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San Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo

Ultimo Aggiornamento: 07/09/2012 18:54
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SAN GIOVANNI DELLA CROCE

Salita del Monte Carmelo

 

Prologo

La presente opera, composta da padre fra Giovanni della Croce, carmelitano scalzo, intende aiutare le anime a meglio disporsi spiritualmente, onde attingere più speditamente l’unione con Dio. Sia ai principianti che ai già progrediti nelle vie dello Spirito, essa propone consigli utili e dottrina solida per liberarsi da tutte le cose temporali, ma altresì per non lasciarsi irretire nei beni spirituali e permanere in quella perfetta spoliazione e libertà spirituale, indispensabili per l’unione con Dio.

 

ARGOMENTO

Tutta la dottrina che esporrò in questa Salita del monte Carmelo è contenuta nelle strofe che seguono. In queste viene indicato il modo per salire fino alla cima del “Monte”, raffigurante quel sublime stato di perfezione che qui chiamo unione dell’anima con Dio. Ho voluto raccoglierle qui tutte insieme, sia perché saranno costante punto di riferimento nella mia esposizione, sia perché si possa comprendere e vedere nel suo complesso l’essenziale di quanto commenterò. Nel corso della spiegazione, quando l’argomento sarà utile riportare ogni singola strofa e i versi distinti. Ecco qui la poesia.

 

STROFE

Ivi l’anima canta la felice sorte che ebbe nel passare attraverso la notte oscura della fede per arrivare, spoglia e purificata, all’unione con l’Amato.

 

            1. In una notte oscura,

            con ansie, dal mio amor tutta infiammata,

            oh, sorte fortunata!,

            uscii, né fui notata,

            stando la mia casa al sonno abbandonata.

 

            2. Al buio e più sicura,

            per la segreta scala, travestita,

            oh, sorte fortunata!,

            al buio e ben celata,

            stando la mia casa al sonno abbandonata.

 

            3. Nella gioiosa notte,

            in segreto, senza esser veduta,

            senza veder cosa,

            né altra luce o guida avea

            fuor quella che in cuor mi ardea.

 

            4. E questa mi guidava,

            più sicura del sole a mezzogiorno,

            là dove mi aspettava

            chi ben io conoscea,

            in un luogo ove nessuno si vedea.

 

            5. Notte che mi guidasti,

            oh, notte più dell’alba compiacente!

            Oh, notte che riunisti

            l’Amato con l’amata,

            amata nell’Amato trasformata!

 

            6. Sul mio petto fiorito,

            che intatto sol per lui tenea serbato,

            là si posò addormentato

            ed io lo accarezzavo,

            e la chioma dei cedri ei ventilava.

 

            7. La brezza d’alte cime,

            allor che i suoi capelli discioglievo,

            con la sua mano leggera

            il collo mio feriva

            e tutti i sensi mie in estasi rapiva.

 

            8. Là giacqui, mi dimenticai,

            il volto sull’Amato reclinai,

            tutto finì e posai,

            lasciando ogni pensier

            tra i gigli perdersi obliato.

 

PROLOGO

1. Per poter spiegare e far comprendere questa notte oscura, attraverso cui l’anima deve passare per giungere alla luce divina della perfetta unione con Dio, per quanto possibile in questa vita, occorrerebbero una scienza e un’esperienza superiori alla mia. Difatti sono tante le difficoltà e così dense le tenebre, spirituali e temporali, che ordinariamente le anime fortunate sogliono attraversare per raggiungere questo sublime stato di perfezione, che non bastano né la scienza umana per comprenderle né l’esperienza per descriverle. Solo chi passa per questa prova potrà darne una valutazione, ma non parlarne.

2. Pertanto, per dire qualcosa di questa notte oscura, non mi affiderò né all’esperienza né alla scienza, perché entrambe possono venir meno e trarre in inganno, pur cercando di avvalermene per quanto possibile. Invero, durante l’esposizione di quanto, con l’aiuto di Dio, intendo dire, soprattutto delle cose più importanti e difficili a capirsi, mi avvarrò della sacra Scrittura. Se ci si lascia guidare da questa, non si potrà mai sbagliare, perché lo Spirito Santo parla in essa. Se poi incorrerò in qualche errore, non comprendendo bene ciò che la Scrittura afferma o nega, non intendo affatto discostarmi dalla corretta interpretazione e dalla dottrina della santa madre Chiesa cattolica. In tal caso mi sottometto e mi rimetto completamente non solo al suo magistero, ma altresì al giudizio di persone più competenti in materia.

3. A scrivere quest’opera mi ha spinto non la capacità di realizzare un’impresa così ardua, bensì la fiducia che ripongo nel Signore, sicuro che mi aiuterà a dire qualcosa, dato il bisogno in cui si trovano molte persone. Queste, infatti, dopo aver intrapreso il cammino della virtù, non riescono ad andare avanti perché il Signore, volendole condurre all’unione divina, le immette in questa notte oscura. A volte ciò accade perché non vogliono entrare né lasciarsi condurre in essa; altre volte, perché non se ne rendono conto, o perché mancano di guide adatte e capaci di condurle sino alla vetta. È un peccato vedere molte persone, alle quali Dio concede capacità e favori per andare avanti e che potrebbero raggiungere quel sublime stato se fossero coraggiose, fermarsi invece ai gradini più bassi del rapporto con Dio, perché non vogliono o non sanno o non vengono guidate e educate a distaccarsi da questo stadio iniziale. Se poi nostro Signore le favorisce tanto da farle passare all’unione divina nonostante questi impedimenti, esse vi pervengono molto tardi, con molta fatica e con minor merito, perché non si sono abbandonate a Dio, lasciandosi introdurre senza resistenza alcuna nell’autentico e sicuro cammino dell’unione. È vero che Dio le conduce per mano e che può farlo anche senza il loro consenso, ma esse non si lasciano condurre. Resistendo a chi le conduce, procedono lentamente e acquistano poco merito, perché non cooperano volontariamente, ragion per cui soffrono di più. Alcune persone, infatti, anziché affidarsi a Dio e farsi aiutare da lui, frappongono ostacoli con le loro azioni imprudenti e le loro opposizioni, proprio come i bambini che, quando le mamme vogliono portarli in braccio, pestano i piedi e piangono, ostinandosi a camminare da soli. In questo modo impediscono ad esse di procedere o le costringono a camminare a piccoli passi.

4. Confidando, dunque, nell’aiuto di Dio, proporrò una dottrina e degli orientamenti adatti sia ai principianti che ai proficienti, perché si lascino condurre da Dio quando vorrà farli progredire.  Sappiano essi riconoscerne l’azione o almeno si lascino condurre da lui. Alcuni direttori spirituali, infatti, non possedendo dottrina ed esperienza di queste vie, anziché aiutare tali persone, le ostacolano e danneggiano, come i costruttori di Babilonia, i quali, non comprendendo le diverse lingue, offrivano e mettevano in opera, anziché un materiale adatto, uno meno conveniente e così non concludevano nulla (Gn 11,7-9). In simili circostanze, perciò, è duro e penoso per un’anima non comprendere se stessa né trovare chi la capisca. Può, infatti, accadere che Dio la conduca attraverso una sublime via di contemplazione oscura e di aridità, mentre essa crede di essersi smarrita. In tale stato di oscurità, di sofferenza, di angoscia e di tentazioni, può capitarle d’incontrare chi le dica, come gli amici di Giobbe (Gb 2,11-13), che si tratta di malinconia, di sconforto, di temperamento o di qualche segreta colpa e che per questo Dio l’ha abbandonata. Finiscono così per sentenziare che quella persona dev’essere stata molto cattiva se le capitano tali cose.

5. Vi sarà anche chi le dirà di tornare indietro, dal momento che non trova gusto né soddisfazione nelle cose di Dio, come prima. Così si raddoppiano le sofferenze di quella povera anima. Potrà, infatti, accadere che la sua sofferenza maggiore le deriverà dalla conoscenza delle proprie miserie, per mezzo della quale crederà di vedere, più chiaramente della luce del sole, di essere piena di imperfezioni e di peccati. Ma ciò dipende dal fatto che Dio, come dirò più avanti, in quella notte di contemplazione le concede tale luce di conoscenza. Se, invece, trova qualcuno che la conferma in questa sua convinzione, dicendole che è colpa sua, la pena e l’angoscia di quell’anima cresceranno a dismisura fino a superare le sofferenze della morte. Non contenti di questo, quei confessori, pensando che sia tutto frutto di peccati, spingono quelle persone a scavare nella loro vita e a fare molte confessioni generali, tormentandole continuamente. Tali guide forse non comprendono l’inutilità dei loro sforzi, mentre dovrebbero lasciare le persone nello stato di purificazione in cui Dio le vuole, consolandole e incoraggiandole a volere ciò che Dio vuole. Fin allora, infatti, per quanto esse facciano e quelli dicano, non c’è altro rimedio.

6. A Dio piacendo, parlerò più avanti di tutto questo, di come la persone deve comportarsi in simili circostanze. Indicherò, altresì, al confessore l’atteggiamento da assumere nei confronti di quest’anima, offrendogli degli indizi per discernere se si tratta di purificazione dell’anima e, in caso affermativo, se purificazione dei sensi o dello spirito, che è la notte oscura di cui si parla. Dirò, infine, come si può dedurre se in simili frangenti si tratti di malinconia o di altra imperfezione dei sensi o dello spirito. Alcune persone, infatti, oppure i loro confessori, potrebbero pensare che Dio le stia conducendo lungo questa via della notte oscura della purificazione spirituale, e invece, forse, si tratta di qualcuna delle imperfezioni suddette. Vi sono anche delle persone che credono di non avere il dono dell’orazione, mentre l’hanno ben grande, e altre ancora che pensano di averlo in abbondanza, mentre ne hanno poco meno di nulla.

7. È un peccato che vi siano persone che lavorino e si affatichino molto, ma poi tornino indietro riponendo il frutto del loro progresso in ciò che non giova, anzi ostacola; mentre altre, con calma e serenità, progrediscono molto. Altre, poi, si sentono in imbarazzo e confuse per gli stessi doni e grazie che Dio concede loro per progredire. Molte varie cose accadono in questo cammino a coloro che lo percorrono, come gioie, pene, speranze, dolori, che possono derivare sia dallo spirito di perfezione sia da quello di imperfezione. Di tutto questo, con l’aiuto di Dio, cercherò di dire qualcosa, affinché chiunque legga questo scritto possa in qualche modo conoscere la strada che sta percorrendo e quella invece che gli conviene seguire, se vuole arrivare alla vetta del “Monte”.

8. Trattandosi della dottrina della notte oscura, attraverso la quale l’anima deve andare a Dio, il lettore non si meravigli di trovarla alquanto… oscura. Credo che questo potrà accadergli all’inizio della lettura. Andando avanti, però, comprenderà meglio anche il principio, perché un punto di dottrina illumina l’altro. Rileggendo, poi, una seconda volta, credo che tutto gli sembrerà più chiaro e la dottrina più sicura. Ma se qualcuno trovasse difficoltà in questa dottrina, l’attribuisca tranquillamente al mio poco sapere e all’imperfezione del mio stile; però l’argomento in sé è indubbiamente buono e molto utile. Ritengo, tuttavia, che solo pochi se ne avvantaggerebbero anche nel caso che si scrivesse di queste cose in maniera più compiuta e perfetta. Qui non illustrerò una spiritualità molto facile a praticarsi e gradita a tutti quelli che preferiscono andare a Dio attraverso esperienze dolci e piacevoli. Esporrò, al contrario, una dottrina sostanziosa e solida, adatta a tutti quelli che vogliono passare attraverso la nudità dello spirito, descritta in quest’opera.

9. Del resto, mio scopo principale non è rivolgermi a tutti, ma solo ad alcune persone della nostra santa religione del primitivo Ordine del Monte Carmelo, sia frati che monache, che mi hanno chiesto di farlo. Dio ha concesso a tutti costoro la grazia di percorrere il sentiero di questo “Monte”. Poiché essi si sono già spogliati dei beni di questo mondo, capiranno meglio la dottrina della nudità dello spirito.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/09/2012 16:13
 
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LIBRO I

 

CAPITOLO 1

Ove si presenta la prima strofa. Si parla di due differenti notti attraverso cui passano le persone dedite alle cose dello spirito. Esse riguardano la parte inferiore e la parte superiore dell’uomo. Viene commentata la strofa:

In una notte oscura,

            con ansie, dal mio amor tutta infiammata,

            oh, sorte fortunata!,

            uscii, né fui notata,

            stando la mia casa al sonno abbandonata.

1. In questa prima strofa l’anima canta la felice e fortunata sorte che ha avuto di potersi liberare dai beni esteriori, dalle passioni e dalle imperfezioni che risiedono nella parte sensitiva dell’uomo a causa del disordine esistente nella ragione. Per comprendere ciò, occorre sapere che l’anima, per arrivare allo stato di perfezione, deve ordinariamente passare prima attraverso due forme principali di notti, che gli autori spirituali chiamano via purgativa o purificazione dell’anima. Qui le chiamo notti perché l’anima, sia nell’una che nell’altra, cammina al buio, come di notte.

2. La prima notte o purificazione riguarda la parte sensitiva della persona, di cui si parla in questa strofa; ne tratto nel libro I di quest’opera. La seconda notte riguarda la parte spirituale, di cui parla la seconda strofa; del ruolo attivo dell’anima parlerò nei libri II e III, mentre del ruolo passivo nel libro quarto.

3. Questa prima notte riguarda i principianti, nel momento in cui Dio comincia a elevarli allo stato di contemplazione, al quale prende parte anche lo spirito, come dirò a suo tempo. La seconda notte o purificazione riguarda i proficienti, nel momento in cui Dio vuole cominciare a elevarli allo stato di unione con lui. Si tratta di una purificazione molto più oscura, tenebrosa e severa della precedente, come dirò in seguito.

Spiegazione della strofa

4. Ecco, in breve, ciò che l’anima intende dire in questa strofa. Condotta da Dio e mossa soltanto dall’amore per lui, di cui era tutta infiammata, essa canta di essere uscita in una notte oscura. Tale notte consiste nella spoliazione e purificazione da tutti gli appetiti dei sensi, per ciò che concerne le realtà concrete del mondo, quelle che recano piacere alla sua carne e sono gradite alla sua volontà. Tutto ciò accade nella purificazione dei sensi. Per questo motivo l’anima afferma di essere uscita, stando la sua casa al sonno abbandonata, mentre la casa, cioè la sua parte sensitiva, era addormentata e assopite erano le sue passioni, tanto da non essere più disturbata da loro. L’anima, infatti, non si libera dalle pene e dalle anguste strettoie delle passioni fino a quando non vengano smorzate e addormentate. Tutto questo è stato per l’anima una sorte fortunata: uscire senza esser notata, cioè senza che alcuna passione della sua carne o di altro genere glielo abbia impedito. Dice ancora che è uscita di notte, mentre Dio la privava di tutti gli appetiti, il che per essa equivale alla notte.

5. È stata per l’anima una sorte fortunata l’essere posta da Dio in questa notte, da cui le è venuto tanto bene e nella quale essa non sarebbe potuta entrare, perché nessuna persona riesce da sola a liberarsi da tutti gli appetiti per giungere a Dio.

6. Questa, in sostanza, la spiegazione della strofa. Ora non mi resta che percorrere i singoli versi per descriverli uno per uno ed esporre l’argomento che mi sono prefisso. Lo stesso metodo verrà seguito nelle altre strofe, come si diceva nel Prologo: verranno prima riportate le strofe insieme alle relative spiegazioni e poi i singoli versi.

 

CAPITOLO 2

Ove viene spiegata la natura di questa notte oscura che l’anima afferma di aver attraversato prima dell’unione con Dio.

In una notte oscura.

1. Possiamo chiamare notte questo passaggio dell’anima verso l’unione con Dio per tre motivi. Il primo è desunto dal punto di partenza dell’anima, perché essa deve privarsi del godimento di tutte le cose temporali che possedeva, rinunciando ad esse. Tale rinuncia o privazione costituisce una vera e propria notte per tutte le passioni e i sensi dell’uomo. Il secondo è dato dal mezzo che s’impiega o dal cammino attraverso cui l’anima deve passare per giungere all’unione divina, cioè la fede, che è oscura all’intelligenza come la notte. Il terzo deriva dalla meta verso cui si tende, cioè Dio, che è certamente notte oscura per l’anima in questa vita. Queste tre notti devono passare attraverso l’anima o, per meglio dire, l’anima deve attraversare queste notti per attingere l’unione con Dio.

2. Nel libro di Tobia (6,18-22 Volg.) questi tre generi di notti sono stati raffigurati dalle tre notti che, su richiesta dell’angelo, il giovane Tobia dovette attraversare prima di unirsi con la sua sposa. Nella prima gli fu chiesto di bruciare il cuore del pesce nel fuoco, che è il simbolo del cuore affezionato e attaccato alle cose del mondo. Allo stesso modo, se si vuole cominciare ad andare verso Dio, occorre che il cuore sia consumato dall’amore divino e purificato da tutto ciò che è creatura. Mediante tale purificazione si mette in fuga il demonio, che ha potere sull’anima per via dell’attaccamento alle cose corporali e terrene.

3. L’angelo disse a Tobia che nella seconda notte sarebbe stato accolto nella compagnia dei santi patriarchi, che sono i padri della fede. Ciò vuol dire che l’anima passando attraverso la prima notte, cioè privandosi di tutti gli oggetti che stimolano i sensi, entra subito nella seconda notte, ove rimane nella solitudine della fede. Questa notte non cade sotto il dominio dei sensi, né esclude la carità, ma le altre conoscenze dell’intelletto (come dirò più avanti).

4. L’angelo disse a Tobia che la terza notte gli avrebbe ottenuto la benedizione, che significa Dio stesso. Questi, con il favore della seconda notte, rappresentata dalla fede, comincia a comunicarsi all’anima così segretamente e intimamente da generare in essa un’altra notte, perché tale comunicazione è molto più oscura delle altre, come dirò presto. Trascorsa questa terza notte, cioè realizzata la comunicazione di Dio allo spirito, che di solito avviene quando l’anima è immersa in tenebre profonde, segue immediatamente l’unione con lo Sposo, cioè con la Sapienza di Dio. Difatti anche l’angelo aveva detto a Tobia che, trascorsa la terza notte, si sarebbe unito con la sua sposa nel timore del Signore. Ciò vuol dire che, se il timore è perfetto, anche l’amore di Dio è perfetto. A questo punto si verifica la trasformazione dell’anima in Dio attraverso l’amore.

5. In definitiva, le tre fasi della notte formano una sola notte, come le tre parti della notte naturale. La prima, quella dei sensi, corrisponde al calar delle tenebre, quando non si ha più la percezione delle cose circostanti; la seconda, quella della fede, può essere paragonata alla mezzanotte, quando l’oscurità è profonda; la terza, che è Dio, corrisponde all’alba che precede la luce del giorno. Per meglio comprendere questa dottrina, parlerò separatamente di ciascuna di queste notti.

 

CAPITOLO 3

Ove si parla del primo motivo di questa notte, che consiste nella mortificazione degli appetiti in tutte le cose. Si spiega altresì la ragione per cui si chiama notte.

1. Per notte intendo qui quello stato nel quale gli appetiti vengono privati del gusto in tutte le cose. Come la notte naturale non è che privazione della luce, e con questa la visibilità di tutti gli oggetti, ragion per cui la vista resta al buio e senza immagini, così la mortificazione degli appetiti si può dire notte per l’anima. Infatti, essendo l’anima privata del gusto sensibile, rimane al buio e priva d’ogni cosa. La vista si attiva mediante la luce e si nutre degli oggetti che si possono vedere, ma quando scompare la luce essa non li vede più. Parimenti accade all’anima che, servendosi degli appetiti s’impossessa e si appaga di quelle cose che può godere secondo le sue capacità. Se invece questo gusto è spento, o per meglio dire, mortificato, l’anima cessa di pascersi del piacere di tutte le cose e, per quanto riguarda l’appetito, resta al buio e priva d’ogni cosa.

2. Faccio un esempio per ciascuna potenza. Se l’anima si priva del godimento di tutto ciò che può soddisfare il senso dell’udito, resta al buio e privo d’ogni cosa relativamente a questa potenza. Lo stesso si può dire per la vista, essa rimane al buio e priva d’ogni cosa anche in riferimento a questa potenza. Quando rinuncia al diletto di tutta la soavità dei profumi, che può provare attraverso il senso dell’olfatto, anche per quanto riguarda questa potenza rimane al buio e priva d’ogni cosa. Rinunciando, poi, ad assaporare ogni genere di cibi che possono soddisfare il palato, essa s’immerge nell’oscurità e diventa libera anche relativamente al gusto. Mortificando, infine, tutti i piaceri e le gioie che le possono venire dal tatto, rimane anche in questo caso al buio e priva d’ogni cosa, relativamente a questa potenza. Si può, dunque, affermare che l’anima che ha rinunciato e allontanato da sé il gusto di tutte le cose, mortificando in ciò i suoi appetiti, è come se fosse immersa nella notte, al buio, completamente vuota rispetto a tutte le cose.

3. Questo si spiega perché, come dicono i filosofi, quando Dio unisce l’anima al corpo, essa è come una tabula rasa e liscia sulla quale non è dipinto nulla; e se si escludono le conoscenze che essa va gradualmente acquisendo attraverso i sensi, nulla le viene comunicato naturalmente per altra via. Finché rimane nel corpo, quindi, assomiglia a colui che, chiuso in un carcere oscuro, conosce solo ciò che riesce a vedere attraverso le finestre di tale carcere; se non vedesse nulla da lì, non gli resterebbe altro modo per vedere. Così l’anima non conosce nulla se non ciò che le viene comunicato attraverso i sensi, che sono come le finestre del suo carcere.

4. Posso, perciò, ben affermare che l’anima rimane vuota e al buio se disprezza e rinuncia a ciò che può percepire tramite i sensi, perché, da quanto ho detto, risulta che per sua natura essa può ricevere luce solo dalle suddette fonti. Anche se non può cessare di udire, vedere, odorare, gustare e toccare, tuttavia, se rinuncia e disprezza tutto questo, essa non ci pone attenzione né si lascia ostacolare più di quanto avverrebbe se di fatto non vedesse, non udisse, ecc. Così è colui che chiude gli occhi e resta al buio, similmente al cieco che non ha la capacità di vedere. A ciò allude Davide quando dice: Pauper sum ego, et in laboribus a iuventute mea, cioè: Sono povero e infelice sin dall’infanzia (Sal 87,16). Dice di essere povero, mentre di fatto era ricco, perché non era affatto attaccato alle ricchezze; quindi era come se fosse stato realmente povero. Se, invece, fosse stato povero di fatto, senza esserlo con la volontà, non lo sarebbe stato per davvero, perché la sua anima sarebbe stata ricca e piena di desideri. Per questo motivo chiamo tale povertà interiore notte per l’anima, perché qui non parlo della semplice privazione dei beni temporali, che di per sé non spoglia l’anima se questa continua a desiderarli; ma parlo della rinuncia al piacere e al desiderio di essi, che sola ne rende l’anima libera e vuota, anche quando il possedesse realmente. Non i beni di questo mondo occupano e danneggiano l’anima – infatti non vi penetrano dentro – ma solo l’attaccamento a tali beni e il desiderio che essa ha nei loro confronti.

5. Questo primo aspetto della notte, come dirò più avanti, riguarda la parte sensitiva dell’anima. Esso è uno dei momenti, di cui ho già parlato, attraverso cui l’anima deve passare per giungere all’unione con Dio. Ora parlerò di quanto sia conveniente all’anima uscire dalla sua casa in questa notte oscura dei sensi, per avviarsi all’unione con Dio.

 

CAPITOLO 4

Ove si spiega quanto sia necessario all’anima attraversare realmente questa notte oscura, che consiste nella mortificazione dei sensi, al fine d’incamminarsi verso l’unione con Dio.

1. Per attingere l’unione con Dio è necessario che l’anima passi attraverso questa notte oscura, cioè attraverso la mortificazione degli appetiti e la rinuncia a tutti i piaceri derivanti dai beni sensibili, per il seguente motivo: tutte le affezioni che nutre per le creature sono tenebre fitte dinanzi a Dio. Fino a quando l’anima ne è avvolta, non potrà essere illuminata e posseduta dalla pura e semplice luce di Dio. Essa deve, dunque, per prima cosa, liberarsene, perché la luce non può stare insieme alle tenebre. San Giovanni, infatti, afferma: Tenebrae eam non comprehenderunt, cioè: Le tenebre non poterono accogliere la luce (Gv 1,5).

2. La ragione di ciò, secondo quanto insegna la filosofia, sta nel fatto che due contrari non possono coesistere in uno stesso soggetto. Ora, le tenebre, cioè l’attaccamento che si ha per le creature, e la luce, che è Dio, sono contrari e tra loro non vi è alcuna somiglianza o rapporto di sorta, come insegna Paolo rivolgendosi ai Corinzi: Quae conventio lucis ad tenebras?, cioè: Quale rapporto vi può essere tra la luce e le tenebre? (2Cor 6,14). Ne segue che la luce della divina unione non può stabilirsi in un’anima, se prima questa non si libera da tutte le sue affezioni.

3. Per provare meglio quanto ho detto, occorre ricordare che l’affezione e l’attaccamento che l’anima nutre per le creature la rendono simile a queste, e quanto più grande è l’affezione tanto più essa è resa uguale e simile, perché l’amore crea somiglianza tra chi ama e l’oggetto amato. Per questo motivo Davide, parlando di quelli che riponevano il loro affetto negli idoli, disse: Similis illis fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis, cioè: Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida (Sal 113,8). Chi ama, quindi, la creatura, si pone al livello della creatura e, in qualche modo, anche più in basso, perché l’amore non solo rende uguali, ma assoggetta l’amante all’oggetto amato. Così, quando l’anima ama qualcosa al di fuori di Dio, si rende incapace della pure unione con Dio e della trasformazione in lui. La bassezza delle creature è, infatti, distante dalla grandezza del Creatore molto più che le tenebre dalla luce. Tutte le cose della terra e del cielo, paragonate a Dio, sono un nulla, secondo quanto afferma Geremia: Aspexi terram, et ecce vacua erat et nihil; et caelos, et non erat lux in eis: Guardai la terra, ed ecco solitudine e vuoto; i cieli, e non v’era luce (Ger 4,23). Quando il profeta dice di aver veduto la terra vuota, vuol far capire che tutte le creature della terra e la stessa terra sono un nulla; quando dice di aver guardato i cieli e di averli visti senza luce, vuol dire che tutte le fonti di luce del cielo, paragonate a Dio, sono pura tenebra. Di conseguenza si può affermare che, se tutte le cose create sono un nulla e l’affezione che l’anima nutre per esse è meno di nulla, esse costituiscono un ostacolo e non permettono la nostra trasformazione in Dio. Difatti le tenebre sono nulla e meno di nulla perché sono una privazione della luce. Pertanto, come chi è avvolto dalle tenebre non può accogliere la luce, così non può accogliere Dio l’anima che ripone la sua affezione nelle cose create; finché non se ne sarà distaccata, non potrà possederlo quaggiù per trasformazione pura d’amore, né lassù mediante la visione beatifica. Per maggior chiarezza parlerò di ciò più diffusamente.

4. Tutte le cose create, paragonate all’infinito essere di Dio, sono un nulla. Perciò anche l’anima che ripone in esse il suo affetto, di fronte a Dio è nulla e meno di nulla, perché, come ho detto, l’amore non solo crea uguaglianza e somiglianza, ma colloca colui che ama al di sotto dell’oggetto amato. In nessun modo, quindi, quest’anima potrà unirsi all’essere infinito di Dio, poiché il non essere non può stare assieme all’essere. Offro alcune esemplificazioni per maggior concretezza. Tutta la bellezza delle creature, paragonata a quella infinita di Dio, è infima bruttezza, come afferma Salomone nel libro dei Proverbi: Fallax gratia, et vana est pulchritudo: Fallace è la grazia e vana la bellezza (Pro 31,30). Così, l’anima, che è attaccata alla bellezza di qualsiasi creatura, è estremamente brutta dinanzi a Dio. Pertanto quest’anima che è brutta non potrà trasformarsi nella bellezza divina, dal momento che la bruttezza non può stare assieme alla bellezza. Ogni grazia e gentilezza delle creature, a confronto con quelle di Dio, sono estrema villania e rozzezza. Perciò l’anima che si affezione alle grazie e alle gentilezze delle creature è estremamente grossolana e scortese; non potrà, quindi, essere capace della grazia e delle bellezza infinita di Dio, perché chi è senza grazia è infinitamente distante da Colui che è la stessa grazia. Ogni bontà delle creature di questo mondo, paragonata a quella infinita di Dio, potrebbe essere chiamata malizia. Solo Dio, infatti, è buono (Lc 18,19). L’anima, quindi, che ripone il suo affetti nei beni di questo mondo, è sommamente cattiva di fronte a Dio. Pertanto, come la malizia non può contenere la bontà, così quell’anima non potrà unirsi a Dio somma bontà. Tutta la sapienza del mondo e la scienza degli uomini, paragonate alla sapienza infinita di Dio, sono pura e somma ignoranza, come scrive san Paolo ai Corinzi: Sapientia huius mundi stultitia est apud Deum: La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio (1Cor 3,19).

5. Perciò ogni persona che si appoggiasse sulla propria scienza e capacità per giungere all’unione con Dio, sarebbe sommamente ignorante di fronte a Dio, dalla cui sapienza resterà molto distante. L’ignoranza, infatti, non sa cosa sia la sapienza, come afferma san Paolo, dal momento che tale sapienza è stoltezza agli occhi di Dio. Difatti coloro che si ritengono sapienti sono molto ignoranti davanti a Dio. Di essi dice così l’Apostolo, scrivendo ai Romani: Dicentes enim se esse sapientes stulti facti sunt, cioè: Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti (Rm 1,22). Soltanto coloro che si fanno piccoli e ignoranti possiedono la sapienza divina. Messo da parte il loro sapere, servono Dio con amore. Tale genere di sapienza insegna lo stesso Paolo quando scrive ai Corinzi: Si quis videtur inter vos sapiens esse in hoc saeculo, stultus fiat ut sit sapiens; sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum, cioè: Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio (1Cor 3,18-19). L’anima, quindi, per arrivare a possedere la sapienza di Dio, deve passare attraverso il non sapere e non attraverso il sapere.

6. Ogni genere di dominio e di libertà del mondo, paragonati con la libertà e il dominio dello spirito di Dio, sono somma soggezione, angoscia e schiavitù. Perciò l’anima che si attacca agli onori o ad altre cose del genere e che cerca libertà per le sue affezioni, è da Dio considerata e trattata non come figlia, ma come persona infima, prigioniera delle sue passioni. In realtà non ha voluto seguire i dettami del Signore che c’insegna così: chi vuol essere il più grande si faccia il più piccolo e chi vuole essere piccolo sarà fatto grande (cfr. Lc 22,26). L’anima, quindi non potrà pervenire alla vera libertà di spirito, raggiungibile nell’unione divina, perché la schiavitù è assolutamente incompatibile con la libertà; quest’ultima, a sua volta, non può abitare in un cuore libero, come quello del figlio. Per questo motivo Sara chiese a suo marito Abramo di cacciare via la schiava insieme a suo figlio, affermando che questi non poteva essere erede insieme al figlio della donna libera (Gn 21,10).

7. Tutti i piaceri e le dolcezze che la volontà prova nei beni creati, paragonati con quelli di Dio, sono soltanto pena, tormento e amarezza. Chi, dunque, ripone in essi il proprio affetto, è ritenuto degno di massima pena, di tormento e di amarezza dinanzi a Dio. In questo modo, egli non potrà pervenire alle gioie dell’unione con Dio. Tutte le ricchezze e la gloria del creato, messe a confronto con la ricchezza che è Dio, sono povertà e miseria estrema. L’anima che le ama e le possiede è estremamente povera e miserabile di fronte a Dio. Per questo motivo non potrà pervenire al vero stato di ricchezza e di gloria, che consiste nella trasformazione in Dio, perché la sua miseria e la sua povertà distano infinitamente da Colui che è sommamente ricco e glorioso.

8. La Sapienza divina, dolendosi, perciò, di queste persone che si abbrutiscono, si fanno spregevoli, miserabili e poveri per amore di ciò che nel mondo ritengono bello e ricco, nel libro dei Proverbi li apostrofa dicendo: O viri, ad vos clamito, et vox mea ad filios hominum. Intelligite parvuli astutiam, et insipientes animadvertite. Audite, quia de rebus magnis locutura sum. E più avanti aggiunge: Mecum sunt divitiae et gloria, opes superbae et iustitia. Melior est fructus meus auro et lapide pretioso, et genimina mea argento electo. In viis iustitiae ambulo, in medio semitarum iudicii, ut ditem diligentes me, et thesauros eorum repleam. Il che vuol dire: A voi, uomini, io mi rivolgo, ai figli dell’uomo è diretta la mia voce. Imparate, inesperti, la prudenza, e voi, stolti, fatevi assennati. Ascoltate, perché dirò cose elevate… Presso di me c’è ricchezza e onore, sicuro benessere ed equità. Il mio frutto vale più dell’oro, dell’oro fino, il provento (e le mie generazioni, ossia ciò che voi generate per mezzo mio nelle vostre anime) più dell’argento scelto. Io cammino sulla via della giustizia e per i sentieri dell’equità, per dotare di beni quanti mi amano e riempire i loro forzieri (Pro 8,4-6.18-21). Con tali parole la Sapienza divina si rivolge a tutti quelli che ripongono il loro cuore e l’affetto in qualunque bene creato, come ho già detto. Li chiama piccoli, inesperti, perché si rendono simili a ciò che amano, che è poca cosa. Per questo li avverte di essere prudenti e di prendere in considerazione le grandi cose di cui essa parla, e non le cose piccole come sono loro. Continua col dire che le grandi ricchezze e la gloria che essi amano si trovano non dove essi pensano, ma con e nella sapienza, ove abitano, altresì, le vere ricchezze e la giustizia. E se i tesori di questo mondo a loro sembrano superiori a qualunque altro bene, essa li invita a considerare che sono migliori i suoi tesori, perché il frutto che troveranno in questi ultimi sarà migliore dell’oro e delle pietre preziose. Aggiunge, infine, che quanto essa genera nelle anime è di gran lunga superiore all’argento puro che essi amano, cose che rappresentano ogni genere di affetto che si può nutrire in questa vita.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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CAPITOLO 5

Ove si continua a parlare dello stesso argomento, dimostrando con prove e immagini della sacra Scrittura quanto sia necessario all’anima andare a Dio attraverso questa notte oscura della mortificazione delle passioni.

1. Da quanto è stato detto, si può avere un’idea della distanza esistente tra i beni creati in sé e ciò che Dio è in sé. Parimenti si può comprendere quanto le anime che si attaccano a qualcuno di tali beni siano anch’esse lontane da Dio, poiché l’amore, ripeto, crea uguaglianza e somiglianza. Al fine di evidenziare tale distanza, sant’Agostino rivolgendosi a Dio, afferma nei Soliloqui: Me misero! Quando la mia pochezza e la mia imperfezione potranno incontrarsi con la tua rettitudine? Tu sei veramente buono e io cattivo; tu pio, io empio; tu santo, io miserabile; tu giusto, io ingiusto; tu luce, io cieco; tu vita, io morte; tu medicina, io malato; tu verità somma, io tutto vanità. Ecco quanto affermava quel santo.

2. È, dunque, estrema ignoranza da parte dell’anima credersi capace di giungere a questo sublime stato di unione con Dio, senza essersi prima distaccata dalla cupidigia dei beni naturali e soprannaturali che le possono essere di ostacolo, come dirò più avanti; vi è, infatti, una distanza infinita fra questi beni e ciò che viene concesso in questo stato di pura trasformazione in Dio. Ecco perché nostro Signore c’insegna questa via di rinuncia, quando dice per mezzo di san Luca: Qui non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus, cioè: Chi non rinunzia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo (Lc 14,33). Verità chiara, questa, perché la dottrina che il Figlio di Dio è venuto a insegnare è il disprezzo di tutti i beni creati, per poter accogliere in sé il puro spirito di Dio. In realtà, finché l’anima non se ne libererà, non potrà accogliere questo spirito di Dio e raggiungere la pura trasformazione in lui.

3. Di tale verità abbiamo un’immagine nel libro dell’Esodo (16,3-4), dove si legge che Dio non diede ai figli d’Israele il cibo celeste, cioè la manna, finché non venne a mancare loro la farina che avevano portato dall’Egitto. Questo ci fa capire che l’anima deve prima rinunciare a tutti i beni creati se vuole attingere l’unione divina, perché questo cibo degli angeli non è adatto al palato di chi vuol gustare quello degli uomini. Perciò l’anima che cerca altri gusti estranei e se ne pasce, non soltanto non è in grado di assaporare lo spirito di Dio, ma rattrista molto la Maestà divina, poiché pretende l’alimento spirituale senza accontentarsi di Dio solo, ma vuole, al tempo stesso, mescolarvi la cupidigia e l’affezione per altre cose. Ciò è quanto c’insegna lo stesso libro della sacra Scrittura, ove si dice che gli ebrei, non contenti di quel cibo così semplice, desiderarono e chiesero la carne (Es 16,8-13). Dio si adirò moltissimo perché essi volevano gustare allo stesso tempo un cibo così volgare e rozzo e uno così nobile e semplice, che tuttavia aveva in sé il sapore e la sostanza di tutti i cibi (cfr. Sap 16,20-21). Perciò, mentre ancora avevano il boccone tra i denti, come dice Davide, ira Dei descendit super eos (Sal 77,30-31): su loro scese l’ira di Dio, scagliando fuoco dal cielo e incenerendone molte migliaia. Dio, infatti, riteneva indegni di ricevere il pane del cielo coloro che avevano voglia di un altro cibo.

4. Oh, se le persone spirituali sapessero di quanti beni e di quale abbondanza di favori spirituali li priva la cecità causata dal loro attaccamento a cose di nessun valore e come troverebbero in questo cibo semplice dello spirito il sapere di tutti i beni, se si astenessero dal gustarli! Ma essi non lo provano per lo stesso motivo per cui gli ebrei non sentivano il gusto di tutti i cibi contenuto nella manna; ciò avveniva perché essi non desideravano soltanto quella. In tal modo non vi sperimentavano tutto il gusto e la forza che avrebbero potuto trovarvi, non perché la manna non li avesse, ma perché essi cercavano qualcos’altro. Così pure, chi vuole amare qualcos’altro insieme a Dio, è come se stimasse poco Dio, mettendo sulla stessa bilancia Dio e ciò che è infinitamente distante da lui.

5. Del resto si sa per esperienza che quando la volontà si affeziona a una cosa, la stima più di ogni altra; e anche se quest’”altra” è migliore, non le piace quanto la prima. Se, poi, vuole godere dell’una e dell’altra, necessariamente recherà oltraggio alla più degna, perché mette ingiustamente entrambe sullo stesso piano. Ora, non essendoci alcuna cosa che possa essere uguagliata a Dio, l’anima che, insieme a lui, ama o si attacca a qualche creatura, gli reca grave offesa. Se dunque è così, cosa accadrebbe se l’anima amasse qualcosa più di Dio?

6. A tale verità alludeva Dio quando comandò a Mosè di salire sul monte, ove gli doveva parlare. Non soltanto gli ordinò di salirvi da solo, lasciando nella valle i figli d’Israele, ma gli vietò altresì di far pascolare le bestie davanti a questo monte: Nullus ascendat tecum, nec videat quispiam per totum montem, boves quoque et oves non pascano e contra (Es 34,3). Per mezzo di tale ordine Dio voleva significare che l’anima che deve salire il “Monte della perfezione” per comunicare con lui, non solo deve rinunciare e lasciare in basso tutte le cose create, ma non deve nemmeno permettere che gli appetiti, rappresentati dalle bestie, pascolino davanti a questo “Monte”, nel godimento di cose che non sono Dio. È in lui che tutti i desideri sono appagati, quando si raggiunge lo stato di perfezione. È, dunque, necessario che il cammino ascensionale verso Dio si traduca in una continua cura per far cessare l’attività degli appetiti e mortificarli. Così, l’anima tanto più speditamente giungerà alla meta, quanto più si sarà affrettata a praticare questo distacco. Fino a quando l’anima non l’avrà conseguito, non raggiungerà la meta, sebbene pratichi molte altre virtù; e queste le può acquistare in modo perfetto solo se è vuota, nuda e purificata da ogni appetito. Anche di questa verità abbiamo un’immagine molto viva nel libro della Genesi. Ivi si legge che il patriarca Giacobbe volle salire sul monte Betel per edificare un altare a Dio e offrirgli un sacrificio. Per prima cosa impose alla sua gente tre condizioni: la prima, che gettassero via tutti gli dei stranieri; la seconda, che si purificassero; la terza, che cambiassero gli abiti: Abiicite deos alienos qui in medio vestri sunt, et mundamini ac mutate vestimenta (Gn 35,1-2).

7. Queste tre condizioni ci permettono di comprendere ciò che ogni anima, che vuole salire questo “Monte”, deve compiere per fare di sé un altare sul quale offrire a Dio un sacrificio di amore puro, di lode e di profonda adorazione. Prima di salire sulla cima di tale “Monte”, essa deve adempiere perfettamente le condizioni analoghe a quelle riferite sopra. La prima consiste nel respingere tutti gli dei stranieri, cioè tutti gli affetti e gli attaccamenti estranei a Dio. La seconda consiste nel purificarsi, per mezzo della notte oscura dei sensi di cui sto parlando, dalle scorie lasciate in essa dagli appetiti suddetti, mortificandoli e pentendosene abitualmente. La terza condizione, infine, necessaria per giungere a questo “Monte” sublime, consiste nel cambiare gli abiti. Una volta adempiute le prime due condizioni, sarà Dio stesso a sostituirli con abiti nuovi. Egli, infatti, infonderà nell’anima un nuovo modo di conoscere e di amare Dio com’è in se stesso, facendole accantonare il modo di conoscere dell’uomo vecchio, dopo aver liberato la volontà da tutti gli antichi affetti e seduzioni umane. Egli, inoltre, stabilirà l’anima in nuove conoscenze, perché ormai sono state bandite le altre conoscenze e i ricordi del passato. Metterà fine a tutto ciò che appartiene all’uomo vecchio, cioè le sue capacità naturali, e la rivestirà, secondo le sue potenze, di nuove attitudini soprannaturali. Così il modo di operare dell’anima non sarà più umano, ma divino. Ecco ciò che si raggiunge nello stato di unione. Ivi l’anima serve solo da altare, dove Dio viene adorato in pura lode e amore e dove egli abita solo. Per questo motivo Dio aveva ingiunto che l’altare sul quale dovevano essergli offerti i sacrifici fosse vuoto all’interno (cfr. Es 27,8). Egli voleva far capire all’anima che la vuole libera da tutte le cose create, per essere degno altare di sua Maestà. Egli non permetteva mai che su quell’altare bruciasse un fuoco illegittimo né che vi mancasse quello sacro (cfr. Lv 6,12-13). Perciò, quando Nadab e Abiu, figli del sommo sacerdote Aronne, offrirono un fuoco illegittimo, il Signore, irritato, li colpì a morte proprio lì, davanti all’altare (cfr. Lv 10,1-2). Da tutto ciò possiamo comprendere che l’anima, per essere un altare degno di Dio, non deve trovarsi priva dell’amore di Dio, né tanto meno deve permettere che a questo si mescoli un amore profano.

8. Dio non tollera che qualche altra cosa abiti con lui nello stesso luogo. Ecco come si spiega ciò che si legge nel primo libro di Samuele. I filistei avevano collocato l’arca dell’alleanza nel tempio dov’era il loro idolo; ora, ogni mattina quest’idolo si trovava rovesciato a terra e alla fine venne trovato in frantumi (cfr. 1Sam 5,2-5). L’unico desiderio che Dio ammette e vuole, laddove egli dimora, è quello di osservare la sua legge in ogni particolare e di prendere su di sé la croce di Cristo. Per questo motivo nella sacra Scrittura si legge che Dio ordinava di mettere nell’arca, dove si conservava la manna, solo il libro della Legge e il bastone di Mosè (cfr. Dt 31,26), immagine della croce. Difatti l’anima che non desidera altro che osservare perfettamente la legge del Signore e portare la croce di Cristo, sarà l’arca vera, quella che racchiude in sé la vera manna, cioè Dio, quando avrà impressi in sé perfettamente questa legge e questo legno, senza affezione per nessun’altra cosa.

 

CAPITOLO 6

Ove si parla dei due principali danni, uno privativo e l’altro positivo, causati all’anima dagli appetiti.

1. A questo punto sembra utile fornire un’esposizione più chiara e dettagliata di quanto detto prima. Ho mostrato come i nostri appetiti provochino nell’anima due danni principali. Il primo lo priva dello spirito di Dio; l’altro la stanca, la tormenta, la oscura, la sporca, l’indebolisce e la ferisce, proprio come afferma Geremia: Duo mala fecit populus meus: dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas, cioè: Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate che non tengono l’acqua (Ger 2,13). Questi due mali, privativo e positivo, sono provocati da qualsiasi atto disordinato dell’appetito. Parlando, in primo luogo, di quello privativo, è chiaro che, per lo stesso motivo per cui l’anima si affeziona a qualsiasi bene creato, quanto più quell’appetito è radicato in essa, tanto meno è capace di unirsi a Dio. Infatti, come dicono i filosofi e come ho già riferito nel capitolo 4, due contrari non possono coesistere in uno stesso soggetto. Ora, l’amore per Dio e quello per le creature sono contrari; quindi non possono coesistere in una stessa volontà l’affetto per le cose create e quello per Dio. Cosa ha a che vedere, infatti, la creatura con il Creatore, il sensibile con lo spirituale, il visibile con l’invisibile, il temporale con l’eterno, il cibo celestiale, puro e spirituale, con il nutrimento grossolano dei sensi, lo spogliamento del Cristo con l’attaccamento alle cose?

2. Pertanto, come nell’ordine naturale delle cose non si può introdurre una forma senza aver prima espulso dal soggetto la forma contraria, preesistente, la cui presenza è d’impedimento all’altra, perché ad essa opposta, così l’anima, finché è soggetta alle attrattive del senso, non può accogliere il puro spirito di Dio. Per questo il Salvatore ha detto per bocca di san Matteo: Non est bonum sumere panem filiorum et mittere canibus, cioè: Non è bene prendere il pane dei figli per darlo ai cani (Mt 7,6). Con queste affermazioni il Signore paragona ai figli di Dio coloro che, negando l’attaccamento alle cose create, si dispongono ad accogliere in purezza lo spirito di Dio; ai cani, invece, paragona quelli che vogliono trovare nutrimento nelle cose create attraverso i loro appetiti. Ai figli, infatti, è concesso mangiare alla mensa e allo stesso piatto del Padre, cioè nutrirsi del suo spirito; mentre ai cani sono lasciate le briciole che cadono dalla tavola.

3. A tale riguardo occorre notare che tutte le cose create sono briciole che cadono dalla mensa di Dio. A buon diritto, dunque, sono chiamati cani coloro che si pascono delle cose create; per questo viene tolto loro il pane dei figli, perché non vogliono elevarsi al di sopra di esse, vere briciole, fino alla mensa dello spirito increato del Padre. Proprio per questo vagano sempre affamati come cani, perché le briciole servono più a stimolare gli appetiti che a sedare la fame. Di costoro Davide afferma: Famem patientur ut canes, et circuibunt civitatem. Si vero non fuerint saturati, et murmurabunt: Ringhiano come cani, per la città si aggirano, vagando in cerca di cibo; latrano, se non possono saziarsi (Sal 58,15-16). Questa, infatti, è la caratteristica di chi è dominato dagli appetiti: è sempre scontento e inquieto, come un famelico. Ora, che relazione c’è tra la fame causata da tutte le cose create e la sazietà prodotta dallo spirito di Dio? Ma questa sazietà increata non può entrare nell’anima se prima non viene cacciata via l’altra; come ho detto, infatti, non possono coesistere due contrari nello stesso soggetto, in questo caso la fame e la sazietà.

4. Da quanto detto si può notare come Dio fa più, per così dire, per purificare e liberare un’anima da queste opposizioni che per crearla dal nulla. Queste sregolatezze degli affetti e degli appetiti contrari contrastano e resistono a Dio più che il nulla, che non oppone resistenza. Avendone già parlato a lungo più sopra, basti questo circa il primo danno principale prodotto nell’anima dagli appetiti, che consiste nel resistere allo spirito di Dio.

5. Ora parlerò del secondo danno che tali appetiti causano nell’anima. Esso si manifesta sotto svariate forme, perché gli appetiti stancano l’anima, la tormentano, la oscurano, la sporcano e la indeboliscono. Parlerò dettagliatamente di questi cinque effetti.

6. Quanto alla prima forma, è chiaro che gli appetiti stancano e affaticano l’anima. Assomigliano a bambini inquieti e scontenti, che chiedono sempre qualcosa alla mamma e non si contentano mai. Peraltro, come si stanca colui che scava, spinto dalla cupidigia di un tesoro, così si stanca e si affatica l’anima per conseguire ciò che le chiedono gli appetiti. E anche se ottiene quel che vuole, alla fine si stanca sempre, perché non è mai soddisfatta. In fondo, quelle che scava, sono cisterne screpolate che non tengono l’acqua per spegnere la sete (Ger 2,13). A tale riguardo così si esprime Isaia: Lassus adhuc sitit, et anima eius vacua est: Langue ancora per sete e si sente vuoto (Is 29,8), che significa: il suo appetito è insoddisfatto, perciò l’anima che ha appetiti si stanca e si affatica. È come il malato con la febbre: non sta bene finché questa non sparisce, ad ogni istante gli cresce la sete. Si legge, infatti, nel libro di Giobbe: Cum satiatus fuerit, arctabitur, aestuabit, et omnis dolor irruet super eum, che vuol dire: Quando l’anima avrà appagato i suoi appetiti, nel colmo della sua abbondanza si ritroverà più oppressa e appesantita, dentro di essa crescerà l’arsura dell’appetito e così ogni sorta di sciagura le piomberà addosso (Gb 20,22). L’anima si stanca e si affatica a causa dei suoi appetiti, perché è ferita, mossa e turbata da essi, come i flutti sotto l’azione dei venti. Al pari di quelli, l’anima è turbata senza trovare da nessuna parte o in qualche cosa un momento di riposo. Di tali anime così afferma Isaia: Cor impii quasi mare fervens: Il cuore del malvagio è come il mare che agitato ribolle (Is 57,20); e cattivo è chi non vince gli appetiti. L’anima che vuole appagare i suoi appetiti si stanca e si affatica. Somiglia a colui che, avendo fame, apre la bocca per saziarsi di vento, ma invece di saziarsi rimane con più voglia, perché il vento non è il suo cibo. A questo proposito dice Geremia: In desiderio animae suae attraxit ventum amoris sui, cioè: Nell’ardore del suo desiderio aspira l’aria (Ger 2,24). E subito dopo, per spiegare l’arsura in cui si trova quell’anima, le offre questo consiglio: Prohibe pedem tuum a nuditate, et guttur tuum a siti, che significa: Bada che il tuo piede, cioè il tuo pensiero, non resti scalzo e la tua gola non si inaridisca (Ger 2,25), ossia preserva la tua volontà dal soddisfare gli appetiti, che generano una più profonda aridità. Come si sente esausto e crolla l’innamorato che vede andare in fumo i suoi progetti proprio nel giorno in cui sperava di realizzarli, così si stanca e si affatica l’anima che cede ai suoi appetiti e li soddisfa, perché le procurano un vuoto maggiore e una fame più acuta. Come si dice comunemente, l’appetito è come il fuoco: cresce se gli si aggiunge legna, ma è destinato a spegnersi appena l’ha consumata.

7. Ora, la condizione degli appetiti è ancora peggiore. Il fuoco, infatti, si spegne quando si esaurisce la legna, mentre gli appetiti non perdono l’intensità raggiunta quando sono stati soddisfatti, sebbene sia venuto meno il loro oggetto; invece di diminuire, come il fuoco quando si è consumata la legna, restano sfiniti dalla fatica perché la cupidigia è cresciuta e diminuito il cibo. A tale proposito afferma Isaia: Declinabit ad dexteram, et esuriet; et comedet ad sinistram, et non saturabitur: Dilania a destra, ma è ancora affamato; mangia a sinistra, ma senza saziarsi (Is 9,19). Coloro, infatti, che non mortificano i loro appetiti, proprio quando si voltano vedono la sazietà, non a loro concessa, dello spirito di soavità di coloro che sono alla destra di Dio; quando, poi, corrono a sinistra, cioè si lasciano andare al piacere di qualche cosa creata, non si saziano affatto, perché mettono da parte l’unica cosa che può saziare e si nutrono di ciò che accresce la loro fame. È chiaro, dunque, che gli appetiti stancano e affaticano l’anima.

 

CAPITOLO 7

Ove si mostra come l’anima sia tormentata dagli appetiti. Lo si prova anche con paragoni e l’autorità della sacra Scrittura.

1. Vi è una seconda forma di male positivo che gli appetiti provocano nell’anima. Questi la tormentano e l’affliggono, come tormentato è il condannato al supplizio della corda, legato a qualche sostegno, che non trova riposo finché non viene liberato. A tale riguardo afferma Davide: Funes peccatorum circumplexi sunt me: Le funi dei peccati, che sono i miei appetiti, mi hanno stretto da ogni parte (Sal 118,61). Come è tormentato e afflitto chi si distende nudo su spine e aculei, così è tormentata e afflitta l’anima quando si lascia andare ai suoi appetiti. Questi, infatti, come spine, la feriscono, la pungono, si attaccano ad essa e la torturano. Di essi Davide dice ancora: Circumdederunt me sicut apes, et exarserunt sicut ignis in spinis: Mi hanno circondato come api, come fuoco che divampa tra le spine (Sal 117,12). Negli appetiti, infatti, che sono le spine, divampa il fuoco dell’angoscia e del tormento. Come l’agricoltore, spinto dalla cupidigia della messe, pungola e tormenta il bue aggiogato all’aratro, così la concupiscenza affligge l’anima sotto il pungolo dell’appetito per ottenere ciò che vuole. Di ciò abbiamo un esempio molto evidente in quel desiderio che aveva Dalila di sapere in che cosa consistesse la forza di Sansone. La sacra Scrittura dice che lo stancava e lo tormentava tanto da indebolirlo fin quasi alla morte: Defecit anima eius, et ad mortem usque lassata est (Gdc 16,16).

2. Quanto più forte è l’appetito, tanto più grande è il tormento per l’anima, cosicché l’uno è proporzionato all’altro; più numerosi sono gli appetiti, più numerosi sono i suoi tormenti. Nell’anima, infatti, si realizza, già in questa vita, ciò che l’Apocalisse dice di Babilonia: Quantum glorificavit se, et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum, cioè: Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso, restituiteglielo in tanto tormento e afflizione (Ap 18,7). È proprio vero che come è tormentato e afflitto chi cade nelle mani del suo nemico, così è tormentata e afflitta l’anima che si lascia trasportare dai suoi appetiti. Di tale realtà abbiamo un’immagine nel libro dei Giudici (16,21). Ivi si legge che il robusto Sansone, prima forte, libero e giudice di Israele, una volta caduto nelle mani dei suoi nemici perse la forza, fu accecato e costretto a girare una macina. Così lo tormentarono e lo fecero soffrire molto. Tale è la sorte dell’anima quando questi nemici, gli appetiti, sono vivi e vittoriosi su di essa; incominciano prima a indebolirla e ad accecarla; poi, come dirò più avanti, l’affliggono e la tormentano, legandola alla macina della concupiscenza; i legami che la tengono avvinta sono i suoi stessi appetiti.

3. Ora, Dio ha pietà delle anime che con tanta fatica e a loro spese cercano di placare la sete e la fame dei loro appetiti nelle cose create. Ad esse dice per bocca di Isaia: Omnes sitientes, venite ad aquas; et qui non habetis argentum, properate, emite et comedite: venite, emite absque argento vinum et lac. Quare appenditis argentum non in panibus, et laborem vestrum non in saturitate? (Is 55,1-2), come a dire: O voi tutti assetati di appetiti, venite all’acqua; chi non ha il denaro della propria volontà e dei propri appetiti, venga ugualmente, comprate da me e mangiate: comprate e mangiate senza denaro e senza spesa vino e latte, cioè la pace e le dolcezze spirituali, senza il denaro della propria volontà e senza darmi in cambio interesse né alcun lavoro, come fate per i vostri appetiti. Perché offrite il denaro della vostra volontà per ciò che non è pane, che non appartiene cioè allo spirito divino? Perché mettete il lavoro dei vostri appetiti in ciò che non può saziare? Venite, ascoltatemi e mangerete il bene che desiderate, e l’anima vostra si rallegrerà nell’abbondanza.

4. Quest’abbondanza significa la liberazione da tutti i piaceri per le cose create, perché queste tormentano l’anima, mentre lo spirito di Dio la vivifica. Quest’invito ci rivolge il Signore in san Matteo: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos, et invenietis requiem animabus vestris (11,28-29), come a dire: Voi tutti che siete tormentati, afflitti e oppressi dal peso delle vostre preoccupazioni e dei vostri appetiti, liberatevene, venite a me, e io vi ristorerò, e troverete per le vostre anime il riposo che i vostri appetiti vi tolgono. Questi sono certamente un carico pesante, come dice Davide: Sicut onus grave gravatae sunt super me: Come un grave peso mi opprimono (Sal 37,5).

 

Fraternamente CaterinaLD

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CAPITOLO 8

Ove si mostra come gli appetiti oscurano e accecano l’anima.

1. Vi è una terza forma di danno causato dagli appetiti all’anima: l’accecano e annebbiano la ragione. Come i vapori oscurano l’aria e non lasciano filtrare il sole che splende; come lo specchio appannato non può riprodurre limpidamente il volto; o come l’acqua fangosa non lascia vedere la faccia che in essa si specchia, così l’anima prigioniera degli appetiti ha l’intelletto annebbiato: non lascia che il sole della ragione naturale né quello soprannaturale della Sapienza di Dio la investano e la illuminino completamente. Così dice Davide a tale proposito: Comprehenderunt me iniquitates meae, et non potui, ut viderem: Le mie colpe mi opprimono e non posso più vedere (Sal 39,13).

2. Nello stesso tempo in cui si offusca l’intelletto, s’intorpidisce anche la sensibilità e la memoria diventa rozza, in una parola s’introduce il disordine nel modo naturale di operare dell’anima. Poiché queste potenze, nelle loro operazioni, dipendono dall’intelletto, quando questo è impedito, esse risultano necessariamente disordinate e sconvolte. Davide, infatti, così si esprime: Anima mea turbata est valde: L’anima mia è tutta sconvolta (Sal 6,4), ossia le sue potenze sono nel disordine. Difatti, come ho detto, l’intelletto non ha la capacità di accogliere l’illuminazione della sapienza di Dio, come l’aria cupa non può ricevere la luce del sole. Anche la volontà non è in grado di amare Dio con puro amore, come lo specchio appannato dall’alito non può riflettere nitido il volto cha ha di fronte; meno ancora la memoria offuscata dalle tenebre degli appetiti è in grado di riflettere in sé, con chiarezza, l’immagine di Dio, come l’acqua torbida non può mostrare nitidamente il volto di colui che vi si specchia.

3. Gli appetiti, inoltre, accecano e ottenebrano l’anima perché, in quanto tali, sono ciechi; per parte loro, infatti, non comprendono nulla: devono essere guidati sempre dalla ragione. Così, ogni volta che l’anima si lascia guidare dai suoi appetiti, diventa cieca; assomiglia a colui che vede e si fa guidare da un non vedente, il che equivale a essere entrambi ciechi. Di conseguenza risulta vero quanto il Signore dice nel vangelo di Matteo: Si caecus caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadunt: Quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadono in un fosso (Mt 15,14). Giovano poco gli occhi alla farfalletta che, abbagliata dal desiderio della bellezza della luce, si lascia attrarre dalla fiamma. Possiamo ancora aggiungere che chi si nutre degli appetiti è come il pesce abbagliato, al quale la luce funge piuttosto da tenebra che non gli permette di vedere le insidie tesegli dai pescatori. Fa capire molto bene tutto questo Davide rivolgendosi così a un tal genere di persone: Supercecidit ignis, et non viderunt solem (Sal 57,9 Volg.), cioè cadde su di loro il fuoco che riscalda con il suo calore e abbaglia con la sua luce. Tutto questo causano gli appetiti nell’anima, accendendo la concupiscenza e abbagliando l’intelletto in modo da non fargli vedere la luce. L’abbagliamento, infatti, è dovuto al fatto che quando si presenta agli occhi una luce diversa, la vista viene così catturata da questa tanto da non vedere più l’altra. Così è dei nostri appetiti: si accostano talmente all’anima da insediarvisi; essa incappa in questa prima luce e se ne nutre in modo da non vedere chiaramente quella della sua ragione, né la vedrà finché non si sottrarrà all’accecamento degli appetiti.

4. Per questo motivo non si può non deplorare profondamente l’ignoranza di alcune persone che si danno a molte penitenze straordinarie e a molti altri esercizi volontari, convinte che basti questo per arrivare all’unione con la Sapienza divina, mentre poi non si preoccupano affatto di mortificare accuratamente i loro appetiti. Se invece procurassero di impiegare la metà di quegli sforzi in questo lavoro, farebbero più progressi in un mese che non con tutti gli altri esercizi in molti anni. Come, infatti, è necessario lavorare la terra perché porti frutti, altrimenti produrrebbe solo erbacce, così è necessaria la mortificazione degli appetiti perché l’anima progredisca. Altrimenti oso dire che, per progredire nella perfezione e nella conoscenza di Dio e di se stessa, non le giova mai quanto farà, come non produce il seme sparso sulla terra incolta. Di conseguenza l’anima resterà nelle tenebre e nella rozzezza fin quando non avrà smorzato gli appetiti. Questi sono per l’anima come la cateratta o la pagliuzza negli occhi: impediscono di vedere finché non vengono tolte.

5. Davide, per mostrare la cecità degli appetiti, quanto essi impediscano all’anima di vedere la luce della verità e quanto irritino Dio, si esprime in questi termini: Priusquam intelligerent spinae vestrae rhamnum: sicut viventes, sic in ira absorbet eos (Sal 57,10 Volg.), come a dire: Prima che le vostre spine, cioè i vostri appetiti, si sentan fatte un roveto, così (Dio) nel suo sdegno li divorerà quasi ancora vivi. Quando gli appetiti dell’anima sono ancora vivi e impediscono di comprendere Dio, vengono da lui distrutti in questa vita o nell’altra, con il castigo e la correzione, che avverrà attraverso la purificazione. Dice che li consumerà nella sua ira, perché ciò che si soffre nella mortificazione degli appetiti è punizione per i danni causati all’anima.

6. Oh, se gli uomini conoscessero tutto il bene della luce divina di cui questa cecità causata dagli affetti e dagli appetiti li priva! Se sapessero in quanti mali e in quanti danni cadono ogni giorno, per non volerli mortificare! Non devono fidarsi della loro buona intelligenza o di altri doni ricevuti da Dio, convinti che qualche affetto o appetito non possa accecare od oscurare e farli cadere a poco a poco in basso. Chi avrebbe detto, infatti, che un uomo tanto saggio e ricco di doni di Dio come Salomone sarebbe arrivato, ormai vecchio, a tanta cecità e debolezza di volontà da erigere altari a numerosi dei e ad adorarli lui stesso (1Re 11,4-8)? Per indurlo a tanto, bastò la passione per le donne e l’incuria nel mortificare gli appetiti e i piaceri del cuore. Egli stesso dice di sé nell’Ecclesiaste di non aver negato nulla al suo cuore (Qo 2,10). È fuori dubbio che in principio agisse con prudenza, ma si lasciò trascinare dai suoi appetiti, perché non li mortificava affatto, al punto che questi a poco a poco lo accecarono e oscurarono la sua intelligenza, fino a soffocare del tutto quella grande luce di sapienza che Dio gli aveva concesso; e così, ormai vecchio, abbandonò Dio.

7. Ora, se gli appetiti poterono tanto in un uomo che conosceva a fondo la distanza vigente tra il bene e il male, cosa non potranno fare contro la nostra ignoranza se non li mortifichiamo? Ebbene, come disse Dio a Giona parlando dei niniviti, noi non conosciamo la differenza tra la sinistra e la destra (Gio 4,11), e ad ogni istante confondiamo il male con il bene e il bene con il male: ecco cosa siamo capaci di fare da soli! Cosa avverrà, allora, se alla tenebra naturale si aggiungerà l’appetito? Accadrà ciò che dice Isaia: Palpavimus sicut caeci parietem, et quasi absque oculis attrectavimus: impegimus meridie, quasi in tenebris (Is 59,10). Il profeta parla di coloro che amano seguire i loro appetiti ed è come se dicesse: Tastiamo come ciechi la parete, come privi di occhi camminiamo a tastoni; inciampiamo a mezzogiorno come al crepuscolo. Chi è accecato dall’appetito, anche se posto nella piena luce della verità e del suo dovere, non vede nulla, perché è come se fosse nelle tenebre.

 

CAPITOLO 9

Ove si tratta del modo con cui gli appetiti sporcano l’anima. Lo si prova con paragoni e l’autorità della sacra Scrittura.

1. La quarta forma di danno che gli appetiti recano all’anima consiste nello sporcarla e macchiarla, così come dice l’Ecclesiastico: Qui tetigerit picem, inquinabitur, ab ea: Chi maneggia la pece si sporca (13,1). Ora, chi si compiace di qualche cosa creata è come se toccasse la pece. Occorre notare che il Saggio paragona le cose create alla pece, perché tra l’eccellenza dell’anima e quanto di meglio c’è in tali cose intercorre una differenza maggiore di quella esistente tra il diamante puro o l’oro fino e la pece. Se si versasse della pece bollente sull’oro o su un diamante, essi ne verrebbero subito sporcati e unti, a seconda del calore più o meno elevato della pece. Lo stesso avviene per l’anima che arde di bramosia per qualche cosa creata: ne contrae la sporcizia e le macchie. Per di più, tra l’anima e le altre creature corporee c’è più differenza di quanta ve ne sia tra un liquido cristallino e il fango più denso. Se quel liquido venisse mescolato al fango si insudicerebbe; così si sporca l’anima che si accosta alle cose create, perché rende se stessa simile a dette cose. Come i segni di fuliggine deturpano un volto molto bello e perfetto, così gli appetiti disordinati sporcano e deturpano l’anima che ne è prigioniera, anche se per natura è bellissima e immagine perfetta di Dio.

2. Per questo Geremia, piangendo il danno e la bruttezza che simili attaccamenti disordinati provocano nell’anima, prima ne esalta la bellezza e poi ne deplora la bruttezza con queste parole: Candidiores sunt nazaraei eius nive, nitidiores lacte, rubicundiores ebore antiquo, saphiro pulchriores. Denigrata est super carbones facies eorum, et non sunt cogniti in plateis: I suoi nazareni, cioè i capelli dell’anima, erano più splendenti della neve, più candidi del latte; avevano il corpo più roseo dei coralli, era zaffiro la loro figura. Ora il loro aspetto s’è fatto più scuro della fuliggine, non si riconoscono più per le strade (Lam 4,7-8). Per capelli intendiamo qui gli affetti e i pensieri dell’anima; se restano nell’ordine stabilito da Dio, cioè in Dio stesso, sono più candidi della neve, più bianchi del latte, più lucidi dell’avorio e più splendenti dello zaffiro. Con queste quattro cose s’intende ogni forma di bellezza e di eccellenza delle cose terrene. Geremia dice che se le operazioni dell’anima – corrispondenti ai nazarei o capelli – sono disordinate e rivolte a un fine opposto alla legge di Dio, cioè utilizzate nelle cose create, la faccia dell’anima, per così dire, diventa più nera del carbone.

3. Tutto questo male, e anche di più, è causato contro la bellezza dell’anima dagli appetiti disordinati per le cose di questo mondo. Se volessimo parlare espressamente dell’aspetto brutto e sporco al quale gli appetiti riducono l’anima, non troveremmo un luogo, per quanto pieno di ragnatele e di vermi, né un cadavere con tutta la sua deformità, né qualsiasi altra cosa immonda e sporca che si possa immaginare in questa vita, con cui paragonarla. L’anima disordinata, infatti, sebbene per natura sia perfetta come Dio l’ha creata, tuttavia in quanto essere razionale è divenuta brutta, abominevole, sporca, priva di luce, piena di tutte le imperfezioni di cui sto parlando e altre ancora. Un solo appetito disordinato, infatti, come dirò più avanti, sebbene non costituisca materia di peccato mortale, è sufficiente per rendere l’anima tanto schiava, sudicia e brutta che in nessun modo può unirsi a Dio, finché non si purifichi di quell’appetito. Quale sarà, allora, la bruttezza di quella che è tutta disordinata, immersa nelle sue passioni e schiava dei suoi appetiti? Quanto sarà lontana da Dio e dalla sua purezza?

4. Le parole non potrebbero spiegare né tanto meno la ragione comprendere le varie specie d’impurità che i diversi appetiti provocano nell’anima. Se lo si potesse esprimere e farlo comprendere, si rimarrebbe sorpresi e toccati da grande compassione nel constatare come ogni appetito, a seconda della sua qualità e del suo grado d’intensità, lasci la sua impronta e la sua patina d’immondezza e bruttezza nell’anima. Vedremmo anche come gli appetiti, in un disordine sostanzialmente unico, contengano in sé innumerevoli specie di sozzure, maggiori o minori secondo la propria natura. Come l’anima del giusto in un’unica perfezione, cioè nella rettitudine, possiede innumerevoli e ricchissimi doni e molte virtù, diverse e belle ognuna a suo modo, a seconda delle diverse affezioni che la portano a Dio; così l’anima disordinata, trascinata dalle diverse inclinazioni per le cose create, contiene in sé una deplorevole varietà di sozzure e di bassezze che le derivano dai suddetti appetiti.

5. Questa varietà di appetiti è ben raffigurata nel libro di Ezechiele (8,10-16), dove si legge che Dio gli mostrò, dipinti sulle pareti interne del tempio, ogni sorta di rettili che strisciano sulla terra e ogni genere abominevole di animali immondi. Dio disse, allora, a Ezechiele: Hai visto, figlio dell’uomo? Vedrai abomini peggiori di questi, che ciascuno compie nella stanza recondita del proprio idolo. Poi Dio ordinò al profeta d’inoltrarsi sempre più per vedere nefandezze ancora peggiori. Il profeta racconta di aver visto donne sedute che piangevano Adone, il dio dei loro amori. Quando Dio gli ordinò di andare oltre per vedere abominazioni ancora più grandi delle precedenti, vide venticinque anziani con le spalle rivolte al tempio.

6. Le diverse specie animali schifosi e immondi, ritratte nel primo recesso del tempio, raffigurano i pensieri e i concetti che l’intelletto elabora sulle cose vili della terra e su tutte le cose create; queste, così come sono, s’imprimono nel tempio dell’anima, quando se ne ingombra l’intelletto, che è la prima facoltà dello spirito. Le donne che si trovavano più all’interno, nel secondo locale, ove piangevano il dio Adone, simboleggiano gli appetiti, che hanno sede nella seconda potenza dell’anima, cioè nella volontà. Essi stanno piangendo, per così dire, perché bramano ciò a cui la volontà è affezionata, cioè i rettili già rappresentati nell’intelletto. Gli uomini che si trovavano nel terzo locale del tempio, sono le immagini e le rappresentazioni delle cose create, che la terza potenza dell’anima, cioè la memoria, conserva e rimugina dentro di sé. Tali rappresentazioni volgono le spalle al tempio; ciò vuol dire che l’anima, quando con le sue tre potenze si porta totalmente e perfettamente verso qualche essere creato, rivolge le spalle al tempio di Dio, cioè alla sua retta ragione, che non ammette in sé alcuna cosa creata.

7. Quanto è stato detto fin qui è sufficiente per darci un’idea del disordine causato nell’anima dai suoi appetiti. Se, infatti, dovessi trattare nei particolari della bruttezza, pur minore, provocata nell’anima dalle imperfezioni e le loro varietà; o di quella, più grande della precedente, causata dai peccati veniali in tutta la loro varietà; o, infine, di quella prodotta dagli appetiti del peccato mortale, in tutta la loro varietà, che rendono l’anima completamente orrida, non finirei più. Neanche un’intelligenza angelica sarebbe in grado di comprendere la varietà e la moltitudine di queste tre cose. Mi limito a dire, a conferma del mio argomento, che qualsiasi appetito, anche se ha per oggetto la più piccola imperfezione, macchia e sporca l’anima.

 

CAPITOLO 10

Ove si mostra come gli appetiti intiepidiscano e indeboliscano l’anima nell’esercizio della virtù.

1. La quinta forma di danno provocato dagli appetiti nell’anima consiste nel renderla tiepida e debole a tal punto che non ha più la forza di seguire la virtù e di perseverare in essa. Nel caso, infatti, in cui la forza degli appetiti si divide verso più oggetti, risulta più debole che se fosse concentrata su un oggetto unico; più essa si divide, più s’indebolisce nei riguardi di ogni oggetto. Per questo i filosofi dicono che la virtù unita ha più forza di quella che è divisa. Pertanto, se l’appetito della volontà si disperde verso qualcosa al di fuori della virtù, è chiaro che diverrà più fiacca per praticare la stessa virtù. L’anima che disperde la sua volontà dietro a inezie è come l’acqua che, trovando un varco per scorrere a valle, non cresce verso l’alto, e di conseguenza non serve a nulla. Per questo il patriarca Giacobbe paragonò il figlio Ruben all’acqua versata, perché, nel commettere un certo peccato, aveva lasciato libero corso ai suoi appetiti: Ti sei versato come l’acqua e non crescerai (Gn 49,4), come se volesse dirgli: poiché ti sei disperso come l’acqua, seguendo i tuoi appetiti, non crescerai nella virtù. Come l’acqua bollente, se non viene coperta, facilmente perde il suo calore, o come le specie aromatiche, se lasciate all’aria, perdono a poco a poco la fragranza e la forza del loro profumo, così l’anima non concentrata nell’unico desiderio di Dio perde l’ardore e il vigore della virtù. Aveva ben compreso questa verità Davide, quando, rivolgendosi a Dio, disse: Fortitudinem meam ad te custodiam: Custodirò la mia forza per te (Sal 58,10), cioè raccogliendo solo su di te la forza dei miei appetiti.

2. Gli appetiti indeboliscono la forza dell’anima, perché sono per essa come i polloni che crescono attorno all’albero e gli sottraggono vigore, impedendogli di portare molto frutto. Di queste anime il Signore dice: Vae praegnantibus et nutrientibus in illis diebus!, cioè: Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni! (Mt 24,19), alludendo alla gestazione e al nutrimento degli appetiti. Se questi non verranno mortificati, sottrarranno continuamente forza all’anima e cresceranno per la sua rovina, come i polloni attorno all’albero. Per questo il Signore ci raccomanda: Siate pronti, con la cintura ai fianchi (Lc 12, 35), cioè mortificate gli appetiti. Questi, infatti, sono come le sanguisughe che succhiano continuamente il sangue delle vene. Così li chiama l’Ecclesiastico quando dice: Sanguisughe sono le figlie, cioè gli appetiti; dicono sempre: Dammi, dammi (Pro 30,15).

3. È chiaro, quindi, che gli appetiti non procurano alcun bene all’anima, anzi le tolgono quello che ha. Se non sono mortificati, non si fermano finché non compiono in essa ciò che fanno i figli della vipera: mentre crescono nel suo ventre la mordono e la uccidono, restando essi vivi a prezzo della sua morte. Gli appetiti non mortificati arrivano a tanto: uccidono la vita di Dio nell’anima, perché questa non li ha uccisi per prima. Perciò l’Ecclesiastico dice: Aufer a me, Domine, ventris concupiscentias et concubitus concupiscentiae ne apprehendant me: Togli da me le intemperanze del ventre e i desideri della libidine non abbiano potere su di me (Sir 23,6); infatti quel che vive nell’anima sono gli appetiti.

4. Anche se non arrivano a tanto, è tuttavia cosa degna di compassione il considerare lo stato in cui gli appetiti riducono l’anima e quanto la rendono insopportabile a se stessa, insensibile verso il prossimo, tarda e pigra nelle cose di Dio. Non esiste, infatti, umore cattivo che renda al malato il camminare così pesante difficoltoso o il mangiare così disgustoso, quanto l’appetito delle cose create appesantisce e rattrista l’anima nell’esercizio della virtù. Abitualmente, il motivo per cui molte anime non hanno zelo e costanza nell’acquistare la virtù è che coltivano appetiti e affetti non puri nei riguardi di Dio.

 

CAPITOLO 11

Ove si prova quanto sia necessario all’anima, per raggiungere l’unione divina, liberarsi da tutti gli appetiti, anche se minimi.

1. Mi sembra che da tempo il lettore desideri chiedermi se per giungere a questo sublime stato di perfezione sia prima necessario aver mortificato completamente tutti gli appetiti, piccoli e grandi, o se basti mortificarne alcuni trascurandone altri, almeno quelli che sembrano meno pericolosi. Sembra, infatti, un’impresa molto difficile e ardua che l’anima possa arrivare a tanta purezza e nudità da escludere ogni desiderio e affezione per qualche cosa.

2. Rispondo premettendo che non tutti gli appetiti sono ugualmente nocivi e ostacolanti il progresso dell’anima. Mi riferisco agli appetiti volontari, perché quelli naturali impediscono poco o nulla l’unione con Dio, purché non sia dato loro il consenso o non vadano oltre i limiti di moti spontanei. Chiamo naturali e spontanei quei moti ai quali la volontà, illuminata dalla ragione, non partecipa né prima né dopo gli atti. Eliminarli o mortificarli totalmente in questa vita è impossibile. Anche se non sono del tutto mortificati, non impediscono all’anima di giungere all’unione divina. Possono, infatti, essere ben presenti nella natura umana e ciò nonostante l’anima, nella sua sfera razionale, può esserne completamente libera. Anzi potrà accadere che talvolta l’anima sia con la volontà assorta in profonda orazione di quiete, mentre essi si manifestano nella parte sensitiva dell’uomo, alla quale, però, non partecipa la sfera razionale, che è in preghiera. L’anima, invece, che vuol pervenire all’unione perfetta con Dio, deve eliminare e disfarsi di tutti gli appetiti volontari, anche se piccoli, sia di quelli più gravi che conducono al peccato mortale, sia di quelli meno gravi che spingono al peccato veniale, sia di quelli meno gravi ancora che portano alle imperfezioni. Questo perché lo stato di tale unione consiste nel trasformare la volontà dell’anima in quella di Dio, in modo tale che in essa non vi sia nulla di contrario al volere di Dio, ma tutto, in tutti i suoi atti, sia voluto unicamente da Dio.

3. Per questo motivo affermo che in tale stato le due volontà, quella divina e quella umana, s’identificano, sono insieme volontà di Dio e dell’anima. Pertanto, se quest’anima desiderasse qualcosa d’imperfetto che Dio non può volere, verrebbe meno quell’unione di volontà, perché essa vorrebbe ciò che Dio non vuole. È chiaro, quindi, che per giungere a unirsi perfettamente con Dio, per mezzo dell’amore e della volontà, l’anima deve liberarsi anzitutto di ogni appetito volontario, per piccolo che sia. Occorre, cioè, che la volontà non acconsenta avvertitamene e consapevolmente a imperfezione alcuna e giunga ad avere la forza e la libertà di poterlo fare, qualora se ne accorga. Dico consapevolmente, perché se l’anima non avverte l’appetito, non lo riconosce o non è in suo potere, allora potrà cadere in imperfezioni, in peccati veniali e negli appetiti naturali di cui ho già parlato. Di queste mancanze involontarie e non avvertite sta scritto: Il giusto cade sette volte al giorno e si rialza (Pro 24,16). Quanto agli appetiti volontari, che sono peccati veniali deliberati, ne basta, ripeto, uno solo, anche se minimo, non mortificato per impedire l’unione divina. Mi riferisco qui all’abitudine non mortificata e non a qualche atto proveniente da passioni diverse, che non reca gran danno quando le abitudini sono mortificate. L’anima, però, deve liberarsi altresì da questi atti sporadici, perché anch’essi derivano da abitudini imperfette. Le abitudini imperfette volontarie, se non vengono mai vinte, non solo impediscono l’unione, ma a lungo andare anche il progresso nella perfezione.

4. Queste imperfezioni abituali sono l’abitudine diffusa di parlare molto, un tenue attaccamento a qualcosa che non ci si decide mai a superare, come, per esempio, a una persona, a un vestito, a un libro, alla cella, a un determinato cibo o a piccole chiacchiere e soddisfazioni, per il piacere di gustare le cose, di sapere, di ascoltare o cose simili. Ciascuna di queste imperfezioni, a cui l’anima si è attaccata, facendone l’abitudine, ne danneggiano la crescita e il progresso nella virtù molto più che se cadesse ogni giorno in molte altre imperfezioni e peccati veniali non derivanti da un’abitudine cattiva. Finché dura quest’abitudine, infatti, è impossibile che l’anima possa progredire nella perfezione, anche se commettesse imperfezioni di poco conto. Poco importa che un uccello sia legato a un filo sottile o grosso; anche se sottile, finché sarà legato, è come se fosse grosso, perché non gli consentirà di volare. È vero che è più facile spezzare il filo sottile; ma anche se facile, finché non lo spezza, non vola. Così accade all’anima che è attaccata a qualcosa: anche se possiede molte virtù, non arriverà mai alla libertà dell’unione divina. L’appetito o l’attaccamento dell’anima ha le stesse proprietà della remora che, pur essendo un pesce molto piccolo, se riesce ad attaccarsi alla nave, la tiene frenata al punto da impedirle di navigare e di arrivare al porto. È una pena vedere alcune anime che, come navi cariche di tesori, sono ricche di opere buone, di esercizi di pietà, di virtù e di doni divini, ma non progrediscono né arrivano al porto della perfezione, perché non hanno il coraggio di disfarsi di un piccolo gusto, di un attaccamento o di un’affezione, che è la stessa cosa. Basterebbe che con un volo ardito spezzassero quel filo di attaccamento e si liberassero dalla remora dell’appetito.

5. È molto deplorevole che, avendole Dio aiutate a spezzare legami più grossi relativi ad affezioni che conducevano al peccato e alla vanità, queste anime, per non staccarsi da un’inezia che Dio chiede di vincere per amor suo, non riescano a raggiungere un bene così grande. Eppure si tratta solo di un filo o di un capello. Il peggio è che, a causa di quell’affetto, non solo non progrediscono, ma tornano indietro, perdendo ciò che in tanto tempo e a prezzo di grande fatica avevano guadagnato. Si sa, infatti, che in questo cammino non andare avanti equivale a tornare indietro e non guadagnare è come perdere. Questo è quanto ha voluto insegnarci il Signore, quando dice: Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde (Mt 12,30). Chi non ha cura di riparare anche la più piccola screpolatura del vaso, perderà tutto il liquido in esso contenuto. Ce lo ha insegnato bene l’Ecclesiastico, quando afferma: Chi disprezza il poco, cadrà presto (Sir 19,1); e ancora: Con una scintilla di fuoco si riempie il braciere (Sir 11,32). Basta un’imperfezione per chiamarne un’altra e altre ancora; quasi mai si vedrà un’anima negligente nel vincere un appetito disordinato, la quale non ne abbia molti altri derivanti dalla stessa negligenza e imperfezione che dimostra in tale appetito. Così facendo, andrà di male in peggio. Ho visto molte persone, alle quali Dio aveva fatto la grazia di avanzare molto nel distacco e nella libertà, perdere a poco a poco lo spirito e il gusto di Dio, la santa solitudine, la gioia e l’assiduità nelle pratiche di pietà, fino a perdere tutto, soltanto perché avevano incominciato a lasciarsi vincere da un piccolo attaccamento, un’affezione, una conversazione o un’amicizia, sotto il pretesto di bene. Tutto questo perché non troncarono fin dall’inizio quel gusto o appetito sensibile, non custodendo così il loro cuore per Dio solo.

6. In questo cammino è necessario andare sempre avanti per poter raggiungere la meta, cioè estirpare continuamente i propri appetiti e mai fomentarli; finché non ci si decide a eliminarli tutti, non si raggiungerà il traguardo. Come il legno non si trasforma in fuoco se gli manca un solo grado di calore richiesto, così l’anima non si trasformerà in Dio a causa di una sola imperfezione, anche se più piccola di un appetito volontario. Come dirò più avanti nella notte della fede, l’anima ha una sola volontà. Se essa la ingombra o l’applica con l’affetto per qualcosa, non rimane libera, integra, sola e pura, elementi indispensabili per attingere la trasformazione in Dio.

7. A tale proposito ci viene detto nel libro dei Giudici: l’angelo venne dai figli di Israele e, dopo averli rimproverati perché non avevano sterminato la nazione nemica, anzi si erano alleati con alcuni di loro, annunziò che Dio li avrebbe lasciati in mezzo a loro come nemici, perché fossero occasione d’inciampo e di perdizione (Gdc 2,2-3). Con alcune anime Dio ha fatto proprio così: le ha tolte dal mondo, ha ucciso i giganti dei loro peccati e sterminato la moltitudine dei loro nemici, cioè le occasioni pericolose che avevano nel mondo, facendole entrare con maggior libertà in questa terra promessa dell’unione divina. Malgrado ciò, esse stringono amicizia e alleanza con il popolo minuto delle imperfezioni che non riescono mai a mortificare completamente. Per questo il Signore, adirato, le lascia sempre più in preda ai loro appetiti.

8. Anche nel libro di Giosuè abbiamo una figura di quanto sto dicendo. Quando gli ebrei stavano per impadronirsi della terra promessa, Dio ordinò loro di distruggere la città di Gerico in modo da non lasciare in vita alcun essere che vi abitava, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, compresi gli animali; ingiunse, altresì, di non prendere né tanto meno desiderare il bottino catturato (Gs 6,17-21). Questo ci permette di capire che, per entrare nell’unione divina, tutto ciò che vive nell’anima, poco o molto che sia, piccolo o grande, deve morire; anzi l’anima deve liberarsi dal desiderio di tutto questo, distaccandosene al punto di essere completamente estranea a tutto ciò. Anche san Paolo, nella lettera ai Corinzi, c’insegna tale verità: Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno (1Cor 7,29-31). Ecco quanto ci dice l’Apostolo, insegnandoci come dobbiamo tener distaccata l’anima da tutte le cose, per andare a Dio.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/09/2012 17:38
 
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CAPITOLO 12

Ove si risponde a un’altra domanda, dicendo quali sono gli appetiti sufficienti a provocare nell’anima i suddetti danni.

1. Potrei dilungarmi molto su questa materia della notte dei sensi, analizzando ancora altri danni che causano gli appetiti, non solamente sotto gli aspetti già considerati, ma altresì sotto molti altri. Tuttavia, per lo scopo che mi sono prefisso, basta quanto è stato detto. Mi sembra, infatti, d’aver spiegato sufficientemente perché la mortificazione degli appetiti si chiami notte e quanto sia opportuno entrare in essa per andare a Dio. Per concludere questa parte, rimane solo da risolvere qualche dubbio che potrebbe sorgere nella mente del lettore su ciò che ho detto, prima di affrontare il modo di entrare in questa notte.

2. Anzitutto ci si potrebbe chiedere se basti un qualsiasi appetito a produrre e causare nell’anima i due mali sopracitati, cioè quello privativo, che priva l’anima della grazia di Dio, e quello positivo, che provoca in essa i cinque danni principali, dei quali, appunto, ho parlato. In secondo luogo ci si potrebbe chiedere se sia sufficiente qualsiasi appetito, per quanto piccolo e di qualsiasi genere, a causare tutti questi cinque danni insieme, oppure se alcuni appetiti causino determinati danni, e altri danni diversi; per esempio, se alcuni causino tormento, altri stanchezza, altri tenebra, ecc.

3. Per rispondere al primo dubbio circa il danno positivo, dico che solo gli appetiti volontari, aventi per oggetto il peccato mortale, possono privare l’anima di Dio e lo fanno totalmente. Essi, infatti, privano l’anima della grazia in questa vita e nell’altra della gloria, cioè del possesso di Dio. Al secondo dubbio rispondo affermando che sia gli appetiti in materia di peccato mortale sia quelli volontari in materia di peccato veniale o di imperfezione sono sufficienti a provocare nell’anima tutti questi danni positivi insieme. Li chiamo positivi, sebbene in un certo senso siano privativi, perché si riferiscono all’anima che si volge alle cose create, come il privativo di riferisce al suo allontanamento da Dio. Ma c’è una differenza: gli appetiti, aventi per oggetto il peccato mortale, causano cecità totale, tormento, sporcizia e debolezza, ecc.; mentre quelli aventi per oggetto i peccati veniali o l’imperfezione non causano questi mali in forma assoluta e in sommo grado, perché non privano l’anima della grazia, da cui dipende la loro presenza. La morte della grazia è, infatti, la vita degli appetiti. Tuttavia essi provocano nell’anima qualcosa di tali mali gradualmente, a mano a mano che diminuisce in essa la grazia. In questo modo, più un appetito riduce l’azione della grazia, più grave è il tormento, la cecità e l’impurità che procura all’anima.

4. Va notato, però, che, sebbene ciascun appetito causi tutti questi mali che ho chiamato positivi, tuttavia ve ne sono alcuni che ne provocano uno in modo principale e diretto, dal quale poi derivano tutti gli altri. Sebbene sia vero che un appetito sensuale causi tutti questi mali, è altrettanto vero che principalmente e propriamente esso insudicia l’anima e il corpo. Tutti questi danni li provoca anche l’appetito dell’avarizia, ma principalmente e direttamente esso genera afflizione. Allo stesso modo, sebbene un appetito di vanagloria, come gli altri, sia causa di tutti quegli effetti, principalmente e direttamente, però, esso provoca tenebre e cecità. Infine, sebbene un appetito di gola generi i suddetti mali, principalmente provoca tiepidezza nella virtù. Lo stesso vale per gli altri appetiti.

5. Qualsiasi atto volontario degli appetiti produce, dunque, nell’anima tutti questi effetti insieme, perché è direttamente contrario agli atti di virtù che producono nell’anima gli effetti contrari. Come un atto di virtù produce nell’anima e genera allo stesso tempo soavità, pace, consolazione, luce, purezza e forza, così un appetito disordinato causa tormento, fatica, stanchezza, cecità e debolezza. Tutte le virtù crescono quando se ne pratica una, e tutti i vizi, insieme agli effetti da essi lasciati nell’anima, crescono con l’aumentare di uno di essi. E sebbene nel momento in cui si soddisfa quell’appetito non si riescano a vedere tutti questi mali, perché il piacere provato non lo consente, tuttavia prima o poi se ne avvertono le conseguenze. Tale verità viene chiaramente insegnata nell’Apocalisse, quando l’angelo comanda a san Giovanni di mangiare un libro, che gli sembrò dolce nella bocca e amaro nelle viscere (Ap 10,9-10). Infatti, quando l’appetito viene soddisfatto è dolce e sembra buono, ma dopo se ne avvertono i suoi amari effetti. Questo lo può ben dire chi si lascia trasportare dalle passioni. Non ignoro, tuttavia, che esistono persone tanto cieche e insensibili da non sentire tale amarezza, perché, non curandosi di andare a Dio, non si preoccupano degli ostacoli che li separano da lui.

6. Qui non tratterò degli appetiti secondo natura, che sono involontari, né dei pensieri che rimangono allo stadio di moti primi, né di altre tentazioni alle quali non si acconsente, perché tutti questi non recano nessuno dei mali suddetti all’anima. La persona che li subisce, a causa della passione e del turbamento che in quel momento le provocano, può pensare che la stiano sporcando e accecando, ma non è così; anzi, le procurano i vantaggi contrari. Opponendo resistenza ad essi, infatti, acquista fortezza, purezza, luce, consolazione e molti altri beni, secondo quanto il Signore ha insegnato a san Paolo: La virtù si manifesta pienamente nella debolezza (2Cor 12,9). Quanto agli appetiti volontari, essi provocano tutti i mali di cui abbiamo parlato e molti altri. Per questo la preoccupazione principale dei maestri di spirito è quella di mortificare nei loro discepoli qualsiasi appetito, invitandoli a privarsi della soddisfazione dei loro desideri, per liberarli da una miseria così grande.

 

CAPITOLO 13

Ove si tratta del comportamento che l’anima deve seguire per entrare in questa notte dei sensi.

1. Non mi resta, ora, che offrire alcune norme, perché l’anima sappia e possa entrare in questa notte dei sensi. A tale proposito, occorre sapere che l’anima abitualmente entra in questa notte dei sensi in due modi: uno attivo e l’altro passivo. Quello attivo comprende tutto ciò che l’anima può fare e fa da sola per entrare nella notte. Ne tratterò subito nelle norme che seguiranno. Quello passivo, invece, si verifica quando l’anima non fa nulla da sé, ma resta passiva all’azione di Dio. Di questa tratterò nel libro quarto, quando si parlerà dei principianti. E poiché là, a Dio piacendo, darò molti suggerimenti ai principianti, secondo le molte imperfezioni in cui abitualmente cadono lungo questo cammino, qui non mi dilungo. Del resto, questo non è il luogo più opportuno per dare tali suggerimenti, perché qui ci occupiamo di conoscere solo i motivi per cui questo passaggio si chiami notte, in che cosa essa consista e in quante parti si divida. Perché la mia esposizione non appaia troppo breve e poco utile alle anime, proporrò loro alcuni mezzi o norme necessarie per esercitarsi in questa notte degli appetiti. Ho voluto fornirli qui di seguito in forma succinta. Lo stesso farò alla fine delle altre due parti o cause di questa notte, di cui mi propongo di trattare con l’aiuto di Dio.

2. I suggerimenti seguenti, necessari per vincere gli appetiti, sebbene siano brevi e pochi, sono, a mio avviso, molto utili ed efficaci quanto concisi. Chi, dunque, volesse davvero metterli in pratica, non ne avrà bisogno di altri, perché questi li comprendono tutti.

3. In primo luogo, occorre coltivare un costante desiderio d’imitare Cristo in ogni azione, conformandosi alla sua vita, sulla quale bisogna riflettere per saperla imitare e per comportarsi come lui si comporterebbe.

4. In secondo luogo, per ben riuscire in quest’intento, occorre rinunciare a qualsiasi piacere che si presenti ai sensi, che non sia unicamente a onore e gloria di Dio. Occorre liberarsene per amore di Gesù Cristo, che in questa vita non ebbe né cercò altro piacere che fare la volontà del Padre suo, che egli chiamava suo cibo e sua bevanda (Gv 4,34). Se, per esempio, si presenta un’occasione di ascoltare con piacere cose che non servono al servizio e all’onore di Dio, si rinunzi al gusto di ascoltarle. Se, poi, si offre il piacere di guardare cose che non aiutano ad amare di più Dio, si reprima il desiderio di guardarle. Ci si comporti allo stesso modo nel parlare, nel compiere qualche altra azione o nel soddisfare qualche altro senso, per quanto sarà possibile. Se ciò non fosse possibile, basta non assaporarne il gusto delle cose che non si possono evitare. In questo modo, occorre mortificare e liberare i sensi dalle soddisfazioni, come se li si lasciasse al buio. Così facendo, in breve tempo si progredirà molto.

5. Per mortificare e placare le quattro passioni naturali, che sono la gioia, la speranza, il timore e il dolore, dalla cui concordia e pacificazione derivano questi e altri beni, è rimedio efficace, fonte di grande merito e causa di grandi virtù mettere in pratica quanto segue.

6. Procuri l’anima di tendere sempre:

            non al più facile, ma al più difficile;

            non al più saporito, ma al più insipido;

            non al più piacevole, ma al più disgustoso;

            non al riposo, ma alla fatica;

            non al conforto, ma allo sconforto;

            non al più, ma al meno;

            non al più alto e pregevole, ma al più vile e spregevole;

            non a voler qualcosa, ma a non voler nulla;

            non alla ricerca del meglio nelle cose terrene, ma al peggio, e desiderare in tutto nudità, vuoto e povertà di quanto v’è al mondo per amore di Cristo.

7. Occorre che l’anima abbracci di cuore queste norme e procuri di addestrarvi la volontà. Se, infatti, le metterà in pratica, in brevissimo tempo troverà in esse gran diletto e consolazione, e agirà con ordine e discrezione.

8. Per entrare nella notte dei sensi è sufficiente eseguire bene quanto ho detto. Ciò nonostante, per offrire più ampie spiegazioni, proporrò un’altra sorta di esercizi che insegnano a mortificare la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, cose che secondo san Giovanni, regnano nel mondo (1Gv 2,16) e dalle quali derivano tutti gli altri appetiti.

9. Anzitutto, l’anima cerchi di lavorare al disprezzo di sé e di desiderare che lo facciano anche gli altri; questa pratica va contro la concupiscenza della carne. In secondo luogo, cerchi di parlare in proprio disprezzo e desiderare che anche gli altri si comportino allo stesso modo; questa pratica va contro la concupiscenza degli occhi. In terzo luogo, cerchi di pensare umilmente di sé fino al proprio disprezzo e di desiderare che anche gli altri facciano lo stesso; questa pratica va contro la superbia della vita.

10. A conclusione di questi suggerimenti e di queste norme, è opportuno riportare qui quei versi scritti sotto il disegno della Salita del Monte, riprodotto nelle pagine immediatamente prima di quest’opera. Essi racchiudono la dottrina per salire al suo vertice, cioè all’unione divina. Sebbene sia vero che ivi si parla del lavoro spirituale e interiore dell’anima, s’insegna anche a mortificare lo spirito d’imperfezione nel suo aspetto sensibile ed esteriore, come si può vedere nelle due vie poste ai lati del sentiero della perfezione. È in quest’ultimo senso che qui li intendiamo. Nella seconda parte di questa notte, invece, li interpreteremo in senso spirituale.

11. I versi dicono così:

            Per poter gustare il tutto,

            non cercare il gusto in nulla.

            Per poter possedere il tutto,

            non voler possedere nulla.

            Per poter essere tutto,

            non voler essere nulla.

            Per poter conoscere il tutto,

            non voler sapere nulla.

            Per raggiungere ciò che ora non godi,

            devi passare per dove non godi.

            Per arrivare a ciò che non sai,

            devi passare per dove non sai.

            Per arrivare al possesso di ciò che non hai,

            devi passare per dove non hai.

            Per giungere a ciò che non sei,

            devi passare per dove non sei.

METODO PER NON OSTACOLARE IL TUTTO

12.       Se ti fissi su qualcosa,

            tralasci di slanciarti verso il tutto.

            Se vuoi giungere per davvero al tutto,

            devi rinnegarti totalmente in tutto.

            E qualora giungessi ad avere il tutto,

            devi possederlo senza voler nulla.

            Se vuoi possedere qualcosa nel tutto,

            non hai il tuo unico tesoro in Dio.

13. In questa nudità la persona spirituale trova pace e riposo. Non desiderando nulla, nulla l’appesantisce nell’ascesa verso l’alto, nulla la sospinge verso il basso, perché è al centro della sua umiltà. Quando, invece, brama qualcosa, proprio per questo si affatica.

 

CAPITOLO 14

Ove si spiega il secondo verso della strofa:

            Con ansie, dal mio amor tutta infiammata.

1. Ho già spiegato il primo verso di questa strofa, che parla della notte dei sensi; ho pure detto che cosa intendere per notte dei sensi e perché si chiama notte. Si è parimenti indicato l’ordine e il comportamento da seguire per entrare attivamente in essa. Ora è il momento di trattare delle sue proprietà e dei suoi effetti meravigliosi, contenuti nei versi successivi di detta strofa. Perciò, come ho promesso nel Prologo, citerò e spiegherò brevemente questi versi; poi passerò al libro II, che tratta dell’altra parte di questa notte, cioè della notte dello spirito.

2. L’anima afferma, dunque che con ansie e dall’amor tutta infiammata, attraverso la notte oscura del senso, giunse all’unione con l’Amato. In realtà, per vincere tutti gli appetiti e mortificare le attrattive di tutte le cose create, per amore e affetto delle quali la volontà è solita accendersi allo scopo di goderne, era necessaria un’altra fiamma di un amore superiore, che è quello del suo Sposo. Riponendo in lui la propria gioia e la propria forza, trova vigore e costanza per negare facilmente tutti gli altri amori. Per vincere la forza degli appetiti sensibili, non basta all’anima il semplice amore per il suo Sposo; deve altresì ardere d’amore e stare in ansia per lui. Accade, infatti, come testimonia l’esperienza, che la sensibilità è talmente attratta verso le realtà sensibili da tante ansie di appetito che se la parte spirituale non è infiammata da un amore ancora più forte verso le realtà spirituali, non potrà spezzare il giogo della natura, né entrare in questa notte dei sensi, né avere il coraggio di starsene all’oscuro di tutte le cose, privandosi del loro piacere.

3. Non è possibile né opportuno dire in questo luogo quali e quanti siano i desideri d’amore che le anime nutrono agli inizi di questo cammino di unione; quali siano le attenzioni e gli espedienti da loro adoperati per uscire dalla propria casa, cioè dalla propria volontà, nella notte della mortificazione dei loro sensi; e, infine, quanto le ansie dello Sposo rendano facili, dolci e piacevoli le fatiche e i pericoli di questa notte. Poiché è meglio meditare e sperimentare tali cose più che descriverle, passerò alla spiegazione degli altri versi nel capitolo che segue.

 

CAPITOLO 15

Ove si spiegano gli altri versi della strofa:

            Oh, sorte fortunata!,

            uscii, né fui notata,

            stando la mia casa al sonno abbandonata.

1. L’anima ricorre a una metafora per indicare la triste situazione di schiavitù in cui essa giace; così reputa sorte fortunata quella di chi riesce a liberarsene senza che nessuno dei carcerieri glielo impedisca. Difatti, dopo il peccato originale, l’anima è veramente come prigioniera in questo corpo mortale, soggetta alla passione e agli appetiti naturali. Essa considera sorte fortunata l’essersi liberata dal loro dominio senza esser veduta, cioè senza che passione o appetito alcuno glielo abbia impedito o l’abbia trattenuta.

2. A questo scopo le è giovato entrare nella notte oscura, cioè privarsi di tutti i gusti e mortificare tutti i suoi appetiti, come ho detto. Quando aggiunge: stando la mia casa al sonno abbandonata, vuol dire che la casa, cioè la parte sensitiva, sede di tutte le passioni, è tutta addormentata, perché le ha vinte e tenute a freno. Ma fino a quando le passioni non sono assopite per mezzo della mortificazione della sensibilità, e la stessa sensibilità non è lasciata in pace da quelle, in modo da non fare alcuna guerra allo spirito, l’anima non può giungere alla vera libertà né godere l’unione con il suo Amato.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/09/2012 17:40
 
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LIBRO II

 

della Salita del monte Carmelo, in cui si parla del mezzo immediato per giungere all’unione con Dio, cioè della fede, e altresì della seconda parte della notte, chiamata notte dello spirito. Di essa si tratta nella seconda strofa.

 

CAPITOLO 1

Seconda strofa

            Al buio e più sicura,

            per la segreta scala, travestita,

            oh, sorte fortunata!,

            al buio e ben celata,

            stando la mia casa al sonno abbandonata.

1. In questa seconda strofa l’anima canta la sorte fortunata che le è toccata nel liberare lo spirito da ogni imperfezione e da ogni brama di appropriarsi dei beni spirituali. La sua sorte è stata tanto più felice in quanto ha incontrato maggiori difficoltà per addormentare la casa nella parte spirituale ed entrare in questa oscurità interiore, che è privazione spirituale di ogni cosa, tanto sensitiva che immateriale, appoggiandosi solo alla pura fede e per mezzo di essa salire fino a Dio. La fede viene qui chiamata segreta scala, perché tutti i suoi gradini o articoli di fede che essa contiene sono segreti e nascosti tanto ai sensi quanto all’intelletto. L’anima, dunque, all’oscuro di ogni luce naturale dei sensi e dell’intelletto, oltrepassa i limiti della sua natura e ragione per salire questa divina scala della fede; attraverso questa giunge a penetrare fin nelle profondità di Dio. L’anima dice che procedeva travestita, perché, salendo per mezzo della fede, il suo costume, la veste e il portamento umano si erano cambiati in divino travestimento. Tale trasformazione le consentiva di non essere riconosciuta né trattenuta dalle realtà temporali né da quelle della ragione e nemmeno dal demonio, poiché nulla di tutto questo può danneggiare chi cammina nella fede. Ma c’è di più. L’anima è talmente protetta, nascosta e al sicuro da tutti gli inganni del demonio da poter camminare veramente – come dice in questo verso – al buio e ben celata, cioè senza essere vista dal demonio, per il quale la luce della fede è densa tenebra. Possiamo, dunque, affermare che l’anima che procede alla luce della fede avanza al riparo e nascosta agli occhi del demonio, come si vedrà più chiaramente in seguito.

2. Essa afferma, perciò, di essere uscita al buio e più sicura. Chi ha la fortuna di poter camminare tra le oscurità della fede e, come un cieco, assume questa per guida, si libera da tutte le rappresentazioni naturali e dai ragionamenti spirituali, procedendo molto sicuro, come già ho detto. L’anima aggiunge che entrò in questa notte dello spirito, stando la sua casa al sonno abbandonata. Ciò vuol dire che quando l’anima giunge all’unione con Dio, ha messo a tacere la sua parte spirituale e razionale: le sue potenze naturali sono inattive, sopiti gli impeti e le ansie dei sensi nella parte spirituale. Per questo motivo, qui non dice che uscì con ansie, come nella prima notte dei sensi, perché, per entrare in essa e spogliarsi di ciò che appartiene ai sensi, occorreva che avesse sperimentato ansie di amore sensibile per poterne uscire; invece, per placare definitivamente la casa dello spirito, si richiede di consolidare nella pura fede le sue potenze, le sue attrattive e tutti gli appetiti spirituali. Fatto questo, l’anima si unisce all’Amato in un’unione piena di semplicità, purezza, amore e somiglianza.

3. Occorre notare che nella prima strofa, parlando della parte sensitiva, l’anima dice che uscì in una notte oscura: mentre qui, ove si tratta della parte spirituale, afferma che uscì al buio, perché le tenebre dello spirito sono più dense, proprio come il buio è tenebra più profonda dell’oscurità della notte. Difatti, per quanto fonda possa essere una notte, tuttavia si scorge qualcosa, mentre al buio non si vede nulla. Così nella notte dei sensi c’è ancora qualche luce, perché operano, senza essere accecati, l’intelletto e la ragione. Nella notte dello spirito, ossia nella fede, invece, vi è totale privazione di luce sia nell’intelletto che nei sensi. Per questo motivo l’anima afferma che camminava al buio e più sicura, cosa che non faceva nell’altra notte. Quanto meno essa si affida alle sue capacità naturali, tanto più avanza sicura, perché procede nella fede. Ciò è quanto verrà esposto diffusamente in questo libro II. Sarà, perciò, necessario che il devoto lettore ponga attenzione, perché in esso dirò cose molto importanti circa il vero spirito. E sebbene queste verità presentino qualche difficoltà a essere comprese, tuttavia esse sono collegate così bene tra loro che la conoscenza di una parte apre alla comprensione delle altre, in modo che si possa capire tutto molto bene.

 

CAPITOLO 2

Ove si comincia a parlare della seconda parte o causa della notte, che è la fede. Con due argomenti si prova che questa è più oscura della prima e della terza

1. Ora è il momento di trattare della seconda parte di questa notte, cioè della fede. Questa è, come ho detto, il meraviglioso mezzo per arrivare al fine che è Dio, che, a sua volta, costituisce per l’anima la terza causa o parte di questa notte. La fede, infatti, in quanto mezzo, può essere paragonata alla mezzanotte. Si può allora dire che per l’anima questa parte della notte è più oscura della prima e, in un certo senso, della terza. La prima, infatti, cioè la notte dei sensi, è paragonata alla prima parte della notte, quando scompaiono dalla vista tutti gli oggetti materiali, senza però che la luce scompaia del tutto, come accade invece a mezzanotte. La terza parte, che corrisponde all’aurora, quando ormai si è prossimi alla luce del giorno, non è così oscura come la mezzanotte, perché precede immediatamente l’irradiazione e lo splendore della luce diurna ed è paragonata a Dio. Infatti, da un punto di vista naturale, è pur vero che Dio per l’anima è come una notte oscura quanto la fede. Tuttavia, allorché l’anima ha attraversato queste tre parti naturali della notte, Dio comincia a illuminarla soprannaturalmente con i raggi della sua luce. È l’inizio dell’unione perfetta che si realizza al termine della terza notte, ragion per cui si può dire che questa sia meno oscura delle altre.

2. La notte della fede è ancora più oscura della prima, perché, mentre questa riguarda la parte inferiore, cioè i sensi dell’uomo, e per conseguenza è più esterna, quella della fede riguarda la parte superiore o razionale dell’uomo. Questa è, quindi, più interiore e più oscura, perché priva l’anima della luce della ragione o, per meglio dire, l’acceca. A buon diritto, perciò, è paragonata alla mezzanotte, che è la parte culminante e più buia della notte.

3. Ora devo provare come questa seconda parte, cioè la fede, sia una notte per lo spirito, come la prima lo è per i sensi. Parlerò, poi, degli ostacoli che la fede incontra e come l’anima debba disporsi attivamente per entrare in essa. Del suo aspetto passivo, cioè di quanto Dio faccia per introdurla in questa notte, senza il concorso dell’anima, tratterò a suo luogo, cioè nel libro terzo.

 

CAPITOLO 3

Ove si dimostra con argomenti, autorità e figure della sacra Scrittura come la fede sia una notte oscura per l’anima.

1. I teologi affermano che la fede è un abito certo e oscuro dell’anima. È abito oscuro perché induce a credere verità rivelate da Dio stesso, che sono al di sopra di ogni luce naturale e superano oltre misura ogni umana comprensione. Ne consegue che la luce eccessiva della fede è per l’anima profonda oscurità, perché il più assorbe e vince il meno, come la luce del sole eclissa qualsiasi altra luce, al punto che questa scompare quando quella risplende vincendo la nostra potenza visiva. In tal modo questa rimane piuttosto accecata e priva della vista, perché la luce che riceve è sproporzionata ed eccessiva. Allo stesso modo la luce della fede, per sua natura ha come oggetto solo la scienza naturale. Tuttavia l’anima è in grado di accogliere quella soprannaturale, qualora il Signore voglia elevarla a tale ordine.

2. Ne consegue che l’intelletto, di per sé, può conoscere solo per via naturale, cioè solo ciò che raggiunge attraverso i sensi. Ma a tale scopo esso ha bisogno dei fantasmi e delle immagini offertigli dagli oggetti realmente presenti o che a loro somigliano. Senza questa mediazione non vi è conoscenza alcuna, perché, come dicono i filosofi, ab obiecto et potentia paritur notitia, cioè ogni cognizione umana nasce con il concorso dell’oggetto presente e delle potenze. Per esempio, se a uno dicessero che in una certa isola esiste un animale che egli non ha mai visto e non gli indicano qualche somiglianza di quell’animale con un altro da lui conosciuto, sebbene s’insista a parlargliene, non ne avrà un’idea più chiara di prima. Con un esempio ancor più chiaro si potrà capire meglio. Se a un cieco nato, che non ha mai visto alcun colore, si volesse descrivergli il bianco o il giallo, per quanto si insista, egli non se ne potrà mai fare un’idea, perché non ha mai visto quei colori né qualcosa di simile; gliene rimarrà solo il nome, che ha potuto sentire con l’udito, ma non la forma e la figura, che non ha mai visto.

3. Lo stesso è della fede per l’anima: essa ci propone cose che non abbiamo mai visto né compreso sia in se stesse che in altre cose simili a loro, perché non esistono. Di tale fede, quindi, non possiamo farci un’idea attraverso la nostra scienza naturale, perché ciò che ci propone non è proporzionato a nessuna potenza sensitiva. Noi lo apprendiamo solo per sentito dire, credendo ciò che la fede c’insegna, sottomettendo ad essa e mettendo da parte la nostra luce naturale. Difatti san Paolo afferma: Fides ex auditu: La fede dipende dall’udire la predicazione (Rm 10,17), quasi a voler dire che la fede non è una scienza che si ottiene tramite i sensi, ma è solo assenso dell’anima a ciò che essa percepisce attraverso l’udito.

4. La fede, inoltre, supera di molto quanto ci possono far capire i precedenti esempi. Infatti non solo non offre conoscenze e scienza, ma, come ho detto, oscura e priva l’anima di qualsiasi altra conoscenza e scienza, perché si possa ben calcolare la sua funzione in questa parte della notte. Le altre scienze, infatti, si acquistano con la luce dell’intelletto, senza la quale, invece, si acquista la luce della fede; quando, anziché rinnegare la ragione, la si adopera, la fede viene meno. Per questo Isaia dice: Si non credideritis, non intelligetis, cioè: Se non crederete, non comprenderete (Is 7,9). È, dunque, chiaro che la fede è notte oscura per l’anima, e solo così la illumina; quanto più l’ottenebra, tanto più luce le comunica, perché, accecandola, le dà luce, come dice Isaia: Perché, se non crederete, non comprenderete, cioè non avrete luce. Per questo motivo, la fede è raffigurata da quella nube che divideva i figli d’Israele dagli egiziani, al momento di entrare nel Mar Rosso. Di essa la sacra Scrittura dice che erat nubes tenebrosa et illuminans noctem (Es 14,20), per significare che quella nube era tenebrosa e illuminava la notte.

5. Stupisce che quella nube, pur essendo tenebrosa, illuminasse la notte. Questo perché la fede, che è nube oscura per l’anima – che a sua volta è notte, perché in presenza della fede rimane priva e cieca della sua luce naturale –, con le sue tenebre rischiara e dà luce alle tenebre dell’anima. Del resto è opportuno che il discepolo, cioè l’anima, sia simile al maestro, cioè alla fede. L’uomo immerso nelle tenebre non può essere giustamente illuminato che da alte tenebre, come ci insegna Davide, quando afferma: Dies diei eructat verbum et nox nocti indicat scientiam, cioè: Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia (Sal 18,3). In termini più chiari ciò vuol dire: il giorno, che è Dio nella sua beatitudine, ove è come il giorno per gli angeli e i santi che a loro volta sono giorno per i riflessi divini, pronuncia e comunica la Parola, il suo Figlio, perché lo conoscano e lo godano. La notte, che è la fede nella Chiesa militante, dov’è ancora notte, comunica la scienza alla Chiesa, quindi a ogni anima, che è notte, perché non gode della chiara sapienza beatifica, come pure della sua luce naturale a motivo della fede in essa presente.

6. Da ciò dobbiamo concludere che la fede, essendo notte oscura, dà luce all’anima, che vive al buio, perché si realizzi ciò che Davide dice a questo proposito: Nox illuminatio mea in deliciis meis, cioè: La notte è chiara come il giorno nelle mie delizie (Sal 138,11). Il che equivale a dire: nelle gioie della mia pura contemplazione e unione con Dio, la notte della fede sarà la mia guida. Con ciò egli fa capire chiaramente che l’anima deve tenersi nelle tenebre se vuole avere la luce necessaria per intraprendere questo cammino di unione con Dio.

 

CAPITOLO 4

Ove si dice, in maniera generale, come l’anima, per quanto dipende da essa, debba starsene al buio per essere ben guidata dalla fede sino ai vertici della contemplazione.

1. Credo, ormai, di aver fatto capire un po’ come la fede sia notte oscura per l’anima e, altresì, come questa debba rimanere all’oscuro della sua luce naturale per lasciarsi guidare dalla fede alla sublime meta dell’unione divina. Ma perché l’anima possa riuscire in questo, occorre adesso spiegare più dettagliatamente questa oscurità da cui essa deve lasciarsi avvolgere per accedere a questo abisso di fede. Per tale motivo, nel presente capitolo, parlerò in generale di detta virtù e più avanti, a Dio piacendo, indicherò più in particolare il modo da seguire per non smarrirsi in essa né ostacolarne la guida.

2. Affermo, quindi, che per farsi guidare in modo sicuro dalla fede verso questo stato di contemplazione l’anima non solo deve restare al buio nella sua parte sensitiva e inferiore, riguardante le cose create e quelle temporali, di cui ho già trattato, ma deve farsi cieca e porsi al buio anche nella sua parte razionale e superiore, quella riguardante Dio e le cose dello spirito, di cui ora parlerò. Per giungere alla trasformazione soprannaturale, è chiaro che l’anima debba mettersi al buio e trascendere tutto ciò che concerne la sua natura, tanto sensitiva che razionale. Soprannaturale, infatti, vuol significare proprio ciò che è sopra il naturale; di conseguenza, ciò che è naturale resta al di sotto. Ora, poiché la trasformazione e l’unione non dipendono né dai sensi né dall’abilità umana, l’anima deve, per quanto le è possibile, svuotarsi completamente e volontariamente di tutto ciò che dipende da lei, sia nella parte superiore che inferiore, cioè secondo l’affetto e la volontà. E allora chi potrà mai proibire a Dio di fare ciò che vuole in quest’anima docile, spogliata di tutto e nuda? Essa, però, deve svuotarsi di tutto ciò che può dipendere dalla sua abilità, in modo che, sebbene riceva molti doni soprannaturali, ne rimanga sempre distaccata e come ignara nei loro confronti, al pari di un cieco, aggrappandosi alla fede oscura, prendendola per guida e luce, senza appoggiarsi a cose che comprende, gusta, sente e immagina. Tutto questo, infatti, è tenebra che la fa sbagliare, mentre la fede è al di sopra di questo comprendere, gustare, sentire e immaginare. Se l’anima, dunque, non si fa cieca riguardo a tali cose, rimanendo completamente al buio, non arriverà mai a ciò che è superiore, cioè a quello che insegna la fede.

3. Chi non è cieco del tutto, non si lascia condurre volentieri dalla sua guida, ma, per quel poco che vede, ritiene sia meglio seguire la strada che intravede appena, perché non ne scorge altre migliori; in tal modo potrebbe far sbagliare anche la sua guida che vede meglio di lui, perché, in fondo, comanda più lui che il suo accompagnatore. Così pure accade all’anima. Se si avvale di qualche sua conoscenza, di qualche suo gusto o sentimento di Dio, per quanto ottime mediazioni, sono sempre poca cosa e impari all’Essere divino; si sbaglia facilmente nel seguire tale cammino o si arresta, perché non vuole affidarsi, completamente cieca, alla fede che è la sua vera guida.

4. La sacra Scrittura ci vuole dire proprio questo quando afferma: Accedentem ad Deum oportet credere quod est, cioè: Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste (Eb 11,6). In altri termini, chi vuole arrivare all’unione con Dio non deve appoggiarsi sulla propria conoscenza umana, né attaccarsi ai gusti, ai sensi, all’immaginazione, ma credere che Dio esiste, verità questa che non può essere afferrata né dall’intelletto né dagli appetiti né dall’immaginazione né da qualunque altra sensazione. Dio non può essere conosciuto, in questa vita, così com’è. Anzi, in questa vita il massimo che si possa percepire e gustare, ecc., di Dio, è infinitamente distante dalla sua realtà e dal suo puro possesso. Isaia e san Paolo dicono: Nec oculus vidit, nec auris audivit, neque in cor hominis ascendit, quae preparavit Deus iis qui diligunt illum: Quelle cose che occhio non vide né orecchio udì né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano (1Cor 2,9; cfr. Is 64,3). Come può l’anima pretendere di unirsi per grazia perfettamente in questa vita a Colui con il quale sarà unita per gloria nell’altra, realtà, questa, che, come dice san Paolo, occhio non vide né orecchio udì né entrò in cuore di uomo? È chiaro che per giungere in questa vita a unirsi a Dio per mezzo della grazia e di un amore perfetto, l’anima dev’essere all’oscuro di tutto quanto può passare attraverso l’occhio, di tutto ciò che può ricevere tramite l’orecchio e può essere immaginato con la fantasia e compreso con il cuore, che in questo caso significa l’anima. Colui che è in cammino verso questo stato eccelso di unione con Dio, si crea gravi ostacoli ogni volta che si attacca a qualche suo pensiero, sensazione o immaginazione, al suo parere o alla sua volontà, al suo modo di agire o a qualsiasi altra cosa od opera propria, non riuscendo a distaccarsene e a privarsene del tutto. Come ho già detto, la meta a cui tende sorpassa tutte queste mediazioni, quantunque esse siano il meglio di quanto si possa sapere o gustare: rinunciando a tali mediazioni, egli deve cercare di non sapere nulla.

5. Pertanto, in questo cammino di unione, iniziare a camminare significa lasciare la propria via o, meglio, passare oltre; lasciare il proprio modo di agire significa entrare in ciò che non ha un modo, cioè in Dio. Difatti l’anima che perviene a tale unione non ha più modi o maniere personali, né tanto meno si attacca o può attaccarsi ad essi; intendo dire modi di capire, di gustare, di sentire. Pur possedendoli tutti in sé, agisce come chi non ha nulla e possiede tutto. Avendo avuto il coraggio di oltrepassare, interiormente ed esteriormente, i limiti della propria natura, entra nei confini del soprannaturale che non ha alcun modo, poiché nella sostanza li racchiude tutti. Ne segue che, per giungere a questo stato, occorre uscire dalla propria condizione e, in ogni caso, allontanarsi molto da se stessi, da tanta bassezza per tendere verso l’assoluta altezza.

6. Andando oltre tutto ciò che può conoscere o intendere, sia spiritualmente che naturalmente, l’anima deve desiderare con tutte le sue forze di giungere a ciò che in questa vita non può conoscere né può gustare nel suo cuore. Lasciando, inoltre, dietro di sé tutto ciò che gusta, sente e può gustare e sentire in questa vita attraverso i sensi e lo spirito, deve desiderare con tutte le forze di raggiungere ciò che sorpassa ogni sentimento e ogni gusto. Per restare libera e vuota in vista di tale scopo, l’anima non deve assolutamente contare su ciò che può accogliere nella sua parte spirituale o sensitiva, come dirò presto quando spiegherò questo punto in particolare. Infatti, quanto più pensa a ciò che essa comprende, gusta e immagina, quanto più dà valore a tutto ciò, spirituale o meno, tanto minore stima pone nel Bene supremo e stenta a raggiungerlo. Al contrario, meno valore dà a ciò che può avere, per quanto possa essere considerevole, rispetto al sommo Bene, tanto più esalta e stima quest’ultimo e, di conseguenza, tanto più si avvicina ad esso. In questo modo, al buio, l’anima si avvicina a grandi passi all’unione divina per mezzo della fede. Pur essendo oscura anche quest’ultima, tuttavia le offre una luce meravigliosa. Se, però, l’anima volesse vedere Dio, rimarrebbe abbagliata davanti a lui molto più in fretta di chi spalanca gli occhi per vedere lo splendore del sole.

7. In questo cammino, quindi, l’anima vedrà la luce solo se accecherà le sue potenze, come il Signore afferma nel vangelo: In iudicium veni in hunc mundum: ut qui non vident, videant, et qui vident, caeci fiant, cioè: Sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi (Gv 9,39). Sono parole, queste, che, così come suonano, devono essere applicate al cammino spirituale. Insomma, occorre sapere che se l’anima si terrà nelle tenebre e farà a meno di tutte le luci proprie e naturali, vedrà in un modo soprannaturale; mentre quella che vorrà appoggiarsi su qualche luce personale, diventerà sempre più cieca e si attarderà nel cammino dell’unione.

8. Per procedere meno confusamente mi sembra necessario spiegare nel capitolo seguente che cosa sia quella che chiamiamo unione dell’anima con Dio. Una volta compresa questa, infatti, si farà molta luce su ciò che dirò in seguito. Credo, quindi, sia arrivato il momento di trattarne qui. Tale digressione non sarà inutile, perché, anche se si dovrà interrompere il filo del discorso, mediante ciò, a questo punto, farò luce proprio su questo argomento. Il capitolo che segue sarà, dunque, come una parentesi, posta dentro uno stesso sillogismo retorico, perché subito dopo parlerò, in particolare, delle tre potenze dell’anima e delle rispettive virtù teologali nell’ambito di questa seconda notte.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/09/2012 17:42
 
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CAPITOLO 5

Ove si spiega con un paragone in che cosa consiste l’unione dell’anima con Dio.

1. Da quanto è stato detto si può in qualche modo arguire che cosa s’intende qui per unione dell’anima con Dio; è possibile, così, comprendere meglio ciò che ora esporrò. Non è mia intenzione trattare delle sue distinzioni né delle sue parti, perché non finirei più se mi mettessi a spiegare che cosa sia l’unione dell’intelletto, quella della volontà o quella della memoria, o ancora che cosa sia l’unione transeunte o quella permanente di suddette facoltà o di tutte e tre prese insieme. Ne parlerò nel corso della trattazione, quando si presenterà l’occasione, perché ora non aiuterebbe a capire ciò che occorre dire di esse, mentre lo capiremo molto meglio a suo luogo, allorché, trattando questo argomento, avremo sotto mano l’esempio vivo insieme alla presente teoria; allora si potrà esaminare e comprendere meglio ogni cosa e se ne potrà meglio giudicare.

2. Ora voglio solo parlare dell’unione totale e permanente dell’anima, secondo la sua sostanza e le sue potenze, immerse nell’oscurità abituale di tale unione. In seguito, con l’aiuto di Dio, dirò che l’atto non può determinare un’unione permanente delle potenze in questa vita, ma solo transeunte.

3. Per comprendere, dunque, bene la natura dell’unione di cui sto parlando, occorre sapere che Dio dimora ed è presente sostanzialmente in qualsiasi anima, anche in quella del peggior peccatore del mondo. Questa sorta di unione tra Dio e tutte le creature sussiste sempre; per mezzo di essa, egli le sostiene nella loro esistenza; se la sua presenza negli esseri creati venisse meno, essi cadrebbero nel nulla e cesserebbero di esistere. Quando, perciò, parlo di unione dell’anima con Dio, non mi riferisco a quella sostanziale, che vige sempre, ma all’unione e trasformazione dell’anima in Dio, che si verifica solo quando viene a crearsi somiglianza d’amore. Questa, perciò, si può chiamare unione di somiglianza, l’altra, invece, unione essenziale o sostanziale: questa è naturale, quella soprannaturale e ha luogo quando le due volontà, quella dell’anima e quella di Dio, sono d’accordo tra loro, senza che nulla dell’una ripugni all’altra. Quando, dunque, l’anima cancella in sé tutto ciò che ripugna o non è conforme alla volontà divina, allora è trasformata in Dio per amore.

4. Tale spogliamento si riferisce non solo agli atti che ripugnano a Dio, ma anche alle abitudini. Così l’anima deve respingere non solo gli atti volontari imperfetti, ma deve annullare qualsiasi abitudine che ha relazione con essi. Poiché ogni cosa creata, azione e capacità umana non può raggiungere né avvicinarsi a ciò che è Dio, l’anima deve spogliarsi di ogni cosa creata, azione e capacità, cioè del suo modo di comprendere, di gustare e di sentire. Solo così, eliminato tutto ciò che non somiglia o non è conforme a Dio, non restandole altro che la sua volontà, essa può raggiungere la somiglianza con lui e la trasformazione in lui. Sebbene sia vero, come ho detto, che Dio è sempre nell’anima per darle e conservarle l’essere naturale con la sua presenza, tuttavia non sempre le comunica l’essere soprannaturale. Questo viene partecipato solo per amore e per grazia, che non tutte le anime possiedono in ugual misura; alcune hanno un grado maggiore di amore, altre un grado inferiore. Per questo, Dio si comunica maggiormente all’anima più avanti nell’amore, cioè quella che ha la volontà più conforme alla sua volontà. L’anima, la cui volontà è pienamente conforme e simile a quella di Dio, è completamente unita a lui e soprannaturalmente in lui trasformata. Da quanto è stato detto risulta che, quanto più un’anima è sedotta, affettivamente e abitualmente, dalle creature e dalle proprie capacità, tanto meno è disposta a tale unione, perché non offre totalmente a Dio la possibilità di trasformarla soprannaturalmente. L’anima, quindi, non deve fare altro che spogliarsi di quanto è opposto e dissimile, sul piano naturale, a Dio, perché questi, che le si è già comunicato naturalmente per mezzo della natura, le si conceda soprannaturalmente per grazia.

5. Questo è quanto ha voluto farci comprendere san Giovanni quando ha detto: Qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, nec ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (Gv 1,13). È come se volesse dire: ha dato potere di diventare figli di Dio, cioè di trasformarsi in lui, solo a coloro che non sono nati dal sangue, cioè dall’unione e composizione di elementi naturali, e neppure dalla volontà della carne, cioè dall’arbitrio dell’abilità e della capacità naturale, tanto meno dalla volontà dell’uomo. Simili espressioni alludono a tutti i modi umani di giudicare e di comprendere con la ragione. A nessuno di costoro, dunque, ha dato potere di diventare figli di Dio, ma solo a quelli che sono nati da lui, cioè a coloro che, morti a tutto ciò che è uomo vecchio e rinati, quindi, nella grazia, si elevano al di sopra di se stessi sino al soprannaturale, ricevendo da Dio tale rinascita e filiazione, superiore a tutto ciò che si possa immaginare. Per questo motivo, altrove lo stesso san Giovanni afferma: Nisi quis renatus fuerit ex aqua, et Spiritu Sancto, non potest videre regnum Dei, cioè: Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5), che è lo stato di perfezione. Rinascere nello Spirito Santo in questa vita significa avere un’anima molto simile a Dio per purezza, senza avere in sé alcuna mescolanza d’imperfezione. Solo così può realizzarsi una pura trasformazione dell’anima in Dio per partecipazione d’unione, anche se ciò non avviene sul piano dell’essenza.

6. Per poter comprendere meglio questa verità, ricorro a un paragone. Un raggio di sole batte su una vetrata; se questa ha delle macchie o è appannata, il sole non può illuminarla e trasformarla totalmente nella sua luce, come accadrebbe, invece, se fosse nitida e senza tutte quelle macchie. Anzi, tanto meno la illuminerà quanto meno sarà smacchiata e pulita, e, viceversa, quanto più sarà tersa tanta maggior luce riceverà. Ciò si verifica non per colpa del raggio, ma della vetrata stessa. Se, infatti, questa fosse completamente limpida e tersa, il raggio la trasformerebbe e la illuminerebbe a tal punto da essere identificata con il raggio stesso e da riflettere la sua stessa luce. In tal caso, però, pur essendo la vetrata identificata con il raggio, conserva sempre la sua natura distinta da esso; potremmo, però, dire che essa è raggio o luce per partecipazione. L’anima è come questa vetrata che è sempre investita dalla luce dell’essere divino, o meglio tale luce dimora sempre in essa per natura, come ho detto.

7. Quando l’anima fa spazio, cioè elimina in sé ogni ombra e macchia di cosa creata, tenendo la volontà perfettamente unita a quella di Dio – perché amare vuol dire cercare di spogliarsi e privarsi per Dio di tutto ciò che non è lui –, viene immediatamente illuminata e trasformata in Dio. Questi, allora, le comunica il suo essere soprannaturale, in modo che quella sembra Dio stesso e possiede ciò che possiede Dio. L’unione che s’instaura, quando Dio concede all’anima tale grazia soprannaturale, produce una trasformazione partecipativa tale che tutte le cose di Dio e l’anima costituiscono una sola cosa. L’anima assomiglia più a Dio che a se stessa, addirittura è Dio per partecipazione. È pur vero, però, che il suo essere, anche se trasformato, resta per natura distinto da Dio come prima; proprio come la vetrata che, pur essendo illuminata dal raggio di sole, ne rimane pur sempre distinta.

8. Da ciò risulta più chiaro che i mezzi a disposizione dell’anima per arrivare a tale unione, come si diceva prima, non consistono nel capire, nel gustare, nel sentire, nell’immaginare Dio, né in qualsiasi altra attività umana, ma nella purezza e nell’amore, cioè nello spogliamento e nella rinuncia assoluta a tutto per amore di Dio. Ora, poiché non si può dare trasformazione perfetta se non vi è perfetta purezza, l’illuminazione e l’unione dell’anima con Dio saranno più o meno intense e proporzionate alla purezza dell’anima. Tale unione, ripeto, non sarà perfetta fintanto che l’anima non sarà del tutto perfetta, pura e limpida.

9. Il paragone seguente ci aiuterà a capire quanto ho detto. Pensiamo a un’immagine ben rifinita, dai numerosi e sublimi pregi e dai delicati e fini smalti, alcuni dei quali si possono appena distinguere per la loro delicatezza e perfezione. Ora, chi ha una vista poco chiara e imperfetta riuscirà a scorgere solo qualcosa dell’arte e della finezza di quell’immagine; chi, invece, ha una vista migliore vi scoprirà maggiori perfezioni; chi, infine, ha una vista molto acuta vi vedrà bellezze e perfezioni più degli altri. Nell’immagine, infatti, vi è tanto da vedere che, malgrado tutto quello che si è potuto ammirare, più si ammira, più resta da ammirare.

10. Possiamo dire che le anime si comportano con Dio allo stesso modo, quando vengono da lui illuminate e trasformate. Se è vero che ogni anima, a seconda della sua poca o molta capacità, può giungere a quest’unione, non tutte però vi pervengono con lo stesso grado d’intensità, perché ciò dipende dalla volontà del Signore. Accade loro come ai santi in cielo: alcuni contemplano più e altri meno, ma tutti vedono Dio e sono contenti, perché tutta la loro capacità ricettiva è appagata.

11. Da ciò risulta altresì che, quantunque in questa vita vi siano anime che nello stato di perfezione godono uguale pace e tranquillità e ognuna di esse è soddisfatta, tuttavia alcune possono essere molto più elevate di altre, ma tutte sono totalmente contente, in quanto tutta la loro capacità è soddisfatta. Ma l’anima che non raggiunge una purezza proporzionata alle sue capacità, non conseguirà mai la vera pace e soddisfazione, perché non ha operato quello spogliamento e quel vuoto nelle sue potenze, necessari per l’unione semplice con Dio.

 

CAPITOLO 6

Ove si spiega come le tre virtù teologali abbiano il compito di perfezionare le tre potenze dell’anima, producendo in esse il vuoto e le tenebre.

1. Esporrò ora il modo d’introdurre le tre potenze dell’anima, cioè l’intelletto, la memoria e la volontà, in questa notte dello spirito, che conduce all’unione con Dio. Per prima cosa è necessario spiegare, in questo capitolo, come le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, che sono propriamente gli oggetti soprannaturali di dette potenze, mediante le quali l’anima si unisce a Dio, creano, ognuna nella rispettiva potenza, lo stesso vuoto e la stessa oscurità: la fede nell’intelletto, la speranza nella memoria e la carità nella volontà. In seguito si vedrà come l’intelletto debba perfezionarsi nelle tenebre della fede, la memoria nel vuoto della speranza e come la volontà si debba fortificare nell’assenza e nello spogliamento di ogni affetto per unirsi a Dio. Detto questo, apparirà chiaro quanto bisogno ha l’anima di percorrere sicura questo cammino spirituale, di passare per questa notte oscura, appoggiandosi a queste tre virtù, che la svuotano di tutte le cose e la tengono al buio nei loro confronti. Difatti, come ho già detto, l’anima in questa vita non si unisce a Dio per mezzo di ciò che può comprendere, godere o immaginare, né tramite qualsiasi altra sensazione, ma solo mediante la fede, la speranza e la carità in rapporto all’intelletto, alla memoria e alla volontà.

2. Queste tre virtù, ripeto, creano il vuoto nelle potenze: la fede crea il vuoto nell’intelletto, impedendogli di comprendere; la speranza spoglia di ogni possesso la memoria; e la carità opera il vuoto nella volontà per spogliarla di ogni affetto e piacere riguardo a tutto ciò che non è Dio. La fede, già lo sappiamo, ci parla di cose che non possiamo capire con l’intelletto. Di essa così si afferma nella lettera agli Ebrei: Fides est sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium (Eb 11,1). Per quanto riguarda il nostro argomento, queste parole vogliono dire che la fede è sostanza delle cose che si sperano. Sebbene l’intelletto aderisca alle cose sperate con ferma certezza, tuttavia non riesce a comprenderle, perché, se le penetrasse, non vi sarebbe più fede. Questa, infatti, benché dia certezza all’intelletto, non gli offre chiarezza, ma solo oscurità.

3. Quanto alla speranza, non v’è dubbio che essa crei vuoto e oscurità anche nella memoria circa le cose di questa e dell’altra vita. Difatti la speranza ha per oggetto le cose che non si possiedono, perché, se si possedessero, non ci sarebbe più speranza. Per questo san Paolo dice nella lettera ai Romani: Spes, quae videtur, non est spes; nam quod videt quis, quid sperat?: Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede o possiede, come potrebbe ancora sperarlo? (Rm 8,24). Anche questa virtù, quindi, crea vuoto, perché ha per oggetto ciò che non si ha, non ciò che si ha.

4. La carità crea, ugualmente, nella volontà il vuoto rispetto a tutte le cose create, perché ci obbliga ad amare Dio più di tutte le cose. Ciò si ottiene distaccando da esse ogni affetto per riporlo unicamente in Dio. In Luca Cristo dice: Qui non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus, che vuol dire: Chi non rinunzia a tutti i suoi averi, con la volontà, non può essere mio discepolo (Lc 14,33). È così che tutt’e tre queste virtù pongono l’anima nell’oscurità e nel vuoto rispetto a tutte le cose.

5. È bene ricordare a questo punto la parabola del Signore trasmessa nel vangelo di Luca, dove si parla di un uomo che andò da un suo amico a mezzanotte per chiedergli tre pani (Lc 11,5), che rappresentano le tre virtù. Il testo riferisce che l’amico andò a chiedere questi tre pani  a mezzanotte. Ciò significa che l’anima, al buio di tutte le cose, ove terrà le sue potenze, dovrà acquisire queste tre virtù e, in questa notte, dovrà perfezionarsi in esse. Nel capitolo 6 di Isaia (v. 2) leggiamo che il profeta vide due serafini ai lati di Dio, ognuno con sei ali, due delle quali coprivano i loro piedi, a significare la cecità e l’annullamento degli affetti della volontà in tutte le cose per amore di Dio; altre due coprivano i loro volti, e significano le tenebre dell’intelletto di fronte a Dio; mentre con le altre due volavano: questo è il volo della speranza verso le cose che non si possiedono, al di sopra di tutto ciò che non si può avere quaggiù e lassù, eccetto Dio.

6. Le tre potenze dell’anima, dunque, devono tendere verso queste tre virtù, in modo che ciascuna di quelle sia informata dalla virtù corrispondente; occorre tenere al buio e spogliare le potenze di tutto ciò che è estraneo a queste tre virtù. Tale è la notte dello spirito, che ho chiamato attiva, perché l’anima fa ciò che le è possibile per entrarvi. Come nella notte dei sensi ho indicato il modo per liberare, secondo l’appetito, le potenze sensitive dai loro oggetti sensibili, perché l’anima possa passare dal suo ambito verso il campo della fede, così in questa notte dello spirito spiegherò, con l’aiuto di Dio, il modo con cui le potenze spirituali si svuotano e si purificano da tutto ciò che non è Dio e si mantengono nell’oscurità di queste tre virtù, che, ripeto, sono il mezzo e la disposizione adeguata perché l’anima possa unirsi a Dio.

7. In tal modo l’anima troverà perfetta sicurezza contro le astuzie del demonio e contro la forza dell’amor proprio e le sue ramificazioni così sottili, da ingannare e ostacolare il cammino delle persone spirituali. In realtà, questa non sanno spogliarsi di ogni bene creato e regolarsi secondo queste tre virtù. Per questo non riescono mai a raggiungere il bene spirituale nella sua sostanza e nella sua purezza, né percorrono quel cammino diritto e breve che potrebbero seguire.

8. Occorre ricordare che ora vorrei rivolgermi specialmente a coloro che hanno cominciato a entrare nello stato di contemplazione, perché per i principianti sarà necessario trattare questo argomento più a lungo, come farò nel libro secondo, con l’aiuto di Dio, quando parlerò delle loro disposizioni.

 

CAPITOLO 7

Ove si mostra quanto sia angusto il sentiero che porta alla vita eterna e quanto spogli e liberi debbano essere coloro che vogliono percorrerlo. S’incomincia a parlare della notte dell’intelletto.

1. Per trattare ora in modo adeguato dello spogliamento e della purezza delle tre potenze dell’anima sarebbero necessarie una mente e una scienza superiore a quelle che possiedo io, così da far capire alle persone spirituali quanto stretto sia questo cammino che, secondo le parole del Signore, conduce alla vita. Una volta persuase di questa verità, esse non si meraviglieranno del vuoto e della nudità in cui devono lasciare le potenze dell’anima durante questa notte.

2. A tale proposito è opportuno considerare le parole del Signore riportate in san Matteo circa questo cammino: Quam angusta porta, et arcta via est, quae ducit ad vitam, et pauci sunt qui inveniunt eam, cioè: Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanto pochi sono quelli che la trovano! (Mt 7,14). Occorre notare che all’autorità di queste parole si aggiunge l’efficacia intensiva contenuta nella particella quam. È come se il Signore volesse dire: è davvero molto stretta, più di quanto pensiate! Va inoltre osservato come egli in primo luogo affermi che stretta è la porta, il che permette di capire che per entrare in questa porta di Cristo, che è l’inizio del cammino, l’anima deve anzitutto mortificare e spogliare la sua volontà di tutte le cose sensibili e temporali, amando Dio al di sopra di tutto. Questo lavoro si compie nella notte dei sensi, di cui si è già parlato.

3. Subito dopo aggiunge che angusta è la via, cioè quella della perfezione. Con tale espressione vuol far capire che per avanzare nel cammino della perfezione l’anima non solo deve passare attraverso la porta stretta, privandosi dei beni sensibili, ma deve altresì mortificarsi, espropriarsi e sbarazzarsi completamente dei beni spirituali. Ciò che dice della porta stretta va, quindi, riferito alla parte sensitiva della persona, e a quella spirituale o razionale ciò che dice della via angusta. La causa, poi, dell’espressione: Pochi sono quelli che la trovano, va ricercata nel fatto che pochi sanno e vogliono entrare in questa estrema nudità e vuoto dello spirito. Poiché questo sentiero verso il sublime “Monte della perfezione” sale verso l’alto ed è angusto, può essere percorso soltanto da viandanti che non portano pesi aggravanti la parte inferiore, cioè i sensi, né impedimenti che ingombrano quella superiore, cioè lo spirito. Poiché si tratta di un impegno in cui si cerca e si raggiunge solo Dio, Dio solo va cercato e posseduto.

4. Da ciò risulta chiaro che l’anima deve sbarazzarsi non solo di ogni affezione verso le cose create, ma deve altresì essere libera e distaccata dai beni riguardanti il suo spirito. Per istruirci e guidarci in questo cammino il Signore, nel vangelo di san Marco, c’insegna quella mirabile dottrina che è tanto meno praticata dalle persone spirituali quanto più è loro necessaria. Per questo motivo e poiché fa al nostro caso, la riporto tutta, spiegandone il genuino e spirituale significato. Il Signore afferma, dunque, così: Si quis vult me sequi, deneget semetipsum, et tollat crucem suam, et sequatur me. Qui enim voluerit animam suam salvam facere, perdet eam: qui autem perdiderit animam suam propter me… salvam faciet eam, cioè: Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà (Mc 8,34-35).

5. Oh!, chi potrà far comprendere, praticare e gustare tutta l’importanza di questo consiglio del nostro Salvatore? Egli chiede di rinnegare se stessi, affinché le persone spirituali vedano quanto il modo di comportarsi in tale cammino sia diverso da quello che molte di loro immaginano. Alcune, infatti, pensano che basti una qualsiasi forma di ritiro o di riforma della vita; altre si limitano a esercitarsi in qualche modo nella virtù, nella pratica dell’orazione e della mortificazione, ma senza arrivare allo spogliamento e alla povertà, all’abnegazione e alla purezza spirituale – che sono un tutt’uno – consigliatici qui dal Signore. Si preoccupano, infatti, più di nutrire e ricoprire la loro natura di consolazioni e sentimenti spirituali che di spogliarla e privarla di ogni conforto per amore di Dio. Pensano che basti mortificarla nei piaceri del mondo e non che debba essere annientata e purificata anche nella sua parte spirituale. Avviene dunque che, quando si presenta loro l’opportunità di compiere un atto di virtù solido e perfetto, come l’annullamento di ogni soavità in Dio, la permanenza nell’aridità, nelle avversioni, nelle sofferenze – cose in cui consiste la pura croce spirituale, la nudità e la povertà di spirito del Cristo –, tali persone rifuggono tutto questo come se fosse la morte e vanno solo in cerca di dolcezze e soavità nei rapporti con Dio. Ma questo non è rinnegare se stessi né nudità di spirito, bensì golosità spirituale! Agendo così, esse si rendono nemiche della croce di Cristo (Fil 3,18), perché il vero spirito cerca nel Signore più l’amaro che il dolce, propende più per la sofferenza che per la consolazione, più per la mancanza di ogni bene per amore di Dio che per il possesso, più per le aridità e le afflizioni che per le dolci comunicazioni, sapendo che questo significa seguire Cristo e rinnegare se stessi; il resto, invece, è cercare se stessi in Dio, cosa molto contraria all’amore. Infatti, cercare se stessi in Dio significa ricercare i doni e le consolazioni di Dio, mentre cercare unicamente Dio non è solo voler rinunciare a tutto per amore di Dio, ma essere propensi a scegliere per Cristo quanto di più disgustoso vi possa essere, sia da parte di Dio che del mondo. Questo è amore di Dio.

6. Chi potrà far comprendere fin dove il Signore vuole che arrivi questa rinuncia? Essa dev’essere, certamente, come una morte e un totale annientamento temporale, naturale e spirituale in relazione alla volontà, nella quale si opera ogni rinuncia. Ciò è quanto intende dirci il Signore quando afferma: Chi ama la sua vita la perde (Gv 12,25), cioè: chi vorrà possedere qualcosa o ricercarla e tenerla gelosamente per sé, la perderà. Ma chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà (Mt 10,39, cioè: chi per amore di Cristo rinuncia a tutto ciò che può desiderare e gustare, scegliendo ciò che più assomiglia alla croce – il Signore stesso nel vangelo di san Giovanni chiama quest’atteggiamento odiare la propria vita (Gv 12,25) –, costui la guadagnerà. Tale è l’insegnamento che il Signore offrì a quei due discepoli che gli chiedevano di sedere alla sua destra e alla sua sinistra. Egli non diede loro alcuna speranza di raggiungere la gloria richiesta, ma offrì il calice, che egli stesso avrebbe bevuto, come la cosa più preziosa e più sicura su questa terra, piuttosto che il godimento (Mt 20,20-22).

7. Bere questo calice significa morire alla propria natura, spogliandola e mortificandola in tutto ciò che riguarda i sensi, come ho detto, e in tutto ciò che riguarda lo spirito, come ora dirò, cioè nel suo modo d’intendere, di gustare e di sentire, perché la persona possa camminare per lo stretto sentiero. Così non solo sarà liberata da ciò che viene dai sensi e dallo spirito, ma, in ciò che riguarda quest’ultimo, essa non inciamperà in nessun ostacolo lungo l’angusto cammino. Qui, infatti, c’è posto solo per l’abnegazione – come lascia intendere il Signore – e per la croce, il bastone cui appoggiarsi, che rende il cammino più facile e agevole. Per questo il Signore afferma nel vangelo di san Matteo: Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero (Mt 11,30). Il giogo è la croce che l’uomo deve impegnarsi a portare, il che significa decidersi davvero a voler cercare e sopportare ogni sorta di fatiche per amore di Dio. Solo così troverà in esse grande sollievo e dolcezza nel percorrere questo cammino, privo di tutto, senza volere nulla. Se, invece, pretende di appropriarsi di qualcosa, proveniente da Dio o da altrove, non procede spoglio e distaccato da tutto e, pertanto, non potrà imboccare né percorrere questo stretto sentiero sino alla vetta.

8. Per questo motivo vorrei convincere le persone spirituali circa il fatto che questo cammino che porta a Dio non consiste nella molteplicità delle meditazioni, nei metodi, negli esercizi, nei gusti – sebbene tutto questo sia in qualche modo necessario ai principianti –, ma in una sola cosa indispensabile: nel saper rinnegare davvero se stessi, esteriormente e interiormente, offrendosi alla sofferenza per amore di Cristo e annientandosi in tutto. Esercitandosi in tali cose, si possono acquisire tutti quei beni e di più grandi; se, invece, si trascurano, siccome esse sono compendio e radice delle virtù, ogni altra pia pratica è dispersione inutile, anche se quelle persone abbiano meditazioni e comunicazioni pari a quelle degli angeli. In realtà, si fa progresso solo imitando Cristo, che è la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me, come dice egli stesso nel vangelo di Giovanni (Gv 14,6). E altrove: Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo (Gv 10,9). Di conseguenza, non riterrei per buono quello spirito che volesse camminare attraverso dolesse e agiatezze, e rifiutasse d’imitare Cristo.

9. Ho detto che Cristo è la via, e questa via è la morte alla nostra natura sia sensitiva che spirituale. Ora voglio far comprendere come questo avvenga in noi, a imitazione di Cristo nostro modello e nostra luce.

10. In primo luogo è certo che egli morì ai sensi, in modo spirituale, durante la sua vita, e fisicamente, alla fine della sua vita, poiché, come egli stesso afferma, in vita non aveva dove posare il capo (Mt 8,20) né tanto meno lo ebbe in croce.

11. In secondo luogo è certo che Cristo al momento della morte fu annientato anche nell’anima, quando fu lasciato senza conforto e sollievo alcuno, abbandonato dal Padre nella più profonda aridità affettiva. Allora egli sentì il bisogno di gridare: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46). Questo fu l’abbandono più desolante, a livello affettivo, da lui provato durante la sua vita. In esso, però, compì l’opera più grande di tutta la sua vita, quella che sorpassa i miracoli e ogni altro evento compiuto sulla terra e in cielo, cioè la riconciliazione del genere umano la sua unione con Dio per mezzo della grazia. Come dico, tutto questo accadde nel tempo e nel momento in cui nostro Signore toccò il massimo dell’annientamento: nella stima degli uomini, che vedendolo morire, anziché apprezzarlo, si burlavano di lui; nella natura, per mezzo della quale si annientò morendo; nel sostegno e nel conforto spirituale del Padre, che in quella circostanza lo abbandonò, affinché pagasse interamente il debito e unisse l’uomo a Dio, lasciandolo annientato e ridotto quasi a nulla. Davide dice di lui: Ad nihilum redactus sum, et nescivi: Ero ridotto un niente e non capivo (Sal 72,22). Comprenda, perciò, l’uomo spirituale il mistero della porta e della via di Cristo per unirsi a Dio e sappia che quanto più per amor suo si annienterà, nelle sue parti sensitiva e spirituale, tanto più si unirà a Dio e più grande sarà la sua opera. Quando si sarà ridotto al nulla, avrà cioè raggiunto l’estrema umiltà, allora realizzerà la sua unione spirituale con Dio, che è lo stato più grande ed elevato al quale si possa pervenire in questa vita. Tale unione non consiste, quindi, nelle gioie, nelle consolazioni o nei sentimenti spirituali, ma in una vera morte di croce, sensitiva e spirituale, cioè esteriore e interiore.

12. Non voglio dilungarmi oltre su questo argomento, anche se non smetterei mai di parlarne, perché vedo che Cristo è assi poco conosciuto da coloro che si considerano amici suoi. Li vediamo, infatti, cercare in lui dolcezze e consolazioni e amare molto se stessi, piuttosto che cercare le sue amarezze e la sua morte, segno di coloro che lo amano molto. Parlo di quelli che si ritengono suoi amici, non degli altri che vivono lontano e separati da lui, grandi letterati, potenti e tutti gli altri che vivono là nel mondo, preoccupati di soddisfare le loro ambizioni e le loro manie di grandezza, perché di costoro posso dire che non conoscono Cristo e che avranno una fine, per quanto buona, molto amara. Non parlo di loro in questo scritto. Di essi si parlerà nel giorno del giudizio, perché costoro soprattutto avevano il dovere di annunciare la parola di Dio, essendo stati da lui posti in alto dinanzi agli uomini per cultura e dignità.

13. Ora, però, parlo all’intelligenza dell’uomo spirituale, soprattutto di colui al quale Dio ha fatto il dono di elevarlo allo stato di contemplazione. Come ho già detto, ora parlo specialmente a queste persone, dicendo come devono indirizzarsi a Dio nella fede, purificando il loro intelletto da ciò che a lui è contrario e mortificandosi, per poter entrare in questo sentiero stretto della contemplazione oscura.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/09/2012 17:44
 
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CAPITOLO 8

Ove si dimostra, in maniera generale, che nessuna creatura né alcuna conoscenza accessibile all’intelletto possono servire come mezzo immediato per l’unione con Dio.

1. Prima di parlare della fede, quale mezzo proprio e più adeguato per l’unione con Dio, è opportuno provare che nessuna realtà creata o pensata può servire all’intelletto come mezzo specifico per unirsi a Dio, e che tutto ciò che l’intelletto può raggiungere gli è più d’impedimento che d’aiuto, qualora volesse appoggiarvisi. Ora, in questo capitolo, proverò questa verità in maniera generale e poi in particolare, esaminando tutte le conoscenze che l’intelletto può formarsi con l’aiuto dei sensi esterni e interni, nonché gli inconvenienti e i danni che può subire da tutte queste informazioni esteriori e interiori, se vuole procedere senza l’aiuto della fede, che è l’unico mezzo per l’unione divina.

2. Occorre però ricordare che, secondo un principio filosofico, tutti i mezzi devono essere proporzionati al fine, cioè devono avere una qualche convenienza o somiglianza con esso, in modo da poter raggiungere il fine al quale per loro tramite si tende. Per esempio, se uno vuole andare in una città, deve necessariamente percorrere la strada, che è il mezzo che ad essa unisce e conduce. Così pure, se si vuole appiccare il fuoco al legno, è necessario che il calore, suo mezzo specifico, raggiunga quei determinati gradi che occorrono per rendere progressivamente il legno simile al fuoco. Se, invece, si volesse accendere il legno con un mezzo diverso da quello proprio che è il calore, per esempio con l’aria, o con l’acqua o con la terra, sarebbe impossibile unire il legno al fuoco; come sarebbe ugualmente impossibile arrivare a una città se non si seguisse la strada che porta ad essa. Così è per l’intelletto. Perché possa unirsi a Dio in questa vita, nei limiti del possibile, esso deve necessariamente usare quel mezzo che lo unisce a lui e con lui ha una forte somiglianza.

3. A questo proposito, dobbiamo ricordare che fra tutte le creature superiori e inferiori non ce n’è alcuna che sia mezzo adatto all’unione con Dio o che abbia somiglianza con lui. Difatti, come dicono i teologi, sebbene sia vero che tutte le creature abbiano un certo rapporto con Dio e qualche traccia del suo essere – chi più, chi meno, secondo la loro natura – tuttavia non v’è relazione alcuna o somiglianza essenziale tra esse e Dio, a motivo dell’infinita distanza che intercorre tra il loro essere e quello di Dio. È quindi impossibile che l’intelletto possa unirsi a Dio mediante le creature, sia celesti che terrene, perché non c’è una sufficiente somiglianza. Per tale motivo, parlando delle creature celesti, Davide afferma: Fra gli dei nessuno è come te, Signore (Sal 85,8), chiamando dei gli angeli e i santi. E altrove: O Dio, santa è la tua via; quale dio è grande come il nostro Dio? (Sal 76,14), come a dire: la via per arrivare a te, o Dio, è una via santa, cioè una via di pura fede; per cui, quale dio sarà così grande? Cioè: quale angelo sarà così elevato nel suo essere o quale santo così glorificato da poter essere una via proporzionata e sufficiente per venire a te? Sempre Davide, parlando delle creature terrene e celesti insieme, afferma: Eccelso è il Signore e guarda verso l’umile, ma al superbo volge lo sguardo da lontano (Sal 137,6). Come a dire: essendo eccelso nella sua essenza, scorge che l’essere delle creature della terra è infimo a confronto con il suo; quanto alle cose elevate o creature celesti, le vede e conosce molto distanti dal suo essere. Nessuna delle creature, quindi, può servire all’intelletto come mezzo adeguato per raggiungere Dio.

4. Allo stesso modo, tutto ciò che l’immaginazione può rappresentare e l’intelletto apprendere e capire in questa vita, non è né può essere mezzo immediato per arrivare all’unione con Dio. Dal punto di vista naturale, l’intelletto può raggiungere solo ciò che è contenuto e si presenta sotto le forme e le immagini delle cose che ci vengono attraverso i sensi corporali; ora queste cose, come ho detto, non possono servire da mezzo per l’unione; di conseguenza non ci si può avvalere dell’intelligenza naturale. Parlando, poi, dal punto di vista soprannaturale, per quanto è possibile in questa vita, l’intelletto, secondo la sua potenzialità ordinaria, finché è nel carcere del corpo, non ha né la disposizione né la capacità di avere una conoscenza chiara di Dio, perché tale conoscenza non appartiene alla condizione naturale: o si deve morire o si deve farne a meno. Quando Mosè chiese a Dio questa conoscenza, gli fu risposto che non era possibile: Nessun uomo può vedermi e restare vivo (Es 33,20). E san Giovanni aggiunge: Nessuno ha mai visto Dio né qualcosa di simile a lui (1Gv 4,12; Gv 1,18). Continuano in questa linea Isaia e san Paolo quando affermano: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo… (1Cor 2,9; cfr. Is 64,3). Questo è il motivo per cui Mosè, come si racconta negli Atti degli Apostoli (7,32), non osò guardare il roveto ardente, dov’era presente Dio. Sapeva, infatti, che il suo intelletto era incapace di contemplare Dio, in maniera adeguata e conformemente a ciò che di lui ascoltava. Di Elia, nostro padre, si dice che sul monte si coprì il volto alla presenza di Dio (1Re 19,13), cioè rese cieco il proprio intelletto. Egli compì quel gesto, perché non osava posare la sua mano tanto vile su una cosa così eccelsa, ben sapendo che qualsiasi cosa avesse meditato e compreso nei particolari, sarebbe stata sempre molto lontana e diversa da Dio.

5. Pertanto nessuna conoscenza o percezione soprannaturale, in questa nostra condizione mortale, può servire come mezzo immediato per la sublime unione d’amore con Dio. Tutto ciò che l’intelletto può comprendere, la volontà gustare e l’immaginazione fabbricare è, ripeto, molto diverso e sproporzionato rispetto a Dio. Ciò è quanto meravigliosamente riferisce Isaia con tutta la sua autorevolezza: A chi potreste paragonare Dio e quale immagine mettergli a confronto? Il fabbro fonde l’idolo, l’orafo lo riveste d’oro e l’argentiere lo copre con lamelle d’argento (Is 40,18-19). Per fabbro qui s’intende l’intelletto, che ha il compito di formare le conoscenze e spogliarle del ferro delle specie e delle immagini. Per orafo qui s’intende la volontà, che ha la capacità di ricevere la figura e la forma dei piaceri, causati dall’oro dell’amore. Per argentiere, incapace – così viene qualificato – di rappresentare Dio con lamelle d’argento, s’intende la memoria unitamente all’immaginazione. Difatti si può giustamente dire che le conoscenze e le fantasie, da entrambe elaborate e forgiate, sono come lamelle d’argento. Tutto ciò sta a significare che né l’intelletto con le sue conoscenze potrà comprendere cose simili a Dio, né la volontà gustare diletti e dolcezze somiglianti a quelle di Dio, né la memoria riprodurre nella fantasia conoscenze e immagini che lo rappresentino. È chiaro, quindi, che nessuna di queste conoscenze può immediatamente indirizzare l’intelletto verso Dio. Per avvicinarsi a lui deve procedere piuttosto con la rinuncia che con il desiderio di capire, tenersi nella cecità e nelle tenebre piuttosto che spalancare gli occhi e fissare il raggio divino.

6. Per questo la contemplazione, che consente all’intelletto di raggiungere la più alta conoscenza di Dio, è chiamata teologia mistica, che vuol dire segreta sapienza di Dio, perché è nascosta allo stesso intelletto che la riceve. San Dionigi la chiama anche raggio di tenebra. Di essa il profeta Baruc ha detto: Non hanno conosciuto la via della sapienza, non si sono ricordati dei suoi sentieri (Bar 3,23). È chiaro, quindi, che l’intelletto deve rendersi cieco riguardo a tutti i sentieri che può intraprendere per unirsi a Dio. Aristotele afferma che l’infinita luce di Dio è fitta tenebra per il nostro intelletto, come il sole lo è per gli occhi del pipistrello. E aggiunge che quanto più le cose di Dio sono eccelse e chiare in sé, tanto più sono ignorate e oscure per noi. Lo stesso afferma l’Apostolo quando scrive: La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio (1Cor 3,19).

7. A questo punto non finirei mai di citare testi e addurre argomenti per provare diffusamente che fra tutte le cose create e quelle che possono essere raggiunge con l’intelletto non esiste scala per la quale questo possa arrivare alle altezze di Dio. Al contrario, occorre sapere che se l’intelletto vuole servirsi di tutte le cose create, o di alcune di esse, come mezzo immediato per l’unione con Dio, vi troverà non solo un impedimento per salire questo “Monte”, ma gli saranno anche occasione di gravi errori e inganni.

 

CAPITOLO 9

Ove si prova come la fede sia per l’intelletto il mezzo immediato e adeguato che conduce l’anima all’unione divina d’amore. Viene dimostrato con testi e immagini tratti dalla sacra Scrittura.

1. Da quanto detto si deduce che, per disporsi a questa unione divina, l’intelletto deve rimanere libero e purificato da tutto ciò che cade sotto i sensi, spoglio e sgombro da tutto quanto potrebbe conoscere chiaramente, intimamente pacificato, ridotto al silenzio, stabilito nella fede, unico mezzo immediato e adeguato all’unione dell’anima con Dio. È così grande, infatti, la somiglianza tra la fede e Dio, che non c’è differenza tra il vedere Dio qual è e il credere in lui: Dio è infinito, ed essa ce lo propone infinito; Dio è uno e trino, ed essa ce lo propone uno e trino; Dio è tenebra per la nostra intelligenza, e anch’essa è oscurità e tenebra per la nostra intelligenza. La fede è l’unico mezzo attraverso cui Dio si manifesta all’anima nella luce divina che supera ogni intelligenza. E così, quanto più l’anima ha fede, tanto più è unita a Dio. Ciò è quanto intendeva dire l’autore biblico nel passo citato sopra: Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste (Eb 11,6), cioè è necessario che vada a lui camminando nella fede. L’intelletto deve restare nell’oscurità e nelle tenebre, lasciandosi guidare solo dalla fede, perché in queste tenebre Dio si comunica all’intelletto e in esse si nasconde, secondo le parole di Davide: Fosca caligine pose sotto i suoi piedi. Cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento. Si avvolgeva di tenebre come di velo; acque oscure e dense nubi lo coprivano (Sal 17,10-12).

2. Le espressioni: pose fosca caligine sotto i suoi piedi, si avvolgeva di tenebre e acque oscure e dense nubi lo coprivano vogliono indicare l’oscurità della fede in cui Dio è avvolto. Le altre: cavalcava un cherubino e volava e  si librava sulle ali del vento vogliono dire che egli trascende ogni intelletto; i cherubini, infatti, significano gli essere intelligenti o contemplanti. E le ali del vento significano le sottili e acute conoscenze, nonché le cognizioni degli spiriti, sopra tutte le quali si libra il suo essere, che nessuno può raggiungere con le proprie forze.

3. Una figura di questa verità la troviamo nella sacra Scrittura, ove si legge che, quando Salomone ebbe finito di edificare il tempio, Dio vi scese in una nube e lo riempì d’una oscurità tale che i figli d’Israele non potevano vedere nulla. Salomone, allora, si espresse in questi termini: Il Signore ha deciso di abitare nella densa nube (1Re 8,12). Ugualmente in una nube, dove si nascondeva, Dio apparve a Mosè sul monte. Tutte le volte che Dio si manifestava nella sua maestà, appariva in una nube, come vediamo nel libro di Giobbe (38,1 e 40,1), dove si legge che Dio gli parlò di mezzo al turbine. Tutte queste tenebre significano l’oscurità della fede in cui è nascosta la Divinità mentre si comunica all’anima. Una volta avvenuto l’intervento divino, come dice san Paolo, quello che è imperfetto scomparirà (1Cor 13,10): scompariranno, cioè, le tenebre della fede e verrà ciò che è perfetto, ossia la luce di Dio. Di tale verità abbiamo una figura significativa nell’esercito di Gedeone. Tutti i suoi soldati, si dice, avevano le fiaccole in mano, ma non le vedevano, perché le tenevano nascoste dentro brocche vuote. Rotte queste, apparve d’improvviso la luce (Gdc 7,16ss). Così è la fede, simboleggiata da queste brocche. Essa contiene in sé la luce divina, ma nel momento in cui questa virtù cesserà, al termine di questa vita mortale, apparirà subito la gloria e la luce della Divinità in essa racchiusa.

4. È, quindi, chiaro che l’anima, in questa vita, per arrivare a unirsi e intrattenersi immediatamente con Dio, deve necessariamente penetrare in questa tenebra, ove Dio aveva promesso a Salomone di abitare; deve avvicinarsi a quella nube oscura, ove Dio volle rivelare i suoi segreti a Giobbe, e prendere nelle mani le brocche vuote di Gedeone, per poter agire alla luce della fede oscura nell’unione d’amore con Dio. Ben presto, quando si romperanno le brocche di questa vita, unico impedimento alla luce della fede, essa lo potrà vedere faccia a faccia nella gloria.

5. Non mi resta, ora, che parlare, in particolare, delle diverse conoscenze e percezioni che l’intelletto può acquisire, come pure degli ostacoli e dei danni che l’anima può incontrare in questo cammino di fede. Spiegherò altresì come l’anima deve comportarsi in tali conoscenze, provenienti sia dai sensi sia dallo spirito, perché le siano di giovamento e non di danno.

 

CAPITOLO 10

Ove si illustra la distinzione fra tutte le percezioni e conoscenze che l’intelletto è in grado di avere.

1. Dovendo trattare in particolare dei vantaggi e dei danni che le percezioni e conoscenze dell’intelletto possono recare all’anima nei confronti della fede – mezzo, ripeto, propedeutico all’unione divina – è necessario stabilire qui la distinzione fra tutte le conoscenze, naturali e soprannaturali, che esso può acquisire. In seguito ne tratterò il più brevemente possibile, con ordine e distinzione, in modo da indirizzare l’intelletto verso la notte oscura della fede.

2. Occorre sapere che l’intelletto può ricevere informazioni e conoscenze in due modi: naturale e soprannaturale. Quello naturale comprende tutto ciò che l’intelletto può capire sia attraverso i sensi corporali che da se stesso. Quello soprannaturale comprende tutto ciò che gli viene offerto al di sopra della sua capacità e attitudine naturale.

3. Alcune conoscenze soprannaturali sono corporee, altre spirituali. Quelle corporee sono di due specie: alcune vengono ricevute dall’intelletto attraverso i sensi esterni, altre attraverso i sensi interni, con tutto ciò che l’immaginazione può racchiudere, immaginare o elaborare.

4. Anche le conoscenze spirituali sono di due specie: alcune sono distinte e particolari, un’altra è confusa, oscura e generale. Tra quelle distinte e particolari rientrano quattro generi di conoscenze particolari che vengono comunicate allo spirito-mente senza mediazione di alcun senso corporale; sono le visioni, le rivelazioni, le locuzioni e i sentimenti spirituali. La conoscenza oscura e generale si ha solo nella contemplazione, raggiunta nella fede: è in questa che dobbiamo collocare l’anima, guidandovela attraverso tutte le altre specie di conoscenze, cominciando dalle prime, per dire poi come essa se ne debba liberare.

 

CAPITOLO 11

Ove si parla dell’impedimento e del danno provenienti dalle conoscenze che l’intelletto può ricevere soprannaturalmente attraverso i sensi corporali esterni, e come l’anima deve comportarsi nei loro confronti

1. Le prime conoscenze, di cui ho parlato nel capitolo precedente, sono quelle che l’intelletto acquisisce per via naturale. Ne ho già trattato nel libro I, dove ho indicato come l’anima debba introdursi nella notte dei sensi. Non ne parlo, dunque, più: bastano gli insegnamenti offerti all’anima allora su questo punto. Nel presente capitolo tratterò, pertanto, solamente delle conoscenze e percezioni che l’intelletto acquisisce soprannaturalmente attraverso i sensi esterni, cioè attraverso la vista, l’udito, l’odorato, il gusto e il tatto. Da tali conoscenze possono e sogliono nascere nelle persone spirituali rappresentazioni e notizie soprannaturali. Così attraverso la vista sogliono presentarsi figure e personaggi dell’altra vita, qualche santo, angeli, diavoli, alcune luci e splendori straordinari. Per mezzo dell’udito si possono ascoltare parole straordinarie, pronunciate dagli stessi personaggi che si vedono o senza vedere chi le pronunci. Per mezzo dell’olfatto si percepiscono, a volte, profumi soavissimi, senza sapere da dove vengano. Anche per mezzo del gusto si possono sperimentare sapori molto squisiti, e ugualmente provare grande piacere per il tatto, tanto che a volte sembra che la carne e le ossa godano e fremano immersi nel piacere. Così è quella che viene chiamata “unzione dello spirito”, che da questo si diffonde nelle membra delle anime pure. Questa soavità dei sensi è molto comune nelle persone spirituali, perché procede dai sentimenti e dalla devozione particolare dello spirito, ma è più o meno intensa in ogni anima.

2. Occorre tener presente, però, che, sebbene tutti questi fenomeni possano introdursi nei sensi corporali per intervento di Dio, non si deve mai fare assegnamento su di essi né accoglierli. Occorre, piuttosto, guardarsene categoricamente, senza nemmeno indagare se siano buoni o cattivi. Del resto, quanto più sono esterni e corporali, tanto meno certamente provengono da Dio. Infatti, abitualmente e convenientemente Dio si manifesta più allo spirito, dove c’è maggiore sicurezza e profitto per l’anima, che ai sensi, ove ordinariamente si celano molti pericoli e inganni. In realtà, in queste circostanze il senso si erige a giudice ed estimatore delle cose spirituali, credendo che siano come le percepisce, mentre esse sono tanto diverse quanto lo sono il corpo e l’anima, la sensibilità e la ragione. Il senso corporale ignora le cose dello spirito tanto quanto, e forse più, il giumento le cose razionali.

3. Sbaglia molto chi apprezza questa sorta di favori e corre grave pericolo di essere ingannato o, quanto meno, troverà in sé un forte ostacolo per accedere al piano dello spirito. Infatti, ripeto, tutti questi favori corporali non hanno alcun rapporto con le cose dello spirito. Per questo motivo occorre sempre ritenere che essi provengano dal demonio piuttosto che da Dio. Il demonio ha più mano libera sulla parte esteriore e corporale e gli è più facile ingannare su questo punto, che non riguardo alla parte interiore e spirituale.

4. Tali manifestazioni e forme corporee tanto meno giovano all’anima e allo spirito quanto più sono esteriori, a motivo della grande distanza e della sproporzione che intercorrono tra il corporale e lo spirituale. Difatti, anche se esse comunicano qualche profitto spirituale, come sempre accade quando provengono da Dio, tuttavia tale effetto è sempre molto inferiore a quello che si avrebbe se tali manifestazioni fossero spirituali e interiori. In tal modo esse possono trarre in errore molto facilmente e infondere presunzione e vanità nell’anima. Essendo tanto palpabili e materiali, solleticano molto i sensi, e l’anima crede che siano più preziose in quanto più sensibili. Essa, perciò, corre dietro a loro e abbandona la fede, ritenendo che quella luce sia la guida e il mezzo per raggiungere il suo scopo, cioè l’unione con Dio. Al contrario, essa smarrisce la via e il mezzo della fede quanto maggiormente pone attenzione a simili manifestazioni.

5. Ma vi è di più. Quando l’anima si accorge che le accadono tali fatti straordinari, spesso comincia ad accarezzare segretamente una certa opinione di valere qualcosa dinanzi a Dio, il che è contrario all’umiltà. Il demonio, inoltre, sa istillare nell’anima una segreta autocompiacenza, qualche volta anche troppo palese. A tale scopo, talvolta produce questi effetti nei sensi, offrendo agli occhi immagini di santi e splendori bellissimi, all’orecchio parole lusinghiere, all’olfatto profumi soavissimi, dolcezze al palato e delizie al tatto, per indurre le anime al male, adescandole attraverso i sensi. Occorre, quindi, respingere sempre simili rappresentazioni e sensazioni, perché, anche se venissero da Dio, non gli si reca offesa né si perdono l’effetto e il frutto che Dio intende comunicare all’anima per mezzo di esse, solo perché respinte e non cercate.

6. Il motivo sta nel fatto che, se la visione corporea o qualunque sensazione proveniente dai sensi, o qualsiasi altra comunicazione interiore, viene da Dio, nel momento stesso in cui appare ed è avvertita produce il suo effetto nello spirito, ancor prima che l’anima abbia deciso di accettarla o di respingerla. Dio, infatti, come concede questi fenomeni soprannaturali senza il minimo concorso o una disposizione particolare da parte dell’anima, così, senza alcuna sua cooperazione e abilità, provoca in essa l’effetto che vuole ottenere con tali grazie, perché queste accadono e si attuano nello spirito passivamente. Non si tratta, quindi, di volerle o di respingerle perché ci sia o non ci sia l’effetto, così come non giova a una persona nuda il desiderio di non bruciarsi quando le buttassero addosso del fuoco, perché questo produrrebbe necessariamente il suo effetto. Così è delle visioni e delle rappresentazioni che vengono da Dio; anche se non ricercate, producono il loro effetto principalmente nell’anima prima ancora che nel corpo. Analogamente, quelle che vengono dal demonio provocano nell’anima, sebbene essa non le desideri, turbamento e aridità, vanità o presunzione di spirito, ma non hanno tanta efficacia nel male quanto quelle che vengono da Dio l’hanno nel bene. Quelle che vengono dal demonio possono suscitare solo i primi impulsi nella volontà, ma non possono obbligarla, se vi si oppone; l’inquietudine che esse arrecano non dura molto, se il poco coraggio e la poca prudenza dell’anima non permette loro di durare più a lungo. Quanto alle manifestazioni che provengono da Dio, esse penetrano nell’anima, spingono la volontà ad amare e producono il loro effetto, al quale l’anima non può resistere, anche se volesse, come il vetro non può opporsi al raggio di sole quando ne viene colpito.

7. L’anima, quindi, non deve mai azzardarsi a volere simili fenomeni, anche se, ripeto, venissero da Dio, perché accogliendoli va incontro a sei inconvenienti. In primo luogo, la sua fede va diminuendo, perché ciò che si sperimenta con i sensi svigorisce molto la fede, che, come si è detto, è al di sopra di tutti i sensi. In tal modo l’anima, non chiudendo gli occhi a tutte le cose che le vengono dai sensi, si allontana dal mezzo adatto per l’unione con Dio. In secondo luogo, tali manifestazioni diventano un impedimento per lo spirito se non vengono respinte, perché l’anima si adagia in esse e lo spirito non spicca il volo verso l’invisibile. Uno dei motivi per cui il Signore disse ai discepoli che era necessario per lui andarsene, perché potesse venire lo Spirito Santo (cfr. Gv 16,7), era proprio questo. Per lo stesso motivo non permise che Maria Maddalena lo trattenesse dopo la risurrezione, ma si aggrappasse solo alla fede (cfr. Gv 20,17). In terzo luogo, l’anima va coltivando un sentimento di possesso nei confronti di queste comunicazioni e non fa progressi nella via della vera rinuncia e nudità di spirito. In quarto luogo, l’anima perde gradualmente l’effetto spirituale da esse prodotto. Quest’ultimo s’imprime e si conserva nell’anima quanto più si rinuncia alle cose sensibili, molto diverse dal puro spirito. In quinto luogo, l’anima perde, a poco a poco, i favori di Dio, perché li considera sua proprietà e non sa trarne il profitto dovuto. Considerarli come sua proprietà e non trarne profitto significa impossessarsene, mentre Dio non li concede perché l’anima desidera averli; anzi, essa non deve mai pensare che tali favori vengano da Dio. Il sesto inconveniente si verifica quando l’anima, con il desiderio di ammettere queste comunicazioni, apre la porta al demonio che la può ingannare con altre simili, che egli sa imitare e mascherare molto bene in modo da farle sembrare buone. Come dice l’Apostolo, egli può mascherarsi da angelo di luce (2Cor 11,14). Di questo, con l’aiuto di Dio, tratteremo in seguito, nel libro III, nel capitolo dedicato alla gola spirituale.

8. È sempre bene, quindi, che l’anima respinga ad occhi chiusi questi fenomeni da qualunque parte arrivino; se non lo facesse, offrirebbe spazio a quelli provenienti dal demonio e gli darebbe mano libera tanto che, anziché ricevere quelli di Dio, essa riceverebbe quelli del demonio; questi ultimi si moltiplicherebbero e quelli di Dio cesserebbero. L’anima, allora, giungerebbe ad avere tutto da demonio e nulla da Dio. Così è accaduto a molte anime incaute e poco avvedute. Si sentivano tanto sicure nell’accogliere questi fatti che molte di loro fecero non poca fatica per ritornare a Dio nella purezza della fede. Alcune non vi riuscirono, perché gli inganni del demonio avevano gettato in loro profonde radici. Per questo motivo è necessario chiudersi all’influsso di tali fenomeni e rifiutarli tutti, perché in quelli cattivi si respingono gli inganni del demonio e in quelli buoni non si pone ostacolo alcuno alla fede; così lo spirito può continuare a raccogliere i frutti che essi devono produrre. Quando le anime accolgono tali favori, Dio, a poco a poco, non li concede più perché si attaccano ad essi invece di approfittarne rettamente. Il demonio, al contrario, insinua e moltiplica i suoi falsi favori, perché trova spazio e libero accesso nell’anima; ma se questa ne è distaccata e contraria, il demonio a poco a poco si ritira, perché si accorge di non riuscire a causare danni; Dio, invece, con le sue grazie, si fa sempre più presente in quell’anima umile e distaccata, dandole autorità su molto, come al servo che era stato fedele nel poco (Mt 25,21).

9. Se in queste grazie l’anima continuerà ad essere fedele e distaccata, Dio non mancherà di condurla, di grado in grado, sino all’unione e trasformazione in lui. Egli prova ed eleva l’anima a poco a poco, concedendole inizialmente favori esteriori, ordinari, sensibili, proporzionati alla sua scarsa capacità. In seguito, se essa si comporta come deve, prendendo questo primo nutrimento con sobrietà per rafforzarsi e sostenersi, le offrirà un cibo più abbondante e migliore. Se essa saprà vincere il demonio in questo primo stadio, passerà al secondo; e se lo vincerà nel secondo, passerà al terzo e così, gradino dopo gradino, raggiungerà tutte e sette le mansioni, che sono i sette gradi dell’amore, finché lo Sposo non la introdurrà nella cella vinaria (Ct 2,4) della sua perfetta carità.

10. Beata l’anima che saprà lottare contro l’apocalittica bestia dalle sette teste (Ap 12,3), contrarie a questi sette gradi dell’amore, con le quali fa guerra contro questi gradi e lotta contro l’anima in ognuna delle sette mansioni, ove essa si esercita per conquistare tutti i gradi dell’amore di Dio! Se l’anima combatterà fedelmente in ciascuna mansione e vincerà, meriterà di salire, di grado in grado o di dimora in dimora, fino all’ultima, dopo aver tagliato una dopo l’altra le sette teste che le muovevano guerra spietata. Lo stesso san Giovanni, nel libro citato (Ap 13,7), dice che fu concesso alla bestia di lottare contro i santi e di vincerli in ognuno di questi gradi d’amore, impiegando contro ciascuno di essi tutte le armi e le munizioni necessarie. È molto triste, perciò, constatare che parecchie persone, dopo aver intrapreso questa battaglia spirituale contro la bestia, non sappiano tagliarle nemmeno la prima testa, perché non vogliono rinunciare ai beni sensibili di questo mondo. Alcuni, poi, che si decidono a tagliare la prima testa, non riescono a fare altrettanto con la seconda, perché non rinunciano alle visioni sensibili, di cui sto parlando. Ma la cosa ancora più triste è constatare che alcuni, essendo riusciti a tagliare non solo la prima e la seconda testa, ma anche la terza – respingendo le percezioni dei loro sensi interni, oltrepassando lo stadio della semplice meditazione e spingendosi molto più avanti –, quando stanno per entrare nella zona del puro spirito, vengono sconfitti dalla bestia. Questa, allora, riesce a risollevare e risuscitare contro di loro addirittura la prima testa. E così la condizione finale risulta peggiore della prima, a causa della ripresa della bestia, che prende con sé altri sette spiriti peggiori (Lc 11,26).

11. L’uomo spirituale deve, quindi, respingere tutte le percezioni accompagnate dai piaceri temporali, derivanti dai sensi esterni, se vuole tagliare la prima e la seconda testa della bestia; potrà, così, entrare nella prima dimora dell’amore e nella seconda della fede viva, non accogliendo nulla che provenga dai sensi, che lo allontanano molto dalla fede.

12. È, dunque, chiaro che queste visioni e rappresentazioni sensibili non potranno essere un mezzo adeguato per raggiungere l’unione divina, perché non sono proporzionate a Dio. Uno dei motivi per cui Cristo non voleva che la Maddalena (Gv 20,17) e san Tommaso (Gv 20,29) lo toccassero era proprio questo. Si capisce, allora, come il demonio sia molto soddisfatto quando un’anima voglia ricevere rivelazioni e mostri inclinazioni per esse, perché in tal caso essa gli offre una facile occasione per insinuare errori ed allontanarla dalla fede il più possibile. Infatti, come ho già detto, l’anima che cerca tali rivelazioni si allontana da questa virtù e a volte cade anche in tentazioni e presunzioni.

13. Mi sono un po’ dilungato sulle percezioni provenienti dai sensi esterni, allo scopo di far luce sulle altre manifestazioni che ora tratterò. Ma su questo argomento ci sarebbe così tanto da dire che non finirei mai. Capisco di essere stato anche fin troppo breve, ma credo sufficiente quanto ho detto e vorrei ripetere di avere sempre molta cura nel respingere tali comunicazioni, facendo eccezione solo per qualcuna e dietro parere di persona molto esperta; ma anche in questo caso non bisogna mai desiderarle.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/09/2012 17:47
 
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CAPITOLO 12

Ove si tratta delle percezioni immaginarie naturali. Si spiega che cosa siano e si prova che non possono essere mezzo adatto per giungere all’unione con Dio. Si parla, infine, del danno provocato dall’attaccamento ad esse.

1. Prima di trattare delle visioni immaginarie che sogliono presentarsi soprannaturalmente ai sensi interni, cioè all’immaginazione e alla fantasia, per procedere con ordine è opportuno trattare qui delle percezioni naturali di questi stessi sensi interni corporali. Si procederà, così, dal meno al più, dal più esterno al più interno, fino a giungere a quella quiete intima dove l’anima si unisce con Dio. Del resto è l’ordine seguito finora. Difatti ho parlato anzitutto dello spogliamento dei sensi circa le percezioni naturali degli oggetti esterni e, conseguentemente, delle forze naturali dei nostri appetiti. Tale è stato l’argomento dei libro I, dove ho parlato della notte dei sensi. Subito dopo ho cominciato a trattare dello spogliamento dell’anima circa le percezioni esterne soprannaturali, che accecano appunto i sensi esterni. L’ho fatto nel capitolo precedente, per introdurre l’anima nella notte dello spirito.

2. In questo libro II il primo argomento da trattare riguarda i sensi corporali interni, cioè l’immaginazione e la fantasia. Occorre spogliare anche tali sensi da tutte le forme e percezioni immaginarie che essi possono concepire naturalmente. Devo altresì provare che è impossibile all’anima giungere all’unione con Dio se non smette di agire per mezzo di queste percezioni, perché non possono costituire un mezzo adeguato e prossimo a tale unione.

3. Ricordo che i sensi dei quali parlo qui in particolare sono i due sensi corporali interni: l’immaginazione e la fantasia. Essi sono ordinati l’uno all’altro e si condizionano a vicenda, perché il primo procede per immagini, l’altro forma le immaginazioni, ossia ciò che è immaginato, lavorando con la fantasia. Per il nostro argomento è indifferente trattare dell’uno o dell’altro; perciò, quando li citerò entrambi, ci si ricordi di quello che ho detto qui. Ciò posto, bisogna dire che tutto quanto tali sensi possono accogliere o elaborare si chiama immaginazioni e fantasie: forme, cioè, che si presentano a questi sensi sotto l’immagine e la figura di un corpo. Tali forme possono essere di due specie: alcune soprannaturali, in quanto si presentano ai due sensi senza la loro cooperazione, ma vengono da essi ricevute passivamente. A queste, di cui parlerò più avanti, diamo il nome di visioni immaginarie. Vengono all’uomo per via soprannaturale. Altre sono naturali, in quanto i sensi interni possono produrle con la loro attività, sotto l’aspetto di forme, figure o immagini. Su queste due potenze si basa la meditazione, che è un atto discorsivo elaborato attraverso immagini, forme e figure, fabbricate e immaginate dai suddetti sensi. Avviene così quando ci si immagina Cristo crocifisso o legato alla colonna o in un’altra situazione, oppure Dio seduto in trono in tutta la sua maestà; o ancora la gloria come una luce bellissima, ecc., e similmente qualsiasi altra cosa del genere, sia divina che umana, che può essere oggetto d’immaginazione. Ora, l’anima deve liberarsi da tutte queste immaginazioni, rimanendo al buio secondo questo senso, se vuole pervenire all’unione divina. Queste, infatti, non possono assolutamente essere un mezzo proporzionato, immediato, per arrivare a Dio, proprio come le sensazioni corporali che provengono dai cinque sensi esterni.

4. Il motivo di questo sta nel fatto che l’immaginazione non può fabbricare né rappresentare una realtà diversa da quella sperimentata con i sensi esterni, cioè che ha visto con gli occhi, udito con le orecchie, ecc.; al massimo può formare immagini simili a quelle viste, udite o sperimentate, anche se queste non saranno mai superiori e così intense come quelle percepite attraverso i sensi esterni. Infatti, anche se può immaginare palazzi di perle o montagne d’oro, perché ha visto perle e oro, in realtà tutto questo è meno di un granello d’oro o di una perla, sebbene nell’immaginazione sia superiore in quantità e bellezza. Poiché, come ho già detto, tutte le cose create non possono essere assolutamente proporzionate all’essere di Dio, ne segue che tutto ciò che si può immaginare a loro somiglianza non può costituire un mezzo prossimo all’unione divina, anzi, ripeto, ce ne allontana.

5. Coloro, quindi, che immaginano Dio sotto qualcuna di queste forme, o come un grande fuoco o splendore, o sotto qualsiasi altra forma, oppure pensano che qualcosa del genere gli somigli, si allontanano molto da lui. Certamente queste considerazioni, forme e maniere per meditare sono necessarie ai principianti perché comincino a innamorarsi e a nutrire lo spirito per mezzo dei sensi, come dirò più avanti. Tutte queste rappresentazioni costituiscono per loro, dunque, mezzi remoti per unirsi a Dio, attraverso i quali ordinariamente devono passare per arrivare al termine e alla quiete del riposo spirituale. Tuttavia le anime devono solo passare attraverso di essi, non fermarvisi, perché altrimenti non arriverebbero alla meta, che non somiglia né ha nulla in comune con i mezzi remoti. Questi sono come i gradini di una scala che non hanno nulla di somigliante al termine o alla stanza cui conducono, ma sono soltanto mezzi per arrivarvi. Perciò, se colui che sale non lasciasse dietro di sé i gradini, ma volesse fermarsi su qualcuno di essi, non salirebbe né giungerebbe mai al pianerottolo e alla piacevole dimora in cima alla scala. Allo stesso modo l’anima che in questa vita vuole giungere all’unione con Colui che è assoluto riposo e sommo bene, deve passare per tutti i gradi delle considerazioni, delle forme e delle conoscenze e disfarsene, perché queste non hanno somiglianza alcuna né proporzione con il termine al quale conducono, cioè Dio. Per questo san Paolo, negli Atti, afferma: Non debemus aestimare auro vel argento, aut lapidi sculpturae artis, et cogitationis hominis divinum esse simile, che vuol dire: Non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte o dell’immaginazione umana (At 17,29).

6. Questo è il motivo per cui molte persone spirituali si sbagliano di grosso. Si sono esercitate, come principianti, ad avvicinarsi a Dio per mezzo di immagini, rappresentazioni e meditazioni, mentre sono da lui chiamate a conseguire beni più elevati, interiori e invisibili. A tale scopo vengono private del gusto e della sostanza della meditazione discorsiva, e ciò nonostante non smettono né osano né tanto meno sanno distaccarsi da quei modi sensibili cui sono abituate. Benché si affatichino a praticarli, vogliono procedere, come prima, con la riflessione e la meditazione di immagini, pensando che debba essere sempre così. In tale tentativo si affaticano molto e ricavando poco o nessun giovamento. Anzi, quanto più si affannano per quel gusto che provavano prima, tanto più crescono in esse l’aridità, la stanchezza e l’inquietudine spirituale. Ma l’anima non può conseguire tale gusto come in passato, perché, come ho detto, essa non prova più gusto per un cibo così grossolano. Sente il bisogno di un altro più delicato, più interiore e meno sensibile, che non consiste nel lavorare con l’immaginazione, ma nel riposo e nella quiete assoluta. Tale nutrimento è più spirituale. In realtà, quanto più l’anima diventa spirituale, tanto più cessa di operare con le potenze in atti particolari, concentrandosi in un atto generale e puro. A questo punto le potenze abbandonano la via che aveva condotto l’anima a tale stato, così come i piedi, alla fine del viaggio, cessano di muoversi e si fermano. Se si dovesse camminare sempre, non si arriverebbe mai, e se tutto si riducesse a un mezzo, dove e quando si godrebbero il fine o la meta del viaggio?

7. Per questo motivo dispiace assai osservare tante persone che turbano la loro anima costringendola a badare a cose esteriori e, senza motivo, cercano di rifare il cammino già percorso abbandonando il fine o la meta in cui riposavano e che avevano raggiunto con i mezzi della meditazione, mentre la loro anima vorrebbe restare nella serenità e nel riposo della quiete interiore per gustare la pace e nutrirsi di Dio. Tutto questo provoca disgusto e ripugnanza nell’anima che avrebbe voluto rimanere in quella pace, che non comprende, come nel posto che le è proprio. La stessa pena sperimenta colui che è arrivato con fatica al luogo del suo riposo ed è costretto a riprendere il lavoro. Purtroppo tali persone non comprendono il mistero di questa novità. Pensando di stare in ozio, senza far nulla, non accettano quel riposo, ma cercano di meditare e di discorrere. In questo modo aumenta la loro aridità e invano si sforzano di ricevere giovamento da dove ormai non possono più averne. Anzi si può dire che più si affannano, meno progrediscono, perché quanto più si ostinano, tanto più si trovano a disagio; non fanno altro che sottrarre l’anima alla pace spirituale, lasciare il più per il meno e ripercorrere il cammino già percorso, siccome vogliono rifare ciò che è già fatto.

8. A costoro occorre dire che imparino a starsene in quella quiete spirituale in un’attenzione e contemplazione piena d’amore per Dio, a non occuparsi dell’immaginazione e della sua attività. In questo stato, ripeto, le potenze dell’anima riposano e non sono attive, bensì passive, accettando quanto Dio opera in esse. Se talvolta agiscono, non lo fanno con sforzo o con l’aiuto di prolungati ragionamenti, ma con la soavità dell’amore, mosse più da Dio che dall’abilità dell’anima, come spiegherò più avanti. Per il momento basti questo per far capire quanto sia conveniente e necessario, a coloro che vogliono progredire, sapersi distaccare, al momento opportuno, da tutti questi modi di agire o da simili rappresentazioni dell’immaginazione, quando lo richiede il progresso dello stato in cui si trovano.

9. Per conoscere quale sia il momento opportuno, nel capitolo seguente indicherò alcuni segni che le persone spirituali devono scoprire in sé per sapere quando possono servirsi liberamente del metodo indicato e abbandonare la via del ragionamento e del lavoro dell’immaginazione.

 

CAPITOLO 13

Ove si descrivono i segni che la persona spirituale deve osservare in se stessa, per conoscere il momento adatto per abbandonare la meditazione e il ragionamento e passare allo stato della contemplazione.

1. Perché questa dottrina non resti nebulosa, converrà in questo capitolo indicare alla persona spirituale il momento adatto per abbandonare la meditazione discorsiva, portata avanti con l’uso delle suddette rappresentazioni, forme e figure, perché non lo faccia né prima né dopo rispetto alle esigenze dello spirito. Se, infatti, è conveniente lasciare la meditazione immaginativa a tempo debito perché non sia di ostacolo per andare a Dio, è parimenti necessario non lasciarla prima del tempo per non tornare indietro. Sebbene le percezioni dell’immaginazione e della fantasia non servano ai proficienti come mezzi prossimi all’unione con Dio, tuttavia possono essere d’aiuto ai principianti come mezzo remoto per disporsi e per abituarsi alle realtà spirituali attraverso i sensi, per poi svuotarli, durante il cammino, da tutte le altre forme e immagini vili, temporali, mondane e naturali. A questo proposito offrirò qui alcuni segni e indizi, che la persona spirituale deve scoprire in sé, per valutare se abbandonare o meno queste immagini, a un dato momento.

2. Il primo segno si presenta quando l’anima si accorge di non poter più meditare né discorrere con l’immaginazione, come pure di non trovare gusto in questo esercizio come le avveniva prima. Al contrario, ora prova aridità nelle cose in cui prima era solita fissare il gusto e trarne giovamento. Ma finché ci trova gusto e può discorrere nella meditazione, non deve lasciarla, a meno che la sua anima abbia raggiunto la pace e la serenità di cui si parla nel terzo segno.

3. Il secondo segno si verifica quando l’anima non ha nessuna voglia di applicare la sua fantasia o i sensi ad altri oggetti particolari, esteriori o interiori. Non intendo dire che la fantasia non lavori, perché anche nel profondo raccoglimento essa è solita essere libera, ma che non piace alla persona applicarla di proposito ad altri oggetti.

4. Il terzo segno, che è più sicuro, si ha quando l’anima prova piacere a starsene sola con Dio, in uno sguardo d’amore contemplante, senza particolari considerazioni. Sua unica occupazione è godere la pace interiore, la quiete e il riposo divino, escludendo ogni attività ed esercizio delle potenze, della memoria, dell’intelletto e della volontà, o perlomeno gli atti discorsivi, nei quali si passa da un oggetto all’altro. Essa intende godere la presenza di Dio accompagnata solo da uno sguardo e una conoscenza generale amorosa, di cui abbiamo parlato, senza particolari conoscenze, rinunciando persino a comprenderne l’oggetto.

5. La persona spirituale deve riscontrare contemporaneamente in sé questi tre segni prima di decidersi a lasciare lo stato della meditazione e l’uso dei sensi, per passare poi a quello della contemplazione e dello spirito.

6. Non basta che scorga in sé il primo segno senza il secondo, perché potrebbe darsi che non possa più rappresentarsi né meditare le cose di Dio, come prima, per distrazione o poca diligenza. Deve, quindi, scorgere in sé anche il secondo segno, che è quello di non aver voglia né desiderio di pensare a cose estranee. Infatti, quando l’impossibilità di fissare l’immaginazione o i sensi sulle cose di Dio proviene da distrazione o tiepidezza, l’anima avverte subito il desiderio e la voglia di occuparsi di altre cose, cercando un pretesto per abbandonare la meditazione. Non basta nemmeno scorgere in sé il primo e il secondo segno, se non congiunti al terzo. Infatti, anche se l’anima si rende conto che non può meditare né riflettere sulle cose di Dio e che tanto meno le giova pensare a quelle diverse da lui, questo stato potrebbe derivare da malinconia o da qualche altro cattivo umore proveniente dalla testa o dal cuore. Tale umore abitualmente provoca nei sensi un certo torpore e inattività delle facoltà tanto da impedire di pensare a qualcosa, di volerla o aver voglia di pensarvi, per rimanere in quello stato di astrazione saporosa. Per evitare questo, l’anima deve verificare in sé il terzo segno, che consiste nella conoscenza e nello sguardo amoroso e pacifico su Dio, ecc., come ho detto sopra.

7. Ma è vero che, agli inizi di questo stato, non si riesce a percepire del tutto tale conoscenza amorosa. Ciò accade per due motivi: primo, perché agli inizi questa conoscenza amorosa è abitualmente molto sottile e delicata e quasi impercettibile; secondo, perché l’anima, essendo stata abituata all’altro esercizio della meditazione, completamente basato sui sensi, non riesce a vedere e quasi non avverte questa conoscenza nuova che non passa attraverso i sensi, in quanto è puramente spirituale. Ciò le capita soprattutto quando, non comprendendola, non vi si abbandona serenamente, ma continua a cercare l’altro stato più sensibile. E così, sebbene sia investita da una pace interiore, piena d’amore, più abbondante, non riesce a sentirla né a goderla. Ad ogni modo, quanto più si abituerà alla quiete interiore, tanto più crescerà in essa e avvertirà quella conoscenza piena d’amore per Dio. Quest’ultima le piacerà più di ogni altra cosa creata, perché le procurerà pace, riposo, gusto e diletto, senza alcuna fatica.

8. Per chiarire ulteriormente quanto è stato detto, esporrò nel capitolo seguente cause e ragioni che dimostrano la necessità di questi tre segni per passare al piano dello spirito.

 

CAPITOLO 14

Ove si dimostra la convenienza di questi segni, spiegando quanto sia necessario per l’anima saperli riconoscere al fine di progredire.

1. Circa il primo segno che ho presentato, occorre ricordare che la persona spirituale – per entrare nella via dello spirito, cioè nella contemplazione – deve abbandonare la via delle immagini e della meditazione sensibile quando non vi provi più gusto e non riesca più a discorrere. E questo per due motivi, che si fondono in uno. Il primo è che l’anima ha già ricevuto, in certo modo, tutto il bene spirituale che poteva trovare nelle cose di Dio attraverso la meditazione e il ragionamento. L’indizio consiste nel fatto che non può più, come prima, né meditare né discorrere né trovare in tali esercizi gusto o piacere, perché fino a quel momento non era ancora arrivata al bene spirituale ad essa riservato in questo stato. Difatti, ordinariamente, tutte le volte che l’anima riceve qualche bene spirituale, lo gusta, perlomeno spiritualmente, proprio in quel mezzo attraverso cui lo riceve e che le è utile; altrimenti sarà un caso se ne trae giovamento o se nella causa di tale bene trova quel sostegno e quel gusto che prova quando lo riceve. Avviene proprio come dicono i filosofi: Quod sapit, nutrit: Ciò che dà sapore, nutre e ingrassa. A tale proposito Giobbe afferma: Numquid poterit comedi insulsum, quod non est sale conditum?: Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? (Gb 6,6). Il motivo, dunque, per cui l’anima non può più meditare né discorrere come prima è questo: il poco sapore e lo scarso profitto che lo spirito trova in tale esercizio.

2. Il secondo motivo sta nel fatto che a questo punto l’anima possiede lo spirito di meditazione sostanzialmente e abitualmente. Occorre ricordare, infatti, che scopo della meditazione e del discorrere nelle cose di Dio è quello di ottenere un po’ di conoscenza e di amore di Dio. Ogni volta che l’anima, tramite la meditazione, ricava tale frutto, compie un atto. Come molti atti, in qualsiasi altro campo, finiscono per generare nell’anima un’abitudine, così molti atti di queste conoscenze piene d’amore, che l’anima ha di volta in volta emesso in particolare, con il loro ripetersi finiscono per diventare in essa un abito. Dio è solito concedere tale abito a molte anime anche senza la mediazione di tali atti, o almeno d’un buon numero di essi, collocandole subito nello stato di contemplazione. Così, ciò che prima l’anima otteneva periodicamente meditando con fatica su conoscenze particolari, ora, come ho detto, attraverso la ripetizione si è tramutato in abito e sostanza di una conoscenza amorosa generale, non distinta né particolare come prima. Perciò, quando l’anima si mette a pregare, beve con piacere senza fatica alcuna, come chi ha l’acqua a portata di mano, senza doverla far arrivare attraverso i faticosi mezzi precedenti, quali i ragionamenti, le rappresentazioni e le figure. Così, appena si mette alla presenza di Dio, possiede una conoscenza di Dio confusa, amorosa, piena di pace e di quiete, in cui beve i fiotti della sapienza, dell’amore e della dolcezza.

3. Questo è il motivo per cui l’anima prova molta pena e disgusto quando si trova in questa quiete e si vuole farla applicare faticosamente alla meditazione e a conoscenze particolari. Accade ad essa come al bambino che viene strappato dal petto materno mentre, tutto raccolto, sta succhiando il latte, per obbligarlo a spremere e comprimere con fatica la mammella onde procurarselo di nuovo. Somiglia, altresì, a colui che ha già tolto la buccia e sta gustando la polpa, quando venisse costretto a lasciare questa e a tornare di nuovo alla buccia che non c’è più: così non troverebbe più la buccia e cesserebbe di gustare la polpa che aveva già tra le mani; in questo è simile a uno che lascia ciò che ha per correre dietro a ciò che non ha.

4. Così agiscono molte di quelle anime che cominciano a entrare in questo stato. Pensano che tutta la loro occupazione consista nel ragionare e comprendere cose particolari di Dio attraverso immagini e forme, che sono la corteccia della vita spirituale. Poiché non trovano tali immagini e forme nella quiete amorosa e sostanziale in cui desiderano restare, e non comprendono che cosa stia accadendo, pensano di smarrirsi o di perdere tempo. Tornano a cercare la scorza delle loro immagini e del loro ragionamento, ma non la trovano più perché è sparita; e così non gustano né il frutto, che è la contemplazione, né la scorza, che è la meditazione. Allora esse si turbano, credendo di tornare indietro e di perdersi. E in realtà si perdono, ma non come pensano loro, perché si perdono ai loro sensi e al primitivo modo di comprendere le cose; ora tutto questo significa che stanno raggiungendo il puro spirito, concesso loro a poco a poco. Quanto meno capiscono ciò che sta accadendo, tanto più entrano nella notte dello spirito – di cui si parla in questo libro – che esse devono attraversare per unirsi a Dio al di là di ogni conoscenza.

5. Per quanto riguarda il secondo segno c’è poco da dire, perché è chiaro che l’anima, a questo punto, non prova assolutamente più gusto nelle immagini estranee, cioè mondane, dal momento che essa non si diletta nemmeno più delle immagini relative alle cose di Dio per i motivi già detti. Ma, ripeto, durante questo raccoglimento l’immaginazione è solita spaziare liberamente, senza che l’anima si compiaccia o vi acconsenta; anzi ne è infastidita, perché ciò disturba la sua pace e il suo diletto.

6. Credo non sia opportuno parlare ora della convenienza e necessità del terzo segno, cioè della conoscenza o attenzione generale, piena d’amore, per Dio, al fine di abbandonare la meditazione, perché è stato detto qualcosa trattando del primo segno. Se ne parlerà espressamente a suo luogo, quando si esaminerà questa conoscenza generale e confusa, cioè dopo aver analizzato i modi particolari di apprendere dell’intelletto. Qui mi limiterò ad addurre un solo motivo che permette di vedere chiaramente come, al momento di lasciare la via della meditazione e del ragionamento, il contemplativo abbia bisogno di questa conoscenza o attenzione piena di amore per Dio, in maniera generale. Questo perché, se l’anima in quel momento non avesse questa conoscenza o sentimento della presenza di Dio, resterebbe inoperosa e non avrebbe nulla. In realtà, dopo aver lasciato la meditazione, che aiuta a discorrere attraverso le potenze sensitive, se all’anima viene a mancare anche la contemplazione, cioè, ripeto, la conoscenza generale nella quale essa tiene impegnate le potenze spirituali, la memoria, l’intelletto e la volontà, unite ormai in questa conoscenza già prodotta in esse, detta anima rimarrebbe necessariamente priva di ogni esercizio nei confronti di Dio. Essa, infatti, non può operare né ricevere ciò che viene compiuto se non per mezzo delle potenze sensitive e spirituali. Mediante le prime, come ho detto, l’anima può discorrere, cercare ed elaborare le conoscenze degli oggetti; mediante le seconde può godere delle conoscenze ricevute attraverso le potenze precedenti, senza che queste operino più.

7. La differenza, dunque, che esiste nell’uso che l’anima fa delle potenze nell’uno e nell’altro stato, è la stessa che vige tra il lavorare a un’opera e il godere dell’opera fatta, oppure tra la fatica del cammino e la riposante quiete al termine del cammino. È come la differenza che intercorre tra la preparazione di un cibo e il mangiarlo o gustarlo già cotto e triturato, senza alcuna fatica; o ancora tra il ricevere e l’approfittare di ciò che si è ricevuto. Ugualmente, se l’anima non fosse occupata nell’operare  con le potenze sensitive nella meditazione e nel ragionamento, o con l’aiuto delle potenze spirituali nella contemplazione e nella conoscenza, di cui ho parlato, nella quale essa gode di un bene ricevuto e acquisito; in breve, se essa non si serve di entrambe queste potenze, non potremmo assolutamente dire né come né in che cosa sia occupata. È, quindi, indispensabile all’anima avere questa conoscenza generale per poter lasciare la via della meditazione e del ragionamento.

8. Ma a questo proposito si deve sapere che questa conoscenza generale di cui sto parlando, a volte è molto sottile e delicata, soprattutto quando è più pura, semplice, perfetta, più spirituale e interiore, tanto che l’anima, pur essendo occupata in essa, non riesce a vederla né a sentirla. Questo accade quando tale conoscenza, ripeto, è in sé più limpida, perfetta e semplice. E lo è quando essa investe un’anima più spoglia e distaccata da altre conoscenze e nozioni particolari alle quali l’intelletto e i sensi potrebbero essere attaccati. Così, essendo l’anima priva di queste conoscenze particolari, offerte dall’intelletto e dai sensi secondo la loro abituale capacità, non le sente più, perché le mancano le forme sensibili. Questo è il motivo per cui, quanto più pura, perfetta e semplice è tale conoscenza, tanto meno l’intelletto la comprende e tanto più la sente oscura. Al contrario, quanto meno essa è in sé pura e semplice nell’intelletto, tanto più chiara e preziosa apparirà all’intelletto stesso, essendo vestita o mescolata o avvolta in alcune forme sensibili su cui l’intelletto o i sensi possono fermarsi.

9. Il seguente paragone ci permetterà di comprendere meglio questo pensiero: quando un raggio di sole entra per la finestra, più esso è pieno di corpuscoli e di polvere, più appare visibile, percettibile e chiaro al senso della vista. Ma naturalmente il raggio è meno puro e meno chiaro e in sé meno semplice e perfetto, perché pieno di tanta polvere e corpuscoli estranei; quanto invece è più puro e privo di quei corpuscoli e di pulviscolo, tanto meno sensibile e percettibile appare all’occhio materiale; quanto più è puro, tanto più oscuro e inafferrabile appare. Se questo raggio fosse completamente privo di particelle di polvere, anche delle più minuscole, sarebbe del tutto invisibile e impercettibile all’occhio, perché privo di quegli elementi visibili che formano l’oggetto proprio della vista. Quest’ultima, infatti, non troverebbe elementi su cui posarsi, perché la luce non è l’oggetto proprio della vista, ma il mezzo con cui scorge ciò che è visibile. Così, mancando gli elementi visibili sui quali il raggio o la luce possono riflettersi, non si vede nulla. Per cui, se il raggio entrasse da una finestra e uscisse da un’altra senza imbattersi in nessun oggetto che faccia da schermo, non si vedrebbe nulla. Eppure il raggio sarebbe in sé più puro e più limpido di quando, carico di particelle visibili, si vede e si percepisce come più luminoso.

10. Lo stesso accade per la luce spirituale nei confronti della vista dell’anima, cioè l’intelletto. Questa conoscenza generale, questa luce soprannaturale, di cui sto parlando, lo investe con tanta limpidezza e semplicità ed è tanto spoglia e aliena da tutte le forme sensibili, le quali sono l’oggetto proprio dell’intelletto, che questo non l’avverte e non la vede. Anzi, a volte, quanto tale conoscenza è più pura, crea oscurità nell’intelletto, perché lo priva delle sue luci abituali, delle forme e dei fantasmi, e allora esso si rende conto dell’oscurità in cui si trova. Ma quando l’anima non è investita da questa luce divina con tanta forza, non scorge le tenebre, né vede la luce, né percepisce avvertitamene conoscenza alcuna di quaggiù o di lassù. Così, a volte, essa viene a trovarsi come in un profondo oblio, non sapendo dove si trova, né cosa abbia fatto, né se sia passato del tempo. Può dunque accadere, e accade, che l’anima trascorra molte ore in questo oblio e, quando ritorna in sé, le sembra che tale oblio sia durato un attimo e che non sia accaduto nulla.

11. La causa di tale oblio è da ricercarsi nella purezza e nella semplicità di questa conoscenza che, occupando l’anima, la rende semplice, pura e distaccata da tutte le percezioni e le immagini dei sensi e della memoria con cui essa operava nel tempo, lasciandola così nell’oblio e senza tempo. Quest’orazione, sebbene duri molto, all’anima – ripeto – sembra brevissima, perché è stata unita a Dio per mezzo della sua intelligenza pura, cioè libera da ogni mediazione, quindi fuori del tempo. Tale è l’orazione breve, di cui si dice che penetra i cieli: breve perché non è nel tempo; penetra i cieli perché l’anima è unita a Dio attraverso la sua intelligenza ormai celestiale. Perciò tale conoscenza lascia nell’anima, quando questa ritorna in sé, gli effetti in essa prodotti, senza che se ne accorga. Questi sono l’elevazione dello spirito all’intelligenza celestiale, il distacco e l’allontanamento da tutte le cose, forme e figure e dal loro ricordo. Davide afferma che gli accadde così quando tornò in sé da un oblio simile: Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto, che vuol dire: Nel continuo vegliare sono diventato come un passero solitario sopra un tetto (Sal 101,8). Dice di essere solitario, cioè staccato ed estraniato da tutte le cose. Abita sopra un tetto, perché il suo spirito è molto elevato. Così è l’anima, completamente ignorante delle cose della terra, perché conosce solo Dio. Per questo la sposa del Cantico afferma che, tra gli effetti prodotti in lei da questo suo sogno e oblio, c’era questo non sapere, quando, al momento in cui riceveva questa grazia, esclamò: Nescivi, cioè non seppi (Ct 6,12) da dove mi veniva tale grazia. Sebbene all’anima favorita di tale conoscenza sembri di non fare nulla né di essere occupata in cosa alcuna, perché non agisce con i sensi e le potenze, tuttavia non creda che stia perdendo tempo. Difatti, anche se l’armonia delle potenze dell’anima è sospesa, la sua intelligenza è nello stato di cui ho parlato sopra. Per questo motivo la sposa, che era saggia, sempre nel Cantico risponde a se stessa su questo dubbio, affermando: Ego dormio et cor meum vigilat (Ct 5,2), come a dire: sebbene io dorma, secondo la mia natura, cessando di agire naturalmente, il mio cuore vigila, elevato soprannaturalmente in una conoscenza soprannaturale.

12. Non si deve, però, credere che questa conoscenza, così come l’ho descritta, causi necessariamente oblio. Tale fenomeno avviene solo quando Dio priva l’anima dell’esercizio di tutte le sue potenze naturali e spirituali. Ciò accade rare volte, perché non sempre tale conoscenza occupa l’anima interamente. Affinché essa produca l’effetto di cui sto parlando, basta che l’intelletto sia libero da qualsiasi conoscenza particolare, nell’ordine temporale e spirituale, e che la volontà non abbia alcun desiderio di pensare agli oggetti d’entrambi gli ordini, come ho detto, perché allora è segno che l’anima è occupata. Questo, dunque, è l’indizio per sapere se l’anima si trova in tale stato, cioè quando tale conoscenza si applica e si comunica solo all’intelletto. Ciò accade, a volte, quando l’anima non se ne accorge. Quando, infatti, si comunica allo stesso tempo anche alla volontà, cioè quasi sempre, l’anima non manca di comprendere, press’a poco, se vuole prestarvi attenzione, di essere applicata e occupata in questa conoscenza. La riconosce perché sente di provare una soavità piena di amore, senza però sapere e comprendere in particolare ciò che ama. Per questo motivo definisce generale tale conoscenza piena d’amore, perché questa si comunica all’intelletto in modo oscuro e nella volontà veicola soavità e amore in modo confuso, senza cioè che questa sappia esattamente ciò che ama.

13. Per ora questo può bastare per far capire quanto convenga all’anima essere occupata in simile conoscenza prima di abbandonare la via della meditazione discorsiva e per essere sicura, sebbene ad essa sembri il contrario, che è ben occupata, dal momento che scorge in sé i suddetti segni. Dal paragone sopra riportato, inoltre, credo che si capisca come l’anima non debba ritenere questa luce più pura, elevata e chiara perché si presenta all’intelletto più comprensibile e percettibile. È simile al raggio di sole che è più visibile all’occhio quando è pieno di impurità. È dunque evidente, come dice Aristotele e ripetono i teologi, che quanto più alta ed eccelsa è la luce divina, tanto più oscura essa è per il nostro intelletto.

14. C’è molto da dire su questa conoscenza divina, considerata in se stessa e negli effetti che produce nei contemplativi. Rimando tutto al momento opportuno, perché anche su quello che ho detto in questo capitolo non mi sarei dilungato tanto se non per il timore di lasciare questa dottrina un po’ più confusa di quanto non sia ora. Di fatto lo è, e molto anche, lo ammetto, perché si tratta di un argomento di cui si parla poco sia a voce che per iscritto, essendo di per sé straordinario e oscuro. A tale difficoltà si aggiungono il mio povero modo di presentare tale dottrina e la mia poca scienza. Per questo, dubitando di non saperla spiegare, mi accorgo che spesso mi dilungo troppo e oltrepasso i limiti consentiti al luogo e alla dottrina in questione. Confesso, d’altronde, che a volte lo faccio di proposito, perché ciò che non si riesce a far capire con alcune ragioni, forse riuscirà comprensibile con altri argomenti e anche perché così si fa più luce su quanto si dirà più avanti. Per concludere questa parte, credo quindi opportuno rispondere a un dubbio che può sorgere circa la durata di questa conoscenza. È ciò che farò nel capitolo seguente.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/09/2012 17:49
 
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CAPITOLO 15

Ove si mostra ai proficienti, che cominciano a entrare in questa conoscenza generale della contemplazione, come sia a loro opportuno servirsi talvolta della meditazione discorsiva e delle loro potenze naturali.

1. Su quanto già è stato detto può sorgere un dubbio: i proficienti, quelli cioè che Dio comincia a introdurre in questa conoscenza soprannaturale di contemplazione, di cui sto parlando, e che iniziano appena a farne esperienza, non devono mai servirsi della meditazione, dei ragionamenti e delle immagini naturali? A questo dubbio si risponde nel modo seguente: a coloro che cominciano ad avere questa conoscenza amorosa generalmente non è proibito cercare di meditare, sia perché, essendo all’inizio del loro cammino, non sono abituati a questa conoscenza amorosa al punto d’intraprenderla immediatamente appena vogliano, sia perché non si sono ancora distaccati dalla meditazione tanto da non potere più talvolta meditare o discorrere naturalmente, com’erano soliti fare, con le immagini e le letture consuete, per trarne qualche nuovo profitto. Anzi, al principio, quando dagli indizi suddetti tali persone si accorgeranno che la loro anima non è più occupata nella conoscenza che dà pace, dovranno avvalersi della meditazione discorsiva, finché non arriveranno alla contemplazione abituale in un modo più o meno perfetto, come accennavo sopra. Ciò accadrà quando, volendo meditare, non raggiungeranno immediatamente la conoscenza e la pace interiore, e neppure ne avranno il minimo desiderio, come ho detto. Prima di arrivare a questo stato, che è proprio dei proficienti, si deve ricorrere sia all’uno che all’altro esercizio, secondo i momenti.

2. Così l’anima molte volte si troverà immersa in questa amorosa e pacifica presenza di Dio, senza l’aiuto delle sue potenze, non ponendo atti particolari, cioè non operando attivamente, ma disponendosi solo a ricevere. Altre volte, invece, per potersi introdurre in tale presenza, dovrà aiutarsi dolcemente e moderatamente con la meditazione discorsiva. Ma una volta entrata in quello stato, torno a ripetere, l’anima non si serve più delle sue potenze. Al contrario, si può veramente dire che, a questo punto, la conoscenza e il diletto abbondano in essa e l’unica sua attività consiste in uno sguardo pieno d’amore per Dio, senza cercare di sentire o di volere qualcos’altro. Così, dunque, Dio le si comunica passivamente, proprio come la luce si comunica a chi ha gli occhi aperti e il cui unico sforzo è quello di tenerli aperti per riceverla. Ricevere la luce che si comunica soprannaturalmente significa che l’anima comprende passivamente. Quando si dice che essa che essa non agisce, non significa che non comprenda, ma che comprende cose che non richiedono la sua capacità, bensì solo la disponibilità a ricevere ciò che le viene dato, come accade per le illuminazioni, le illustrazioni o le ispirazioni divine.

3. Sebbene in questo stato la volontà riceva gratuitamente questa conoscenza generale e confusa di Dio, per avere più semplicemente e abbondantemente questa luce divina è necessario solo che s’impegni a non interporvi altre luci più palpabili di altre conoscenze, forme o immagini di qualsiasi genere, perché niente di tutto questo somiglia a quella luce delicata e pura di Dio. Per questo, se l’anima volesse allora comprendere e meditare cose particolari, anche se spirituali, creerebbe ostacolo alla luce limpida, semplice e generale dello spirito, frapponendole come delle nubi. Somiglierebbe a colui che ha davanti agli occhi qualche ostacolo che gli impedisce di vedere la luce e di spingere più oltre lo sguardo.

4. Risulta quindi chiaro che, quando l’anima sarà completamente purificata e libera da tutte le forme o immagini percepibili, s’immergerà in questa luce pura e semplice, trasformandosi in essa fino allo stato di perfezione. Difatti questa luce non manca mai all’anima, però non le si comunica in presenza delle forme e dei veli delle creature, da cui è avvolta e impedita. Se l’anima si libererà da questi ostacoli, completamente, come dirò più avanti, si ritroverà nel puro spogliamento e nella povertà di spirito. Divenuta semplice e pura, essa si trasformerà nella semplice e pura Sapienza, che è il Figlio di Dio. Quando nell’anima innamorata viene a mancare ciò che è naturale, immediatamente penetra n essa il divino, in un modo naturale e soprannaturale, perché non si abbia il vuoto della natura.

5. La persona spirituale impari a starsene in un’attenzione amorosa per Dio e conservi il suo intelletto nella pace, quando non può meditare, anche se ha l’impressione di non fare nulla. Così, a poco a poco, e molto presto, le verranno infusi riposo e pace divina, con meravigliose e sublimi conoscenze di Dio, pregne del suo amore. E non si avvalga di idee, meditazioni, immagini o ragionamenti, per non turbare la sua anima e strapparla dalla sua gioia e pace. Ciò significherebbe procurarle disgusto e ripugnanza. Se, come ho detto, avesse lo scrupolo di non fare nulla, ricordi che non è poca cosa calmare la sua anima e conservarla nel riposo e nella pace, libera da ogni attività e preoccupazione. Ciò è quanto ci chiede anche il Signore per bocca di Davide: Vacate, et videte quoniam ego sum Deus (Sal 45,11), cioè: Imparate ad essere spogli di tutte le cose, sia interiormente che esteriormente, e vedrete che io sono Dio.

 

CAPITOLO 16

Ove si parla delle percezioni immaginarie che si presentano soprannaturalmente alla fantasia. Si afferma che non possono essere per l’anima un mezzo immediato per l’unione con Dio.

1. Dopo aver trattato delle percezioni che possiamo avere per via naturale e intorno alle quali lavorano la fantasia e l’immaginazione con l’aiuto del ragionamento, passo ora a trattare di quelle soprannaturali, che si chiamano visioni immaginarie, appunto perché, costituite da immagini, forme e figure, entrano nell’ambito di questi sensi, né più né meno di quelle prodotte per via naturale.

2. Ora va osservato che sotto il nome di visioni immaginarie si vogliono includere tutte le cose che possono presentarsi soprannaturalmente alla fantasia come immagini, forme, figure o specie. Infatti le percezioni e le immagini che i cinque sensi corporali producono nell’anima, in cui trovano la loro sede, possono verificarsi e stabilirsi in essa anche per via soprannaturale senza il concorso dei sensi esterni. In effetti, il senso della fantasia, insieme alla memoria, è come un archivio o deposito dell’intelletto, in cui vengono accolte tutte le forme e immagini intelligibili: al pari di uno specchio, la fantasia le conserva in sé, dopo averle ricevute dai cinque sensi oppure, come ho detto, per via soprannaturale. Le presenta poi all’intelletto, che a sua volta le analizza e le giudica. La fantasia può, inoltre, comporre e formare altre immagini simili a quelle che già conosce.

3. Si tenga presente che, come i cinque sensi esterni offrono a quelli interni le immagini e le forme dei loro oggetti, così – ripeto – sia Dio che il demonio possono, soprannaturalmente e senza il concorso dei sensi esterni, produrre le stesse immagini e forme, anzi di più belle e perfette. Dio, servendosi di queste immagini, spesso rivela all’anima molte cose e le insegna una profonda sapienza, come si legge in ogni pagina della sacra Scrittura. Isaia (6,2-4), per esempio, vide Dio nella sua gloria circondato dal fumo che riempiva il tempio e dai serafini che si coprivano il volto e i piedi con lei ali; Geremia (1,11) vide la verga che vigilava e Daniele (7,10) ebbe moltissime visioni, ecc. Anche il demonio cerca d’ingannare l’anima con le sue – apparentemente buone – manifestazioni, come si legge nel primo libro dei Re, quando ingannò tutti i profeti di Acab: mostrò alla loro immaginazione i corni con cui, affermava, avrebbe distrutto gli assiri; e invece mentiva (1Re 22,11). Si potrebbero qui ricordare anche le visioni che ebbe la moglie di Pilato (Mt 27,19), perché questi non condannasse Cristo, e molti altri episodi. Da ciò risulta che nello specchio della fantasia e dell’immaginazione tali visioni immaginarie si presentano ai proficienti più frequentemente di quelle corporee esterne. Come ho detto, le visioni immaginarie non si differenziano, quanto alla forma e alla rappresentazione, da quelle provenienti dai sensi esterni. Sono, invece, molto diverse quanto all’effetto che producono e alla loro perfezione, perché sono più sottili e producono nell’anima un effetto più profondo, in quanto soprannaturali e più interiori di quelle soprannaturali provenienti dai sensi esterni. Ciò non toglie, tuttavia, che alcune delle visioni corporee esterne producano un effetto maggiore; in fondo, Dio si comunica all’anima come gli pare e piace. Ma voglio soltanto dire che tali visioni, in quanto spirituali, sono generalmente più efficaci.

4. Ordinariamente il demonio per i suoi inganni, sia naturali che soprannaturali, si serve dei sensi dell’immaginazione e della fantasia. Essi, infatti, sono la porta d’entrata nell’anima e qui, come ho detto, l’intelletto attinge, quasi fosse un porto o un luogo dove prendere e deporre le sue provviste. Per questo, sia Dio che il demonio sono solleciti nell’offrire all’intelletto le pietre preziose delle loro immagini e forme soprannaturali. Tuttavia Dio non ricorre solo a questo mezzo per istruire l’anima, ma, dimorando sostanzialmente in essa, può fare ciò in modo diretto e con altri mezzi.

5. Non è ora il caso che mi dilunghi a descrivere i segni per riconoscere quali visioni provengano da Dio e quali no, e i diversi modi in cui esse avvengano. Il mio intento, infatti, non è questo, ma soltanto mostrare che l’intelletto deve stare attento affinché le visioni provenienti da Dio non gli siano d’impedimento o di ostacolo all’unione con la divina Sapienza, e le false non lo traggano in inganno.

6. Per questo dico che l’intelletto non deve lasciarsi ingombrare né tanto meno deve nutrirsi di tutte queste percezioni e visioni immaginarie o di qualsiasi altra rappresentazione che gli si presenti sotto una forma, figura o conoscenza particolare, siano esse false e provenienti dal demonio o sicuramente vere perché provenienti da Dio. L’anima non deve accoglierle né trattenerle, ma rimanerne distaccata, spoglia, pura e semplice, senza alcuna forma o modalità, come si richiede per l’unione con Dio.

7. Questo perché tutte le forme suddette, nel momento in cui vengono percepite, si presentano sempre – ripeto – sotto forme e modi limitati, mentre la Sapienza di Dio, alla quale deve unirsi l’intelletto, non ha forma né modo speciali; essa non soggiace ad alcun limite, né tanto meno è contenuta in una conoscenza distinta e particolare, perché è totalmente pura e semplice. Per unire due estremi, come quelli dell’anima e della Sapienza divina, è necessario che vi sia tra loro una certa somiglianza; perché l’anima si unisca alla Sapienza divina, dev’essere pura e semplice, non limitata né legata ad alcuna conoscenza particolare, né modificata dai limiti di forme, specie o immagini. Dio non può essere contenuto in alcuna immagine o forma né in una cognizione particolare; per questo, se l’anima vuole unirsi a lui, non dev’essere assoggettata a una forma o conoscenza distinta.

8. Che in Dio non esista forma né somiglianza, lo fa ben capire lo Spirito Santo nel libro del Deuteronomio quando afferma: Vocem verborum eius audistis, et formam penitus non vidistis: Voi udivate il suono delle parole, ma non vedevate alcuna figura (Dt 4,12). Aggiunge che c’erano tenebre, nuvole e oscurità (Dt 4,11), cioè questa conoscenza confusa e oscura di cui sto parlando, nella quale l’anima si unisce a Dio. Poco più avanti dice: Non vidistis aliquam similitudinem in die, qua locutus est vobis Dominus in Horeb de medio ignis, cioè: Non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco (Dt 4,15).

9. Che l’anima non possa giungere fino alle altezze di Dio, nei limiti concessi in questa vita, per mezzo di figure e immagini, ce lo ricorda ancora la sacra Scrittura nel libro dei Numeri. Ivi si legge che Dio rimproverò Aronne e Maria perché avevano mormorato contro Mosè, loro fratello, per far loro comprendere a qual grado di unione e di amicizia lo aveva elevato. Disse loro così: Si quis inter vos fuerit propheta Domini, in visione apparebo ei, vel per somnium loquar ad illum. At non talis servus meus Moyses, qui in omni domo mea fidelissimus est: ore enim ad os loquor ei, et palam, et non per aenigmata et figuras Dominum videt, che significa: Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi, ed egli guarda l’immagine del Signore (Nm 12,6-8). Questo testo ci fa chiaramente comprendere che nell’eccelso stato di unione, di cui sto parlando, Dio non si comunica all’anima sotto i veli di visioni immaginarie, di somiglianze o di figure, ma bocca a bocca: cioè l’essenza pura e semplice di Dio, che è come la sua bocca per amore, si comunica all’essenza pura e semplice dell’anima, che è come la sua bocca per amore di Dio.

10. Pertanto, per giungere a quest’unione d’amore di Dio essenziale, l’anima deve fare attenzione a non attaccarsi a queste visioni immaginarie, forme, rappresentazioni o conoscenze particolari, che non possono essere un mezzo adeguato e immediato per tale scopo; anzi le sarebbero d’impedimento; deve quindi rinunciare ad esse e cercare di evitarle. L’unico motivo per cui potrebbero essere accettate e apprezzate sarebbe quello del profitto e degli effetti buoni che le visioni vere producono nell’anima. Ma anche in questo caso è bene non accettarle, anzi conviene, per maggiore profitto, negarle sempre. Infatti il bene che queste visioni immaginarie possono operare nell’anima, insieme a quelle corporee esterne di cui si è parlato, consiste nel comunicare conoscenza, amore e dolcezza. Ora, perché producano questi effetti, non è necessario che l’anima le voglia accettare, come ho detto sopra. Le visioni li producono nel momento stesso in cui si presentano all’immaginazione; esse fanno sentire la loro presenza all’anima e le infondono conoscenza, amore, soavità o qualsiasi altra cosa voluta da Dio. Tale effetto viene prodotto nell’anima non solo simultaneamente, ma sostanzialmente, quantunque in momenti diversi, e passivamente, senza che essa possa impedirlo, anche se volesse. Del resto, prima non aveva potuto acquisirlo da sola, anche se dovette lavorare per disporsi a riceverlo. Prendiamo come esempio la vetrata. Come questa non può impedire al raggio di sole di penetrarla, e da esso viene illuminata, passivamente, senza suo concorso se non offrire la sua trasparenza, così l’anima, anche se volesse resistere, non potrebbe non ricevere gli influssi e le comunicazioni di tali visioni. Difatti alle visioni soprannaturali infuse non può resistere la volontà contraria, umile e piena di amore, ma solo l’impurità e l’imperfezione dell’anima, come le macchie sulla vetrata sono di ostacolo alla luce del sole.

11. È chiaro, quindi, che quanto più l’anima si spoglia, secondo la volontà e l’attaccamento, delle conoscenze e delle macchie causate da quelle forme, immagini e figure, con cui sono avvolte le comunicazioni spirituali di cui ho detto, non solo non si priva di tali comunicazioni e dei benefici che ne derivano, ma molto meglio si dispone ad accoglierle con abbondanza, chiarezza e libertà di spirito e semplicità, quando mette da parte tutte quelle conoscenze, perché sono cortine e veli che coprono la parte spirituale in esse contenuta. Se, al contrario, l’anima volesse nutrirsi di tali visioni, queste occuperebbero lo spirito e i sensi, tanto che non avrebbe più la semplicità e la libertà per ricevere simili comunicazioni. Tutto occupato nella corteccia, l’intelletto non avrebbe la libertà di ricevere lo spirito di quelle forme. Pertanto, se l’anima vuole accettare queste visioni e tenerle in conto, se ne ingombra e si contenta di quanto meno importante esse contengono, ossia di tutto quello che essa può afferrarne o conoscerne, come forma, immagine e conoscenza particolare. Difatti, quanto alla parte principale, cioè al bene spirituale che le viene infuso, l’anima non può afferrarlo o comprenderlo; non sa né saprà dire cosa sia, perché è un favore prettamente spirituale. Essa conosce soltanto ciò che di meno importante v’è in esse e secondo il suo modo d’intendere, cioè le forme sensibili. Per questo dico che di quelle visioni le viene comunicato ciò che essa non potrebbe comprendere né immaginare, e tutto ciò passivamente, senza che essa vi applichi o sappia applicarvi la sua capacità di comprensione.

12. L’anima deve, quindi, rifiutare sempre tutte le percezioni che essa può vedere e sentire distintamente, perché la comunicazione dei sensi non è un fondamento sicuro come la fede. Al contrario, deve fissare la sua attenzione non su ciò che appartiene ai sensi ma allo spirito, non su ciò che cade sotto immagini sensibili ma su ciò che porta all’unione nella fede, la quale, come ho detto, ne costituisce il mezzo adatto. Così l’anima trarrà profitto per la sua fede da ciò che di sostanziale c’è in queste visioni, quando saprà rinunciare completamente a ciò che in esse c’è di sensibile e d’intelligibile e, rifiutandole, le userà bene in vista del fine che Dio ha voluto nel comunicargliele. Infatti, come si diceva parlando delle visioni corporee, Dio non le concede all’anima perché essa desidera averle e nemmeno affinché ponga in esse il suo attaccamento.

13. Ma a questo punto sorge un dubbio: se è vero che Dio concede all’anima visioni soprannaturali non perché essa le desideri, vi si attacchi o le apprezzi, allora per quale altra ragione gliele concede? Infatti l’anima, con simili comunicazioni, può cadere in molti errori e pericoli o perlomeno negli inconvenienti descritti che le impediscono di progredire. In realtà Dio potrebbe dare e comunicare spiritualmente e sostanzialmente ciò che invece, attraverso i sensi, le comunica in queste visioni e immagini sensibili.

14. Risponderò a questo dubbio nel capitolo seguente, perché si tratta di una dottrina importante, anzi fondamentale, secondo me, sia per le persone spirituali sia per coloro che le guidano. Ivi s’indicherà il modo di agire e il fine che Dio in quelle cose si prefigge; proprio perché molti ignorano tutto ciò, non sanno governarsi e non sanno guidare se stessi né gli altri verso l’unione divina. Pensano in realtà che, per il solo fatto che tali visioni sono vere e vengono da Dio, sia bene accettarle e basarsi su di esse, non considerando che pure in esse l’anima può nutrire spirito di possesso, attaccamento e ostacolo, allo stesso modo delle cose del mondo, se non saprà rinunciarvi. Crederanno bene accogliere quelle buone e respingere le altre, mettendo se stessi e le anime in grandi difficoltà e gravi pericoli, perché dovranno discernere tra le visioni vere e quelle false. Ma Dio non vuole che vengano a trovarsi in tali situazioni, né prescrive loro di esporre le anime semplici e umili a questi pericoli e incertezze. Essi, cioè coloro che le guidano, hanno una dottrina sana e sicura, che è la fede, con cui possono certamente andare avanti.

15. Per questo motivo occorre chiudere gli occhi a tutto ciò che viene dai sensi, come pure alle conoscenze chiare e particolari. Anche Pietro, pur essendo certissimo d’aver avuto una visione della gloria di Cristo nella trasfigurazione, tuttavia – dopo averla riportata nella sua seconda lettera – non volle che fosse presa come principale argomento di certezza. Per raccomandare la fede aggiunse: Et habemus firmiorem propheticum sermonem: cui benefacitis attendentes, quasi lucernae lucenti in caliginoso loco, donec dies elucescat, ecc.: Ma abbiamo una parola ancor più sicura, quella dei profeti, alla quale fate bene a prestare attenzione, come a lampada che brilla in luogo oscuro (2Pt 1,19). Quest’ultimo paragone, se ci riflettiamo bene, racchiude la dottrina che sto illustrando. Quando si dice di guardare alla fede, di cui parlarono quei profeti, come a lampada che brilla in luogo oscuro, si dice che dobbiamo tenerci al buio, chiudendo gli occhi a tutte le luci della terra e che, in queste tenebre, solo la fede, anch’essa oscura, è la luce a cui dobbiamo aggrapparci. Se, invece, vogliamo basarci su altre luci o conoscenze chiare e distinte, cessiamo di aggrapparci alla luce oscura della fede, che non ci offre più la sua luce in questo luogo oscuro di cui parla san Pietro. Questo luogo significa l’intelletto, che è il candeliere su cui poggia la candela della fede; esso deve rimanere oscuro fino a quando, nell’altra vita, spunterà il giorno della chiara visione di Dio e, in questa, quello della trasformazione e dell’unione con Dio, verso cui l’anima s’incammina.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/09/2012 17:50
 
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CAPITOLO 17

Ove si spiegano il fine e il modo in cui Dio comunica all’anima i beni spirituali tramite i sensi, e si risponde al dubbio esposto sopra.

1. Molto c’è da dire sul fine e sul modo in cui Dio concede queste visioni. Egli vuole elevare l’anima dalla sua bassezza fino all’unione divina, di cui parlano tutti i libri spirituali, compreso questo. Perciò, nel presente capitolo, dirò soltanto ciò che serve per rispondere al nostro dubbio che era: dal momento che in queste visioni soprannaturali si nascondono tanti pericoli e molti ostacoli per andare avanti, come ho detto, perché Dio, che è sapientissimo e propenso a liberare le anime da ostacoli e insidie, le offre e le comunica?

2. Prima di rispondere, occorre ricordare tre principi fondamentali. Il primo è tratto dalla lettera ai Romani di san Paolo, ove si dice: Quae autem sunt, a Deo ordinata sunt, cioè: Le cose che esistono sono state ordinate da Dio (Rm 13,1). Il secondo è tratto dal libro della Sapienza, ove lo Spirito dice: Disponit omnia suaviter (Sap 8,1), come a dire: la sapienza di Dio, benché si estenda da un confine all’altro, cioè da un estremo all’altro, governa con bontà eccellente ogni cosa. Il terzo, che viene offerto dai teologi, recita così: omnia movet secundum modum eorum, cioè: Dio muove tutte le cose secondo la loro natura.

3. Secondo questi principi fondamentali è, quindi, chiaro che Dio, per muovere ed elevare l’anima dal limite estremo della sua bassezza al vertice sublime della sua grandezza nell’unione con lui, lo fa con ordine, con soavità e secondo la natura di quest’anima. Ora, poiché l’ordine seguito dalle persone nella conoscenza passa attraverso le forme e le immagini delle cose create, e il modo di conoscere e di apprendere passa attraverso i sensi, Dio per elevare l’anima alla somma conoscenza deve, agendo con soavità, cominciare a muoverla dall’estrema bassezza dei sensi ed elevarla, secondo la sua natura, verso l’altro estremo, quello della sapienza spirituale, che non cade sotto i sensi. Per questo Dio la eleva pian piano, prima istruendola per mezzo di forme, immagini e cose sensibili, sia naturali che soprannaturali, conformi al suo modo di apprendere, e poi attraverso meditazioni discorsive, fino a portarla alla somma grandezza del suo spirito.

4. Questo è il motivo per cui Dio le comunica visioni, rappresentazioni, immagini e altre conoscenze sensibili e intelligibili spirituali. Questo non vuol dire che egli non voglia darle immediatamente, dal primo atto, la sapienza dello spirito. Lo farebbe se i due estremi, quello umano e quello divino, il senso e lo spirito, potessero per via ordinaria congiungersi e fondersi in un unico atto, senza l’intervento di altri atti preparatori che con ordine e soavità possono congiungersi tra loro, facendo gli uni da fondamento e preparazione per gli altri, come gli agenti naturali. E così le prime disposizioni servono alle seconde, le seconde alle terze e via di seguito. Allo stesso modo, Dio va perfezionando l’uomo secondo la sua stessa natura, cominciando dal più basso ed esteriore per arrivare al più alto e interiore. Egli lo perfeziona, dunque, prima nei sensi del corpo, spingendolo a far buon uso degli oggetti dell’ordine naturale, esterni ma eccellenti, come ascoltare prediche, partecipare alla messa, guardare cose sante, mortificare il gusto nel mangiare, mortificare il tatto attraverso il santo rigore della penitenza. Quando questi sensi sono sufficientemente disposti, suole perfezionarli ulteriormente. Accorda ad essi favori soprannaturali e doni per confermarli sempre più nel bene, offrendo loro comunicazioni soprannaturali, come, ad esempio, visioni di santi o di cose sante corporee, profumi e locuzioni soavissime o un grandissimo diletto nel tatto. Attraverso simili favori i sensi vengono confermati nella virtù e liberati dal desiderio degli oggetti cattivi. Oltre a questo, Dio perfeziona a poco a poco anche i sensi corporali interni, di cui sto parlando, cioè l’immaginazione e la fantasia; li abitua al bene con considerazioni, meditazioni e santi discorsi, istruendo così lo spirito. Quando la persona è ormai disposta grazie a questo esercizio naturale, Dio è solito illuminarla e spiritualizzarla ulteriormente con alcune visioni soprannaturali, che sono quelle che si chiamano immaginarie, nelle quali, come ho detto, lo spirito trova grande giovamento; nelle une e nelle altre, infatti, viene dirozzato e riformato a poco a poco. In questo modo Dio eleva gradualmente l’anima, conducendola verso ciò che è più interiore. Non che sia sempre necessario conservare rigidamente quest’ordine di priorità, come è presentato qui. A volte Dio si serve di alcuni mezzi e non di altri, passa dal più interiore al meno interiore, o accorda i suoi favori tutti in una volta. Egli agisce secondo ciò che è bene per l’anima e secondo come vuole concederle i favori. Ma la via ordinaria è quella che ho esposto.

5. In questo modo, dunque, Dio va istruendo e rendendo spirituale l’anima. Comincia a comunicarle la vita spirituale partendo dalle cose esterne, palpabili e adeguate ai sensi, secondo la limitatezza e la poca capacità dell’anima. Attraverso la mediazione della corteccia di queste cose sensibili, di per sé buone, la spinge a emettere atti particolari e a ricevere ogni volta tante piccole comunicazioni spirituali. Così, a poco a poco, essa acquisterà l’abitudine di ciò che è spirituale e conseguirà la sostanza della vita spirituale, del tutto estranea ai sensi. Ma, come ho detto, l’anima potrà giungervi solo a poco a poco, a modo suo, attraverso i sensi, a cui è sempre legata. A mano a mano che si avvicina alla vita dello spirito nel suo rapporto con Dio, si spoglia e si libera dei mezzi sensibili, cioè della meditazione discorsiva e immaginaria. Perciò, quando giungerà a trattare con Dio in un modo perfettamente spirituale, essa sarà necessariamente spogliata di tutto ciò che riguardo a Dio può cadere sotto i sensi. Difatti, quanto più una cosa si avvicina a un estremo, tanto più si allontana e si estrania dall’altro estremo, e quanto più perfettamente aderisce all’uno, tanto più è distaccata dall’altro. Dice un adagio spirituale: Gustato spiritu, desipit omnis caro, che significa: Una volta gustate le dolcezze dello spirito, l’anima trova insipido tutto ciò che viene dalla carne: cioè tutte le vie della carne, che rappresentano ogni tipo di relazione dei sensi con lo spirito, non giovano e non procurano soddisfazione alcuna. Ciò è evidente, perché se è spirito non cade più sotto i sensi, e se può essere afferrato dai sensi allora non è puro spirito. Quanto più i sensi e le facoltà naturali possono sapere dello spirito, tanto meno questo è spirituale e soprannaturale, come si deduce da ciò che è stato detto finora.

6. Pertanto la persona spirituale che ha raggiunto la perfezione non tiene più conto dei sensi, né riceve cosa alcuna per loro tramite, né soprattutto si serve o ha bisogno di servirsi di essi per andare a Dio, come faceva prima quando non era avanzata nella vita spirituale. Questo vuol farci intendere quel passo di san Paolo nella lettera ai Corinzi: Cum essem parvulus, loquebar ut parvulus, sapiebam ut parvulus, cogitabam ut parvulus. Quando autem factus sum vir, evacuavi quae erant parvuli, che significa: Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato (1Cor 13,11). Ho già spiegato come le cose relative ai sensi e alla conoscenza che lo spirito può cogliere siano esercizi infantili. Perciò, se l’anima vorrà attaccarvisi per sempre senza mai distogliersene, non cesserà di essere come un bambino e parlerà di Dio sempre come un bambino, penserà a Dio come un bambino. E poiché essa si ferma alla scorza, ai sensi, il che è proprio dei bambini, non arriverà mai alla sostanza dello spirito, che è proprio dell’uomo perfetto. Per poter crescere, dunque, l’anima non dovrà ricercare le rivelazioni di cui parliamo, anche se offerte da Dio. È simile al bambino che deve lasciare il seno materno per abituare il suo palato a un cibo più forte e sostanzioso.

7. Ma ora mi si chiederà: non sarà forse necessario che l’anima, finché è piccola, riceva tali rivelazioni e le abbandoni solo quando sarà cresciuta, così come è necessario al bambino succhiare al seno materno per nutrirsi, fino a quando sarà cresciuto e potrà farne a meno? Rispondo che, se si tratta della meditazione e dell’esercizio del discorso naturale con cui l’anima comincia a cercare Dio, è vero che non deve abbandonare questo mezzo sensibile per potersi nutrire. Essa deve continuare così fino al momento in cui può farlo, cioè sino a quando Dio la introdurrà in un rapporto con sé più spirituale, ossia nella contemplazione, di cui ho già parlato nel capitolo 13 di questo libro. Ma quando si tratta di visioni immaginarie o di altre comunicazioni soprannaturali che possono cadere sotto i sensi, indipendentemente dalla volontà dell’uomo, affermo che in qualsiasi momento, sia nello stadio perfetto che in quello meno perfetto, anche se vengono da Dio, l’anima non deve volerle, per due motivi. Primo perché, come ho detto, tali visioni producono nell’anima il loro effetto senza che essa possa impedirlo, pur potendo impedire e impedisca di fatto la visione stessa, come accade spesso. Di conseguenza, l’effetto che tale visione doveva provocare nell’anima viene prodotto in essa in un modo più sostanziale, anche se per un’altra via. L’anima infatti, ripeto, non può allontanare i favori che Dio vuole comunicarle, a meno che non vi sia qualche imperfezione o spirito di possesso. Ora, se essa rinuncia a queste cose in umiltà, diffidando di sé, non c’è alcuna imperfezione o spirito di possesso. In secondo luogo, l’anima si libera dal pericolo e dalla fatica che c’è nel discernere le visioni buone da quelle false e nel riconoscere se sono prodotte dall’angelo della luce o da quello delle tenebre. Ciò non procura alcun giovamento, ma fa solo perdere tempo, crea ostacoli all’anima, la mette nell’occasione di molte imperfezioni, le impedisce di progredire, occupandola in cose che non sono del suo stato, liberandola cioè da queste minuzie di visioni e di conoscenze particolari, come ho detto a proposito delle visioni corporee e di quelle di cui parlerò più avanti.

8. Dobbiamo convincerci che se il Signore non elevasse l’anima secondo la sua stessa natura, come dirò, non le comunicherebbe mai l’abbondanza del suo spirito mediante canali così stretti quali sono le forme, le figure e le conoscenze particolari, attraverso cui, appunto, le offre delle briciole per sostenerla. Per questo Davide dice: Mittit crystallum suam sicut buccellas: Getta come briciole la sua grandine (Sal 147,17), come a dire: invia la sua sapienza alle anime quasi a bocconi. È cosa veramente triste che l’anima, pur avendo una capacità infinita, venga nutrita con le briciole dei sensi, a causa del suo poco spirito e della sua scarsa sensibilità. Anche san Paolo si rammarica di questa poca disposizione e dell’inettitudine a ricevere i doni spirituali, quando scrive ai cristiani di Corinto: Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete: Tamquam parvulis in Christo lac potum vobis dedi, non escam (1Cor 3,1-2).

9. Occorre, dunque, ricordare che l’anima non deve porre attenzione alla scorza delle immagini e degli oggetti che le vengono presentati soprannaturalmente. Si terrà distaccata da tutto ciò che le verrà dai sensi esterni, come le locuzioni e le parole che colpiscono l’udito, le visioni di santi e gli splendori affascinanti che colpiscono gli occhi, i profumi che lusingano le narici, i gusti soavi del palato e altri piaceri del tatto, tutte sensazioni che in generale procedono dallo spirito e che ordinariamente accadono alle persone spirituali. Tanto meno dovrà soffermarsi su visioni dei sensi interiori, come le visioni immaginarie, ma respingerle tutte. Deve fissare lo sguardo solo sullo spirito buono che producono, cercando di conservarlo nelle opere e nella pratica ordinata di tutto ciò che riguarda il servizio di Dio, senza badare a quelle manifestazioni e senza cercare alcun gusto sensibile. In tal modo l’anima prenderà da tali comunicazioni solo ciò che Dio intende e vuole, cioè lo spirito di devozione, che è il fine principale per cui egli le concede. Lascerà quanto Dio non darebbe, se fosse possibile riceverle nello spirito senza quest’esercizio, cioè come ho detto, senza tali comunicazioni che passano attraverso i sensi.

 

CAPITOLO 18

Ove si parla del danno che certi direttori spirituali possono recare alle anime non guidandole con sano criterio per quanto riguarda le suddette visioni. Si mostra, inoltre, come tali visioni, pur venendo da Dio, possono indurre in errore.

1. Sull’argomento delle visioni non posso essere breve come vorrei, perché c’è molto da dire. Sebbene sia stato detto, in sostanza, quanto era necessario per far capire alla persona spirituale come deve comportarsi in queste visioni e al direttore cha la guida come deve trattarla in questi casi, non sarà superfluo approfondire ulteriormente questa dottrina. In questo modo si chiariranno meglio i danni che potranno venire sia alle persone spirituali che ai loro direttori, se presteranno troppa attenzione a quei fenomeni, anche quando venissero da Dio.

2. Il motivo che ora mi spinge a trattenermi ancora sull’argomento è la poca discrezione che ho avuto occasione di rilevare, a tale riguardo, in alcuni maestri spirituali. Costoro, ritenendosi sicuri su queste comunicazioni soprannaturali, convinti che siano buone e provenienti da Dio, sono caduti, insieme ai loro discepoli, in gravi errori e hanno dato prova di grande incapacità. Danno ragione alla seguente sentenza del Salvatore: Si caecus caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadunt: Quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadono in un fosso! (Mt 15,14). Non dice che cadranno, ma che cadono; in realtà non occorre cadere in errore perché ci sia caduta effettiva: il solo azzardarsi a condursi a vicenda è un errore, e già almeno in questo sbagliano. Difatti vi sono alcuni che con le anime favorite da queste visioni adottano un comportamento e un modo di fare tali da indurle nell’errore e nello scompiglio, oppure non le guidano lungo la via dell’umiltà, o le inducono in qualche modo a rivolgere l’attenzione ad esse. Di conseguenza, tali anime restano senza un vero spirito di fede e non vengono stabilite in esso, perché questi maestri fanno lunghi discorsi su tali fenomeni. Così fanno capire che ne hanno una grande stima e vi annettono molta importanza. Le anime fanno altrettanto: si attaccano ai quei fenomeni e non hanno per fondamento la fede, né si tengono sgombre, spoglie e distaccate da tutto ciò che impedisce loro di spiccare il volo verso le altezze della fede oscura. Tutto questo deriva dal comportamento e dal linguaggio che l’anima osserva nel suo direttore a tale riguardo. D’altronde non riesco a capire come essa giunga con grande facilità ad avere una stima incondizionata di tali visioni e a distogliere lo sguardo dall’abisso della fede.

3. Questa facilità deriva certamente dal fatto che l’anima è tutta presa da queste visioni. Poiché si tratta di fenomeni che passano attraverso i sensi e verso i quali è incline per natura, e dato che vi prova gusto ed è disposta a queste conoscenze di cose distinte e sensibili, basta che si accorga che il suo confessore o qualche altra persona le stima o vi annette un certo valore, perché faccia altrettanto; inoltre, senza che essa se ne accorga, prende sempre più gusto e si nutre sempre più di queste visioni e si sente sempre più incline e attaccata ad esse. Da ciò derivano quanto meno molte imperfezioni. L’anima non è più tanto umile; pensa che queste visioni abbiano qualche pregio, che essa valga qualcosa, che Dio l’abbia in considerazione; è contenta e soddisfatta di sé. Ma tutto questo è contrario all’umiltà. Presto il demonio ne approfitta per accrescere segretamente questo suo sentimento, senza che essa se ne accorga, e comincia a istillarle sul conto degli altri un certo modo di giudicare: se abbiano o meno tali favori, se siano o no gli stessi che ha lei. Tutto questo è contrario alla santa semplicità e alla solitudine interiore.

4. Ma oltre a questi danni e al fatto che tali anime non crescono nella fede se non si liberano da tali pensieri, vi sono altri danni, in tale comportamento, più sottili e più odiosi agli occhi di Dio, sebbene non così palpabili ed evidenti come i primi, perché impediscono all’anima di conseguire il perfetto spogliamento di sé. Ma tralascio ora tale argomento, per riprenderlo quando parlerò del vizio della gola spirituale e degli altri sei. Ivi, con l’aiuto di Dio, verranno trattate molte di queste macchie sottili e delicate che sporcano lo spirito, perché non si è in grado di guidarlo allo spogliamento.

5. Per adesso mi limito a dire qualcosa sul comportamento che devono assumere certi confessori incapaci di dirigere bene le anime. Naturalmente vorrei sapermi spiegare. Riconosco che è difficile far capire come lo spirito del discepolo si vada formando in modo intimo e segreto sul modello del suo padre spirituale. Temo, altresì, di affrontare questo argomento così vasto, perché sembra che non si possa spiegare un punto senza far capire bene anche l’altro. Del resto, poiché si tratta di realtà spirituali, sono intimamente legate tra loro.

6. Per quanto riguarda il nostro argomento, secondo me, le cose stanno così: se il padre spirituale è incline alle rivelazioni, tanto da attribuire loro importanza e provarne gusto, non potrà non istillare nel discepolo, seppure inconsapevolmente, questo suo stesso atteggiamento, a meno che il discepolo non sia più avanti di lui nella via della perfezione. Ma anche in questo caso il discepolo potrà ricevere grande danno se rimane sotto la sua direzione. Dall’inclinazione del padre spirituale e dal piacere che questi prova per tali visioni, nascerà in lui una certa stima. Se non sta molto attento, non mancherà di dar segni di apprezzamento al discepolo. Se poi quest’ultimo ha la stessa disposizione di spirito, non mancherà, secondo me, di nutrire come il maestro una grande stima per queste manifestazioni.

7. Ma non scendo ora in troppi particolari. Parlo, invece, del confessore, incline o meno verso queste visioni, che non ha la prudenza necessaria per distogliere il discepolo da tali manifestazioni e condurlo al distacco. Anzi si mette a parlarne con lui e, come ho detto, ne fa oggetto di conversazioni spirituali, fornendogli indizi per discernere le buone dalle false visioni. Anche se è bene operare questo discernimento, tuttavia non c’è motivo di porre l’anima in questi imbarazzi, preoccupazioni e pericoli. Quando, al contrario, non si prendono in considerazione o si respingono queste visioni, si evitano i suddetti inconvenienti e si compie il nostro dovere. Ma non è tutto. Certi direttori, quando vedono che alcune anime hanno queste visioni da Dio, chiedono loro di supplicare il Signore affinché riveli cose che riguardano la loro o altrui persona. E queste anime sciocche obbediscono, pensando che sia lecito chiedere tali cose per questa via: poiché Dio, secondo come desidera e per lo scopo che si è prefisso, vuole rivelare o comunicare qualcosa in modo soprannaturale, esse credono che sia lecito desiderare e anche chiedergli di rivelare tale cosa.

8. Se talvolta accade che Dio esaudisca la loro richiesta, tali anime si sentono ancora più rassicurate, pensando che il Signore, per il fatto stesso che risponde, si compiaccia e lo voglia. Ma in realtà Dio non gradisce questo né lo vuole. Quanto a esse, molto spesso agiscono e credono secondo quanto è stato loro rivelato o risposto. Essendo affezionate a questo modo di trattare con Dio, vi si attaccano molto e vi si adattano volentieri. Naturalmente se ne compiacciono e vi si accomodano secondo il loro modo di vedere; così molto spesso sbagliano e, vedendo che le cose non vanno come avevano pensato, si meravigliano. Immediatamente sorge il dubbio se erano o non erano da Dio, perché non le vedono accadere come si aspettavano. In fondo erano persuase di due cose: anzitutto, che tali favori provenissero da Dio, dal momento che penetravano in loro con tanta forza, mentre, come ho detto, possono provenire dalla natura incline a simili comunicazioni; in secondo luogo, che venendo da Dio tali rivelazioni si sarebbero dovute verificare come le avevano immaginate o pensate.

9. Questo è un grande sbaglio, perché le rivelazioni o le locuzioni divine non sempre si verificano come gli uomini le immaginano o come sono in sé. Non devono quindi basarsi su di esse né credervi ciecamente, anche quando si tratta di rivelazioni, risposte o parole di Dio. Difatti, anche se possono essere sicure e vere in sé, non sempre lo sono nelle loro cause e nel nostro modo di comprenderle, come mostrerò nel capitolo seguente. Ivi dirò e proverò, altresì, come Dio, pur rispondendo talora, in modo soprannaturale, a ciò che gli viene chiesto, non gradisce questo comportamento e, pur rispondendo, prova sdegno.

 

CAPITOLO 19

Ove si afferma e si prova che, sebbene le visioni e le locuzioni che vengono da Dio siano vere, ci si può sbagliare a loro riguardo. Le prove sono tratte dalla sacra Scrittura.

1. Per due motivi ho affermato che, sebbene le visioni e le locuzioni di Dio siano vere e sempre certe in sé, tuttavia non sono sempre tali per noi: il primo dipende dal nostro modo difettoso d’intenderle; e l’altro è dovuto al fatto che le loro cause a volte possono cambiare. Lo proverò con alcune testimonianze della sacra Scrittura. Quanto al primo motivo, è chiaro che non sempre tali rivelazioni sono e accadono secondo il nostro modo di comprenderle. Dio, infatti, essendo immenso e profondo, nelle sue profezie, locuzioni e rivelazioni segue abitualmente altre vie, concetti e idee molto differenti da quelli che comunemente intendiamo noi. Questo risulta da ogni pagina della sacra Scrittura. Difatti vi leggiamo che molte profezie e locuzioni da Dio indirizzate a numerose persone dei tempi antichi non si realizzarono come esse si aspettavano, perché le intendevano a modo loro o le prendevano troppo alla lettera. Ciò è quanto vedremo chiaramente nei brani della sacra Scrittura che seguiranno.

2. Nel libro della Genesi Dio disse ad Abramo, dopo averlo condotto nella terra di Canaan: Tibi dabo terram hanc: Ti darò questa terra (Gn 15,7). Più volte gli rinnovò questa promessa, senza mantenerla. Quando, ormai vecchio, il patriarca si sentì ripetere quelle parole, si rivolse al Signore dicendo: Domine, unde scire possum quod possessurus sum eam?, cioè: Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso? (Gn 15,8). Allora Dio gli rivelò che non lui personalmente, ma i suoi figli dopo quattrocento anni l’avrebbero posseduta (Gn 15,13-16). Così Abramo riuscì a comprendere la promessa, verissima in sé, perché Dio, dando quella terra ai suoi figli per amor suo, era come se l’avesse data a lui personalmente. Abramo, quindi, si sbagliava nel suo modo d’interpretare tale promessa: se avesse agito secondo il senso che dava alla profezia, sarebbe caduto in un grave errore, perché essa non doveva realizzarsi nel suo tempo, così che coloro che l’avessero visto morire dopo averlo sentito parlare della promessa fattagli da Dio sarebbero rimasti disorientati e avrebbero potuto pensare che la profezia fosse falsa.

3. Un fatto simile capitò a suo nipote Giacobbe, al tempo in cui il figlio di costui, Giuseppe, lo fece scendere in Egitto a causa della fame che attanagliava i cananei. Gli apparve il Signore e gli disse: Iacob, Iacob, noli timere, descende in Aegyptum, quia in gentem magnam faciam te ibi. Ego descendam tecum illuc… Et inde adducam te revertentem: Giacobbe, Giacobbe, non temere di scendere in Egitto, perché laggiù io farò di te un grande popolo. Io scenderò con te in Egitto e certamente io ti farò tornare (Gn 46,2-4). Ora, questo evento non si realizzò secondo il nostro modo d’intendere. Sappiamo, infatti, che il santo vecchio Giacobbe morì in Egitto (Gn 49,32), da dove, quindi, non uscì vivo. La promessa era destinata a compiersi nei suoi figli, che Dio fece uscire dall’Egitto molti anni dopo, guidandoli personalmente lungo il cammino. È chiaro, quindi, che chiunque avesse saputo di questa promessa fatta da Dio a Giacobbe si sarebbe potuto convincere che Giacobbe, com’era entrato personalmente vivo in Egitto per ordine e con l’aiuto di Dio, così certamente ne sarebbe dovuto uscire vivo, in persona, perché Dio gli aveva promesso il ritorno e il suo aiuto per realizzarlo; ma si sarebbe sbagliato e stupito vedendo lui morire in Egitto e la promessa rimanere irrealizzata. Così, pur essendo la parola di Dio verissima in sé, molti si sarebbero potuti sbagliare a suo riguardo.

4. Anche nel libro dei Giudici leggiamo che le tribù d’Israele si erano riunite per combattere la tribù di Beniamino e punirla d’una cattiva azione di cui si era macchiata. Poiché Dio aveva loro indicato un capo per fare questa guerra, gli israeliti erano così sicuri della vittoria che, quando furono sconfitti e perdettero ventiduemila uomini, rimasero molto sconcertati (Gdc 20,1-21). Trascorsero tutto il giorno in pianto dinanzi al Signore, non conoscendo il motivo della sconfitta: erano convinti che la vittoria sarebbe dovuta toccare a loro. Avendo, poi, chiesto a Dio se dovevano tornare a combattere oppure no, fu loro risposto di andare a combattere. Sicuri, questa volta, della vittoria, corsero all’attacco con grande coraggio; ma ancora una volta furono sconfitti e perdettero diciottomila uomini (Gdc 20,23-25). Caduti in una grande confusione, non sapevano cosa fare: nonostante Dio avesse loro comandato di combattere, venivano sempre sconfitti, cosa strana soprattutto per il fatto che superavano in numero e forza gli avversari. I soldati della tribù di Beniamino, infatti, non erano più di venticinquemilasettecento, mentre essi erano circa quattrocentomila (Gdc 20,17). In realtà essi s’ingannavano sul modo d’interpretare la parola di Dio, che non era menzognera. In effetti Dio non aveva detto che avrebbero vinto, ma solo di combattere; con quelle sconfitte voleva punirli per una certa negligenza e umiliarli per la loro presunzione. Quando, alla fine, Dio rispose loro che avrebbero vinto, conseguirono la vittoria (Gdc 20,28.34-35.43-46), anche se con l’astuzia e con grande fatica.

5. In questo e in molti altri modi le anime possono ingannarsi sulle locuzioni e le rivelazioni da parte di Dio, perché le interpretano alla lettera e in forma riduttiva. Ora, come risulta da quanto è stato detto, lo scopo principale di Dio in queste manifestazioni è quello di dire e comunicare lo spirito in esse racchiuso, difficile da intendere, perché è molto più ricco della lettera e molto più straordinario e trascendente rispetto ad essa. Così, chi si limita alla lettera, alla locuzione, alla forma, all’immagine sensibile della visione, sicuramente si sbaglierà in modo grossolano e poi si troverà turbato e confuso: si è lasciato guidare dai sensi, anziché fare spazio allo spirito distaccandosi, appunto, dai sensi. Littera enim occidit, spiritus autem vivificat, dice san Paolo: La lettera uccide, lo Spirito dà vita (2Cor 3,6). Occorre, quindi, rinunciare alla lettera, in questo caso ai sensi, e fermarsi nel buio della fede, cioè allo spirito, che i sensi non possono percepire.

6. Per questo motivo, molti figli d’Israele che interpretavano alla lettera le parole e le profezie dei profeti, che poi non si realizzavano come si attendevano, finivano per tenerle in poco conto e per non crederci. Sorse così tra loro un detto popolare, a mo’ di proverbio, che scherniva i profeti. Di esso si lamenta Isaia riportandolo in questi termini: Quem docebit Dominus scientiam? et quem intelligere faciet auditum? ablactos a lacte, avulsos ab uberibus. Quia manda, remanda, manda, remanda; exspecta, reexspecta, exspecta, reexspecta; modicum ibi, modicum ibi. In loquela enim labii et lingua altera loquetur ad populum istum: “A chi vuole insegnare la scienza? A chi vuole spiegare il discorso? Ai bambini divezzati, appena staccati dal seno. Sì – delle profezie dicono – precetto su precetto, precetto su precetto, norma su norma, norma su norma, un po’ qui, un po’ là”. Con labbra balbettanti e in lingua straniera parlerà a questo popolo (Is 28,9-11). Con tali parole Isaia fa comprendere chiaramente che i figli d’Israele si burlano delle profezie, dicendo per scherno il proverbio norma su norma, norma su norma. In effetti essi erano attaccati al senso letterale, che è il latte dei bambini, e ai loro propri sensi, che sono come il seno materno, i quali si contrappongono alla grandezza della scienza dello spirito. Per questo Isaia dice: a chi Dio insegnerà la sapienza delle sue profezie, a chi spiegherà la sua dottrina, se non a coloro che sono già divezzati dal latte della lettera e dal seno dei loro sensi? Proprio perché intendono tale sapienza secondo il latte della lettera e il seno dei loro sensi, essi dicono: precetto su precetto, precetto su precetto, norma su norma… Ma il Signore deve parlare loro secondo un senso e un linguaggio differenti dai loro sensi e dal loro linguaggio.

7. Non si deve, dunque, badare al nostro senso e al nostro linguaggio, sapendo che la parola di Dio ha un significato spirituale molto diverso dal nostro e più difficile da interpretare. Tant’è vero che lo stesso Geremia, pur essendo profeta del Signore, vedendo che il significato delle parole di Dio era così diverso da quello comunemente attribuito loro dagli uomini, sembra anche lui essersi lasciato ingannare. Prende allora la difesa del popolo, dicendo: Heu, heu, heu, Domine, Deus, ergone decepisti populum istumet Ierusalem, dicens: Pax erit vobis, et ecce pervenit gladius usque ad animam?: Ah, Signore Dio, hai dunque del tutto ingannato questo popolo e Gerusalemme, quando dicevi: “Voi avrete pace”, mentre una spada giunge fino alla gola? (Ger 4,10). Ora, la pace che Dio prometteva loro era quella che doveva stabilirsi tra lui e l’umanità mediante il Messia che avrebbe inviato, mentre essi pensavano a una pace temporale. Così, quando essi si trovavano in difficoltà e in guerra, pensavano che Dio li avesse ingannati, perché accadeva il contrario di ciò che si aspettavano. E dicevano quindi con Geremia: Expectavimus pacem, et non est bonum: Aspettavamo la pace, ma non c’è alcun bene (Ger 8,15). Era quindi impossibile che essi non s’ingannassero, perché si fermavano solo al senso letterale. In realtà, chi non si sarebbe ingannato e confuso interpretando alla lettera la profezia che Davide fa di Cristo in tutto il Salmo 71, soprattutto quando dice: Et dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum: E dominerà da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra (v.8)? Nello stesso salmo aggiunge: Liberabit pauperem a potenti, et pauperem cui non erat adiutor, che significa: Egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto (v.12). Chi non si sarebbe ingannato vedendolo poi nascere in umili condizioni, vivere in povertà, morire in miseria e non solo non impossessarsi della terra mentre era in vita, ma sottomettersi a gente ignobile, fino a morire sotto Ponzio Pilato? Come non cadere nell’inganno, pensando che il Signore non solo non liberò i suoi poveri discepoli dalle mani dei potenti di questo mondo, ma li lasciò uccidere e perseguitare per il suo nome?

8. Queste profezie su Cristo dovevano essere interpretate nel loro senso spirituale, e questo senso è molto vero. Cristo, infatti, è il Signore non solo della terra ma anche del cielo, perché è Dio. Quanto ai poveri che l’avrebbero seguito, non solo li avrebbe redenti e liberati dal potere del demonio, il potente contro il quale non avevano nessuno che li aiutasse, ma li avrebbe fatti anche eredi del regno dei cieli. Dio, dunque, parlava della cosa più importante riguardo a Cristo e ai suoi seguaci, cioè del regno eterno e della libertà eterna; al contrario, i giudei interpretavano a modo loro le profezie, fermandosi all’elemento meno importante di queste cose, cioè il dominio temporale e la libertà terrena di cui Dio fa poco conto; ai suoi occhi non sono niente né l’uno né l’altra. Per questo, accecati dall’apparenza vistosa della lettera e non comprendendo né lo spirito né la verità in essa contenuti, uccisero il loro Dio e Signore, come afferma san Paolo: Qui enim habitabant Ierusalem, et principies eius, hunc ignorantes, et voces prophetarum, quae per omne sabbatum leguntur, iudicantes impleverunt: Gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi non l’hanno riconosciuto e condannandolo hanno adempiuto le parole dei profeti che si leggono ogni sabato (At 13,27).

9. Questa difficoltà a comprendere le parole del Signore in modo adeguato era tale da far cadere in errore anche i suoi stessi discepoli, vissuti con lui. Ne abbiamo un esempio nei due discepoli che, dopo la sua morte, andavano a Emmaus, tristi, sfiduciati e dicevano: Nos autem sperabamus quod ipse esset redempturus Israel: Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele (Lc 24,21). Anch’essi pensavano a una redenzione e a un dominio temporale. Gesù, apparendo ad essi, rimproverò la loro stoltezza e durezza di cuore nel credere agli eventi predetti dai profeti (v. 25). Anche mentre saliva al cielo alcuni discepoli, ancora in preda a quella durezza, gli chiesero: Domine, si in tempore hoc restitues regnum Israel?: Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele? (At 1,6). Lo Spirito Santo rivela, dunque, molte cose che hanno un significato diverso da quello inteso dagli uomini, come si evince anche dalle parole di Caifa riguardo a Cristo: È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera (Gv 11,50). Ora Caifa non disse da sé quelle parole; ma egli vi aveva dato un senso molto diverso da quello inteso dallo Spirito Santo.

10. Risulta chiaro, quindi, che, sebbene le parole e le rivelazioni vengano da Dio, non possiamo essere certi del loro significato, perché possiamo ingannarci facilmente nel nostro modo d’interpretarle. Tutte, infatti, sono un abisso della profondità dello spirito. Volerle circoscrivere a ciò che ne capiamo noi e che i nostri sensi possono percepire, è come voler afferrare con la mano l’aria e il pulviscolo in essa contenuto: l’aria ci sfugge di mano e non ci resta nulla.

11. Perciò il maestro spirituale deve fare in modo che lo spirito del discepolo non si inaridisca correndo dietro a tutte le comunicazioni soprannaturali. Queste sono soltanto pulviscolo per lo spirito, ragion per cui il discepolo resterebbe con le mani piene di polvere, mentre non riceverebbe nulla di spirituale. Il maestro deve, invece, allontanarlo da tutte le visioni e locuzioni e deve imporgli di rimanere nella libertà e nelle tenebre della fede, in cui si riceve l’abbondanza dello spirito soprannaturale, quindi la sapienza e l’intelligenza propria delle parole di Dio. Difatti è impossibile all’uomo, se non è spirituale, giudicare e intendere secondo ragione le cose di Dio. Quando le giudica secondo i sensi, non è spirituale. Così, anche se queste vengono a lui comunicate attraverso i sensi, non le comprende. Lo afferma san Paolo quando dice: Animalis autem homo non percipit ea quae sunt spiritus Dei; stultitia enim est illi, et non potest intelligere, quia de spiritualibus examinatur. Spiritualis autem iudicat omnia: L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale, invece, giudica ogni cosa (1Cor 2,14-15). Per uomo naturale s’intende qui colui che adopera solo i sensi; l’uomo spirituale è, invece, colui che non si lega e non si lascia guidare dai sensi. È quindi temerario osar trattare con Dio attraverso le comunicazioni soprannaturali e permettere ai sensi la libertà di farlo.

12. Per meglio comprendere questa verità, faccio alcuni esempi. Prendiamo il caso di un santo molto afflitto, perché perseguitato dai suoi nemici, al quale Dio dica: “Ti libererò da tutti i tuoi nemici”. Questa profezia può essere verissima e, malgrado ciò, i nemici del santo possono prevalere su di lui e infliggergli la morte. Resterebbe, così, deluso chi avesse interpretato questa profezia in senso temporale, perché Dio può riferirsi alla vera e più importante vittoria, cioè alla salvezza, in cui l’anima è libera e vittoriosa su tutti i suoi nemici, in un modo molto più reale ed elevato che se fosse stata liberata dai nemici quaggiù. Tale profezia era, dunque, molto più reale e significativa di quanto l’uomo potesse capire rapportandola a questa vita. Dio nelle sue parole mira sempre al senso più importante e vantaggioso; l’uomo, invece, può comprendere, a modo suo e secondo una sua idea, il significato meno importante e così restare ingannato. Ciò è quanto si osserva in quella profezia che Davide fa a riguardo di Cristo nel salmo 2: Reges eos in virga ferrea, et tamquam vas figuli confringes eos: Li spezzerai con scettro di ferro, come vasi di argilla li frantumerai (Sal 2,9). Dio qui si riferisce alla sovranità più importante e perfetta, che è quella eterna, in effetti già realizzata, e non a quella regalità meno importante o temporale, che Cristo non esercitò durante la sua vita terrena.

13. Faccio un altro esempio. C’è un’anima che desidera ardentemente il martirio. Può accadere che Dio le dica: “Sarai martire” e le faccia sentire una grande consolazione interiore e la fiducia che questo si avvererà. Ma può accadere che essa non muoia martire e che tuttavia la promessa sia vera. Ma allora perché non si è realizzata questa profezia? Perché si compirà e potrà realizzarsi secondo il senso più importante ed essenziale in essa contenuto: Dio le dà un grande amore e la gloria essenziale del martirio; così conferisce veramente all’anima ciò che essa formalmente desiderava e che le era stato promesso. Il desiderio formale dell’anima, infatti, non era un determinato genere di morte, ma glorificare Dio attraverso il martirio e testimoniargli il suo amore come martire. Quel genere di morte non ha alcun valore senza quest’amore; ma tale amore, l’esercizio e la corona del martirio le vengono concessi compiutamente per altra via; quindi, pur non morendo martire, l’anima è molto soddisfatta per aver ricevuto ciò che desiderava. Questi e altri simili desideri, quando nascono da un amore vivo, anche se non si realizzano secondo i modi che l’anima pensava e intendeva, si compiono tuttavia in maniera diversa, molto superiore e a maggior gloria di Dio di quanto essa potesse chiedere. Per questo Davide dice: Desiderium pauperum exaudivit Dominus: Il Signore accoglie il desiderio dei miseri (Sal 10,17). Nel libro dei Proverbi la Sapienza divina afferma: Desiderium suum iustis dabitur: Il desiderio dei giusti è soddisfatto (Pro 10,24). A volte noi vediamo che molti santi desiderarono ardentemente molte cose per Dio, ma il loro desiderio non si realizzò in questa vita. Ora dobbiamo credere che, essendo il loro desiderio vero e giusto, si è perfettamente realizzato nell’altra vita. Stando così le cose, sarebbe stato vero anche se Dio in questa vita avesse promesso loro: Il vostro desiderio sarà esaudito. Ma non necessariamente sarebbe stato esaudito nel modo da loro pensato.

14. In questo e in altri modi le parole e le visioni di Dio possono essere vere e certe, e tuttavia noi possiamo sbagliarci a loro riguardo, perché non ne comprendiamo il significato profondo e principale che Dio pone in esse. Per questo è meglio e più sicuro fare in modo che le anime rifuggano prudentemente da queste manifestazioni soprannaturali, abituandosi, come ho detto, alla purezza di spirito nella fede oscura, mezzo indispensabile per unirsi a Dio.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/09/2012 17:52
 
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CAPITOLO 20

Ove si prova con passi della sacra Scrittura che le rivelazioni e le parole di Dio, pur essendo sempre vere, non sempre sono certe nelle loro cause.

1. Ora devo trattare del secondo motivo per cui le visioni e le parole provenienti da Dio, sebbene siano sempre vere in se stesse, non sempre sono certe rispetto a noi. Ciò è dovuto alle cause su cui si fondano. Molte volte, infatti, Dio dice cose che si fondano sulle creature e sugli effetti prodotti da esse; ma le creature possono cambiare e quindi le cause possono venir meno. Ne risulta, allora, che le parole che si basano su tali fondamenti possono anch’esse variare e non realizzarsi. Quando, infatti, una cosa dipende da un’altra, se viene meno una, verrà meno anche l’altra. Supponiamo che Dio dica: “Tra un anno manderò una calamità su tale nazione”. Il motivo di questa minaccia sta in una certa offesa commessa contro Dio in quella nazione. Or dunque, se l’offesa cessasse o venisse modificata, potrebbe venir meno anche la sventura. Ma la minaccia era vera, perché fondata su una colpa reale; se questa si fosse prolungata, quella si sarebbe realizzata.

2. Così accadde alla città di Ninive, quando Dio la minacciò in questi termini: Adhuc quadraginta diebus et Ninive subvertetur: Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta (Gio 3,4). Ma questa profezia non si realizzò perché Ninive rimosse la causa di quella minaccia, cioè i suoi peccati, facendo penitenza. Se i niniviti non avessero agito così, la minaccia si sarebbe realizzata. Anche nel primo libro dei Re (21,21) leggiamo che, avendo il re Acab commesso un peccato molto grave, Dio gli fece annunciare che un grande castigo si sarebbe abbattuto sulla sua persona, la sua casa e il suo regno. Messaggero di tale annuncio fu il nostro padre Elia. Ora, Acab si stracciò le vesti per il dolore, indossò il cilicio, digiunò, dormì coperto di sacco e si mostrò addolorato e umiliato. Dio allora disse al medesimo profeta: Quia igitur humiliatus est mei causa, non inducam malum in diebus eius, sed in diebus filii sui: Poiché si è umiliato davanti a me, non farò piombare la sciagura durante la sua vita, ma la farò scendere sulla sua casa durante la vita del figlio (1Re 21,29). Da queste parole vediamo come, avendo Acab cambiato il suo animo e il suo comportamento, anche Dio cambiò la sua decisione.

3. Da quanto riportato possiamo, dunque, affermare ciò che ci siamo proposti: sebbene Dio abbia rivelato o detto a un’anima in modo affermativo qualcosa, in bene o in male, riguardante la stessa anima o altre, la parola di Dio potrà più o meno modificarsi, variare o essere annullata del tutto in base al cambiamento dei sentimenti di quell’anima o della causa su cui Dio si basava; potrebbe così realizzarsi diversamente da come ci si aspettava, e molte volte senza sapere il perché, noto solamente a Dio. Questi, infatti, è solito dire, insegnare e promettere molte cose, non perché siano comprese e possedute sul momento, ma perché vengano capite in seguito quando sarà il momento adatto per ricevere la luce e poter usufruire dei loro effetti. Tale fu il comportamento del Signore con i suoi discepoli, ai quali raccontava molte parabole e sentenze, di cui non compresero la saggezza fino al momento in cui dovettero predicarla, quando cioè ricevettero lo Spirito Santo (At 2,1-4). Solo lo Spirito, secondo le parole di Gesù, avrebbe spiegato loro tutto ciò che egli aveva loro insegnato durante la sua vita (Gv 14,26). Quando san Giovanni parla dell’ingresso di Cristo in Gerusalemme, afferma: Haec non cognoverunt discipuli eius primum: sed quando glorificatus est Jesus, tunc recordati sunt quia erant scripta de eo: Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui (12,16). Vi sono, dunque, molte cose divine, assai particolari, che passano nell’anima senza che essa, o chi la dirige, le comprenda fino al momento opportuno.

4. Anche nel primo libro dei Re leggiamo che Dio, adirato contro Eli, sacerdote d’Israele, perché non puniva i peccati dei suoi figli, gli mandò a dire per mezzo di Samuele, tra l’altro, queste parole: Loquens locutus sum, ut domus tua, et domus patris tui, ministraret in conspectu meo, usque in sempiternum. Verumtamen absit hoc a me: Avevo promesso alla tua casa e alla casa di tuo padre che avrebbero servito sempre alla mia presenza. Ma ora, oracolo del Signore, non sia mai! (1Sam 2,30). L’ufficio del sacerdozio consisteva nel rendere onore e gloria a Dio e a tal fine Dio aveva promesso di concederlo al padre di Eli per sempre. Eli però non ebbe a cuore l’onore di Dio. Allora Dio stesso gli fede sapere che si era offeso: egli onorava i suoi figli più di lui, nascondendo i loro peccati per non svergognarli. Venne così meno anche la promessa, che era per sempre se per sempre essi fossero stati fedeli nel servire Dio con zelo. Non dobbiamo quindi pensare che, sebbene le parole e le rivelazioni vengano da Dio, necessariamente debbano realizzarsi alla lettera, soprattutto quando sono legate a cause umane, che possono variare, mutare e scomparire.

5. Quando tali fatti dipendono da queste cause, Dio solo lo sa, ma non sempre lo rivela. Talvolta egli comunica le sue parole o le sue rivelazioni, tacendo sulle circostanze in cui si avvereranno, come fece con i niniviti, ai quali disse categoricamente che sarebbero stati distrutti al termine di quaranta giorni (Gio 3,4). Altre volte spiega le circostanze, come fece con Roboamo dicendogli: Se ascolterai quanto ti comanderò, se seguirai le mie vie e farai quanto è giusto ai miei occhi osservando i miei decreti e i miei comandi, come ha fatto Davide mio servo, io sarò con te e ti edificherò una casa stabile come l’ho edificata per Davide (1Re 11,38). Tuttavia, che manifesti o meno le condizioni delle profezie, non dobbiamo basarci sulla nostra intelligenza, perché non siamo in grado di comprendere le verità nascoste nella parola di Dio o nei significati molteplici che essa può assumere. Egli sta in cielo e parla in termini di eternità; noi, invece, ciechi, siamo su questa terra e comprendiamo solo le vie della carne e del tempo. Per questo motivo il Saggio ha detto: Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra (Qo 5,1).

6. Forse mi dirai: ma allora, se non dobbiamo comprendere queste rivelazioni né occuparci di esse, perché Dio ce le comunica? Ho detto che ogni rivelazione verrà compresa nel momento stabilito da colui che l’ha fatta e solo da chi vuole lui; si vedrà allora che era meglio così, perché Dio non fa nulla senza motivo e al di fuori della verità. Occorre, dunque, convincersi che è impossibile comprendere compiutamente il significato delle parole e delle rivelazioni di Dio, né basarsi sulle loro apparenze, senza cadere in gravi errori e in profonda confusione. Lo sapevano molto bene i profeti, che avevano familiarità con la parola di Dio e ai quali procuravano molta difficoltà le profezie riguardanti il popolo. Difatti, come ho detto, gli ebrei non vedevano avverarsi tali profezie alla lettera, secondo quanto era stato annunziato. Per questo motivo deridevano e schernivano i profeti, tanto che Geremia arrivò a dire: Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me. Poiché da molto tempo, quando parlo, devo gridare, devo proclamare: Violenza! Oppressione! Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. Mi dicevo: Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! (Ger 20,7-9). Queste parole, sebbene ci mostrino il santo profeta parlare con rassegnazione e nelle vesti di uomo debole che non può comprendere le vie e i segreti di Dio, tuttavia fanno ben capire la differenza tra il compimento delle parole divine e il senso che comunemente ad esse si annette. Infatti i profeti di Dio passavano per burloni e a causa delle loro profezie soffrivano tanto che lo stesso Geremia, in un altro passo, dice: Formido et laqueus facta est nobis vaticinatio et contritio: Terrore e trabocchetto è divenuta per noi la profezia, e rovina (Lam 3,47).

7. Il motivo per cui Giona fuggì quando Dio lo inviò a predicare la distruzione di Ninive fu proprio questo: sapeva che gli uomini comprendono diversamente le parole di Dio e le loro cause. Così, per non cadere nello scherno se la sua profezia non si fosse realizzata, preferì fuggire piuttosto che profetizzare (Gio 1,1-3). In seguito si pose ad aspettare quaranta giorni fuori della città, per vedere se la profezia si fosse avverata (Gio 4,5). Quando si accorse che non si realizzava, si rattristò tanto da dire al Signore: Obsecro, Domine, numquid non hoc est verbum meum, cum adhuc essem in terra mea? Propter hoc preoccupavi, ut fugerem in Tharsis: Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Perciò mi affrettai a contraddire e a fuggire a Tarsis. Il santo, amareggiato, s’indispettì e chiese a Dio di togliergli la vita (Gio 4,2-3).

8. Perché, dunque, stupirsi se alcune profezie o rivelazioni che Dio fa alle anime non si verificano nel senso in cui vengono intese? Nel caso infatti che Dio dica a un’anima o le riveli che essa o un’altra riceverà tale o tal altra cosa di bene o di male, qualora ci si basi su determinati atti attraverso cui questa o un’altra anima recano gloria od offesa a Dio, se tali anime perseverano in questo atteggiamento, la profezia si avvererà. Ma non è certo che questa si avvererà, perché non è certo che le anime perseverino. Non dobbiamo quindi fidarci della nostra intelligenza circa le profezie, bensì della nostra fede.

 

CAPITOLO 21

Ove si mostra che Dio, pur rispondendo a volte a ciò che gli si chiede, tuttavia non approva questo modo di fare. Si dimostra che, anche quando accondiscende, spesso si adira.

1. Certe persone spirituali, come ho detto, approvano pacificamente la curiosità che a volte le conduce a chiedere determinate conoscenze per via soprannaturale. Pensano che, se Dio a volte risponde alle loro richieste, questo sia un comportamento buono e a lui gradito. È vero che Dio esaudisce le loro richieste, ma questo modo di fare non è buono né gli piace, anzi lo disgusta; spesso, addirittura, egli si adira e si offende molto. Questo perché nessuna creatura deve uscire dai limiti naturali che Dio le ha fissato come norma. All’uomo ha dato mezzi naturali e razionali: non gli è quindi lecito superarli. Indagare o cercare di conoscere certe cose per via soprannaturale significa uscire dalle leggi naturali. Di conseguenza, ciò non è lecito e a Dio non piace. Anzi, egli si offende, poiché si tratta di cose illecite. Lo sapeva bene il re Acaz. Isaia gli disse da parte di Dio che poteva chiedere un segno. Ma egli si rifiutò, dicendo: Non petam, et non tentabo Dominum: Non lo chiederò e non tenterò il Signore (Is 7,12). Tentare Dio, infatti, è voler trattare con lui per vie straordinarie, come sono quelle soprannaturali.

2. Dirai: se Dio non gradisce tali richieste, perché alcune volte risponde? Affermo che alcune volte risponde il demonio. Ma quando è Dio che risponde, dico che lo fa a motivo della debolezza dell’anima che vuole percorrere questa via. Il Signore vuole impedirle di rattristarsi, di tornare indietro, di pensare che egli sia scontento di lei, o di soffrire troppo. Vi sono ancora altri fini conosciuti solo da Dio e fondati sulla debolezza dell’anima. In questo caso egli crede opportuno rispondere e mostrarsi accondiscendente. Agisce in questo modo anche con molte anime deboli e semplici concedendo loro, ripeto, gusti e dolcezze sensibili quando trattano con lui. Ma tale compiacenza non prova che egli gradisca o voglia che si tratti con lui in questo modo o per questa via. Come ho detto, Dio dà a ogni anima secondo le disposizioni della sua natura. Egli è come la fonte alla quale ciascuno attinge secondo le proprie capacità e talvolta lo lascia attingere attraverso canali eccezionali. Ma non per questo è lecito voler attingere acqua tramite questi mezzi. Dio solo può dare l’acqua della fonte quando, come e a chi vuole e per lo scopo che si prefigge, senza alcuna pretesa da parte delle anime. Così, ripeto, alcune volte Dio condiscende ai desideri e alle preghiere di alcune anime che, essendo buone e semplici, egli non vuole trascurare di aiutare per non rattristarle, ma non perché approvi quel modo di fare.

3. Un paragone ci permetterà di comprendere meglio questa verità. Un padre di famiglia ha sulla tavola molti e svariati cibi, gli uni migliori degli altri. Uno dei suoi figli gli chiede non la pietanza migliore, ma la prima che si presenta al suo sguardo. Preferisce quella perché la mangia più volentieri di un’altra. Il padre sa che, se gli desse la pietanza migliore, non la prenderebbe, perché vuole solo quella che chiede, l’unica che sia di suo gradimento. Gliela concede, dunque, con rammarico, perché suo figlio non resti digiuno e per di più triste. Allo stesso modo si comportò Dio con i figli d’Israele quando gli chiesero un re. Lo concesse malvolentieri, perché non era un bene per loro. Per questo motivo disse a Samuele: Audi vocem populi in omnibus quae loquuntur tibi; non enim te abiecerunt, sed me: Ascolta la voce del popolo e dà loro il re che ci chiedono, perché costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, affinché non sia io a regnare sopra di loro (1Sam 8,5-7). Dio, dunque, si mostra condiscendente con alcune anime, concedendo loro non ciò che è meglio, perché non lo vogliono o non sanno andare per altra via. Quando, a volte, alcune anime ricevono delle tenerezze o delle dolcezze spirituali o sensibili, Dio gliele concede perché non sono in grado di consumare il cibo più forte e sostanzioso delle sofferenze della croce di suo Figlio, che vorrebbe desiderassero più di qualsiasi altra cosa.

4. Ritengo, tuttavia, molto pericoloso per un’anima desiderare conoscenze per via soprannaturale, peggio ancora che se cercasse tramite i sensi dolcezze spirituali. Non vedo, infatti, come l’anima che le pretende non pecchi almeno venialmente, sebbene abbia le migliori intenzioni e sia giunta alla perfezione. Lo stesso vale per il direttore che la guidasse in questo senso o consentisse a questo suo modo di fare. Non c’è, infatti, alcun bisogno di comportarsi così. Abbiamo la ragione naturale, la legge e la dottrina evangelica, secondo le quali ci si può sufficientemente regolare; non c’è difficoltà o necessità che non si possa risolvere e rimediare con questi mezzi graditi a Dio e vantaggiosi per le anime. Dobbiamo, anzi, ricorrere alla ragione e alla dottrina evangelica sempre e in modo tale che, se ci venissero comunicate alcune cose soprannaturali dietro nostra richiesta oppure indipendentemente dalla nostra volontà, dovremmo accogliere soltanto quelle che sono perfettamente conformi alla ragione e al dettato evangelico. In questo caso dovremmo accogliere tali cose no perché sono una rivelazione, ma perché conformi alla ragione, lasciando perdere ogni riferimento alla rivelazione. Ma anche in questi casi dovremmo considerare ed esaminare il fatto molto più attentamente che se non vi fosse stata rivelazione alcuna, perché il demonio insinua molte cose vere, cose che accadranno e del tutto conformi alla ragione, ma lo fa solo per ingannare.

5. In tutte le nostre necessità, sofferenze e difficoltà non ci resta, quindi, altro mezzo migliore e più sicuro che la preghiera e la speranza che Dio ci aiuterà nel modo che crederà opportuno. Tale è il consiglio che ci viene offerto nella sacra Scrittura. Ivi leggiamo che il re Giosafat, essendo caduto in una profonda afflizione perché accerchiato dai nemici, si mise a pregare Dio in questo modo: Cum ignoremus quod facere debeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te: Non sappiamo che cosa fare; perciò i nostri occhi sono rivolti a te, perché tu provveda come meglio credi (2Cr 20,3-12).

6. Ho già spiegato che Dio, anche se a volte risponde a tali domande, tuttavia non le gradisce, ma è bene provare ciò con alcune affermazioni della sacra Scrittura. Nel primo libro dei Re si dice che, quando il re Saul chiese al profeta Samuele, già morto, di parlargli, il profeta gli apparve (28,11-14). Tuttavia Dio si adirò e anche Samuele rimproverò Saul per aver fatto una cosa simile: Quare inquietasti me, ut suscitarer?: Perché mi hai disturbato e costretto a salire? (1Sam 28,15). Sappiamo, inoltre, che Dio rispose ai figli d’Israele dando loro la carne che chiedevano, ma se ne irritò molto. Difatti, subito dopo mandò su di loro il fuoco dal cielo per punirli, come si legge nel Pentateuco (Nm 11,32-33) e come anche racconta Davide in questi termini: Adhuc escae eorum erant in ore ipsorum, et ira Dei descendit super eos: Avevano ancora il cibo in bocca, quando l’ira di Dio si alzò contro di essi (Sal 77,30-31). E ancora nel libro dei Numeri (22,20-32) leggiamo che Dio si adirò profondamente contro il profeta Balaam perché si era recato dai madianiti su richiesta del re Balak. Ora, il Signore stesso gli aveva detto di andare, perché il profeta ne aveva un gran desiderio e glielo aveva chiesto. Mentre era già in cammino, gli apparve l’angelo con la spada minacciando di ucciderlo, e gli disse: Perversa est via tua, mihique contraria: Perverso è il tuo cammino e contrario alla mia volontà. Per questo motivo voleva colpirlo a morte.

7. Questi e altri esempi mostrano come Dio accondiscenda malvolentieri ai desideri delle anime. Vi sono molte altre testimonianze nella sacra Scrittura che provano quanto detto, ma non c’è bisogno di riportarle perché la nostra asserzione è chiara di per sé. Dico solo che è pericoloso, molto più di quanto sappia esprimermi, voler trattare con Dio per tali vie. Chi si basa su questi mezzi certamente cadrà in gravi errori e spesso in una grande confusione. Chi ci farà attenzione, mi capirà per esperienza. Del resto, oltre alla facilità d’ingannarsi riguardo alle locuzioni e alle visioni provenienti da Dio, ordinariamente ve ne sono molte che vengono dal demonio. Questi, infatti, tiene generalmente nei confronti dell’anima un comportamento e un modo di fare simile a quello di Dio, per insinuarsi in essa indistintamente come il lupo penetra nell’ovile sotto le spoglie di pecora. Egli suggerisce molte cose vere e conformi alla ragione, che si avvereranno. Le anime, quindi, possono facilmente cadere nell’inganno, convinte che, essendo cose vere e che si realizzano, non possono venire che da Dio. In realtà ignorano che è facilissimo per chi, come il demonio, possiede un lume naturale così grande, conoscere gli avvenimenti o molti di essi, passati e futuri già nelle loro cause. Poiché il demonio possiede questa luce molto viva, con estrema facilità può predire che alla tal causa seguirà quel determinato effetto, anche se a volte si sbaglia perché tutte le cause dipendono dalla volontà di Dio.

8. Facciamo un esempio: il demonio sa che la disposizione della terra, dell’aria e del sole è tale che, necessariamente, in un determinato momento, proprio in virtù della loro disposizione, quegli elementi si deterioreranno e diffonderanno, con la peste, il contagio alle persone; sa anche dove questa colpirà di più e dove meno. Ecco prevista la peste nelle sue cause. Ci sarebbe allora da stupirsi se il demonio rivelasse ciò a un’anima, dicendo: “Tra un anno” o “tra sei mesi scoppierà la peste”, e poi la previsione si avverasse? Ma è una profezia del demonio. Allo stesso modo egli può conoscere i terremoti. Vede che le viscere della terra si vanno gonfiando di aria e potrebbe dire: “Nel tal giorno la terra tremerà”. Ma questa è una conoscenza naturale. Per averla basta tenere la propria anima libera dalle passioni, come dice Boezio: Si vis claro lumine cernere verum, gaudia pelle, timorem, spemque fugato, nec dolor adsit: Se vuoi conoscere la verità con il lume naturale, liberati dal piacere e dal timore, dalla speranza e dal dolore.

9. Si possono anche conoscere eventi e casi soprannaturali dipendenti, nei loro motivi, dalla Provvidenza divina, che è infinitamente giusta e con estrema certezza provvede in base alle cause buone o cattive poste dai figli degli uomini. È possibile, infatti, conoscere per via ordinaria che una tale persone, tale o tal altra città o soggetto qualsiasi è giunto a tale misura o a tal punto da indurre Dio provvidente e giusto a intervenire in modo adeguato, con il castigo o il premio, secondo quanto esige la causa. E allora potremmo con facilità dire: “Il tal giorno Dio farà loro questo o quest’altro; accadrà certamente questo”. Così fece santa Giuditta con Oloferne. Per convincerlo che i figli d’Israele sarebbe stati certamente distrutti, per prima cosa gli raccontò i loro molti peccati e tutte le miserie che essi commettevano (Gdt 11,8-12). Poi aggiunse: Et quoniam haec faciunt, certum est quod in perditionem dabuntur: Poiché hanno agito male, certamente saranno distrutti (Gdt 11,15). Questo significa conoscere il castigo in base alla sua causa ed equivale a dire: è sicuro che questi peccati provocheranno i castighi di Dio, infinitamente giusto. La Sapienza divina si esprime allo stesso modo: Per quae qui peccat, per haec et torquetur: Con quelle cose per cui uno pecca, con esse è poi castigato (Sap 11,16).

10. Ora, il demonio può conoscere queste cose, non solo naturalmente, ma anche per esperienza, perché ha visto Dio fare cose simili; può quindi rivelarle in antecedenza e indovinare. Anche il santo Tobia dalla causa arguì il castigo della città di Ninive (Tb 14,6 Volg.); per questo ammonì suo figlio, dicendogli: Vedi, figlio, quando io e tua madre moriremo, esci da questa terra, perché non sopravvivrà. Video enim quod iniquitas eius finem dabit: Vedo che la sua empietà sarà causa del suo castigo, che la porterà alla fine e alla distruzione (Tb 14,12-13 Volg.). Tutto questo potevano arguirlo sia il demonio che Tobia, non solo per l’empietà della città, ma anche per esperienza, vedendo che Ninive commetteva peccati per i quali Dio aveva distrutto il mondo con il diluvio (Gn 6,5-7). La stessa cosa era capitata ai sodomiti, che perirono nel fuoco (Gn 19,24-25). Va aggiunto, però, che Tobia aveva conosciuto l’avvenimento per ispirazione divina.

11. Il demonio era anche in grado di sapere che Pietro non poteva vivere naturalmente più di tanti anni e poteva quindi dirlo prima. Lo stesso si può dire di molti altri avvenimenti in tanti altri modi che non finirei di esporre. Non saprei neppure come cominciare a parlarne, perché molto intricati e sottili. Il demonio è abilissimo nell’insinuare menzogne, da cui è possibile liberarsi solo rifuggendo da tutte le rivelazioni, visioni e locuzioni soprannaturali. Per questo giustamente Dio si adira con chi le ammette, perché vede che la temerarietà di mettersi in simili pericoli è presunzione, curiosità, motivo di superbia e fonte di vanagloria, disprezzo delle cose di Dio e principio di molti mali in cui tanti sono caduti. Costoro irritano talmente Dio che egli li lascia volutamente cadere nell’errore, nell’inganno e nell’accecamento dello spirito. Permette, altresì, che abbandonino le regole ordinarie della vita, per consegnarsi ai loro capricci e alle loro fantasie, come dice Isaia: Domine miscuit in medio eius spiritum vertiginis: Il Signore ha mandato in mezzo a loro uno spirito di smarrimento (Is 19,14), che, in parole povere, significa lo spirito di capire alla rovescia. Le parole di Isaia fanno proprio al caso nostro, perché parlano di coloro che volevano conoscere il futuro per vie soprannaturali. Per questo dice che Dio ha diffuso in loro uno spirito che fa loro capire le cose a rovescio. Non perché Dio abbia voluto così o abbia appositamente dato questo spirito di errore, ma perché essi volevano intromettersi in misteri che non potevano raggiungere naturalmente. Sdegnato per questo motivo, lasciò che si smarrissero, non concedendo loro la luce per quelle cose in cui non voleva che s’intromettessero. Quando il profeta dice che Dio ha dato questo spirito di errore, vuol dire che ha agito in maniera privativa. In questo modo Dio è causa di quel danno, cioè causa privativa: egli toglie la sua luce e la sua assistenza; di conseguenza si cade inevitabilmente nell’errore.

12. In questo modo il Signore permette che il demonio accechi e inganni molte anime, a causa dei loro peccati e della loro presunzione. Il demonio può farlo e ottiene il suo scopo, perché esse gli credono e lo scambiano per uno spirito buono. Tanto è vero che, malgrado le insistenze per dissuaderle, non si riesce a strapparle dall’inganno. Dio permette che assimilino questo spirito, che consiste nel capire le cose a rovescio. Ciò è quanto accadde ai profeti del re Acab. Dio permise che fossero ingannati dallo spirito di menzogna, lasciando mano libera al demonio, in questi termini: Decipies, et praevalebis; egredere, et fac ita: Lo ingannerai senz’altro; ci riuscirai; va’ e fa’ così (1Re 22,22). E il demonio riuscì a ingannare il re e i profeti al punto che non vollero credere al profeta Michea, che annunciava loro la verità, del tutto contraria a quella che gli altri avevano profetizzato. Questo perché Dio permise che venissero accecati a motivo del loro attaccamento a ciò che volevano accadesse, cioè che Dio rispondesse secondo le loro voglie e i loro desideri. Ora, questo era un mezzo e una disposizione che avrebbe necessariamente indotto Dio a lasciarli di proposito nel loro accecamento e inganno.

13. Allo stesso modo profetizzò anche Ezechiele in nome di Dio. Parlando contro colui che, spinto dalla curiosità e dall’ambizione del suo spirito, vuole conoscere gli avvenimenti per via soprannaturale, afferma: Quando un tale uomo verrà dal profeta a consultarmi per mezzo di lui, io, il Signore, gli risponderò da me stesso e volgerò la mia faccia adirata contro di lui… e contro il profeta che ha errato circa quello che è stato domandato. Ego, Dominus, decepi prophetam illum (Ez 14,7-9 Volg.), cioè: Io, il Signore, ho ingannato quel profeta. Questo significa che Dio non interviene con la sua grazia per impedire che il profeta s’inganni, come risulta dall’altra espressione: Io, il Signore, risponderò da me nella mia ira. Dio allora ritira la sua grazia e il suo favore da quell’anima che, priva dell’assistenza divina, necessariamente cade nell’inganno. Subito il demonio provvede a rispondere ai desideri e alle voglie di quell’anima, che, soddisfatta delle risposte e delle comunicazioni conformi alla sua volontà, cade in una grave illusione.

14. Mi sembra d’essermi discostato un po’ dal tema di questo capitolo, che era quello di provare che Dio, anche se risponde, alcune volte si adira. Ma, a ben guardare, tutto ciò che ho detto serve al nostro scopo, perché in tutto vediamo che a Dio non piace che si vada in cerca di visioni: attraverso queste l’anima dà adito a tutti gli inganni in cui poi cade.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/09/2012 17:53
 
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CAPITOLO 22

Ove si scioglie un dubbio: ora, sotto la legge della grazia, non è permesso interrogare Dio per via soprannaturale, come lo era sotto l’antica legge. L’argomento viene provato con l’autorità di san Paolo.

1. Continuano ad affiorare molti dubbi alla mente, ragion per cui non è possibile procedere con la rapidità che vorrei. Infatti, se vengono sollevati, si devono anche risolvere, affinché la verità della dottrina risulti maggiormente chiara e convincente. Del resto i dubbi, sebbene rallentino il cammino, servono anche ad approfondire e illuminare ulteriormente l’argomento in questione, come appunto nel presente caso.

2. Nel capitolo precedente ho detto che Dio non vuole che le anime ricerchino conoscenze per via soprannaturale, come visioni, locuzioni, ecc. D’altra parte, si è visto nello stesso capitolo, e dedotto dalla testimonianza della sacra Scrittura, che rapporti di questo genere con Dio erano consentiti, oltre che comandati, sotto la legge antica. Quando i figli d’Israele non obbedivano, Dio li rimproverava. Ciò è quanto si può osservare nel profeta Isaia, dove Dio li rimprovera perché avevano deciso di scendere in Egitto senza averlo consultato: Et os meum non interrogastis: Non avete consultato la mia bocca (Is 30,2), come invece avrebbero dovuto fare. Anche nel libro di Giosuè si legge che, i figli d’Israele essendo stati ingannati dai gabaoniti, lo Spirito Santo ricordò loro tale colpa in questi termini: Susceperunt ergo de cibariis eorum, et os Domini non interrogaverunt: Assaggiarono le loro provviste, ma non consultarono l’oracolo del Signore (Gs 9,14). Dalla sacra Scrittura risulta anche che Mosè consultava sempre Dio. Allo stesso modo si comportavano Davide e tutti i re d’Israele, in occasione d’una guerra o quando sorgeva qualche difficoltà, e anche i sacerdoti nonché i profeti dell’Antico Testamento. Dio rispondeva e parlava loro, e non si adirava, perché questo modo di fare gli era gradito; se non avessero agito in questo modo, avrebbero sbagliato. Questa è la verità. Perché, invece, ora, sotto la legge nuova, la legge della grazia, non è consentito agire allo stesso modo?

3. Il motivo principale per cui nella legge antica le richieste rivolte a Dio erano permesse ed era opportuno che i profeti e i sacerdoti domandassero rivelazioni e visioni divine, sta nel fatto che la fede non era ancora ben fondata e la legge evangelica non era stata ancora promulgata. Era quindi necessario che interrogassero Dio e che Dio rispondesse loro per mezzo di parole, visioni e rivelazioni, o per mezzo di figure o di immagini, o infine si manifestasse in molti altri modi. Tutte le risposte di Dio, le sue parole, le sue opere e le sue rivelazioni erano misteri della nostra fede, la riguardavano o la preparavano. Ora, le verità di fede non vengono dall’uomo, ma dalla stessa bocca di Dio che le rivela personalmente; era quindi necessario che, come ho detto, interrogassero la stessa bocca di Dio. Per questo motivo Dio rimproverava i figli d’Israele quando non lo consultavano per avere il suo consiglio, e ciò affinché orientassero le loro azioni e gli avvenimenti della vita verso la fede che ancora non conoscevano, perché non ancora donata. Ma ora che la fede è fondata in Cristo e la legge evangelica è promulgata in quest’era di grazia, non c’è più motivo d’interrogare Dio come prima, perché parli o risponda come faceva allora. Avendoci, infatti, donato suo Figlio, che è l’unica sua Parola, egli non ha altra parola da darci. Ci ha detto tutto in una volta e una volta per sempre in questa sola Parola, e non ha altro da aggiungere.

4. Questo è il significato di quel testo, in cui san Paolo cerca d’indurre gli ebrei ad abbandonare le antiche pratiche e i modi di comportarsi con Dio consentiti dalla legge di Mosè, per fissare gli occhi solo su Cristo: Multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in prophetis: novissime autem diebus istis locutus est nobis in Filio: Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio (Eb 1,1-2). L’autore di questo testo vuol far capire che Dio ora tace: non ha altro da dire, perché ciò che aveva detto in parte mediante i profeti, l’ha ora rivelato completamente nel suo Figlio, e ci ha donato così il Tutto, che è suo Figlio.

5. Pertanto, chi ora volesse interrogare Dio o chiedergli qualche visione o rivelazione, non solo farebbe una sciocchezza, ma anche offenderebbe Dio, perché non fisserebbe gli occhi unicamente su Cristo senza cercare altre cose o novità. Dio potrebbe rispondergli così: Se ti ho già detto tutto nella mia Parola, che è mio Figlio, non ho altro da aggiungere. Cosa ti potrei rispondere o rivelare di più? Fissa il tuo sguardo unicamente su di lui, perché in lui ti ho detto e rivelato tutto e troverai in lui anche più di ciò che chiedi e desideri. Tu domandi locuzioni e rivelazioni particolari, mentre, se tu fissi gli occhi su di lui, vi troverai l’intera rivelazione, perché egli è tutta la mia parola, tutta la mia risposta, tutta la mia visione e tutta la mia rivelazione. Ora, io ti ho già parlato, risposto, manifestato, rivelato, quando te l’ho donato come fratello, compagno, maestro, caparra e premio. Il giorno in cui, sul monte Tabor, scesi su di lui con il mio Spirito, ho detto: Hic est filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui, ipsum audite: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo (Mt 17,5). D’allora in poi ho interrotto ogni forma d’insegnamento e di risposta, rimettendo tutto nelle sue mani. Ascoltate lui, perché non ho altra verità di fede da rivelare né altre cose da manifestare. Se in passato parlavo, lo facevo per promettere la venuta di Cristo; e se mi interrogavano, rispondevo per orientare alla venuta e alla speranza di Cristo, nel quale avrebbero trovato ogni bene, come risulta chiaramente da tutta la dottrina degli evangelisti e degli apostoli. Ma se uno mi interrogasse adesso come allora e mi chiedesse qualche visione o rivelazione, sarebbe come se mi chiedesse un’altra volta il Cristo o più fede di quanta ne abbia già offerta in Cristo. In questo modo offenderebbe profondamente il mio amato Figlio, perché non solo mancherebbe di fede in lui, ma lo obbligherebbe anche a incarnarsi di nuovo, a ricominciare la sua vita e a morire di nuovo. Non desidererai, quindi, né chiederai rivelazioni o visioni da parte mia. Guarda bene a lui e saprai che in lui ho fatto e detto molto più di quanto mi domandi.

6. Se vuoi che ti risponda con qualche parola di consolazione, guarda mio Figlio, a me obbediente e per amor mio sottomesso e sofferente, e avrai molte risposte. Se vuoi che ti spieghi qualche fatto o avvenimento misterioso, non hai che da guardare a lui e scoprirai i misteri nascosti, i tesori della sapienza e le meraviglie di Dio in lui racchiuse, come dice l’apostolo Paolo: In quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae Dei asconditi: Nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3). Questi tesori di sapienza saranno per te molto più profondi, dilettevoli e utili di tutte le cose che vorresti sapere. Di queste si gloriava lo stesso Apostolo quando diceva: Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso (1Cor 2,2). Se tu volessi ancora altre visioni e rivelazioni divine o umane, contemplalo nella sua umanità e vi troverai più di quanto pensi, come afferma sempre l’apostolo Paolo: In ipso habitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter: È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9).

7. Non è più opportuno, dunque, interrogare Dio come un tempo, tanto meno è necessario che egli parli ancora, poiché, avendo finito di rivelarci tutta la fede in Cristo, non ha altra verità di fede da rivelare, né ve ne sarà più. Chi volesse ancora ricevere per via soprannaturale alcune comunicazioni, con ciò accuserebbe Dio di non aver dato nel suo Figlio tutto ciò che ci era necessario. Ammesso che una persona agisca così per fede e creda negli insegnamenti che questa ci trasmette, allora manifesterebbe curiosità e fede imperfetta. Non ci si può, dunque, aspettare a motivo di tale curiosità dottrina alcuna né una qualsiasi comunicazione per via soprannaturale. Nel momento in cui Cristo, spirando sulla croce, ha esclamato: Consummatum est: Tutto è compiuto! (Gv 19,30), non solo sono finite tutte queste comunicazioni soprannaturali, ma altresì tutte le cerimonie e i riti dell’antica legge. Ora, perciò, deve guidarci in tutto la legge di Cristo uomo, della sua Chiesa e dei suoi ministri, che ci parlano in maniera umana e visibile. Solo in questo modo troveremo un rimedio alla nostra ignoranza e debolezza spirituale; per questa via troveremo abbondante medicina per tutti i nostri bisogni. Cercando altrove, manifesteremmo non solo curiosità, ma anche impudenza. Non si deve credere a nulla di ciò che ci viene per via soprannaturale, ma solo all’insegnamento di Cristo uomo e, ripeto, a quello dei suoi ministri, uomini anch’essi. Tant’è vero che san Paolo si esprime in questi termini: Quod si angelus de caelo evangelizaverit, praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit: Se anche un angelo dal cielo predicasse un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema! (Gal 1,8).

8. È quanto mai vero, dunque, che dobbiamo attenerci a ciò che Cristo ci ha insegnato. Tutto il resto è nulla, perciò non dobbiamo crederlo se non è conforme al suo insegnamento. Invano si sforza chi vuole trattare ora con Dio come si faceva nella legge antica. Del resto, anche allora non era permesso a chiunque interrogare Dio, né Dio rispondeva a tutti, ma solo ai sacerdoti e ai profeti, dalla bocca dei quali il popolo doveva apprendere la sua legge e i suoi insegnamenti. Se qualcuno voleva sapere qualcosa da Dio, lo chiedeva tramite il profeta o il sacerdote, non lui direttamente. Se Davide alcune volte ha chiesto personalmente qualcosa a Dio, lo ha fatto perché era profeta; ma anche in questo caso non lo faceva senza indossare le vesti sacerdotali, come si legge nel brano del primo libro di Samuele, dove disse al sacerdote Ebiatar, figlio di Abimelech: Porta qui l’efod (1Sam 23,9), che era una delle vesti più rappresentative dei sacerdoti; soltanto dopo consultò Dio. Altre volte lo fece tramite il profeta Natan o altri profeti. Dobbiamo credere che ciò che veniva detto da loro non era un’opinione personale, ma proveniva da Dio.

9. Ciò che Dio diceva a quei tempi non aveva, dunque, per loro nessuna autorità o forza se non riceveva l’approvazione dalla bocca dei sacerdoti e dei profeti. Dio, infatti, preferisce che l’uomo sia accompagnato e guidato da un altro uomo e che sia retto e governato dalla ragione, non prestando facilmente credito alle cose che gli vengono comunicate per via soprannaturale; vuole inoltre che non si creda confermato nella sicurezza e solidità di tali cose finché non siano passate per il canale umano della bocca di un uomo. Ogni volta che il Signore dice o rivela qualcosa a un’anima, lo fa in modo da spingerla a riferire la cosa a chi di dovere. Fin quando essa non ha fatto così, di solito non è confermata circa la rivelazione in questione. Dio desidera che ad assicurarla sia una persona umana. Ciò è quanto accadde al comandante Gedeone, come leggiamo nel libro dei Giudici. Dio gli aveva ripetutamente detto che avrebbe sconfitto i madianiti; ciò nonostante egli era rimasto nel dubbio e nella paura. Ora Dio lo tenne in quella debolezza fin quando egli udì dalla bocca degli uomini ciò che Dio gli aveva detto direttamente. Per aiutarlo a vincere la paura, Dio gli disse: Alzati e piomba sul campo: et cum audieris quod loquantur, tunc confortabuntur manus tuae, et securior ad hostium castra descendes, cioè: Quando udrai quello che dicono, prenderai vigore per piombare sul campo (Gdc 7,9-11). Così accadde che, udendo un madianita raccontare a un suo compagno di aver sognato che Gedeone li avrebbe sconfitti, acquistò un grande coraggio e si preparò con allegrezza alla battaglia. Questo episodio dimostra che Dio non volle che si sentisse sicuro soltanto per via soprannaturale, senza averne conferma per via naturale.

10. Stupisce ancora di più ciò che accadde a Mosè. Dio gli aveva comandato in molti modi e gli aveva confermato con i segni del bastone tramutato in serpente e della mano sana in lebbrosa di andare a liberare i figli di Israele. Ciò nonostante Mosè era così esitante, debole e insicuro che Dio si adirò: non aveva ancora conseguito la fede solida, necessaria in quel caso, finché il Signore non lo incoraggiò ricordandogli il fratello Aronne: Aaron frater tuus levites scio quod eloquens sit: ecce ipse egredietur in occursum tuum, vidensque te, laetabitur corde. Loquere ad eum, et pone verba mea in ore eius, et ego ero in ore tuo, et in ore illius, ecc.: Non vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlar bene. Anzi, sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo. Tu gli parlerai e metterai sulla sua bocca le parole da dire e io sarò con te e con lui mentre parlate (Es 4,14-15), perché v’incoraggiate a vicenda.

11. Udite queste parole, Mosè riprese subito coraggio e fiducia al pensiero di essere confortato dal consiglio di suo fratello. L’anima umile, infatti, non osa trattare da sola con Dio, e si sente sicura solo quando si lascia guidare e consigliare da un suo simile. D’altra parte Dio vuole così, perché egli si mostra presente laddove si uniscono le anime per cercare la verità e in questa li assicura con ragioni naturali, come promise a Mosè e ad Aronne insieme, parlando per bocca dell’uno e dell’altro. Per questo nel vangelo si afferma: Ubi fuerint duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum ego in medio eorum: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18,20) per illuminare e confermare nei loro cuori le verità divine. Va notato che il Signore non ha detto: dove sarà uno ci sarò anch’io, ma: dove saranno almeno due. Con questa espressione Dio vuol farci capire che non vuole che nessuno dia credito da solo alle comunicazioni che ritiene provenienti dall’alto, né che vi si conformi o si appoggi senza il consiglio della Chiesa e dei suoi ministri. Chi è solo, non ha il Signore che gli chiarisca o gli confermi le verità nel cuore, e così rimarrà sempre debole e freddo nei confronti della verità.

12. Su quanto sto dicendo l’Ecclesiaste insiste in questi termini: Vae soli, qui cum ceciderit, non habet sublevantem se. Si dormierint duo, fovebantur mutuo: unus quomodo calefiet? Et si quispiam praevaluerit contra unum, duo resistent ei (Qo 4,10-12): Guai a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se due dormono insieme, si possono riscaldare: possono scaldarsi con il calore di Dio, che è in mezzo a loro. Ma uno solo come fa a riscaldarsi? Cioè: certamente sarà freddo nelle cose di Dio. E se qualcuno lo aggredisse, prevarrebbe: cioè il demonio, che riesce a prevalere contro coloro che vogliono fare da soli nelle cose di Dio, mentre due insieme possono resistergli, cioè il discepolo e il maestro, che si uniscono per conoscere e fare la verità. Fino a quando l’uomo è solo, ordinariamente si sente tiepido e debole nei confronti della verità, sebbene l’abbia ripetutamente ricevuta da Dio. Per questo motivo san Paolo, pur predicando da molto tempo il vangelo che diceva di aver ricevuto da Dio e non dagli uomini, non si dette pace finché non andò a parlarne con san Pietro e gli apostoli, in questi termini: Ne forte in vanum currerem, aut cucurrissem: Per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano (Gal 2,2). Non si sentiva sicuro di sé fin quando non ebbe la conferma da un uomo. Non è così sorprendente, o Paolo, che colui che ti aveva rivelato il vangelo non ti avesse conferito anche la sicurezza contro l’errore nella predicazione della sua verità?

13. Tutto questo ci permette di capire chiaramente che non c’è sicurezza nelle rivelazioni di Dio, a meno che non si seguano i consigli dati sopra. Supponiamo che una persona sia sicura che la rivelazione provenga da Dio, come lo era san Paolo rispetto al vangelo che predicava; e tuttavia può sbagliarsi a suo riguardo o in ciò che la concerne. Infatti non sempre Dio, manifestando una cosa, rivela anche le altre, e molte volte non dice neppure come realizzarla. Ordinariamente Dio, pur trattando con familiarità e a lungo con un’anima, non fa né le dice tutto ciò che può essere fatto dall’abilità o dalla prudenza umana. San Paolo conosceva molto bene questo stato di cose, come si è detto; perciò, quantunque sapesse che il vangelo gli era stato rivelato da Dio, andò a conferirne con gli apostoli. Tale verità risulta molto evidente nel libro dell’Esodo (18,21-22). Sebbene Dio trattasse con molta familiarità Mosè, non gli aveva mai dato quel consiglio così utile che gli venne da Ietro, suo suocero. Doveva, cioè, scegliersi altri giudici che lo aiutassero nelle sue funzioni, perché il popolo non stesse ad aspettare da mane a sera. Dio approvò quel consiglio; ma non l’aveva rivelato personalmente a Mosè perché la ragione umana poteva arrivarci da sola. Di solito Dio non concede visioni, rivelazioni e locuzioni; preferisce che ci si muova in base alla ragione, la quale deve regolare tutte le nostre questioni, eccetto le verità di fede, che superano ogni intelligenza e ragione umana, pur non essendo contrarie.

14. Se, dunque, una persona è certa che Dio e i santi trattino con lei familiarmente riguardo a molte cose, non per questo deve pensare che essi siano tenuti a dirle le mancanze in cui può incorrere su certi punti, quando può conoscerle per altre vie. Non dobbiamo, quindi, mai ritenerci sicuri. Difatti negli Atti degli Apostoli leggiamo che Pietro, pur essendo capo della Chiesa e quindi istruito direttamente da Dio, si sbagliava circa il comportamento che teneva in mezzo ai pagani, ma Dio taceva; per questo san Paolo lo riprese, come racconta egli stesso: Cum vidissem, quod non recte ad veritatem Evangelii ambularent, dixi Cephae coram omnibus: Si tu iudaeus cum sis, gentiliter vivis, quomodo gentes cogis iudaizare?: Quando vidi che non si comportava rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu che sei giudeo vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei giudei?” (Gal 2,14). Dio non aveva messo in guardia Pietro da quest’errore, perché quell’incoerenza poteva essere scoperta per via razionale.

15. Pertanto nel giorno del giudizio Dio castigherà molte colpe e peccati in gran numero di persone con le quali quaggiù sulla terra aveva avuto rapporti familiari e alle quali aveva concesso molte luci e favori. Confidando solo in questa familiarità che avevano con Dio e nei privilegi che ne ricevevano, esse trascurarono i loro doveri, che pure conoscevano bene. Come dice il Signore nel vangelo, essi allora saranno colti da stupore e diranno: Domine, Domine, nonne in nomine tuo prophetavimus, et in nomine tuo daemonia eiecimus, et in nomine tuo virtutes multas fecimus?: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni in tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? (Mt 7,22). Il Signore dice che risponderà loro: Et tunc confitebor illis, quia nunquam novi vos: discedite a me omnes qui operamini iniquitatem: Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità (Mt 7,23). Fra costoro si possono annoverare il profeta Balaam e altri simili a lui. Dio parlava loro e concedeva favori, e malgrado ciò rimanevano nel peccato. Il Signore, perciò, rimprovererà gli eletti suoi amici, con i quali aveva instaurato un rapporto familiare quaggiù, per le colpe e le negligenze da loro commesse; di tali mancanze il Signore non doveva necessariamente avvertirli di persona, perché era sufficiente la sua legge e la ragione naturale che aveva dato loro.

16. Da quanto ho esposto, concludo affermando che qualunque comunicazione un’anima riceva, in qualsiasi modo, per via soprannaturale, deve immediatamente riferirla al suo direttore spirituale in modo chiaro, sincero, integro e semplice. Anche se le sembrasse superfluo rendergliene conto e non volesse perdere il suo tempo – perché, come ho detto, se l’anima rifiuta tali favori, non dà loro importanza e neppure li cerca (soprattutto quando si tratti di visioni o rivelazioni o altre comunicazioni soprannaturali, siano esse molto, poco o per nulla chiare) si sente tranquilla – tuttavia è indispensabile che ne parli al direttore, anche se non se sembra così, e gli dica tutto. E questo per tre motivi. Il primo, perché, come ho detto, Dio comunica molte cose all’anima, ma non le assicura completamente efficacia e forza, luce e certezza, fino a quando, ripeto, non ne parla con colui che Dio ha posto come suo giudice spirituale, il quale ha il potere di legarla o scioglierla, approvare o disapprovare quanto le è accaduto, come ho dimostrato con i testi della Scrittura riportati sopra. L’esperienza di ogni giorno ne è una riprova. Vediamo infatti anime umili nelle quali si verificano tali fenomeni; ebbene, solo dopo averne parlato con chi di dovere si sentono molto soddisfatte, piene di forza, di luce e di sicurezza. Anzi, alcune di loro, prima di parlarne al direttore spirituale, li guardavano con circospezione o come cose che non interessavano; dopo, invece, li considerano come un dono che viene loro concesso nuovamente.

17. Il secondo motivo è che ordinariamente l’anima ha bisogno di essere istruita circa i fatti che le accadono, affinché in tale situazione possa praticare la nudità e povertà di spirito, che è la notte oscura. Se è privata di tale insegnamento, anche se respinge quei favori, senza accorgersene diventerà grossolana nella via spirituale e si adatterà a quella dei sensi, attraverso i quali passano, in parte, questi fenomeni particolari.

18. Il terzo motivo è il seguente: perché l’anima resti nell’umiltà, nella sottomissione e nella mortificazione, deve rendere conto di quanto le accade al suo padre spirituale, anche se non le pare importante né meritevole d’attenzione. Alcune anime provano molta difficoltà nel dire queste cose, perché sono convinte della loro scarsa importanza e non sanno ciò che ne penserà il loro direttore, al quale devono parlarne. Questo è un segno di poca umiltà, ma proprio per questo occorre sottomettersi e manifestarle. Ce ne sono altre, poi, che provano grande vergogna nel parlarne, perché temono che possano svelare in loro fatti che le facciano passare per sante, o altre cose, e perciò credono meglio tacere; del resto esse non vi danno importanza. Ma proprio per questo è opportuno che sappiano rinnegarsi e manifestare il proprio intimo, affinché diventino umili, semplici, docili, disponibili a parlarne al direttore; in seguito, poi, lo faranno senza difficoltà.

19. Avendo insistito tanto perché tali fenomeni vengano respinti e i confessori impediscano alle anime di fare discorsi su questo argomento, non si creda che i direttori spirituali debbano mostra a loro riguardo disgusto, avversione o disprezzo, altrimenti indurrebbero queste anime a chiudersi, così da non avere più il coraggio di manifestarli. Ciò causerebbe molti inconvenienti. Perciò torno a ripetere: poiché tali comunicazioni sono un mezzo e una via per cui Dio guida le anime, non si devono disprezzare, e nemmeno ci si deve spaventare o scandalizzare. Piuttosto è opportuno procedere con molta bontà e calma, per incoraggiare tali anime e sollecitarle a parlarne e, se necessario, comandare di parlarne, perché a volte, a causa della difficoltà che esse provano nel manifestarle, è bene ricorrere a qualsiasi espediente. I direttori le guideranno nella via della fede, insegnando loro semplicemente a distogliere lo sguardo da questi fenomeni. Mostreranno loro quanto sia necessario liberare da essi i sensi e lo spirito onde poter meglio andare avanti. Facciano loro comprendere che agli occhi di Dio è più preziosa un’opera o un atto di volontà, fatto per amore, che tutte le visioni, rivelazioni e comunicazioni celesti che possano avere, perché queste non costituiscono né un merito né un demerito; molte altre anime, che non hanno questi fenomeni, progrediscono assai più di quelle che ne sono abbondantemente favorite.

 

CAPITOLO 23

Ove si comincia a parlare delle conoscenze che l’intelletto riceve per via puramente spirituale. Se ne descrive la natura.

1. La dottrina che ho esposto circa le conoscenze che l’intelletto riceve attraverso i sensi, rispetto a quanto avrei potuto dire, è un po’ lacunosa, ma non ho voluto dilungarmi. Anzi, in verità, per lo scopo che mi sono prefisso, che è quello di liberare l’intelletto di tali conoscenze e introdurlo nella notte della fede, mi sembra di essere stato persino troppo lungo. Comincerò, pertanto, a trattare qui dei quattro generi di conoscenze dell’intelletto, che al capitolo 10 ho definito puramente spirituali: visioni, rivelazioni, locuzioni e sentimenti spirituali. Le chiamo puramente spirituali perché, a differenza delle conoscenze corporee immaginarie, non sono comunicate all’intelletto attraverso i sensi corporali esterni o interni, ma si presentano all’intelletto in modo chiaro e distinto per via soprannaturale e passivamente, cioè senza che l’anima ponga un atto qualsiasi o agisca personalmente in maniera perlomeno attiva.

2. Occorre sapere, parlando in senso ampio e generale, che questi quattro generi di conoscenze possono essere chiamati tutti visioni dell’anima, perché l’intelligenza è detta anche vista dell’anima. Dal momento che queste conoscenze possono essere percepite dall’intelletto, sono dette visibili spiritualmente. Così le nozioni che se ne formano nell’intelletto possono essere chiamate visioni intellettuali. Ora, gli oggetti dei sensi, cioè tutto ciò che si può vedere e udire, tutto ciò che si può odorare, gustare e toccare, cadono sotto il dominio dell’intelletto in quanto sono veri o falsi. Pertanto, come tutto ciò che vedono gli occhi del corpo causa in essi una visione corporea, così tutto ciò che è intelligibile agli occhi spirituali dell’anima, cioè all’intelletto, causa una visione spirituale, perché, ripeto, per l’intelletto comprendere e vedere sono la stessa cosa. Così, dunque, questi quattro generi di conoscenze, come dico, parlando in generale, possono essere chiamati visioni; lo stesso non si può dire per i sensi, perché l’oggetto dell’uno non è il medesimo oggetto degli altri.

3. Ma poiché tali conoscenze si presentano all’anima come ai sensi, ne deriva che, parlando in senso proprio e specifico, chiamiamo visione ciò che l’intelletto riceve come qualcosa che può vedere, perché può vedere le cose spiritualmente, come gli occhi del corpo vedono le cose corporee; ciò che percepisce come se l’imparasse o come se si trattasse di cose nuove, come avviene per l’udito quando sente cose mai prima udite, lo chiamiamo locuzione; e infine, ciò che riceve in modo simile agli altri sensi, come ad esempio, la percezione di un soave odore spirituale, di un gusto o di un piacere spirituale che l’anima può provare soprannaturalmente, lo chiamiamo sentimento spirituale. Da tutto ciò l’intelletto ricava conoscenza o visione spirituale, libera da ogni percezione di forma, immagine, figura immaginaria o fantasia naturale; tali comunicazioni si producono nell’anima immediatamente attraverso una via e un mezzo soprannaturale.

4. Come ho detto riguardo alle conoscenze corporee immaginarie, così è ugualmente opportuno liberare l’intelletto anche dalle conoscenze spirituali per incamminarlo e guidarlo, attraverso di esse, nella notte spirituale della fede sino alla divina e sostanziale unione con Dio. Senza questo processo di liberazione l’intelletto sarebbe ostacolato in questo cammino di solitudine e spogliamento da tutte le cose, richiesto a tale scopo. Non v’è dubbio che tali conoscenze siano più nobili, più vantaggiose e molto più sicure di quelle corporee immaginarie. Poiché sono interiori e puramente spirituali, non possono essere raggiunte dal demonio, perché si comunicano all’anima in forma purissima e sottile, senza alcuna attività da parte sua né dell’immaginazione, o almeno senza cooperazione attiva. Ciò nonostante, se l’intelletto non fosse prudente, potrebbe trovare ancora ostacoli su questo cammino e cadere in molti errori.

5. Potrei, in qualche modo, chiudere il discorso su tutti e quattro i generi di conoscenze rinnovando una volta per sempre il consiglio dato riguardo a tutte le altre, cioè di non ricercarle né accettarle. Tuttavia, al fine di meglio chiarire la condotta da seguire, si possono dire alcune cose sul loro conto. È bene trattarne separatamente. Comincerò, dunque, a parlare delle prime, che sono le visioni spirituali o intellettuali.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/09/2012 17:55
 
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CAPITOLO 24

Ove si parla delle due specie di visioni spirituali che vengono a noi per via soprannaturale.

1. Parlerò adesso specificamente delle visioni spirituali che si formano nell’intelletto senza mediazione alcuna dei sensi corporali. Queste visioni sono di due specie: alcune hanno per oggetto sostanze corporee, altre sostanze semplici o incorporee. Le prime riguardano tutte le cose esistenti in cielo e sulla terra; l’anima le può vedere, pur restando nel suo corpo, attraverso una certa luce soprannaturale che le viene da Dio, nella quale può contemplare tutte le cose lontane, del cielo e della terra. Ciò è quanto vide san Giovanni, come si legge nel capitolo 21 dell’Apocalisse. Qui egli descrive e racconta la bellezza della Gerusalemme celeste, da lui veduta. Si sa anche che san Benedetto in una visione spirituale vide il mondo intero. Tale visione, afferma san Tommaso nel primo libro dei suoi Quodlibeta, consiste in un lume, che, come ho detto, viene dall’alto.

2. Le altre visioni, quelle cioè che riguardano le sostanze incorporee, non si possono vedere neanche con l’aiuto di questa luce proveniente da Dio di cui si parla qui, ma con un altro lume più elevato, denominato lume di gloria. Tali visioni di sostanze incorporee, come quelle aventi per oggetto gli angeli e le anime, non sono propriamente di questa vita né si possono vedere fin quando si è nel corpo mortale. Difatti, se Dio volesse comunicarle nella loro essenza all’anima, questa lascerebbe il suo corpo e cesserebbe la sua vita mortale. Per questo Dio rispose a Mosè che gli chiedeva di vedere la sua essenza: Non videbit me homo, et vivet: Nessun uomo può vedermi e restare vivo (Es 33,20). Così i figli d’Israele, al pensiero di vedere Dio, o di aver visto lui o un angelo, temevano di morire, come si legge nell’Esodo, quando, presi dalla paura, esclamarono: Non loquatur nobis Dominus, ne forte moriamur: Non ci parli Dio, altrimenti moriremo! (Es 20,19). Anche nel libro dei Giudici leggiamo che Manoach, padre di Sansone, che aveva visto nella sua essenza un angelo sotto forma di un giovane molto bello, disse a sua moglie che aveva avuto la stessa visione: Morte moriemur, quia vidimus Dominum: Moriremo certamente, perché abbiamo visto Dio (Gdc 13,22).

3. Queste visioni non sono, dunque, di questa vita, se non raramente e in modo passeggero. Anche in questo caso Dio sostiene le condizioni della vita naturale, poiché sottrae totalmente lo spirito da essa, facendo in modo che la sua grazia supplisca alle funzioni dell’anima nel corpo. Questo il motivo per cui san Paolo, che aveva avuto visioni di questo genere, cioè aveva visto delle sostanze semplici nel terzo cielo, disse: Sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio; Deus scit (2Cor 12,2); cioè fu rapito verso di esse, ma dice di non sapere se, quando le vide, era nel corpo o fuori del corpo; solo Dio lo sa. Si vede chiaramente che trascese la vita naturale, nel modo voluto da Dio. Allo stesso modo, quando Dio, come crediamo, volle mostrare la sua essenza a Mosè, gli disse che lo avrebbe posto nel cavo della roccia e lo avrebbe protetto coprendolo con la destra, sostenendolo perché non morisse quando sarebbe passata la sua gloria. Questo passaggio della gloria di Dio consisteva nel manifestarsi in modo transitorio, mentre, con la destra, egli avrebbe conservato la vita naturale di Mosè (Es 33,22). Ma queste visioni così sostanziali, come quelle accordate a san Paolo, a Mosè, al nostro padre Elia quando si coprì il volto al soffio soave di Dio (1Re 19,12-13), anche se passeggere, accadono raramente o quasi mai, e sono brevissime, perché Dio le riserva a quelli più forti nello spirito della Chiesa e nella sua legge, come i tre personaggi menzionati sopra.

4. Sebbene in questa vita l’intelletto non possa avere queste visioni di sostanze spirituali in modo chiaro ed evidente, tuttavia è possibile sentirle nella sostanza dell’anima con soavissimi tocchi e amplessi che appartengono ai sentimenti spirituali, dei quali, a Dio piacendo, parlerò in seguito: l’intento è, infatti, quello di guidare l’anima verso l’amplesso e l’unione con l’Essenza divina. Ne parlerò quando tratterò dell’intelligenza mistica, confusa e oscura, di cui si discuterà quando occorrerà mostrare come mediante questa conoscenza amorosa e oscura l’anima si unisca a Dio in grado elevato e divino. Tale conoscenza oscura e amorosa, che è la fede, serve infatti in qualche modo, quaggiù, all’unione divina, come il lume di gloria serve nell’altra vita da mezzo per la chiara visione di Dio.

5. Pertanto, adesso tratto delle visioni di sostanze corporee che vengono comunicate in modo spirituale all’anima e che somigliano alle visioni corporee. Infatti, come gli occhi del corpo vedono gli oggetti sensibili mediante la luce naturale, così l’anima, o per meglio dire, l’intelletto, per mezzo della luce soprannaturale, di cui ho parlato, vede interiormente questi stessi oggetti naturali e altri, se Dio vuole. C’è, però, una differenza nel grado e nel modo della visione, perché le visioni spirituali e intellettuali sono più chiare e più sottili di quelle corporee. Infatti, quando Dio vuole accordare una grazia di questo genere all’anima, le comunica la luce soprannaturale di cui si diceva. Con l’aiuto di questa, essa vede con facilità e con molta chiarezza ciò che Dio vuole manifestarle, sia del cielo che della terra, senza che la presenza o l’assenza dell’oggetto possa esserle di ostacolo. A volte è come se le si aprisse una porta luminosissima e attraverso di essa irrompesse una luce come un lampo che, in una notte oscura, illumina improvvisamente gli oggetti in modo chiaro e distinto, per poi farli ripiombare nel buio, anche se le loro forme e immagini rimangono impresse nell’immaginazione. Ciò è quanto accade nell’anima in modo più perfetto, perché tali visioni s’imprimono nel suo spirito così profondamente con l’aiuto di quella luce, che ogni volta che vi ritorna sopra le rivede in sé come le aveva viste al principio. L’anima è come lo specchio in cui si vedono le forme riflesse ogni volta che lo si guarda. Queste visioni sono tali che le immagini delle cose che l’anima ha visto una volta non spariscono mai completamente, anche se con il tempo diventano più opache.

6. Tra gli effetti prodotti nell’anima da queste visioni si possono annoverare la quiete, l’illuminazione, una gioia simile a quella dello stato di gloria, la dolcezza, la purezza, l’amore, l’umiltà, l’attrazione o elevazione dello spirito in Dio. Sono effetti più o meno intensi, più marcati in una virtù che in un’altra, a seconda dello spirito con il quale sono ricevuti e a seconda del beneplacito di Dio.

7. Anche il demonio può provocare queste visioni nell’anima servendosi di qualche luce naturale, in cui per suggestione spirituale fa vedere allo spirito cose presenti o assenti. Così, al fine di spiegare il testo di san Matteo, ove si legge che il demonio mostrò a Cristo tutti i regni del mondo con la loro gloria: Ostendit omnia regna mundi et gloriam eorum (Mt 4,8), alcuni interpreti dicono che lo fece per suggestione spirituale. Non era, infatti, possibile che facesse vedere a Gesù con gli occhi del corpo tutti i regni del mondo e la loro gloria. Tuttavia c’è molta differenza tra queste visioni provocate dal demonio e quelle che provengono da Dio. Gli effetti che esse producono nell’anima non sono come quelli delle visioni buone, anzi provocano aridità di spirito nei rapporti con Dio, tendenza all’autostima, suggerendo di accogliere e dare importanza a tali visioni; d’altra parte esse non producono affatto la dolcezza dell’umiltà e l’amore di Dio. Per di più, gli oggetti di queste visioni non rimangono impressi nell’anima con la luminosità soave delle altre. Non durano a lungo, anzi si cancellano presto, eccetto quando l’anima le stima molto; in questo caso la stima stessa fa sì che se ne conservi il ricordo in modo naturale: ma è un ricordo molto arido, che non produce quell’amore e quell’umiltà procurati dal ricordo delle visioni buone.

8. Queste visioni, poiché hanno per oggetto creature con le quali Dio non ha alcuna proporzione o somiglianza nell’essenza, non possono servire all’intelletto come mezzo prossimo per l’unione con Dio. All’anima, quindi, conviene comportarsi in maniera del tutto negativa nei loro confronti, come nei confronti delle altre di cui ho parlato, se vuole progredire con il mezzo prossimo che è la fede. L’anima, dunque, non deve conservare né apprezzare le forme di quelle visioni che le rimangono impresse e nemmeno vi si deve attaccare. Se si ferma a quelle forme, immagini e persone che risiedono nel suo intimo, sarà ostacolata nell’andare a Dio per la via della rinuncia assoluta. Nel caso, poi, che quelle forme si ripresentino continuamente, non le recheranno alcun danno se non darà loro importanza. È vero che il loro ricordo suscita nell’anima qualche grado d’amore di Dio e la conduce alla contemplazione, ma molto di più ve la spingeranno e innalzeranno la fede pura e il cieco distacco da tutte quelle visioni, senza voler sapere come e da dove vengono. Accade, così, che l’anima sia infiammata d’ansie di amore molto puro per Dio, senza sapere da dove vengano né su cosa si fondino. Questo perché, come la fede si è radicata e si è molto sviluppata nell’anima per mezzo di questo vuoto, di queste tenebre e del distacco da tutte le cose – in breve, per mezzo di questa povertà spirituale –, così si è parimenti radicata e sviluppata nell’anima la carità di Dio. Da ciò segue che, quanto più l’anima s’impegna a restare nelle tenebre e nel nulla rispetto a tutte le cose esteriori e interiori che le possono essere comunicate, tanta maggior fede, quindi amore e speranza verranno infuse in essa, dal momento che queste tre virtù teologali progrediscono insieme.

9. A volte la persona non comprende né avverte quest’amore, perché esso non passa attraverso i sensi con dolcezza, ma si stabilisce nell’anima con una forza, un coraggio e un’audacia superiori al passato, sebbene alcune volte si ripercuota nei sensi e appaia tenero e dolce. Per arrivare, perciò, a questo amore, a quest’allegria, a questa gioia che tali visioni producono e causano, l’anima deve avere forza, esercitarsi nella mortificazione e nell’amore per voler rimanere libera e all’oscuro nei loro confronti. In tal modo essa fonderà questo amore e questa gioia su ciò che non vede e non sente, e che non può vedere né sentire in questa vita, cioè su Dio, che è incomprensibile e al di sopra di tutto. Questo il motivo per cui è necessario andare a Dio attraverso la negazione di ogni cosa. Altrimenti, pur supponendo che l’anima sia tanto abile, umile e forte da impedire al demonio d’ingannarla per mezzo di tali visioni e di farla cadere nella presunzione, com’è solito fare, il maligno non permetterà all’anima di progredire, perché essa frappone qualche ostacolo alla nudità spirituale, alla povertà di spirito, al distacco della fede, elementi richiesti per la sua unione con Dio.

10. Poiché la dottrina riguardante queste visioni è la stessa esposta nei capitoli 17-18 a proposito delle visioni e delle percezioni soprannaturali dei sensi, non spenderò qui altro tempo per ripetere quanto già detto.

 

CAPITOLO 25

Ove si parla delle rivelazioni. Si dice cosa siano e se ne offre una distinzione.

1. Seguendo l’ordine prefisso, devo ora trattare del secondo genere di conoscenze spirituali, che ho chiamato rivelazioni. Esse appartengono, precisamente, allo spirito di profezia. A proposito di questo argomento, prima d’ogni cosa è opportuno sapere che la rivelazione non è altro che la manifestazione di qualche verità nascosta o di qualche segreto o mistero. Così, ad esempio, Dio fa comprendere all’anima una cosa spiegandone all’intelletto la verità, o le svela qualcosa che egli ha fatto, fa o pensa di fare.

2. In base a questo, si può dire che vi sono due specie di rivelazioni. Le prime consistono nella manifestazione di alcune verità all’intelletto; vengono chiamate propriamente conoscenze intellettuali o intelligenze. Le altre consistono nella manifestazione di segreti e, più propriamente delle prime, vengono chiamate rivelazioni. Le prime, infatti, non possono essere chiamate, a rigor di termini, rivelazioni, perché consistono nella conoscenza di verità pure e nude, che Dio concede all’anima su cose non solo temporali ma anche spirituali, in modo chiaro ed esplicito. Voglio parlarne sotto il nome di rivelazioni, primo, perché sono molto vicine e collegate con esse, e, secondo, per non moltiplicare troppo le divisioni.

3. Ciò detto, ora si può benissimo dividere le rivelazioni in due specie di conoscenze: le prime le chiamerò conoscenze intellettuali, le altre manifestazioni di segreti e misteri nascosti di Dio. Ne parlerò il più brevemente possibile nei due capitoli seguenti, cominciando subito dalle prime.

 

CAPITOLO 26

Ove si parla della conoscenza di pure verità da parte dell’intelletto. Vengono divise in due categorie e si spiega come l’anima deve comportarsi nei loro confronti.

1. Per parlare con precisione della conoscenza di pure verità da parte dell’intelletto, occorre che Dio mi prenda la mano e guidi la mia penna. Sappi, infatti, caro lettore, che ciò che esse sono in se stesse, in rapporto all’uomo, supera ogni parola. Non è mia intenzione parlarne esplicitamente, ma voglio solo mostrare all’anima come servirsene per tendere all’unione divina. Mi si permetta, perciò, di parlarne brevemente e quanto è sufficiente a tale scopo.

2. Questa specie di visioni o, per meglio dire, di conoscenze di pure verità è molto diversa da quelle di cui ho appena parlato nel capitolo 24. Essa non consiste nel vedere con l’intelletto gli essere corporei, ma nel comprendere e nel vedere mediante tale facoltà alcune verità relative a Dio o alle cose presenti, passate e future; tutto ciò è molto vicino allo spirito di profezia, di cui parlerò più avanti.

3. Va notato che questo genere di conoscenze si divide in due categorie: come ho appena detto, le une riguardano il Creatore, le altre le creature. Sebbene sia le une che le altre procurino grande delizia nell’anima, tuttavia non c’è paragone se guardiamo al diletto che producono quelle che riguardano Dio, né vi sono vocaboli o termini per darne un’idea, perché si tratta di conoscenze che hanno per oggetto Dio stesso e le delizie che egli procura all’anima, secondo quanto afferma Davide: Non v’è alcuna cosa simile a lui (Sal 39,6). Queste conoscenze, poiché hanno Dio per oggetto, vengono direttamente concesse da lui; grazie ad esse si avverte molto profondamente qualche attributo di Dio: la sua onnipotenza, la forza, la bontà, la dolcezza, ecc. Tutte le volte che egli si fa sentire all’anima, s’imprime in essa ciò che va provando. Poiché qui si tratta di contemplazione pura, l’anima vede chiaramente che non è possibile dirne qualcosa, se non in termini generali che traboccano dall’abbondanza del diletto e del bene che essa prova, ma che sono insufficienti a far comprendere ciò che ha gustato e sentito.

4. Davide, per esempio, dopo aver provato qualcosa di tale favore, ne parlò in termini vaghi e generici, affermando: Iudicia Domini vera, iustificata in semetipsa. Desiderabilia super aurum et lapidem pretiosum multum, et dulciora super mel et favum: I giudizi del Signore, cioè le virtù e gli attributi che vediamo in Dio, sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante (Sal 18,10-11). Di Mosè leggiamo che, essendo stato elevato a una sublime conoscenza di Dio, concessagli una volta che gli passò davanti, riferì solo ciò che si può esprimere con parole comuni. Difatti, presentandoglisi il Signore in quella conoscenza, si prostrò subito a terra, gridando: Dominator Domine Deus, misericors et clemens, patiens et multae miserationis ac verax. Qui custodis misericordiam in millia, ecc.: Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni (Es 34,5-8). In questo passo si vede come Mosè, non potendo esprimere ciò che aveva appreso di Dio in questa sola conoscenza, lo disse e lo ripeté attraverso questa serie di parole. Sebbene, talvolta, in circostanze simili l’anima dica molte parole, si accorge di non aver detto nulla di quanto ha provato, perché sa che non v’è parola in grado di esprimere quest’esperienza. San Paolo, per esempio, quando fu favorito da quella sublime conoscenza di Dio, non si preoccupò di parlarne; disse solo che all’uomo non è permesso di trattare di tali argomenti (cfr. 2Cor 12,4).

5. Queste conoscenze divine, o che hanno Dio per oggetto, non sono mai circoscritte a cose particolari. Poiché riguardano il sommo Principio, non se ne può dire nulla in particolare, a meno che non si tratti in qualche modo di qualche verità riguardante un oggetto inferiore a Dio, che potrebbe essere conosciuto insieme nello stesso atto; ma le altre no, non possono essere riferite in nessuna maniera. Conoscenze così eccelse possono venir accordate solo all’anima pervenuta all’unione con Dio, perché esse medesime sono quell’unione. Questa consiste nel possedere simili conoscenze mediante un certo tocco che intercorre tra l’anima e la Divinità, per cui in quel momento è Dio stesso che viene sentito e gustato. Sebbene questo tocco di conoscenza e di soavità non sia manifesto e chiaro come nella gloria, tuttavia è talmente elevato e profondo da penetrare la sostanza dell’anima. Il demonio non può intromettervisi né produrre qualcosa di simile, perché nulla gli assomiglia né può essergli paragonato; il demonio non può infondere simili diletti e gioie. Tali conoscenze hanno il sapore dell’essenza divina e della vita eterna e il demonio non può simulare un favore tanto sublime.

6. Potrebbe però scimmiottarle, presentando all’anima alcune cose elevate e grandiose capaci di impressionarla vivamente, cercando di convincerla che si tratta di un favore divino; ma non potrà mai fare in modo che esse penetrino nella sostanza dell’anima, la rinnovino dal di dentro e l’innamorino repentinamente, come invece fanno le conoscenze provenienti da Dio. Vi è, infatti, qualche conoscenza o tocco soprannaturale che il Signore prova nella sostanza dell’anima e l’arricchisce in modo tale che ne basta una sola per liberarla una volta per tutte dalle imperfezioni che essa non era riuscita a correggere nell’intera sua vita, lasciandola colma di virtù e di beni divini.

7. Questi tocchi divini sono così pieni di sapore e di intime delizie che uno solo di essi basterebbe per ripagare l’anima di tutte le innumerevoli fatiche affrontate nella vita. L’anima rimane talmente incoraggiata e con tanto desiderio di soffrire molto di più per il Signore, da avvertire un particolare tormento al pensiero di soffrire molto poco per lui.

8. A queste sublimi conoscenze l’anima non può giungere attraverso qualche comparazione o immaginazione da parte sua, perché quelle trascendono simili espedienti. Dio le produce nell’anima senza alcuna sua attiva collaborazione. Dio è solito accordarle questi tocchi divini, che le imprimono alcuni ricordi di Dio stesso. Tali ricordi, a volte, si risvegliano improvvisamente nell’anima al solo pensiero di cose spesso insignificanti; sono talmente sensibili che non solo l’anima, ma anche il corpo ne freme di gioia; altre volte invece si fanno sentire quando lo spirito è in una calma profonda, senza produrre alcun fremito, ma un improvviso senso di diletto e di refrigerio per lo spirito.

9. Altre volte questi favori si verificano quando le anime dicono o sentono dire qualche parola della sacra Scrittura o di altra fonte. Ma non sempre hanno la stessa efficacia o si fanno sentire con la stessa intensità. Difatti molte volte sono assai deboli, ma, per quanto deboli possano essere, uno solo di questi ricordi e tocchi divini nell’anima vale più di molte altre conoscenze o considerazioni sulle creature e le opere di Dio. E poiché tali conoscenze sono offerte all’anima all’improvviso e senza il concorso della sua volontà, essa non deve far nulla per cercarle o respingerle. Deve solo restare umile e rassegnata nei loro confronti; Dio compirà la sua opera come e quando vorrà.

10. Non dico, però, che l’anima debba comportarsi negativamente nei confronti di queste conoscenze come con le altre, perché queste, ripeto, fanno parte dell’unione verso cui andiamo conducendo l’anima. A tale scopo, le insegnano a spogliarsi e a staccarsi da tutte le altre conoscenze. Perché Dio conceda tali favori, bisogna essere umili e saper soffrire per amore di Dio con pazienza e disinteresse per qualsiasi ricompensa. Tali favori, infatti, non vengono accordati all’anima che dimostra spirito di possesso. Essi provengono da un amore molto particolare di Dio perché l’anima lo ripaghi con un amore altrettanto disinteressato. Questo è quanto intendeva dire il Figlio di Dio per mezzo di san Giovanni con queste parole: Qui autem diligit me, diligetur a Patre meo, et ego diligam eum, et manifestabo ei meipsum: Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui (Gv 14,21). Tali parole alludono alle conoscenze e ai tocchi di cui stiamo parlando, attraverso i quali Dio si manifesta all’anima che si accosta a lui e lo ama per davvero.

11. La seconda categoria di conoscenze o visioni di verità interiori è molto diversa da quella esposta finora, perché concerne oggetti inferiori a Dio. Essa riguarda la conoscenza della verità delle cose in sé, dei fatti e degli avvenimenti che accadono tra gli uomini. Questa conoscenza è tale che le verità conosciute s’imprimono nel più profondo dell’anima, senza che alcuno le dica nulla. Anche se le dicessero il contrario, essa non darebbe il suo assenso interiore, nonostante i suoi sforzi, perché lo spirito vede una cosa diversa in ciò che gli si rappresenta in quello stesso istante. È come se l’anima la vedesse con molta chiarezza. Tale visione appartiene allo spirito di profezia o a quella grazia che san Paolo chiama dono del discernimento degli spiriti (1Cor 12,10). Sebbene l’anima ritenga questa conoscenza molto certa e vera, come ho detto, e non possa esimersi dal dare il suo assenso interiore passivo, tuttavia non deve cessare di aver fede e di dare il suo assenso razionale a quanto il maestro spirituale le dirà o comanderà, anche se è molto contrario a ciò che essa prova. In questo modo essa cammina nella fede sino all’unione divina; verso questa meta essa deve tendere più con l’aiuto della fede che della ragione.

12. Di entrambe queste conoscenze abbiamo testimonianze molto chiare nella sacra Scrittura. Il Saggio, a proposito della conoscenza spirituale che si può avere delle cose, afferma: Ipse dedit mihi horum quae sunt scientiam veram, ut sciam dispositionem orbis terrarum, et virtutes elementorum, initium et consummationem temporum, vicissitudinum permutationes, et consummationes temporum et morum mutationes, divisiones temporum, et anni cursus, et stellarum dispositiones, naturas animalium et iras bestiarum, vim ventorum, et cogitationes hominum, differentias virgultorum, et virtutes radium, et quaecumque sunt abscondita, et improvisa didici: omnium enim artifex docuit me sapientia: Egli mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l’alternarsi dei solstizi e il susseguirsi delle stagioni, il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l’istinto delle fiere, la forza e il movimento dei venti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà delle radici. Tutto ciò che è nascosto e ciò che è palese io lo so, perché mi ha istruito la sapienza artefice di tutte le cose (Sap 7,17-21). Anche se questa conoscenza di tutte le cose di cui parla qui il Saggio e che gli è stata data da Dio fosse infusa e generale, tuttavia il testo prova sufficientemente la possibilità di tutte le conoscenze particolari che Dio infonde, quando vuole, nelle anime per via soprannaturale. Egli non concede loro la scienza generale e abituale di tali oggetti, come nel caso di Salomone, ma a volte manifesta loro alcune verità su qualcuna di quelle cose di cui parla il Saggio. È vero che il Signore concede a molte anime abiti infusi relativamente a molte cose, però essi non sono mai così generali come quelli concessi a Salomone. Tali abiti variano a seconda dei doni che il Signore distribuisce e tra i quali san Paolo annovera la sapienza, la scienza, la fede, la profezia, il discernimento o conoscenza degli spiriti, l’intelligenza delle lingue, l’interpretazione delle parole, ecc. (1Cor 12,8-10). Tutte queste conoscenze sono abiti infusi, da Dio gratuitamente concessi a chi vuole, in modo sia naturale che soprannaturale; naturalmente, come a Balaam, ad altri profeti idolatri e a molte sibille alle quali concesse lo spirito di profezia; e soprannaturalmente, come ai santi profeti, agli apostoli e ad altri santi.

13. Ma oltre a questi abiti o grazie gratis datae, affermo che le persone perfette, o quelle perlomeno che fanno progressi nella perfezione, comunemente ricevono illuminazioni o conoscenze sulle cose presenti e assenti. Tale grazia viene accordata attraverso una luce che si comunica al loro spirito già illuminato e purificato. A tale riguardo possiamo ascoltare il seguente brano del libro dei Proverbi: Quomodo in aquis resplendent vultus prospicientium, sic corda hominum manifesta sunt prudentibus: Come nelle acque appare il volto di coloro che vi si specchiano, così i cuori degli uomini sono conosciuti dalle persone prudenti (Pro 27,19), cioè di coloro che posseggono già la saggezza dei santi, che la sacra Scrittura chiama prudenza. In questo modo tali spiriti così purificati conoscono a volte altre verità; non ogni volta che vogliono, perché questo è consentito solo a coloro che hanno l’abito infuso, e anche a costoro non sempre in tutto, ma solo come e quando Dio vuole.

14. Occorre sapere che le persone, il cui spirito è del tutto purificato, possono, chi più chi meno, con molta facilità e naturalezza conoscere ciò che è nel cuore o nell’intimo dell’anima, le inclinazioni e le qualità degli altri. Tali persone conoscono tutto questo attraverso indizi esterni, anche minimi, come possono essere le parole, i movimenti o altri segni. Come il demonio, perché spirito, ha questo potere, così anche la persona spirituale lo possiede, come dice l’Apostolo: Spiritualis autem iudicat omnia: L’uomo spirituale giudica ogni cosa (1Cor 2,15). Altrove aggiunge: Spiritus enim omnia scrutatur etiam profunda Dei: Lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (1Cor 2,10). Da ciò si deduce che le persone spirituali non possano conoscere i pensieri e il fondo dei cuori per via naturale, ma solo con l’aiuto della luce soprannaturale o per indizi. Se, poi, in questi ultimi casi sovente possono sbagliarsi, la maggior parte delle volte indovinano. Tuttavia, non bisogna fidarsi né dell’uno né dell’altro mezzo di conoscenza, perché il demonio s’intromette con molta facilità e astuzia, come dirò subito. È opportuno, quindi rinunciare sempre a tali comunicazioni e conoscenze.

15. Che le persone spirituali, anche se distanti, possano conoscere fatti o avvenimenti degli uomini, è dimostrato da un esempio del quarto libro dei Re. Giezi, servo del nostro padre Eliseo, voleva nascondere il denaro ricevuto da Naaman il Siro. Ma Eliseo gli disse: Nonne cor meum in praesenti erat,quando reversus est homo de curru suo in occursum tui?: Non era forse presente il mio spirito quando quell’uomo si voltò dal suo carro per venirti incontro? (2Re 5,26). Ciò accadeva spiritualmente. Difatti il profeta aveva visto tutto in spirito, come se fosse stato presente con il corpo. Un episodio simile lo troviamo ancora nel medesimo libro. Vi si legge che Eliseo rivelava al re d’Israele tutto ciò che il re di Siria trattava in segreto con i suoi principi, vanificando così le sue deliberazioni. Allora il re di Siria, vedendo che si sapeva tutto, disse ai suoi consiglieri: “Perché non mi dite chi di voi mi ha tradito presso il re d’Israele?”. Uno dei suoi servi gli rispose: Nequaquam, domine mi rex, sed Eliseus propheta, qui est in Israel, indicat regi Israel omnia verba quaecumque locutus fueris in conclavi tuo: “No, o re mio signore, ma è Eliseo, il profeta che si trova in Israele, che riferisce al re d’Israele tutte le parole che dici in segreto” (2Re 6,11-12).

16. Sia l’una che l’altra forma di conoscenza delle cose, come pure le altre, vengono comunicate all’anima passivamente, senza il minimo concorso da parte di quest’ultima. Può accadere, infatti, che mentre la persona è molto distratta e lontana, le sia dato di conoscere profondamente ciò che essa ascolta o legge, in modo anche più chiaro del suono delle parole; a volte, pur non comprendendo le parole, perché in latino, che lei non conosce, ne avrà ugualmente una perfetta conoscenza senza capirle.

17. Ci sarebbe molto da dire sugli inganni a cui il demonio può ricorrere – e ricorre – in questa specie di comunicazioni e di conoscenze, perché sono numerosi e ben sottili. Egli può, infatti, servendosi della suggestione, presentare all’anima molte conoscenze intellettuali e imprimerle talmente in essa da farle sembrare vere. Se l’anima non è umile e prudente, senza dubbio il demonio le farà credere mille menzogne. Le suggestioni, infatti, a volte hanno molta presa nell’anima, soprattutto quando questa partecipa un po’ della debolezza dei sensi. Ivi il demonio imprime le conoscenze con tanta forza, tanta persuasione e tanta efficacia che l’anima allora ha bisogno di molta preghiera ed energia per respingerle. Qualche volta la suggestione rappresenta peccati di altri, il cattivo stato delle coscienze e la malvagità delle anime, falsamente e con molta chiarezza. Scopo del demonio è quello di diffamare il prossimo, facendo conoscere a tutti questi peccati, e perché se ne commettano altri con il pretesto che occorre raccomandare queste anime a Dio. È vero che a volte Dio presenta alle anime sante i bisogni del prossimo perché gliele raccomandino o vi pongano un rimedio. A tale riguardo, per esempio, leggiamo che il Signore rivelò a Geremia la debolezza del profeta Baruc per indicargli la soluzione da prendere (cfr. Ger 45,3). Ma molte volte anche il demonio agisce in questo modo con grande falsità, per indurre le persone all’infamia, al peccato e allo sconforto, come c’insegna abbondantemente l’esperienza. Altre volte egli dà un gran peso ad altre conoscenze per farle credere.

18. Tutte queste conoscenze, vengano da Dio oppure no, giovano pochissimo all’anima che vuole servirsene per andare a lui. Al contrario, se essa non cercasse di distaccarsene, non soltanto la turberebbero, ma la danneggerebbero molto e la farebbero cadere in molti errori. Tutti i pericoli e gli inconvenienti che possono nascondersi nelle comunicazioni soprannaturali, di cui ho trattato finora, possono annidarsi anche qui. Questo è il motivo per cui non mi dilungherò di più su questo punto, avendone già proposto una dottrina idonea. Mi limiterò solo a dire che si faccia molta attenzione a rinunciare sempre a simili conoscenze, cercando di camminare verso Dio attraverso il non sapere. L’anima ne tenga sempre informato il proprio confessore o maestro spirituale, attenendosi sempre a ciò che le consiglierà. Quanto a quest’ultimo, cerchi di distogliere in fretta l’anima da simili fenomeni, non dando loro alcuna importanza, perché non occorrono per avanzare verso l’unione con Dio. Difatti, poiché tali favori sono ricevuti passivamente dall’anima, sortiscono sempre l’effetto da Dio voluto per l’anima, senza che questa vi concorra. Questo è il motivo per cui non credo sia il caso di parlare qui dell’effetto prodotto dalle conoscenze vere o da quelle false, perché non finirei più e provocherei stanchezza. Del resto, queste cose non si possono spiegare in poche parole, poiché queste conoscenze sono numerose e varie, così come lo sono gli effetti: le buone producono effetti buoni e le cattivi effetti cattivi, ecc. Quando dico che bisogna respingerle tutte, ho detto quanto basta per non cadere nell’errore.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/09/2012 17:56
 
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CAPITOLO 27

Ove si parla della seconda specie di rivelazioni, cioè delle manifestazioni di segreti e misteri nascosti. Si mostra come esse possano servire all’unione con Dio o impedirla e come il demonio possa ingannare facilmente su questo punto.

1. Dicevo che la seconda specie di rivelazioni consiste nella manifestazione di segreti e misteri nascosti, e ciò secondo due tipi. Il primo ha per oggetto Dio in sé e include la rivelazione del mistero della santissima Trinità e Unità di Dio. Il secondo riguarda ciò che Dio è nelle sue opere; comprende gli altri articoli della nostra fede cattolica e le verità che ne possono derivare esplicitamente. Le proposizioni comprendono e racchiudono un gran numero di rivelazioni dei profeti, di promesse e di minacce di Dio, nonché avvenimenti riguardanti la fede che dovevano o devono accadere. In questo secondo tipo possiamo altresì includere molte altre cose particolari che Dio ordinariamente rivela, sia sull’universo in generale, sia in particolare su una nazione, una provincia, uno stato, una famiglia o alcune persone determinate. Di questa duplice rivelazione abbiamo numerosi esempi negli scritti sacri, soprattutto nei profeti, nei quali si trovano rivelazioni di ogni genere. La cosa è talmente chiara e semplice, che non voglio perdere tempo nel riportarli. Mi limito a dire che queste rivelazioni non avvengono solo tramite le parole; Dio può esprimerle in diversi modi e mezzi: a volte si serve solo di parole; altre volte ricorre a segni, figure, immagini o similitudini; altre volte, infine, si serve sia delle parole che dei simboli, come ad esempio nel caso dei profeti e specialmente nel libro dell’Apocalisse. Ivi troviamo non solo tutti i generi di rivelazioni, di cui ho parlato sopra, ma anche le diverse specie e i vari tipi di cui sto trattando.

2. Anche ai nostri giorni Dio accorda rivelazioni che appartengono al secondo tipo. Infatti, di solito manifesta ad alcune persone il tempo che hanno da vivere, le fatiche che dovranno affrontare, cosa accadrà a tale o tal altra persona, a questa o a quella nazione, ecc. Rivela, inoltre, le verità riguardanti i misteri della nostra fede e concede allo spirito di comprenderle; tuttavia non è questo che si chiama propriamente rivelazione, in quanto verità già rivelata, ma piuttosto essa è una manifestazione o una spiegazione di quanto è già stato rivelato.

3. Il demonio può intromettersi in questo genere di rivelazioni con molta facilità. Poiché esse ordinariamente avvengono attraverso parole, figure e somiglianze, ecc., il demonio può benissimo fingere qualcosa di simile, molto più di quando esse avvengano solamente nello spirito. Ebbene, sia che si tratti del primo o del secondo tipo di rivelazione, sia che ci venga rivelato qualcosa di nuovo o diverso circa la nostra fede, non dobbiamo in nessun modo acconsentirvi, anche se avessimo la certezza che è un angelo del cielo a manifestarci tutto questo. A tale riguardo san Paolo afferma: Licet nos, aut angelus de caelo evangelizet vobis praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit: Se anche noi stessi o un angelo disceso dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema! (Gal 1,8).

4. Poiché non vi sono più articoli da rivelare circa la sostanza della nostra fede, al di fuori di quelli già rivelati alla Chiesa, non solo non dobbiamo accettare una novità che venisse rivelata all’anima, ma, anzi, è prudente respingere le novità contenute in tale rivelazione. Per conservare la purezza è opportuno che l’anima resti nella fede. Se le venissero manifestate nuovamente verità già rivelate, non deve crederle perché le sono rivelate un’altra volta, ma perché sono già state sufficientemente manifestate alla Chiesa. Occorre che chiuda loro gli occhi dell’intelletto, si attacchi con semplicità alla dottrina della Chiesa e alla sua fede, che, come dice san Paolo, entra attraverso l’udito (Rm 10,17). E non presti credito né attenzione a queste verità di fede rivelate nuovamente, anche se le sembrano più conformi alla ragione e più vere, se non vuole essere ingannata. Il demonio, infatti, per poter ingannare e insinuare menzogne, prima adesca con verità e con certe cose molto verosimili per dare sicurezza, ma subito dopo inganna. Si comporta come colui che cuce il cuoio con la setola: prima infila la setola rigida poi quella morbida, che senza quella non potrebbe penetrare.

5. Si faccia molta attenzione su questo punto. Anche se fosse vero che non v’è alcun pericolo di cadere in tale inganno, è opportuno che l’anima non cerchi di comprendere chiaramente le verità della fede, per mantenere puro e intatto il suo merito e anche per introdursi, attraverso la notte dell’intelletto, alla luce divina dell’unione. È di somma importanza attenersi ciecamente alle profezie del passato, ogni volta che si presenti qualche nuova rivelazione. Così l’apostolo Pietro, pur avendo in qualche modo visto la gloria del Figlio di Dio rivelata sul monte Tabor, tuttavia nella sua seconda lettera scrive: Et habemus firmiorem propheticum sermonem; cui bene facitis attendentis, ecc.: sebbene sia certa la visione che abbiamo avuto di Cristo sul monte, abbiamo però una parola ancor più sicura, quella dei profeti, alla quale fate bene a prestare attenzione (2Pt 1,19).

6. Se è vero che, per i motivi suddetti, è opportuno chiudere gli occhi alle rivelazione che riguardano proposizioni di fede, quanto più sarà necessario non accettare né prestare credito alle altre rivelazioni che riguardano cose differenti! In esse il demonio usa intromettersi così bene, che ritengo impossibile che non venga ingannato chi non cerca di respingerle, vista la loro apparenza di verità e la persuasione che il maligno suggerisce con esse. Egli, infatti, mette insieme verosimiglianze e convenienze perché vengano credute e le imprime così profondamente nei sensi e nell’immaginazione che si è convinti che tali rivelazioni si avvereranno proprio in quel modo. L’anima vi aderisce e vi si attacca in maniera tale che, se non ha umiltà, molto difficilmente si riuscirà a distaccarla e a farle credere il contrario. Per questo motivo l’anima pura, prudente, semplice e umile, con tutte le sue forze e il suo impegno deve ricusare e respingere le rivelazioni e le visioni come tentazioni molto pericolose, perché per tendere all’unione d’amore non è necessario desiderarle, anzi bisogna rifiutarle. A questo allude Salomone quando afferma: Che bisogno ha l’uomo di volere e cercare cose che sono al di sopra della sua capacità naturale? (Qo 7,1), come a dire: per essere perfetto l’uomo non ha alcun bisogno di volere cose soprannaturali per via soprannaturale, cioè al di sopra delle sue capacità.

7. Alle obiezioni che si possono muovere contro questa dottrina si è già risposto nei capitoli 21 e 22; rimando quindi a quei capitoli e mi limito a dire che l’anima si guardi da tutte queste manifestazioni per camminare pura e senza errori nella notte della fede verso l’unione divina.

 

CAPITOLO 28

Ove si parla delle locuzioni interiori che vengono comunicate allo spirito per via soprannaturale. Si dice di quante specie siano.

1. Il lettore diligente deve ricordare sempre l’intento e il fine che mi sono prefisso in questo libro: introdurre l’anima nella sublime unione con Dio attraverso tutte le sue conoscenze, naturali e soprannaturali, tenendola lontana da inganni o difficoltà nella purezza della fede. Egli comprenderà allora che, anche se non mi sono dilungato molto sulle conoscenze dell’anima e sulla dottrina che sto esponendo, anche se non sono sceso in tutti i particolari e le divisioni forse utili per comprendere l’argomento, tuttavia dico quanto è necessario secondo lo scopo prefisso. Difatti mi sembra che riguardo a tale materia siano stati dati avvisi, chiarimenti e insegnamenti sufficienti perché l’anima sappia come comportarsi prudentemente in tutte le situazioni, interne ed esterne, per andare avanti. Questo è il motivo per cui ho trattato così brevemente delle conoscenze di profezie, così come ho fatto per le altre verità, pur avendo da dire molto di più su ciascuna di esse. Se dovessi parlare delle loro differenze, dei modi e delle forme in cui si possono presentare, non finirei di elencarle tutte. Mi contento di aver dato, a parer mio, la sostanza, la dottrina, e indicato le precauzioni che bisogna seguire di fronti a tali conoscenze e ad altre simili che possono presentarsi all’anima.

2. Ora farò lo stesso trattando del terzo genere di conoscenze, che ho chiamato locuzioni soprannaturali, che sogliono prodursi nello spirito delle persone spirituali senza il concorso dei sensi corporali. Sebbene siano molte e varie, credo che si possano ridurre tutte a queste tre specie: parole successive, formali e sostanziali. Chiamo successive alcune parole e ragionamenti che lo spirito, quando è raccolto in se stesso, è solito formare e su cui discorre tra sé e sé. Sono formali certe parole distinte ed esplicite che lo spirito produce non da sé, ma riceve da un’altra persona, in stato di raccoglimento o meno. Sono sostanziali, infine, altre parole che si producono in modo preciso nello spirito, sia esso in stato di raccoglimento oppure no; esse producono e causano nella sostanza dell’anima quella sostanza e virtù che significano. Tratterò con ordine di ciascuna di queste parole.

 

CAPITOLO 29

Ove si parla della prima specie di parole che a volte lo spirito forma in sé, quando è raccolto. Vengono esposti la causa, i vantaggi e i danni che possono nascondersi in esse.

1. Le parole successive si presentano sempre quando lo spirito è raccolto e profondamente assorto in qualche considerazione. Discorre sulla materia che lo attrae, passa da un pensiero all’altro, forma parole e ragionamenti molto appropriati con tale facilità e precisione da scoprire su quell’argomento cose che gli erano sconosciute; gli sembra di non essere lui l’autore di tutto questo, ma un’altra persona che formula ragionamenti nel suo intimo, che risponde e insegna. In realtà, ha davvero ragione di pensare in tal modo, perché egli ragiona e risponde a se stesso come se fosse in conversazione con un’altra persona. E in qualche modo è proprio così, perché, anche se lo spirito funge da strumento, molte volte è lo Spirito Santo che lo aiuta a produrre e a formare quei pensieri, quelle parole e quei ragionamenti pieni di verità. La persona, dunque, dice a se stessa queste cose come se si trovasse con un’altra persona. Infatti l’intelletto è unito alla verità che prende in considerazione ed è profondamente raccolto. Anche lo Spirito divino è unito a esso attraverso questa verità, come del resto è unito a ogni verità. Ne segue che l’intelletto, comunicando in tal modo con lo Spirito divino mediante quella verità, insieme con lui e successivamente forma nel suo intimo le altre verità relative a quella che stava considerando. Ma è lo Spirito Santo, che appunto insegna, ad aprirgli la porta e a comunicargli la sua luce. Questo è uno dei modi di cui si serve lo Spirito Santo per insegnare.

2. In questo modo l’intelletto, illuminato e istruito da tale Maestro, comprende quelle verità e contemporaneamente forma da sé quelle parole su verità che gli vengono comunicate da un’altra parte. Si può, quindi, dire che la voce è di Giacobbe, ma le mani sono di Esaù (Gn 27,22). Colui che fa tale esperienza, non potrà mai credere che quelle espressioni e parole non gli vengano da una terza persona, perché non sa con quale facilità l’intelletto può formare da sé parole su pensieri e verità che gli possono venir comunicati anche da una terza persona.

3. Anche se è vero che tali comunicazioni e illuminazioni fatte all’intelletto di per sé non contengono inganno alcuno, tuttavia può esserci e molte volte c’è inganno nelle parole formali e nei ragionamenti che l’intelletto vi costruisce sopra. La luce che gli viene comunicata, talvolta è molto sottile e spirituale, ragion per cui l’intelletto non riesce a farsene un’idea esatta, ed è lui, come dicevo, che forma da sé i suoi ragionamenti. Ne segue che molte volte ne forma di falsi, altre volte, invece, tali ragionamenti saranno verosimili o difettosi. Proprio perché all’inizio l’intelletto comincia ad afferrare il filo della verità, ma poi vi aggiunge la sua abilità o la grossolanità dei suoi bassi modi d’intendere, esso può facilmente variare a seconda della sua capacità, e tutto come se gli stesse parlando un altro.

4. Ho conosciuto una persona che aveva queste locuzioni successive. Alcune riguardanti il santissimo sacramento dell’eucaristia erano perfettamente vere e sostanziali; altre, invece, erano autentiche eresie. Mi spaventa molto ciò che accade ai nostri giorni, in cui una qualsiasi anima pervenuta a un certo livello di meditazione appena sente qualche locuzione di questo genere durante il raccoglimento, subito dichiara che si tratta di parole provenienti da Dio. È convinta che sia così e va ripetendo: “Dio mi ha detto”, “Dio mi ha risposto”. Ma non è nulla di tutto questo. Come ho dichiarato, sono queste anime che il più delle volte parlano così a se stesse.

5. Oltre a questo, il desiderio e l’attaccamento che queste anime nutrono nel loro spirito per tali cose fanno sì che si rispondano da sole e pensino che sia Dio a farlo e a parlare loro. Così cadono in gravi spropositi, se non sanno frenarsi e se il direttore spirituale non impone loro la rinuncia a tale genere di discorsi. Esse ne ricaveranno più loquacità e impurità d’anima che umiltà e mortificazione spirituale. Immagineranno che sia stato un grande favore e che Dio abbia parlato; invece è stato poco più di niente, oppure niente o meno di niente. Difatti ciò che non genera umiltà, carità, mortificazione, santa semplicità e silenzio, ecc., che cosa può essere? Affermo, dunque, che queste locuzioni possono ostacolare molto l’anima nel suo cammino verso l’unione divina, perché, se vi dà importanza, l’allontanano molto dalla profondità della fede, ove l’intelletto deve rimanere nell’oscurità per avanzare nel segno dell’amore nella notte della fede, non a forza di ragionamenti.

6. Mi dirai: perché l’intelletto deve privarsi di queste verità se con esse lo Spirito di Dio illumina l’intelletto? E, allora, che male c’è a occuparsene? Ti rispondo che lo Spirito Santo illumina l’intelletto raccolto e lo illumina in virtù di questo suo raccoglimento. Ora, poiché questa facoltà non può conseguire maggiore raccoglimento che nella fede, lo Spirito Santo non la illuminerà di più se non nella fede. Quanto più un’anima è pura e impegnata a vivere nella fede, tanta più carità infusa da Dio riceverà; e quanta più carità possiede, tanto più lo Spirito Santo la illumina e le comunica i suoi doni, perché la carità è la causa di tali doni e il mezzo attraverso cui egli li comunica. Sebbene sia vero che Dio nell’illuminazione di quelle verità comunichi all’anima un po’ di luce, tuttavia la luce della fede è assai diversa per qualità, pur essendo molto oscura; qualitativamente essa è come l’oro purissimo rispetto al metallo più vile; quantitativamente è superiore quanto è il mare rispetto a una goccia d’acqua. Nella prima comunicazione, infatti, le viene offerta la conoscenza di una, due o tre verità, ecc. In quella della fede, invece, le viene comunicata tutta la sapienza di Dio in generale, cioè il Figlio di Dio che le si comunica attraverso la fede.

7. Se mi dici che tutte queste conoscenze sono buone e che l’una non ostacola l’altra, ti rispondo che tutte nuocciono all’anima, se dà loro importanza. Difatti ciò equivarrebbe a occuparsi di verità chiare e di scarsa rilevanza, ma che sono sufficienti a impedire le comunicazioni che avvengono nella profondità della fede. Ivi Dio istruisce l’anima in maniera soprannaturale e segreta, l’arricchisce di virtù e di doni, senza che essa possa comprendere. Il profitto che si vuol ricavare da quelle comunicazioni successive, non proviene dall’applicazione dell’intelletto a esse, perché in tal caso le allontanerebbe da sé, come afferma la Sapienza nel Cantico: Distogli da me i tuoi occhi, perché mi fanno volare (Ct 6,4 Volg.), cioè mi fanno volare lontano da te e mi collocano più in alto. L’anima, invece, senza forzare l’intelletto a considerare ciò che le viene comunicato soprannaturalmente, applichi la volontà ad amare Dio con semplicità e purezza, perché quei beni le vengono concessi per mezzo dell’amore, e persino in misura maggiore che in passato. Se l’anima, quando riceve passivamente questi favori soprannaturali, fa intervenire attivamente l’abilità naturale del suo intelletto o di altre facoltà, non potrà mai raggiungere il livello di tali realtà soprannaturali attraverso questi canali troppo grossolani. Vorrà, quindi, per forza, ridurre al suo modo di vedere queste conoscenze e di conseguenza cambiarne la natura. L’anima necessariamente cadrà in errore e formerà da sé i ragionamenti, in modo tale che quanto essa sente non sarà qualcosa di soprannaturale né gli somiglierà. Al contrario, sarà molto naturale, erroneo e vile.

8. Vi sono, tuttavia, persone dall’intelletto molto vivo e sottile che, quando sono raccolte in qualche meditazione discorsiva, con grande naturalezza e facilità formano concetti e ragionamenti molto chiari su queste locuzioni e pensano, né più né meno, che vengano da Dio. Invece sono frutto soltanto del loro intelletto che, libero dall’attività dei sensi e senza alcun aiuto soprannaturale, può produrre questi e più grandi risultati. Vi sono molti casi di questo genere e molte persone si sbagliano credendo che si tratti di orazione profonda e di comunicazione di Dio. Lo scrivono anche e lo fanno scrivere. Accade poi che tutto si riduce a nulla, e in tutto questo non vi è la minima traccia di virtù e serve solo ad alimentare la vanità.

9. Imparino, dunque, queste anime a non badare alle parole successive, ma a fondare la volontà nella forza dell’amore umile, nella pratica di opere veramente buone, a soffrire imitando la vita e le mortificazioni del Figlio di Dio. Questo è il cammino che conduce ai beni spirituali, non i molti discorsi interiori.

10. Va, inoltre, detto che il demonio s’insinua spesso in questo genere di parole interiori successive, soprattutto quando le anime presentano qualche inclinazione o attaccamento a esse. Nel momento in cui cominciano a raccogliersi, il demonio è solito offrire loro bastante materia di digressioni e per mezzo delle sue suggestioni indurre l’intelletto a formare concetti e parole. In questo modo le fa cadere in rovina e le inganna subdolamente con proposte verosimili. Questo è uno dei modi attraverso cui egli si comunica a coloro che hanno fatto con lui un qualche patto, tacito o esplicito. In questo modo egli si comunica, altresì, ad alcuni eretici, soprattutto ad alcuni eresiarchi, riempiendo il loro intelletto di concetti e ragionamenti molto sottili, falsi ed erronei.

11. Da quanto detto risulta che queste locuzioni successive possono essere originate nell’intelletto da tre cause, cioè dallo Spirito divino, che muove e illumina l’intelletto, dal lume naturale dell’intelletto stesso e dal demonio, che può parlargli per via di suggestione. È molto difficile enumerare tutti i segni e gli indizi che possono mostrare quando queste parole derivino dall’una o dall’altra causa, ma è possibile fornire i seguenti indizi generali. Quando l’anima, insieme con le parole e i concetti, sente un amore pieno di umiltà e di riverenza per il Signore, è segno che lo Spirito Santo è presente, perché egli non accorda mai simili favori senza rivestirli di queste virtù. Quando queste parole procedono dall’attività e dal lume dell’intelletto, è tale facoltà che compie questo lavoro, ma senza le virtù, sebbene la volontà possa amare naturalmente Dio quando è istruita e illuminata sulle verità. Tuttavia, terminata la meditazione, la volontà resta nell’aridità, senza essere per questo portata alla vanità o al male, a meno che il demonio non intervenga per tentarla di nuovo su questo punto. Ciò non accade quando queste parole provengono dallo Spirito Santo. Difatti, in tal caso, la volontà rimane abitualmente affezionata a Dio e incline al bene. Nondimeno può accadere che a volte la volontà rimanga nell’aridità, anche se la comunicazione veniva dallo Spirito Santo. Dio permette ciò per un bene più grande dell’anima. Altre volte, ancora, l’anima avvertirà molto debolmente queste operazioni o movimenti verso le virtù suddette, nonostante sia buono quanto ha provato. Per tutti questi motivi, dico che a volte è difficile conoscere le rispettive differenze tra queste parole, per i diversi effetti che di volta in volta producono. Tuttavia gli effetti che ho descritto sono i più comuni, sebbene si manifestino con più o meno intensità. A volte non è facile comprendere e riconoscere neanche le locuzioni che vengono dal demonio. Difatti, anche se è vero che queste ordinariamente lasciano la volontà nell’aridità nei riguardi dell’amore di Dio e inclinano lo spirito alla vanità, alla stima e alla compiacenza di sé, tuttavia a volte generano una falsa umiltà e un’ardente affezione della volontà, basata sull’amor proprio, uno stato di cose, insomma, difficilmente riconoscibile dalla persona, a meno che questa non sia molto spirituale. Il demonio si comporta in questo modo per mascherarsi meglio; egli, del resto, a volte riesce benissimo a far versare lacrime sui sentimenti che provoca, per istillare nell’anima le affezioni che vuole. Non tralascia nulla per spingere continuamente la volontà a stimare queste comunicazioni interiori, ad annettervi molta importanza, perché vi si dedichi e occupi l’anima non in ciò che è virtù, ma occasione di perdere anche quella che si potrebbe avere.

12. È necessario, quindi, attenersi alla seguente cautela, per non essere ingannati né irretiti da simili locuzioni: non dare ad esse alcuna importanza. Piuttosto si cerchi soltanto di orientare con forza la volontà verso Dio, praticando alla perfezione la sua legge e i suoi santi consigli. Questa è la sapienza dei santi. Contentiamoci di conoscere i misteri e le verità con la semplicità e la limpidezza con cui ce li propone la Chiesa. Questo basterà a infiammare molto la volontà, senza dedicarsi a ricerche profonde e curiose, nelle quali solo per caso non s’incontrano pericoli. Anche san Paolo a tale riguardo dice così: Non occorre sapere più di quanto è necessario (Rm 12,3). Ciò basta per quanto concerne la spiegazione delle parole successive.

 

CAPITOLO 30

Ove si parla delle parole interiori che formalmente si presentano allo spirito per via soprannaturale. Si espongono i danni che possono provocare e la necessaria cautela per non lasciarsi ingannare.

1. La seconda specie di parole interiori comprende le parole formali che a volte risuonano nello spirito, raccolto o meno, per via soprannaturale, senza il tramite di alcun senso. Le chiamo formali perché formalmente comunicate allo spirito da una terza persona, senza che esso vi contribuisca in qualche modo. Sono molto diverse da quelle di cui si è parlato finora. Ora, tale differenza è dovuta non solo al fatto che esse si producono indipendentemente da qualsiasi attività dello spirito, come nel caso delle altre, ma, ripeto, anche perché a volte si verificano senza che lo spirito sia raccolto, anzi molto lontano da quanto gli viene comunicato. Tutto questo non accade per le parole successive, che riguardano sempre l’argomento che si sta meditando.

2. Queste parole a volte sono molto ben formulate, altre volte no; sono come pensieri che comunicano qualcosa allo spirito, sotto forma di risposta o in un altro modo, come se gli si parlasse. In alcuni casi si tratta di una parola, in altri di due o più parole. Talvolta sono parole successive, come le precedenti, perché di solito durano a lungo, istruiscono l’anima o discutono con essa, senza che lo spirito vi prenda parte. Tutto ciò accade come se una persona parlasse con un’altra. Ciò è quanto accadde a Daniele (9,22). Nel libro di questo profeta si legge che l’angelo parlava con lui. Era questo un linguaggio formale e successivo sotto forma di ragionamento rivolto allo spirito di Daniele al fine di istruirlo, secondo quanto lo stesso angelo gli aveva detto.

3. Queste parole, quando sono soltanto formali, producono poco effetto nell’anima. Abitualmente, infatti, non hanno altro scopo che quello d’insegnare o di far luce su qualcosa. Per raggiungere questo risultato, non è quindi necessario che abbiano un effetto più efficace del fine a cui tendono. Ora questo fine, quando le parole vengono da Dio, è sempre raggiunto dall’anima, perché la dispongono e illuminano su ciò che le viene comandato o insegnato. Anzi, a volte tali parole non liberano l’anima dalla ripugnanza e dalle difficoltà, ma gliele aggravano, cosa questa che Dio permette per istruire l’anima, farla crescere in umiltà, insomma per il suo bene. Egli permette questa ripugnanza soprattutto quando impone all’anima cariche o uffici che possono procurarle onore. Nelle cose umili o basse, invece, le ispira più prontezza e facilità. Leggiamo, per esempio, nel libro dell’Esodo che quando Mosè ebbe da Dio l’ordine di andare dal faraone per liberare il popolo provò grande ripugnanza. Dio dovette ripetergli tre volte il comando e mostrargli dei segni. Ma tutto questo non bastò fino a quando Dio non gli assegnò Aronne per compagno che condividesse con lui l’onore dell’impresa.

4. Accade il contrario quando le parole e le comunicazioni vengono dal demonio. Questi ispira facilità e prontezza nelle cose importanti e ripugnanza in quelle umili. Senza dubbio, Dio detesta le anime che cercano le dignità; anche quando comanda loro di accettarle o gliele impone, non vuole che si dimostrino pronte a obbedire e desiderose di comandare. A motivo di questa prontezza che Dio comunemente ispira all’anima, queste parole formali differiscono da quelle successive: queste non muovono lo spirito né gli comunicano tanta prontezza quanta le altre, perché sono più formali e l’intelletto vi mette meno di suo. Ciò non toglie che alcune parole successive producano talvolta un effetto maggiore, a causa dell’abbondanza di comunicazione tra lo Spirito divino e quello umano; ma questo modo di comunicare è molto diverso dall’altro. Quando l’anima sente queste parole formali non deve porsi il dubbio se sia lei a pronunciarle, perché vede chiaramente che non è così, soprattutto quando non pensa affatto a ciò che le viene detto. E quand’anche avesse un pensiero di questo genere, riconosce con molta chiarezza e distinzione che tali parole vengono da un’altra fonte.

5. L’anima non deve attribuire importanza a queste parole formali, similmente alle altre, perché occupano lo spirito con cose che non sono il mezzo legittimo e prossimo per l’unione con Dio, cioè la fede. Essa, inoltre, potrebbe molto facilmente esporsi agli inganni del demonio. Difatti, a volte, capita che a stento si riesca a scoprire quali siano le parole che vengono dallo spirito buono e quali dallo spirito cattivo. Poiché queste parole non producono un effetto molto grande, difficilmente si possono distinguere in base agli effetti prodotti, perché a volte quelle del demonio sono nelle persone imperfette molto più efficaci di quanto non lo siano nelle persone spirituali quelle provenienti da spirito buono. Non bisogna eseguire ciò che esse dicono né tenerne conto, indipendentemente da chi vengano. Occorre, invece, riferirle a un confessore esperto o a una persona discreta e saggia, perché diano istruzioni in proposito, vedano ciò che conviene al caso e offrano il loro consiglio; l’anima, poi, eserciti abnegazione e rinuncia nei confronti di tali parole. Se non si trovasse una persona esperta, è meglio non tener conto di tali parole, non parlarne con nessuno, perché l’anima potrebbe incontrare facilmente persone le quali, anziché edificarla, vogliono il suo male. Infatti non tutti sono capaci di dirigere le anime; e in situazioni così importanti sbagliare o far bene può avere conseguenze molto gravi.

6. Si faccia molta attenzione perché l’anima non prenda da sola nessuna iniziativa, né ammetta alcunché di ciò che quelle parole le comunicano, senza il parere e il ponderato consiglio di altri. Poiché in questa materia si è esposti a sottili e strani inganni, a mio avviso, se l’anima non è nemica di tali manifestazioni, non mancherà di cadere in errori più o meno gravi.

7. Poiché nei capitoli 16-20 di questo libro ho già parlato degli inganni, dei pericoli e delle precauzioni da prendere per evitarli, rimando là e non mi dilungo oltre. Dico soltanto che il principio fondamentale a tale riguardo e il più sicuro in questi casi è quello di non tenere in alcun conto suddette locuzioni, anche se sembrano importanti, ma di lasciarsi guidare in tutto dalla ragione e da quanto la Chiesa ci ha insegnato e ci insegna ogni giorno.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/09/2012 17:58
 
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CAPITOLO 31

Ove si tratta delle parole sostanziali che si comunicano interiormente allo spirito. Viene presentata la differenza che esiste tra queste parole e quelle formali, i vantaggi che offrono, lo spirito di rinuncia e di rispetto che lo spirito deve nutrire nei loro confronti.

1. La terza specie di parole interiori, come ho detto, comprende le parole sostanziali. Sebbene siano anch’esse formali come le precedenti, perché s’imprimono nell’anima in un modo molto distinto, ne differiscono per il fatto che producono un effetto vivo e profondo nell’anima, al contrario di quelle puramente formali. È vero che ogni parola sostanziale è formale, ma non viceversa; lo è solo quella che, come ho detto, imprime sostanzialmente nell’anima ciò che significa. Se, per esempio, il Signore dicesse formalmente a un’anima: “Sii buona”, immediatamente l’anima sarebbe sostanzialmente buona; o se le dicesse: “Amami”, immediatamente avrebbe e sentirebbe in sé la sostanza dell’amore di Dio; e se avesse molta paura e le dicesse: “Non temere”, immediatamente sentirebbe grande forza e tranquillità. La parola di Dio, infatti, come dice il Saggio, è piena di potenza (Qo 8,4): produce sostanzialmente nell’anima ciò che significa. Questo vuole dire Davide quando afferma: Ecco, tuona con voce potente (Sal 67,34). Lo stesso fece con Abramo, quando gli disse: Cammina alla mia presenza e sii perfetto (Gn 17,1), e subito egli fu perfetto e camminò alla presenza di Dio. Tale è, altresì, la potenza che il Signore, secondo il vangelo, manifesta nelle sue parole; solo dicendo una parola guariva gli infermi, risuscitava i morti, ecc. Di questa specie sono le locuzioni sostanziali che egli rivolge ad alcune anime. Sono di una tale importanza e di un tale valore da comunicare vita, virtù e un bene incomparabile all’anima. In verità, una sola di queste parole procura all’anima più bene di quanto ha compiuto di meritorio nella sua vita.

2. Nei confronti di queste parole l’anima non deve fare nulla, non deve desiderare nulla, nulla volere, rifiutare o temere. Non deve preoccuparsi se non di compiere ciò che esse significano, perché Dio non comunica mai queste parole sostanziali all’anima perché le metta in pratica, ma per realizzarle lui personalmente in quest’anima; in ciò esse differiscono dalle parole formali e successive. Affermo anche che l’anima non deve preoccuparsi di volerle o non volerle: non è necessario il suo consenso perché Dio le comunichi, né basta non volerle perché cessino di produrre il loro effetto. L’anima deve solo tenersi pronta alla rinuncia e nutrire umiltà. Non deve respingere queste parole perché il loro effetto è già sostanzialmente impresso nell’anima e arricchito di beni divini. Poiché essa riceve passivamente tale effetto, ogni sua collaborazione risulta superflua. L’anima, infine, non deve temere alcun inganno, perché qui né l’intelletto né il demonio possono intromettersi e neppure riuscire a produrre passivamente nell’anima un effetto sostanziale, così da imprimere in essa l’effetto abituale della propria parola. È da escludere il caso in cui l’anima si sia data al maligno con patto volontario. In tal caso quest’ultimo, possedendola da padrone, potrebbe imprimerle effetti malefici, non già di bene. Essendo, infatti, quell’anima unita a lui per cattiveria volontaria, il demonio potrebbe facilmente imprimere nel suo intimo gli effetti perversi delle sue parole di malizia. Sebbene l’esperienza ci mostri che il demonio agisce anche sulle anime buone per mezzo di suggestioni con grande forza, accordando loro grande energia, tuttavia soltanto se le anime sono malvagie può consumare in esse il male. Ma effetti simili a quelli buoni non possono essere prodotti dal demonio, perché le sue parole non possono reggere a confronto con le parole di Dio; paragonate a queste, sono nulla, come nulla è il loro effetto. Per questo Dio dice per mezzo di Geremia: Che cosa ha in comune la paglia con il grano? La mia parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia? (Ger 23,28-29). Queste parole sostanziali, dunque, servono molto all’unione dell’anima con Dio. Quanto più sono interiori, tanto più sono sostanziali e recano benefici. Beata l’anima alla quale Dio le comunica! Parla, Signore, ché il tuo servo ti ascolta (1Sam 3,10).

 

CAPITOLO 32

Ove si parla delle conoscenze che l’intelletto riceve dai sentimenti interiori prodotti per via soprannaturale nell’anima. Si espone la causa e il comportamento che l’anima deve assumere per non incontrare in esse un ostacolo all’unione con Dio.

1. Devo ora trattare del quarto e ultimo genere di conoscenze intellettuali. Queste, come dicevo, possono essere comunicate all’intelletto da parte dei sentimenti spirituali, che molte volte si manifestano soprannaturalmente alle persone spirituali e che vengono annoverati fra le conoscenze distinte dell’intelletto.

2. Questi sentimenti spirituali distinti possono essere di due specie. La prima comprende i sentimenti che si trovano nell’affetto della volontà. La seconda, i sentimenti che risiedono nella sostanza dell’anima. Gli uni e gli altri possono assumere diverse forme. I sentimenti della volontà, quando vengono da Dio, sono molto elevati. Ma quelli che risiedono nella sostanza dell’anima sono assai sublimi e producono un grande bene e molto profitto. Né l’anima né coloro che la guidano possono sapere o comprendere la causa e la provenienza di questi sentimenti e neppure come Dio conceda questi favori. Difatti essi non dipendono da opere che l’anima può compiere, né sono frutto delle sue meditazioni, sebbene tali opere e considerazioni siano una buona disposizione per ricevere queste manifestazioni. Dio le concede a chi vuole e per il fine che vuole. Può capitare che una persona abbia praticato molte opere buone senza ricevere mai questi tocchi; un’altra, invece, può aver fatto molto meno e ricevere dei tocchi molto elevati e in grande abbondanza. Non è, dunque, necessario che l’anima sia attualmente dedita a cose spirituali, sebbene ciò sia molto meglio, perché Dio le conceda i tocchi da cui provengono i suddetti sentimenti. Anzi, il più delle volte questi favori le sono concessi quando essa ci pensa meno. Alcuni di questi tocchi sono tipici e durano poco; altri non sono così caratteristici e durano più a lungo.

3. Questi sentimenti, in quanto tali, non appartengono solo all’intelletto, ma anche alla volontà. Questo è il motivo per cui non ne parlo qui espressamente. Mi riservo di farlo nel libro terzo, quando tratterò della notte e della purificazione della volontà relativamente ai suoi affetti. Ma poiché spesso, anzi il più delle volte, questi sentimenti provocano nell’intelletto una conoscenza, una notizia o una capacità d’intendere, è opportuno accennarne qui soltanto sotto questo aspetto. Occorre, dunque, sapere che da questi sentimenti – sia quelli della volontà che quelli attinenti alla sostanza dell’anima, sia quelli repentini, provocati dai tocchi divini, che quelli duraturi e successivi – molte volte ridonda nell’intelletto un’impressione di conoscenza e di capacità d’intendere. Tale impressione consiste abitualmente in una profondissima percezione di Dio, soavissima per l’intelletto. È impossibile definire sia essa che il sentimento da cui sgorga. Queste conoscenze non sono sempre uguali; a volte sono più elevate e chiare e altre volte meno. Questo dipende dai tocchi divini, che causano i sentimenti da cui essi procedono e dalle caratteristiche di tali sentimenti.

4. Qui non è necessario moltiplicare le parole per invitare alla cautela e per incamminare, nella fede, l’intelletto all’unione con Dio per mezzo di queste conoscenze. Difatti, come i sentimenti suddetti si producono passivamente nell’anima, senza che questa faccia qualcosa per riceverli, così pure le conoscenze che ne risultano vengono ricevute passivamente nell’intelletto, dai filosofi chiamato possibile, cioè indipendentemente dalla sua attività. Così, per non ingannarsi in tali sentimenti e per facilitare il proprio profitto, l’intelletto non deve far nulla, cioè deve conservare un atteggiamento passivo, senza interporvi le sue capacità naturali. Difatti, come ho detto a proposito delle parole successive, molto facilmente l’intelletto potrebbe turbare e disfare quelle conoscenze delicate, che sono luci soavi soprannaturali. Per sua natura questa facoltà non le può comprendere, ma solo ricevere. L’anima, dunque, non deve cercarle né desiderare di riceverle, perché l’intelletto non ne formi di proprie e il demonio non ne introduca altre diverse e false. Il maligno può farlo molto bene, per mezzo dei sentimenti suddetti e di quelli che egli stesso può immettere nell’anima che si abbandona a simili conoscenze. L’anima, perciò, si comporti con distacco e umiltà e conservi un atteggiamento di passività nei confronti di queste manifestazioni. E poiché essa le riceve passivamente da Dio, il Signore gliele accorderà a suo piacimento, quando la troverà umile e distaccata. In questo modo essa non impedirà in sé i vantaggi che queste conoscenze procurano in vista dell’unione divina, grandi per la verità, perché tali conoscenze sono tutte tocchi di unione. Questa si realizza passivamente nell’anima.

5. Quanto si è detto su questo argomento è sufficiente perché l’anima possa trovare nelle suddette divisioni la dottrina e le precauzioni necessarie per qualsiasi conoscenza che le possa capitare nell’intelletto. Anche se qualcuna di esse sembra diversa e non inclusa nelle classificazioni di cui sopra, non esiste alcuna conoscenza che non possa venire ricondotta a una di quelle descritte e la cui dottrina non si possa ricavare dalle altre.

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[SM=g1740758]

[Modificato da Caterina63 07/09/2012 18:54]
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