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San Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo

Ultimo Aggiornamento: 07/09/2012 18:54
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07/09/2012 16:14
 
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CAPITOLO 5

Ove si continua a parlare dello stesso argomento, dimostrando con prove e immagini della sacra Scrittura quanto sia necessario all’anima andare a Dio attraverso questa notte oscura della mortificazione delle passioni.

1. Da quanto è stato detto, si può avere un’idea della distanza esistente tra i beni creati in sé e ciò che Dio è in sé. Parimenti si può comprendere quanto le anime che si attaccano a qualcuno di tali beni siano anch’esse lontane da Dio, poiché l’amore, ripeto, crea uguaglianza e somiglianza. Al fine di evidenziare tale distanza, sant’Agostino rivolgendosi a Dio, afferma nei Soliloqui: Me misero! Quando la mia pochezza e la mia imperfezione potranno incontrarsi con la tua rettitudine? Tu sei veramente buono e io cattivo; tu pio, io empio; tu santo, io miserabile; tu giusto, io ingiusto; tu luce, io cieco; tu vita, io morte; tu medicina, io malato; tu verità somma, io tutto vanità. Ecco quanto affermava quel santo.

2. È, dunque, estrema ignoranza da parte dell’anima credersi capace di giungere a questo sublime stato di unione con Dio, senza essersi prima distaccata dalla cupidigia dei beni naturali e soprannaturali che le possono essere di ostacolo, come dirò più avanti; vi è, infatti, una distanza infinita fra questi beni e ciò che viene concesso in questo stato di pura trasformazione in Dio. Ecco perché nostro Signore c’insegna questa via di rinuncia, quando dice per mezzo di san Luca: Qui non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus, cioè: Chi non rinunzia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo (Lc 14,33). Verità chiara, questa, perché la dottrina che il Figlio di Dio è venuto a insegnare è il disprezzo di tutti i beni creati, per poter accogliere in sé il puro spirito di Dio. In realtà, finché l’anima non se ne libererà, non potrà accogliere questo spirito di Dio e raggiungere la pura trasformazione in lui.

3. Di tale verità abbiamo un’immagine nel libro dell’Esodo (16,3-4), dove si legge che Dio non diede ai figli d’Israele il cibo celeste, cioè la manna, finché non venne a mancare loro la farina che avevano portato dall’Egitto. Questo ci fa capire che l’anima deve prima rinunciare a tutti i beni creati se vuole attingere l’unione divina, perché questo cibo degli angeli non è adatto al palato di chi vuol gustare quello degli uomini. Perciò l’anima che cerca altri gusti estranei e se ne pasce, non soltanto non è in grado di assaporare lo spirito di Dio, ma rattrista molto la Maestà divina, poiché pretende l’alimento spirituale senza accontentarsi di Dio solo, ma vuole, al tempo stesso, mescolarvi la cupidigia e l’affezione per altre cose. Ciò è quanto c’insegna lo stesso libro della sacra Scrittura, ove si dice che gli ebrei, non contenti di quel cibo così semplice, desiderarono e chiesero la carne (Es 16,8-13). Dio si adirò moltissimo perché essi volevano gustare allo stesso tempo un cibo così volgare e rozzo e uno così nobile e semplice, che tuttavia aveva in sé il sapore e la sostanza di tutti i cibi (cfr. Sap 16,20-21). Perciò, mentre ancora avevano il boccone tra i denti, come dice Davide, ira Dei descendit super eos (Sal 77,30-31): su loro scese l’ira di Dio, scagliando fuoco dal cielo e incenerendone molte migliaia. Dio, infatti, riteneva indegni di ricevere il pane del cielo coloro che avevano voglia di un altro cibo.

4. Oh, se le persone spirituali sapessero di quanti beni e di quale abbondanza di favori spirituali li priva la cecità causata dal loro attaccamento a cose di nessun valore e come troverebbero in questo cibo semplice dello spirito il sapere di tutti i beni, se si astenessero dal gustarli! Ma essi non lo provano per lo stesso motivo per cui gli ebrei non sentivano il gusto di tutti i cibi contenuto nella manna; ciò avveniva perché essi non desideravano soltanto quella. In tal modo non vi sperimentavano tutto il gusto e la forza che avrebbero potuto trovarvi, non perché la manna non li avesse, ma perché essi cercavano qualcos’altro. Così pure, chi vuole amare qualcos’altro insieme a Dio, è come se stimasse poco Dio, mettendo sulla stessa bilancia Dio e ciò che è infinitamente distante da lui.

5. Del resto si sa per esperienza che quando la volontà si affeziona a una cosa, la stima più di ogni altra; e anche se quest’”altra” è migliore, non le piace quanto la prima. Se, poi, vuole godere dell’una e dell’altra, necessariamente recherà oltraggio alla più degna, perché mette ingiustamente entrambe sullo stesso piano. Ora, non essendoci alcuna cosa che possa essere uguagliata a Dio, l’anima che, insieme a lui, ama o si attacca a qualche creatura, gli reca grave offesa. Se dunque è così, cosa accadrebbe se l’anima amasse qualcosa più di Dio?

6. A tale verità alludeva Dio quando comandò a Mosè di salire sul monte, ove gli doveva parlare. Non soltanto gli ordinò di salirvi da solo, lasciando nella valle i figli d’Israele, ma gli vietò altresì di far pascolare le bestie davanti a questo monte: Nullus ascendat tecum, nec videat quispiam per totum montem, boves quoque et oves non pascano e contra (Es 34,3). Per mezzo di tale ordine Dio voleva significare che l’anima che deve salire il “Monte della perfezione” per comunicare con lui, non solo deve rinunciare e lasciare in basso tutte le cose create, ma non deve nemmeno permettere che gli appetiti, rappresentati dalle bestie, pascolino davanti a questo “Monte”, nel godimento di cose che non sono Dio. È in lui che tutti i desideri sono appagati, quando si raggiunge lo stato di perfezione. È, dunque, necessario che il cammino ascensionale verso Dio si traduca in una continua cura per far cessare l’attività degli appetiti e mortificarli. Così, l’anima tanto più speditamente giungerà alla meta, quanto più si sarà affrettata a praticare questo distacco. Fino a quando l’anima non l’avrà conseguito, non raggiungerà la meta, sebbene pratichi molte altre virtù; e queste le può acquistare in modo perfetto solo se è vuota, nuda e purificata da ogni appetito. Anche di questa verità abbiamo un’immagine molto viva nel libro della Genesi. Ivi si legge che il patriarca Giacobbe volle salire sul monte Betel per edificare un altare a Dio e offrirgli un sacrificio. Per prima cosa impose alla sua gente tre condizioni: la prima, che gettassero via tutti gli dei stranieri; la seconda, che si purificassero; la terza, che cambiassero gli abiti: Abiicite deos alienos qui in medio vestri sunt, et mundamini ac mutate vestimenta (Gn 35,1-2).

7. Queste tre condizioni ci permettono di comprendere ciò che ogni anima, che vuole salire questo “Monte”, deve compiere per fare di sé un altare sul quale offrire a Dio un sacrificio di amore puro, di lode e di profonda adorazione. Prima di salire sulla cima di tale “Monte”, essa deve adempiere perfettamente le condizioni analoghe a quelle riferite sopra. La prima consiste nel respingere tutti gli dei stranieri, cioè tutti gli affetti e gli attaccamenti estranei a Dio. La seconda consiste nel purificarsi, per mezzo della notte oscura dei sensi di cui sto parlando, dalle scorie lasciate in essa dagli appetiti suddetti, mortificandoli e pentendosene abitualmente. La terza condizione, infine, necessaria per giungere a questo “Monte” sublime, consiste nel cambiare gli abiti. Una volta adempiute le prime due condizioni, sarà Dio stesso a sostituirli con abiti nuovi. Egli, infatti, infonderà nell’anima un nuovo modo di conoscere e di amare Dio com’è in se stesso, facendole accantonare il modo di conoscere dell’uomo vecchio, dopo aver liberato la volontà da tutti gli antichi affetti e seduzioni umane. Egli, inoltre, stabilirà l’anima in nuove conoscenze, perché ormai sono state bandite le altre conoscenze e i ricordi del passato. Metterà fine a tutto ciò che appartiene all’uomo vecchio, cioè le sue capacità naturali, e la rivestirà, secondo le sue potenze, di nuove attitudini soprannaturali. Così il modo di operare dell’anima non sarà più umano, ma divino. Ecco ciò che si raggiunge nello stato di unione. Ivi l’anima serve solo da altare, dove Dio viene adorato in pura lode e amore e dove egli abita solo. Per questo motivo Dio aveva ingiunto che l’altare sul quale dovevano essergli offerti i sacrifici fosse vuoto all’interno (cfr. Es 27,8). Egli voleva far capire all’anima che la vuole libera da tutte le cose create, per essere degno altare di sua Maestà. Egli non permetteva mai che su quell’altare bruciasse un fuoco illegittimo né che vi mancasse quello sacro (cfr. Lv 6,12-13). Perciò, quando Nadab e Abiu, figli del sommo sacerdote Aronne, offrirono un fuoco illegittimo, il Signore, irritato, li colpì a morte proprio lì, davanti all’altare (cfr. Lv 10,1-2). Da tutto ciò possiamo comprendere che l’anima, per essere un altare degno di Dio, non deve trovarsi priva dell’amore di Dio, né tanto meno deve permettere che a questo si mescoli un amore profano.

8. Dio non tollera che qualche altra cosa abiti con lui nello stesso luogo. Ecco come si spiega ciò che si legge nel primo libro di Samuele. I filistei avevano collocato l’arca dell’alleanza nel tempio dov’era il loro idolo; ora, ogni mattina quest’idolo si trovava rovesciato a terra e alla fine venne trovato in frantumi (cfr. 1Sam 5,2-5). L’unico desiderio che Dio ammette e vuole, laddove egli dimora, è quello di osservare la sua legge in ogni particolare e di prendere su di sé la croce di Cristo. Per questo motivo nella sacra Scrittura si legge che Dio ordinava di mettere nell’arca, dove si conservava la manna, solo il libro della Legge e il bastone di Mosè (cfr. Dt 31,26), immagine della croce. Difatti l’anima che non desidera altro che osservare perfettamente la legge del Signore e portare la croce di Cristo, sarà l’arca vera, quella che racchiude in sé la vera manna, cioè Dio, quando avrà impressi in sé perfettamente questa legge e questo legno, senza affezione per nessun’altra cosa.

 

CAPITOLO 6

Ove si parla dei due principali danni, uno privativo e l’altro positivo, causati all’anima dagli appetiti.

1. A questo punto sembra utile fornire un’esposizione più chiara e dettagliata di quanto detto prima. Ho mostrato come i nostri appetiti provochino nell’anima due danni principali. Il primo lo priva dello spirito di Dio; l’altro la stanca, la tormenta, la oscura, la sporca, l’indebolisce e la ferisce, proprio come afferma Geremia: Duo mala fecit populus meus: dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas, cioè: Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate che non tengono l’acqua (Ger 2,13). Questi due mali, privativo e positivo, sono provocati da qualsiasi atto disordinato dell’appetito. Parlando, in primo luogo, di quello privativo, è chiaro che, per lo stesso motivo per cui l’anima si affeziona a qualsiasi bene creato, quanto più quell’appetito è radicato in essa, tanto meno è capace di unirsi a Dio. Infatti, come dicono i filosofi e come ho già riferito nel capitolo 4, due contrari non possono coesistere in uno stesso soggetto. Ora, l’amore per Dio e quello per le creature sono contrari; quindi non possono coesistere in una stessa volontà l’affetto per le cose create e quello per Dio. Cosa ha a che vedere, infatti, la creatura con il Creatore, il sensibile con lo spirituale, il visibile con l’invisibile, il temporale con l’eterno, il cibo celestiale, puro e spirituale, con il nutrimento grossolano dei sensi, lo spogliamento del Cristo con l’attaccamento alle cose?

2. Pertanto, come nell’ordine naturale delle cose non si può introdurre una forma senza aver prima espulso dal soggetto la forma contraria, preesistente, la cui presenza è d’impedimento all’altra, perché ad essa opposta, così l’anima, finché è soggetta alle attrattive del senso, non può accogliere il puro spirito di Dio. Per questo il Salvatore ha detto per bocca di san Matteo: Non est bonum sumere panem filiorum et mittere canibus, cioè: Non è bene prendere il pane dei figli per darlo ai cani (Mt 7,6). Con queste affermazioni il Signore paragona ai figli di Dio coloro che, negando l’attaccamento alle cose create, si dispongono ad accogliere in purezza lo spirito di Dio; ai cani, invece, paragona quelli che vogliono trovare nutrimento nelle cose create attraverso i loro appetiti. Ai figli, infatti, è concesso mangiare alla mensa e allo stesso piatto del Padre, cioè nutrirsi del suo spirito; mentre ai cani sono lasciate le briciole che cadono dalla tavola.

3. A tale riguardo occorre notare che tutte le cose create sono briciole che cadono dalla mensa di Dio. A buon diritto, dunque, sono chiamati cani coloro che si pascono delle cose create; per questo viene tolto loro il pane dei figli, perché non vogliono elevarsi al di sopra di esse, vere briciole, fino alla mensa dello spirito increato del Padre. Proprio per questo vagano sempre affamati come cani, perché le briciole servono più a stimolare gli appetiti che a sedare la fame. Di costoro Davide afferma: Famem patientur ut canes, et circuibunt civitatem. Si vero non fuerint saturati, et murmurabunt: Ringhiano come cani, per la città si aggirano, vagando in cerca di cibo; latrano, se non possono saziarsi (Sal 58,15-16). Questa, infatti, è la caratteristica di chi è dominato dagli appetiti: è sempre scontento e inquieto, come un famelico. Ora, che relazione c’è tra la fame causata da tutte le cose create e la sazietà prodotta dallo spirito di Dio? Ma questa sazietà increata non può entrare nell’anima se prima non viene cacciata via l’altra; come ho detto, infatti, non possono coesistere due contrari nello stesso soggetto, in questo caso la fame e la sazietà.

4. Da quanto detto si può notare come Dio fa più, per così dire, per purificare e liberare un’anima da queste opposizioni che per crearla dal nulla. Queste sregolatezze degli affetti e degli appetiti contrari contrastano e resistono a Dio più che il nulla, che non oppone resistenza. Avendone già parlato a lungo più sopra, basti questo circa il primo danno principale prodotto nell’anima dagli appetiti, che consiste nel resistere allo spirito di Dio.

5. Ora parlerò del secondo danno che tali appetiti causano nell’anima. Esso si manifesta sotto svariate forme, perché gli appetiti stancano l’anima, la tormentano, la oscurano, la sporcano e la indeboliscono. Parlerò dettagliatamente di questi cinque effetti.

6. Quanto alla prima forma, è chiaro che gli appetiti stancano e affaticano l’anima. Assomigliano a bambini inquieti e scontenti, che chiedono sempre qualcosa alla mamma e non si contentano mai. Peraltro, come si stanca colui che scava, spinto dalla cupidigia di un tesoro, così si stanca e si affatica l’anima per conseguire ciò che le chiedono gli appetiti. E anche se ottiene quel che vuole, alla fine si stanca sempre, perché non è mai soddisfatta. In fondo, quelle che scava, sono cisterne screpolate che non tengono l’acqua per spegnere la sete (Ger 2,13). A tale riguardo così si esprime Isaia: Lassus adhuc sitit, et anima eius vacua est: Langue ancora per sete e si sente vuoto (Is 29,8), che significa: il suo appetito è insoddisfatto, perciò l’anima che ha appetiti si stanca e si affatica. È come il malato con la febbre: non sta bene finché questa non sparisce, ad ogni istante gli cresce la sete. Si legge, infatti, nel libro di Giobbe: Cum satiatus fuerit, arctabitur, aestuabit, et omnis dolor irruet super eum, che vuol dire: Quando l’anima avrà appagato i suoi appetiti, nel colmo della sua abbondanza si ritroverà più oppressa e appesantita, dentro di essa crescerà l’arsura dell’appetito e così ogni sorta di sciagura le piomberà addosso (Gb 20,22). L’anima si stanca e si affatica a causa dei suoi appetiti, perché è ferita, mossa e turbata da essi, come i flutti sotto l’azione dei venti. Al pari di quelli, l’anima è turbata senza trovare da nessuna parte o in qualche cosa un momento di riposo. Di tali anime così afferma Isaia: Cor impii quasi mare fervens: Il cuore del malvagio è come il mare che agitato ribolle (Is 57,20); e cattivo è chi non vince gli appetiti. L’anima che vuole appagare i suoi appetiti si stanca e si affatica. Somiglia a colui che, avendo fame, apre la bocca per saziarsi di vento, ma invece di saziarsi rimane con più voglia, perché il vento non è il suo cibo. A questo proposito dice Geremia: In desiderio animae suae attraxit ventum amoris sui, cioè: Nell’ardore del suo desiderio aspira l’aria (Ger 2,24). E subito dopo, per spiegare l’arsura in cui si trova quell’anima, le offre questo consiglio: Prohibe pedem tuum a nuditate, et guttur tuum a siti, che significa: Bada che il tuo piede, cioè il tuo pensiero, non resti scalzo e la tua gola non si inaridisca (Ger 2,25), ossia preserva la tua volontà dal soddisfare gli appetiti, che generano una più profonda aridità. Come si sente esausto e crolla l’innamorato che vede andare in fumo i suoi progetti proprio nel giorno in cui sperava di realizzarli, così si stanca e si affatica l’anima che cede ai suoi appetiti e li soddisfa, perché le procurano un vuoto maggiore e una fame più acuta. Come si dice comunemente, l’appetito è come il fuoco: cresce se gli si aggiunge legna, ma è destinato a spegnersi appena l’ha consumata.

7. Ora, la condizione degli appetiti è ancora peggiore. Il fuoco, infatti, si spegne quando si esaurisce la legna, mentre gli appetiti non perdono l’intensità raggiunta quando sono stati soddisfatti, sebbene sia venuto meno il loro oggetto; invece di diminuire, come il fuoco quando si è consumata la legna, restano sfiniti dalla fatica perché la cupidigia è cresciuta e diminuito il cibo. A tale proposito afferma Isaia: Declinabit ad dexteram, et esuriet; et comedet ad sinistram, et non saturabitur: Dilania a destra, ma è ancora affamato; mangia a sinistra, ma senza saziarsi (Is 9,19). Coloro, infatti, che non mortificano i loro appetiti, proprio quando si voltano vedono la sazietà, non a loro concessa, dello spirito di soavità di coloro che sono alla destra di Dio; quando, poi, corrono a sinistra, cioè si lasciano andare al piacere di qualche cosa creata, non si saziano affatto, perché mettono da parte l’unica cosa che può saziare e si nutrono di ciò che accresce la loro fame. È chiaro, dunque, che gli appetiti stancano e affaticano l’anima.

 

CAPITOLO 7

Ove si mostra come l’anima sia tormentata dagli appetiti. Lo si prova anche con paragoni e l’autorità della sacra Scrittura.

1. Vi è una seconda forma di male positivo che gli appetiti provocano nell’anima. Questi la tormentano e l’affliggono, come tormentato è il condannato al supplizio della corda, legato a qualche sostegno, che non trova riposo finché non viene liberato. A tale riguardo afferma Davide: Funes peccatorum circumplexi sunt me: Le funi dei peccati, che sono i miei appetiti, mi hanno stretto da ogni parte (Sal 118,61). Come è tormentato e afflitto chi si distende nudo su spine e aculei, così è tormentata e afflitta l’anima quando si lascia andare ai suoi appetiti. Questi, infatti, come spine, la feriscono, la pungono, si attaccano ad essa e la torturano. Di essi Davide dice ancora: Circumdederunt me sicut apes, et exarserunt sicut ignis in spinis: Mi hanno circondato come api, come fuoco che divampa tra le spine (Sal 117,12). Negli appetiti, infatti, che sono le spine, divampa il fuoco dell’angoscia e del tormento. Come l’agricoltore, spinto dalla cupidigia della messe, pungola e tormenta il bue aggiogato all’aratro, così la concupiscenza affligge l’anima sotto il pungolo dell’appetito per ottenere ciò che vuole. Di ciò abbiamo un esempio molto evidente in quel desiderio che aveva Dalila di sapere in che cosa consistesse la forza di Sansone. La sacra Scrittura dice che lo stancava e lo tormentava tanto da indebolirlo fin quasi alla morte: Defecit anima eius, et ad mortem usque lassata est (Gdc 16,16).

2. Quanto più forte è l’appetito, tanto più grande è il tormento per l’anima, cosicché l’uno è proporzionato all’altro; più numerosi sono gli appetiti, più numerosi sono i suoi tormenti. Nell’anima, infatti, si realizza, già in questa vita, ciò che l’Apocalisse dice di Babilonia: Quantum glorificavit se, et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum, cioè: Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso, restituiteglielo in tanto tormento e afflizione (Ap 18,7). È proprio vero che come è tormentato e afflitto chi cade nelle mani del suo nemico, così è tormentata e afflitta l’anima che si lascia trasportare dai suoi appetiti. Di tale realtà abbiamo un’immagine nel libro dei Giudici (16,21). Ivi si legge che il robusto Sansone, prima forte, libero e giudice di Israele, una volta caduto nelle mani dei suoi nemici perse la forza, fu accecato e costretto a girare una macina. Così lo tormentarono e lo fecero soffrire molto. Tale è la sorte dell’anima quando questi nemici, gli appetiti, sono vivi e vittoriosi su di essa; incominciano prima a indebolirla e ad accecarla; poi, come dirò più avanti, l’affliggono e la tormentano, legandola alla macina della concupiscenza; i legami che la tengono avvinta sono i suoi stessi appetiti.

3. Ora, Dio ha pietà delle anime che con tanta fatica e a loro spese cercano di placare la sete e la fame dei loro appetiti nelle cose create. Ad esse dice per bocca di Isaia: Omnes sitientes, venite ad aquas; et qui non habetis argentum, properate, emite et comedite: venite, emite absque argento vinum et lac. Quare appenditis argentum non in panibus, et laborem vestrum non in saturitate? (Is 55,1-2), come a dire: O voi tutti assetati di appetiti, venite all’acqua; chi non ha il denaro della propria volontà e dei propri appetiti, venga ugualmente, comprate da me e mangiate: comprate e mangiate senza denaro e senza spesa vino e latte, cioè la pace e le dolcezze spirituali, senza il denaro della propria volontà e senza darmi in cambio interesse né alcun lavoro, come fate per i vostri appetiti. Perché offrite il denaro della vostra volontà per ciò che non è pane, che non appartiene cioè allo spirito divino? Perché mettete il lavoro dei vostri appetiti in ciò che non può saziare? Venite, ascoltatemi e mangerete il bene che desiderate, e l’anima vostra si rallegrerà nell’abbondanza.

4. Quest’abbondanza significa la liberazione da tutti i piaceri per le cose create, perché queste tormentano l’anima, mentre lo spirito di Dio la vivifica. Quest’invito ci rivolge il Signore in san Matteo: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos, et invenietis requiem animabus vestris (11,28-29), come a dire: Voi tutti che siete tormentati, afflitti e oppressi dal peso delle vostre preoccupazioni e dei vostri appetiti, liberatevene, venite a me, e io vi ristorerò, e troverete per le vostre anime il riposo che i vostri appetiti vi tolgono. Questi sono certamente un carico pesante, come dice Davide: Sicut onus grave gravatae sunt super me: Come un grave peso mi opprimono (Sal 37,5).

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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