certa in Dio,

Anche qui Agostino non ha rancore, anzi è pieno di rispetto, ironia, pietas. Quelli che idealizzano per esempio la democrazia degli Stati Uniti o i diritti umani come l’ideale più alto, sono quasi obbligati, quasi senza accorgersene, a tale idealizzazione, come in buona coscienza. Non avendo l’esperienza umana di un’altra città molto più bella e molto più reale, sono come obbligati, per mancanza di quest’altra esperienza, a tale idealizzazione. Quanto più invece per i cittadini della città di Dio l’esperienza di stupore è reale, tanto più essi possono essere liberi nel riconoscere la violenza e la corruzione di ogni potere.

cum mala praesentia Christo nostro imputant, / in particolare quando gli attuali mali della società sono attribuiti a Cristo / ut infirmiores imperitioresque mentes / così che le persone più deboli, le persone che hanno meno capacità di intelligenza della realtà / alienentur ab ea civitate, / possono essere strappate da quella città / in qua sola iugiter feliciterque vivendum est […]. / nella quale soltanto si vive felici e per sempre.

Qui Agostino usa esplicitamente il criterio cui si accennava prima. Si può lodare benissimo la democrazia, i diritti umani, persino l’89, basta che non vi si attribuisca empiamente dimensione religiosa, salvifica. Così la democrazia può essere giudicata lo strumento migliore di convivenza, basta non attribuire empiamente a tale strumento il potere di rendere felici.


Il 23 agosto ’91, durante una riunione straordinaria del Parlamento della Federazione russa, Gorbaciov riceve da Eltsin una nota riguardante 
la posizione assunta da ciascun ministro nel corso del colpo di Stato dei giorni precedenti

Il 23 agosto ’91, durante una riunione straordinaria del Parlamento della Federazione russa, Gorbaciov riceve da Eltsin una nota riguardante la posizione assunta da ciascun ministro nel corso del colpo di Stato dei giorni precedenti

4. De civitate Dei, libro 3, 14
Inizio della storia di Roma.
Guerra di Roma contro Alba.

Quid mihi obtenditur nomen laudis nomenque victoriae? / Ma perché chiamare in causa l’onore e la vittoria? / Remotis obstaculis insanae opinionis / Tolti gli ostacoli [che impediscono di osservare la realtà] di una mentalità [opinione pubblica, quello che tutti pensano] che non è realistica / facinora nuda cernantur, / si guardino i delitti nella loro nudità per quello che sono, / nuda pensentur, / si riconoscano le cose così come sono in realtà, / nuda iudicentur. / si giudichino le cose così come sono in realtà. / […] Libido ista dominandi magnis malis agitat et conterit humanum genus. / Questa volontà di potere agita con grandi mali e distrugge il genere umano. / Hac libidine Roma tunc victa Albam se vicisse triumphabat / Roma soggiogata da questa libidine era orgogliosa di aver vinto Alba / et sui sceleris laudem gloriam nominabat, / e dava il nome di gloria all’esaltazione dei suoi delitti / quoniam laudatur, inquit Scriptura nostra, peccator in desideriis animae suae / poiché, come dice la nostra Scrittura, il peccatore si loda nei desideri della propria anima / et qui iniqua gerit benedicitur. / e colui che compie cose inique viene elogiato. / Fallacia igitur tegmina et deceptoriae dealbationes auferantur a rebus, / Si tolgano dalle cose i veli ingannatori e le idealizzazioni menzognere, / ut sincero inspiciantur examine […]. / e le si guardino con sguardo realistico.
Bisogna guardare le cose così come sono, senza coperture che non reggono e idealizzazioni che tentano di ingannare. Per esempio è di fatto impossibile che si faccia una guerra per motivo ideale, umanitario.


5. De civitate Dei, libro 15, 5
Primus itaque fuit terrenae civitatis conditor fratricida […] / Così colui che per primo fondò la città terrena fu anche fratricida

Per invidia Caino ha ucciso Abele. Agostino aggiunge che non ci si deve meravigliare se quella città che della città terrena è in qualche modo l’ideale buono, cioè Roma, inizia la sua storia con un fratricidio: Romolo uccide Remo. Agostino cita il poeta Lucano: Fraterno primi maduerunt sanguine muri (Le nostre prime mura grondarono di sangue fraterno). Riguardo all’omicidio di Remo da parte di Romolo, Agostino afferma che tutti e due, cercando la gloria umana, comprendevano benissimo che la gloria che uno possedeva la toglieva all’altro. Il potere che uno possiede lo toglie all’altro e quindi la lotta per il potere è di fatto inevitabile.

[…] Ut ergo totam dominationem haberet unus, / Perché uno solo potesse avere tutto il potere, / ablatus est socius, et scelere crevit in peius, / fu eliminato il compagno e con questo delitto il potere aumentò ma in peggio, / quod innocentia minus esset et melius. / mentre se non l’avesse ucciso sarebbe stato un potere minore ma più buono. / Hi autem fratres Cain et Abel non habebant ambo inter se similem rerum terrenarum cupiditatem, / Invece i fratelli Caino e Abele non avevano tutti e due lo stesso desiderio di gloria terrena / […] (Abel quippe non quaerebat dominationem in ea civitate, quae condebatur a fratre), / (Abele non cercava il potere in quella città che veniva fondata dal fratello),

La città di Dio non ha il problema del potere nella città del mondo perché gode di una gioia che è molto più reale, più grande, più vera cioè corrispondente al cuore. In quanto fa esperienza di questo godimento, non ha il problema di cercare quel potere.

sed invidentia illa diabolica, qua invident bonis mali […]. / eppure [Caino uccise Abele] per quell’invidia diabolica per cui i cattivi invidiano i buoni.

Perché li invidiano? Perché sono buoni. Prediletti. Non perché tolgono a essi il potere. Li invidiano, perché essendo prediletti sono buoni. Concludendo il brano, Agostino accenna che, a differenza del potere di questo mondo, la bontà, la predilezione della grazia più è condivisa da altri e più diventa grande nel singolo. È un brano bellissimo sulla comunione della grazia, che più è testimoniata da altri più diventa grande in chi semplicemente se ne accorge. A differenza del potere di questo mondo, la bontà frutto della grazia più è testimoniata da altri e più rende contento chi stupito magari sulla soglia, da lontano, direbbe Péguy, la guarda.


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Fraternamente CaterinaLD

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Il De civitate Dei di sant’Agostino e l’unità dei popoli


Appunti dalla comunicazione di don Giacomo Tantardini al convegno internazionale di studi “Per un nuovo ordine mondiale: unione dei popoli oltre il particolarismo degli Stati” svoltosi presso la Libera Università degli studi San Pio V di Roma in occasione del Giubileo dei docenti universitari Roma, 8 settembre 2000


di Giacomo Tantardini


Tre premesse.

1. Sono grato al professor Leoni, rettore di questa Libera Università degli studi San Pio V, per l’invito a tenere questa comunicazione e in particolare per il titolo con cui mi ha presentato: sacerdote. Non è infatti per ruoli o competenze accademiche che parlo a voi, ma semplicemente perché in questa Università, così ospitale, da ormai tre anni, leggiamo insieme con giovani studenti brani di sant’Agostino, in particolare del De civitate Dei.

2. Il desiderio che sorregge questa comunicazione è che «sant’Agostino diventi accessibile alle nostre domande e nella nostra attualità», secondo quanto il cardinale Ratzinger, presentando a Roma in un’aula della Camera dei deputati il libro Il potere e la grazia. Attualità di sant’Agostino, disse: «Quello che mi arreca realmente gioia è il fatto che una rivista di informazione come 30Giorni abbia presentato per mesi al grande pubblico questa figura [la figura di sant’Agostino] in un dialogo con il nostro tempo. Un dialogo che realmente evidenzia la profondità e l’attualità del suo pensiero. Questo fatto che sant’Agostino diventa accessibile alle nostre domande e nella nostra attualità è il mio motivo di gioia». Questo non fu che il primo dei tre accenni di gratitudine che in quell’occasione Ratzinger espresse per la rivista diretta da Giulio Andreotti.

Ambrogio battezza Agostino e il figlio Adeodato, gruppo scultoreo di pietra dipinta (1549), Cattedrale di San Pietro 
e San Paolo, Troyes, Francia

Ambrogio battezza Agostino e il figlio Adeodato, gruppo scultoreo di pietra dipinta (1549), Cattedrale di San Pietro e San Paolo, Troyes, Francia

3. Il De civitate Dei non è di per sé un trattato su temi di filosofia e teologia cristiana. Nel De civitate Dei Agostino descrive un avvenimento accaduto e che come nuovo inizio si ripresenta nel presente (Péguy parlerebbe di “registrazione” ovvero di “cronaca”). Avvenimento che chiamiamo grazia, grazia che possiamo tradurre con una parola: attrattiva (delectatio victrix: attrattiva che avvince perché corrisponde al cuore dell’uomo). Agostino chiama, per esempio nel De spiritu et littera, questa grazia, questa attrattiva, concupiscenza buona, più evidente e corrispondente al cuore che non la concupiscenza dovuta alla ferita del peccato originale. Se non fosse più evidente e corrispondente al cuore non ci sarebbe reale motivo per diventare e rimanere cristiani. Ebbene, nel De civitate Dei Agostino descrive come questa attrattiva vive nel mondo, la realtà che incontra, le obiezioni e le alternative ideali che il mondo oppone a questa attrattiva, le vicinanze, le prossimità (che magari immediatamente possono apparire lontananze) a questa attrattiva. Agostino, sempre nel De spiritu et littera, afferma, a differenza di Pelagio e dei filosofi platonici, che la conoscenza della verità / cognitio veritatis e la stessa cognitio Dei / conoscenza di Dio, di fatto, storicamente, conduce alla morte, è lettera che uccide senza questa delectatio / attrattiva per cui si è grati. Nella gratitudine si conosce veramente.
Così, viene evitata di schianto sia un’interpretazione idealistica del De civitate Dei (città di Dio come comunità ideale degli uomini religiosi o buoni) sia un’interpretazione teocratica (città di Dio come modello da imporre alla convivenza umana). La civitas che questa attrattiva genera, stupendo e attirando le persone che incontra, è semplicemente la Chiesa (dilecta civitas, cum haec non sit nisi Christi Ecclesia, XX, 11). Questo riconoscimento proprio della Tradizione, espresso da Agostino anche con parole come civitas Dei quae est sancta Ecclesia (VIII, 24, 2), è stato autorevolmente riproposto in questi giorni dalla DichiarazioneDominus Iesus” circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa approvata dal Papa. Al Santo Padre esprimiamo la nostra umile riconoscenza.
Ma, trattandosi di avvenimento di grazia, Agostino né idealizza la comunità concreta dei fedeli né istituzionalizza l’avvenimento sempre gratuito dell’attrattiva della grazia. Così come nel Credo del popolo di Dio Paolo VI dà testimonianza: «Essa [la Chiesa] è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l’irradiazione della sua santità».
Tale attrattiva di grazia desta esperienza di stupore, stupore che non può, per sua natura, né essere provocato né essere posseduto da noi. Per questo non è contro nessuno e non può essere imposto a nessuno.


1.De civitate Dei XIV, 1
«Dio ha voluto che tutti gli uomini nascessero da un unico uomo perché non solo fosse comune la natura, ma ci fosse anche un rapporto di fraternità tra tutti, in una unità concorde attraverso il vincolo della pace». Così Agostino accenna all’ideale di unità tra i popoli (in unitatem concordem) che scaturisce naturalmente dal gesto del Creatore. Ma realisticamente Agostino constata che tale condizione è segnata dalla morte come conseguenza del peccato originale. Senza tener presenti questi due fattori, ovvero l’ideale buono che sorge dal cuore e le conseguenze storiche del peccato originale, non si è realisti, ma illusi idealisti.
In questa condizione è accaduto che «indebita Dei gratia / una grazia non dovuta incontrasse alcuni» rendendoli così felici (…gratiam qua illi cohaerendo beati simus, VIII, 10, 2; spe beati facti sumus, XIX, 4, 5). Lieti già in questo mondo in speranza. Cioè lieti per stupore gratuito. Non per possesso di conquista. «Ac per hoc factum est / Per questo è accaduto che, nonostante tutti i popoli che vivono sulla terra abbiano diverse religioni, diversi costumi [diverse morali] e siano distinti per molteplicità di lingue, di armi, di vesti, non esistono tuttavia che due generi di società umane». Agostino constata che all’interno della società umana esiste una societas di persone toccate da un’attrattiva di grazia non esigita1. Questa attrattiva, in quanto è e rimane gratuita attrattiva di grazia, non divide. Se questa attrattiva venisse gnosticamente, culturalmente concepita e posseduta, allora diventerebbe un principio che divide.


2.De civitate Dei V, 19
Che rapporto suggerisce Agostino tra l’esperienza comune a tutti e l’esperienza gratuita provocata da tale attrattiva, che rapporto tra i cittadini della città di Dio e gli uomini fratelli?
Permettetemi di leggere in latino la frase forse più bella, più attuale del De civitate Dei: «Quantumlibet autem laudetur atque praedicetur virtus quae sine vera pietate servit hominum gloriae / Per quanto sia lodata e per quanto sia esaltata la virtù che senza la vera pietas è utile alla gloria degli uomini / nequaquam sanctorum exiguis initiis comparanda est / non la si può nemmeno paragonare ai primi piccoli passi dei santi / quorum spes posita est in gratia et misericordia veri Dei / cioè di coloro la cui speranza è posta nella grazia e nella misericordia del vero Dio». Di coloro la cui speranza è posta nella grazia e nella misericordia di Dio, anche se non ne sono coscienti. Perché quando uno incontra l’avvenimento cristiano e gratuitamente ne rimane stupito e attratto può non sapere nemmeno che cosa sia la grazia e la misericordia. Così, evidentemente, il porre la speranza nella grazia e nella misericordia non nasce dall’uomo, ma dallo stupore dell’incontro (confronta il commento di Agostino al Salmo 41).
Proprio il fatto che si tratta di attrattiva di bellezza imparagonabile a un impegno e a una dedizione che nascono da noi, evita ogni superiorità e ogni pretesa nei confronti degli altri. Lo stupore della grazia è imparagonabile. Non è in dialettica. Non è contro. Non solo il cristiano non vive un atteggiamento di superiorità e di pretesa ma vive paradossalmente in uno stupefatto paragone, come chiedendo perdono agli uomini fratelli di una immeritata predilezione. Anche per questo, scrive Ratzinger, «l’idea di una cristianizzazione dello Stato e del mondo non appartiene decisamente ai punti programmatici di Agostino». Così, Agostino «assume [nei confronti del mondo] quel comportamento che era eredità cristiana delle origini».


3. De civitate Dei I, 35
Se l’esperienza destata dall’attrattiva della grazia è imparagonabile all’esperienza comune degli uomini (e, proprio in quanto imparagonabile, compie l’attesa naturale dell’uomo. Pensate per esempio a Leopardi e a Pavese2), i cittadini delle due città vivono però insieme in questo mondo. «Perplexae quippe sunt istae duae civitates in hoc saeculo invicemque permixtae / Infatti queste due città in questo mondo sono confuse e mischiate l’una con l’altra». La Chiesa non è una città fortificata di fronte, contro il mondo. La Chiesa per esempio non è l’Occidente cristiano3 di fronte, contro il mondo dell’Islam. La Chiesa, per usare un’immagine di Luigi Giussani nel libro L’attrattiva Gesù, vive come «un filo di tenerezza e di adesione» che può raggiungere ogni uomo. Così che accade un continuo passaggio tra le due città. Coloro che in questo momento sono considerati e possono essere lontani, incontrando quell’attrattiva, diventano cittadini della città di Dio, testimoni a loro stessi e agli altri dell’operare della grazia, possibilità di stupore e di consolazione per tutti (confronta la citazione del De civitate Dei XVIII, 51, 2, in Lumen gentium 8). Per questo il cristiano non fa crociate e non lancia sfide a nessuno. Come ha dato esempio Paolo VI, il Papa dell’Ecclesiam suam, riguardo alla costruzione della moschea a Roma. Ha ricordato recentemente al Meeting di Rimini il senatore Andreotti che non solo papa Montini non si è opposto, ma a chi gli faceva presente che avrebbe dovuto ottenere “la reciprocità” rispose che la Chiesa non si abbassava a tale livello.


Agostino e Adeodato ricevono 
il battesimo da Ambrogio

Agostino e Adeodato ricevono il battesimo da Ambrogio

4.De civitate Dei XV, 4
Come Agostino guarda agli ideali della città degli uomini, in particolare a quell’ideale di concorde unità tra tutti gli uomini nel vincolo della pace? Con quel realismo che ha trovato una sua espressione anche nella Gaudium et spes, per esempio nel paragrafo introduttivo alla «Parte prima» su La Chiesa e la vocazione dell’uomo. Quando il Concilio afferma da un lato che questi ideali, questi valori, in quanto procedono dal cuore dell’uomo creato da Dio, sono valde boni / molto buoni; dall’altro, ex corruptione humani cordis / per la corruzione del cuore umano, non raramente vengono distorti così che hanno bisogno di essere purificati (Gaudium et spes 11). Così Agostino scrive: «La città terrena, che non sarà eterna (perché nella dannazione non sarà città), / hic habet bonum suum / qui, in questo mondo, ha i suoi beni». Questi beni si possono ricondurre al piacere del corpo, alle virtù morali, al senso religioso. «Cuius societate laetatur / E partecipando a questi beni trae letizia».
Agostino, seguendo Paolo che parla ai pagani della letizia che il Creatore concede in abbondanza al cuore degli uomini (cfr. At 14, 17), non porta rancore (per usare l’espressione con cui Péguy descrive l’atteggiamento di tanti ecclesiastici), rispetta, anzi gli capita di commuoversi di fronte ai tentativi del cuore umano. Pensate all’ammirazione commossa di Agostino per quelle virtù che hanno reso grande Roma e che – dice – in qualche modo sono simili alle nostre (V, 17, 2).
Aggiunge però realisticamente «qualis esse de talibus laetitia rebus potest / per quanta contentezza tali cose possono dare». E così continua: «ma siccome questi beni non sono tali da togliere ogni dolore a coloro che li amano, spesso nella città terrena nasce la lotta per averne altri». Tutti gli ideali umani non offrono di fatto quella felicità per sempre che il cuore dell’uomo attende.


5. De civitate Dei XIX, 17
Avviandomi verso la conclusione, accenno all’aspetto che Agostino più evidenzia del rapporto tra la città di Dio in questo mondo e l’ideale umano di unità e di pace tra i popoli. Pace che, come la felicità, è desiderio di ogni uomo (XIX, 12, 1). Le due città non solo vivono insieme in questo mondo, ma usano degli stessi beni temporali e sono afflitte dagli stessi mali temporali (confronta l’inizio della Gaudium et spes). Scrive Agostino: «Ambae tamen temporalibus vel bonis pariter utuntur vel malis pariter affliguntur / Ambedue tuttavia ugualmente si servono dei beni temporali e ugualmente sono afflitte dai mali temporali / diversa fide, diversa spe, diverso amore / distinte solo da diversa fede, diversa speranza, diverso amore» (XVIII, 54, 2).
Le conseguenze di questa constatazione sono descritte con una sorprendente attualità nel brano che ora leggiamo. «Così anche la città terrena, che non vive della fede, desidera fortemente la pace terrena […]. La città celeste o piuttosto quella parte di essa che è pellegrina sulla terra e che, in questa condizione mortale, vive secondo la fede, necessariamente si serve anche di questa pace terrena finché non passi quella stessa condizione mortale, alla quale tale pace è necessaria. Perciò mentre conduce la sua vita come da esule nel pellegrinaggio presso la città terrena, avendo già ricevuto però la promessa della redenzione e il dono dello Spirito come pegno, non esita a obbedire alle leggi della città terrena, secondo le quali è regolato tutto ciò che serve per sostenere questa vita mortale, in modo che, essendo la stessa condizione mortale comune ad entrambe, per ciò che quella condizione riguarda, si conservi fra le due città la concordia […]. Dunque questa città celeste, finché è pellegrina sulla terra, chiama cittadini da tutte le nazioni, e raccoglie questa società pellegrina tra tutte le lingue, senza avere il problema / non curans / della diversità dei costumi, delle leggi, delle istituzioni con le quali si istituisce o si mantiene la pace terrena, senza abrogare o distruggere niente di esse, ma anzi accettando e seguendo tutto ciò che, sebbene diverso nelle diverse nazioni, tuttavia tende all’unico e medesimo fine della pace terrena, purché ciò non costituisca un ostacolo per la fede». Commenta Ratzinger: «La dottrina delle due civitates non mira né a ecclesializzare lo Stato né a statalizzare la Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede». Continua Agostino: «Anche la città celeste quindi usa, nel suo cammino, della pace terrena, protegge e desidera l’accordo delle volontà umane per le cose che riguardano la natura mortale degli uomini, per quanto è possibile far questo mantenendo salva la pietà e la fede; e inoltre riferisce la pace terrena alla pace celeste, la quale è propriamente l’unica vera pace che possa ritenersi e dirsi tale per una creatura ragionevole, cioè una società che ha il massimo dell’ordine e della concordia che nasce dal godere di Dio e nel godere reciprocamente in Dio».
Concludo riaccennando allo sguardo umanissimo di Agostino nei confronti degli ideali degli uomini. Agostino sta parlando degli storici di Roma e scrive che in molte occasioni sono stati portati a idealizzare la loro città / cum aliam veriorem, quo cives aeterni legendi sunt, non haberent / perché non avevano esperienza di un’altra città più bella dove essere cittadini per sempre (III, 17, 1). Così, con ironia piena di comprensione, che sorge dalla gratitudine per una grazia non dovuta, Agostino guarda i tentativi di impegno umano. Con la medesima ironia di Agostino, il cristiano di oggi guarda ai suoi propri tentativi di impegno nel mondo. «Tentativi ironici». Così li chiama Luigi Giussani in L’attrattiva Gesù, libro che descrive, in modo che non trova altrove l’equivalente, come oggi la stessa attrattiva che ha incontrato il cuore di Agostino incontra e accompagna il cuore e la vita dell’uomo moderno.


Note

(Le note sono costituite da risposte a domande degli universitari su singoli punti della Comunicazione)

1 Agostino non riconosce una distinzione reale, che incida realmente sulla vita, tra chi ammette e chi non ammette una credenza religiosa. Una delle cose più interessanti di Agostino è la dolorosa constatazione (che attraversa per esempio i libri VIII, IX e X del De civitate Dei in cui diffusamente tratta di Platone e dei suoi seguaci) che, di fatto, i filosofi platonici arrivano a «pensare che anche ai demoni devono essere riservati onori divini di riti e sacrifici» (De civitate Dei X, 1).
2 Nella loro poesia più volte si accenna a come il cuore dell’uomo attenda qualcosa che non conosce, qualcosa che è oltre ogni immaginazione. Se non fosse imparagonabile, non compirebbe l’attesa. Se fosse simile «saria, così conforme, assai men bella». Così Leopardi in Alla sua donna.
3 Penso al discorso di Pio XII nel Natale 1951, quando, in un momento acuto della guerra fredda, il Papa ha riaffermato che non si può identificare la Chiesa con la difesa della civiltà occidentale. Altrimenti si «lederebbe l’essenza stessa della Chiesa» anche se ciò avvenisse «per fini e interessi in sé legittimi».
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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25/08/2012 21:49
 
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Ipse enim fons nostrae beatitudinis, ipse omnis appetitionis est finis. Haec vera religio, haec recta pietas


 


Brani dal De civitate Dei 10, 3, 2 di sant’Agostino


«Huic nos servitutem, quae latreía graece dicitur, sive in quibusque sacramentis sive in nobis ipsis debemus. Huius enim templum simul omnes et singuli templa sumus, quia et omnium concordiam et singulos inhabitare dignatur; non in omnibus quam in singulis maior, quoniam nec mole distenditur nec partitione minuitur.
Cum ad illum sursum est, eius est altare cor nostrum; eius Unigenito eum sacerdote placamus; ei cruentas victimas caedimus, quando usque ad sanguinem pro eius veritate certamus; eum suavissimo adolemus incenso, cum in eius conspectu pio sanctoque amore flagramus; ei dona eius in nobis nosque ipsos vovemus et reddimus; ei beneficiorum eius sollemnitatibus festis et diebus statutis dicamus sacramusque memoriam, ne volumine temporum ingrata subrepat oblivio; ei sacrificamus hostiam humilitatis et laudis in ara cordis igne fervidam caritatis.
Ad hunc videndum, sicut videri poterit, eique cohaerendum ab omni peccatorum et cupiditatum malarum labe mundamur et eius nomine consecramur. Ipse enim fons nostrae beatitudinis, ipse omnis appetitionis est finis. Hunc eligentes vel potius religentes (amiseramus enim neglegentes) hunc ergo religentes, unde et religio dicta perhibetur, ad eum dilectione tendimus, ut perveniendo quiescamus, ideo beati, quia illo fine perfecti. Bonum enim nostrum, de cuius fine inter philosophos magna contentio est, nullum est aliud quam illi cohaerere, cuius unius anima intellectualis incorporeo, si dici potest, amplexu veris impletur fecundaturque virtutibus.
Hoc bonum diligere in toto corde, in tota anima et in tota virtute praecipimur; ad hoc bonum debemus et a quibus diligimur duci, et quos diligimus ducere. Sic complentur duo illa praecepta in quibus tota Lex pendet et Prophetae:
Diliges Dominum Deum tuum in toto corde tuo et in tota anima tua et in tota mente tua; et: Diliges proximum tuum tamquam te ipsum. Ut enim homo se diligere nosset, constitutus est ei finis, quo referret omnia quae ageret, ut beatus esset; non enim qui se diligit aliud vult esse quam beatus. Hic autem finis est adhaerere Deo. Iam igitur scienti diligere se ipsum, cum mandatur de proximo diligendo sicut se ipsum, quid aliud mandatur, nisi ut ei, quantum potest, commendet diligendum Deum? Hic est Dei cultus, haec vera religio, haec recta pietas, haec tantum Deo debita servitus.
Quaecumque igitur immortalis potestas quantalibet virtute praedita si nos diligit sicut se ipsam, ei vult esse subditos, ut beati simus, cui et ipsa subdita beata est. Si ergo non colit Deum, misera est, quia privatur Deo; si autem colit Deum, non vult se coli pro Deo. Illi enim potius divinae sententiae suffragatur et dilectionis viribus favet, qua scriptum est:
Sacrificans diis eradicabitur, nisi Domino soli».


[SM=g1740758]  italiano:

A lui noi dobbiamo il servizio, che in greco si dice latreía, sia nei vari sacramenti, sia dentro noi stessi. Infatti noi siamo suo tempio sia tutti insieme, sia, parimenti, ciascuno singolarmente, perché egli si degna di abitare sia nella concordia di tutti, sia in ciascuno singolarmente; e non è più grande in tutti insieme che nei singoli, perché non si ingrandisce con l’aumentare dell’ampiezza, né diminuisce dividendosi.
Quando è rivolto in alto verso di lui, il nostro cuore è il suo altare; ci riconciliamo con lui mediante il sacerdozio del suo Unigenito; a lui sacrifichiamo vittime cruente quando combattiamo fino al sangue per la sua verità; bruciamo per lui incenso delicatissimo quando ardiamo di pio e santo amore alla sua presenza; a lui promettiamo in voto e restituiamo i doni da lui stesso dati a noi e noi stessi; a lui dedichiamo e consacriamo la memoria dei suoi benefici nelle celebrazioni festive e nei giorni stabiliti, perché col trascorrere del tempo non si insinui senza che ce ne accorgiamo la dimenticanza irriconoscente; a lui sacrifichiamo nell’altare del cuore l’offerta, fervente del fuoco della carità, dell’umiltà e della lode. Per vederlo – infatti potrà essere visto – e per unirci a lui ci purifichiamo da ogni macchia dei peccati e delle cattive passioni, e nel suo nome ci consacriamo. È lui infatti la fonte della nostra felicità, lui il fine di ogni desiderio.
Scegliendolo, o meglio scegliendolo di nuovo (perché l’avevamo perduto trascurandolo); scegliendolo dunque di nuovo (da questo si dice che derivi la parola religione), tendiamo a lui con amore per trovare riposo nel raggiungerlo, felici appunto perché resi pienamente completi in quel fine. Il nostro bene infatti, sul cui fine tra i filosofi c’è grande controversia, non è altro che essere uniti a lui; soltanto nel suo abbraccio, se così si può dire, incorporeo, l’anima intellettuale è riempita e fecondata dalle vere virtù. Ci viene insegnato ad amare questo bene con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la virtù; a questo bene dobbiamo essere condotti da coloro che ci amano, e ad esso condurre coloro che amiamo. Così vengono adempiuti i due comandamenti da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti:
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e: Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Infatti, perché l’uomo imparasse ad amare se stesso, gli fu stabilito un fine al quale dirigere tutte le sue azioni per essere felice; poiché chi ama se stesso non vuole nient’altro che essere felice. E questo fine è essere uniti a Dio. Dunque a chi già sa amare se stesso, quando gli si comanda di amare il prossimo come se stesso, che cos’altro gli si comanda, se non di aiutare il prossimo, per quanto gli è possibile, ad amare Dio? Questo è il culto di Dio, questa la vera religione, questa la retta pietà, questo il servizio dovuto soltanto a Dio. Quindi qualunque potenza immortale, e provvista di quanto grande virtù si voglia, se ci ama come ama se stessa, vuole che noi siamo soggetti, affinché siamo felici, a colui al quale anche essa, felice, è soggetta.
Se dunque non adora Dio, è infelice, perché si priva di Dio; se invece adora Dio, non vuole essere adorata in luogo di Dio. Piuttosto appoggia e sostiene con la forza dell’amore quella parola di Dio che così è scritta:
Chi sacrifica agli dei e non soltanto a Dio sarà divelto.





traduzione di Lorenzo Bianchi


[SM=g1740758]
Fraternamente CaterinaLD

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