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ANNUS FIDEI- NOVA ET VETERA testo prezioso di mons. Carli del 1969

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2012 22:28
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11/10/2012 09:56
 
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[SM=g1740733]Cari Amici,
in apertura di questo Annus Fidei, Anno di Grazia, vogliamo cercare di soffermarci non tanto su ciò che abbiamo fatto, e di come abbiamo fatto male.... ma soprattutto attraverso certi errori, vogliamo e dobbiamo cercare di voltare pagina, apprendere gli errori compiuti, affidarci alla misericordia di Dio e con il Santo Padre vogliamo andare avanti.... CONVERTIRCI e ritornare a far splendere la Santa Madre Chiesa....
Quanto segue viene tratto dal libro del 1969 del Vescopvo mons. Carli (+1986) il quale scrisse, anche come testimone dei fatti, questo testo per aiutarci ad amare il Concilio e al tempo stesso fare discernimento sui veri nemici della Chiesa, su chi ha fatto molti danni che ancora oggi deturpano gran parte dell'immagine della Chiesa....

Vogliamo cominciare ricordando le parole di ieri di Papa Benedetto XVI che così ha detto:

I documenti del Concilio Vaticano II, a cui bisogna ritornare liberandoli da una massa di pubblicazioni che spesso invece di farli conoscere li hanno nascosti, sono, anche per il nostro tempo, una bussola che permette alla nave della Chiesa di procedere in mare aperto, in mezzo a tempeste o ad onde calme e tranquille, per navigare sicura ed arrivare alla meta.(... )

Nella storia della Chiesa, come penso sappiate, vari Concili hanno preceduto il Vaticano II. Di solito queste grandi Assemblee ecclesiali sono state convocate per definire elementi fondamentali della fede, soprattutto correggendo errori che la mettevano in pericolo.
Pensiamo al Concilio di Nicea del 325, per contrastare l’eresia ariana e ribadire la divinità di Gesù Figlio Unigenito di Dio Padre; o a quello di Efeso, del 431, che definì Maria come Madre di Dio; a quello di Calcedonia, del 451, che affermò l’unica persona di Cristo in due nature, quella divina e quella umana. Per venire più vicino a noi, dobbiamo nominare il Concilio di Trento, nel XVI secolo, che ha chiarito punti essenziali della dottrina cattolica di fronte alla Riforma protestante; oppure il Vaticano I, che iniziò a riflettere su varie tematiche, ma ebbe il tempo di produrre solo due documenti, uno sulla conoscenza di Dio, la rivelazione, la fede e i rapporti con la ragione e l’altro sul primato del Papa e sull’infallibilità, perché fu interrotto per l’occupazione di Roma nel settembre del 1870.  

 Se guardiamo al Concilio Ecumenico Vaticano II, vediamo che in quel momento del cammino della Chiesa non c’erano particolari errori di fede da correggere o condannare, né vi erano specifiche questioni di dottrina o di disciplina da chiarire.

Si può capire allora la sorpresa del piccolo gruppo di Cardinali presenti nella sala capitolare del monastero benedettino a San Paolo Fuori le Mura, quando, il 25 gennaio 1959, il Beato Giovanni XXIII annunciò il Sinodo diocesano per Roma e il Concilio per la Chiesa Universale. La prima questione che si pose nella preparazione di questo grande evento fu proprio come cominciarlo, quale compito preciso attribuirgli.

Il Beato Giovanni XXIII, nel discorso di apertura, l’11 ottobre di cinquant’anni fa, diede un’indicazione generale: la fede doveva parlare in un modo «rinnovato», più incisivo - perché il mondo stava rapidamente cambiando - mantenendo però intatti i suoi contenuti perenni, senza cedimenti o compromessi. Il Papa desiderava che la Chiesa riflettesse sulla sua fede, sulle verità che la guidano. Ma da questa seria, approfondita riflessione sulla fede, doveva essere delineato in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e l’età moderna, tra il Cristianesimo e certi elementi essenziali del pensiero moderno, non per conformarsi ad esso, ma per presentare a questo nostro mondo, che tende ad allontanarsi da Dio, l’esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e in tutta la sua purezza (cfr Discorso alla Curia Romana per gli auguri natalizi, 22 dicembre 2005).


**************

Su questa linea e non altra, invitiamo a leggere ampi stralci del libro che vi abbiamo indicato.... [SM=g1740771]


Brani tratti dal libro:

LUIGI MARIA CARLI (1914-1986)
GIA' VESCOVO DI SEGNI E DI GAETA

NOVA ET VETERA. TRADIZIONE E PROGRESSO NELLA CHIESA DOPO IL VATICANO II

ISTITUTO EDITORIALE DEL MEDITERRANEO, 1969

PREMESSA
Quest’opera non ha pretese strettamente scientifiche, ma piuttosto intendimenti di carattere pastorale e informativo. Ciò spiega perché i temi, numerosi e vasti, vengano appena delibati e perché l’apparato bibliografico sia molto scarso. Se, infatti, quei temi si volessero affrontare in pieno, richiederebbero volumi su volumi.
La traduzione italiana delle citazioni bibliche e patristiche è stata condotta direttamente dai testi originali. Lo stesso si dica delle citazioni dei documenti del Concilio Vaticano II e della S. Sede. I discorsi del S. Padre Paolo VI che non recano esplicita indicazione della fonte sono stati desunti da L’Osservatore Romano.
Le molte citazioni anonime, qui contenute, dalle quali non posso non dissentire, appartengono ad autori viventi di cui si tace il nome per senso di carità, e sono state desunte da fonti che non vengono indicate per non fare loro una gratuita pubblicità. Del resto, l’indole di quest’opera non lo esigeva.
Spero che questa modesta fatica venga accolta come l’ha intesa l’autore, cioè come tenue ma sincera espressione di amore alla Chiesa tribolata.
† Luigi Maria Carli
Vescovo di Segni


Capitolo primo

I “SEGNI DEI TEMPI”

La Chiesa cattolica è in angustie: tutto il mondo ne parla. Che un vescovo s’interroghi a voce alta su un tema il cui interesse oltrepassa i confini della sua diocesi, per toccare quelli della Chiesa universale, non deve produrre meraviglia né venir giudicato come eccentricità. Ciò rientra, anzi, nella più antica e migliore tradizione dell’episcopato cattolico.
Infatti, ogni vescovo in comunione col Papa è corresponsabile, in certa misura, dell’intero gregge di Cristo; si sente obbligato alla sollecitudine per tutte le chiese. La consacrazione episcopale che ha ricevuto, e il nome stesso che porta fanno di lui un uomo che deve guardare dall’alto ciò che accade nell’intera “famiglia di Dio” (cfr. Ef. 2, 19), cercare di interpretarlo e formularne un giudizio.
Anche se non possedesse titoli accademici un vescovo è, ex officio, custode e maestro di sacra dottrina. Il sacramento dell’episcopato glie ne ha conferito il carisma dell’autenticità.
In comunione gerarchica col Papa e insieme con gli altri colleghi, egli concorre a formare il sempre vivo Magistero della Chiesa. È, dunque, corresponsabile di un sacro “Deposito” (cfr. 1 Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14), di un patrimonio dottrinale comune che, se custodito fedelmente in un luogo, è custodito per tutti, se vulnerato in un luogo, è vulnerato per tutti.
Non esiste diocesi, per quanto piccola e remota, alla quale i moderni mezzi di comunicazione sociale non facciano giungere le vibrazioni degli avvenimenti delle altre diocesi. Ma, quand’anche ne esistesse una, quel vescovo deve vivere ugualmente il dogma della comunione dei santi. Membro qualificato del corpo mistico di Cristo, “che è pure il corpo delle chiese” (1), gli si addice gioire con quelle che gioiscono, piangere con quelle che piangono (cfr. Rom. 12, 15).
D’altra parte, non sono pochi oggi i fedeli i quali supplicano che la voce dei vescovi si faccia sentire con maggiore frequenza, senza lasciarsi intimidire o sopraffare dal clamore di altre voci non autentiche. Le voci, per esempio, di certi professionisti di scienze sacre, i quali pretenderebbero costituire un magistero parallelo a quello dei vescovi, quando non anche ridurre i vescovi al rango di semplici notai delle loro dotte elucubrazioni.
La voce di un vescovo vale pochissimo, se isolata. Molto, se fa coro con quella di altri vescovi. Moltissimo, se risulterà in sintonia con la voce del Romano Pontefice, che Gesù ha voluto nella Chiesa vicario del suo amore pastorale e maestro universale della sua verità.
(....)
L’attuale è una crisi ben più grave di quella modernista; assieme a molti altri, ne sono persuaso. Che sia più grave ancora di quella protestante, sono in molti, e molto dotti, a pensarlo.
Intendiamoci bene. Non mi difetta, grazie a Dio, il fondamentale ottimismo di chi crede nella divina origine e costituzione della Chiesa cattolica, nella permanente assistenza dello Spirito Santo, nella promessa di Gesù che chiama a fiducia il drappello dei suoi primi apostoli: “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo” (Giov. 16, 33), e assicura che “le potenze dell’inferno non prevarranno sulla sua Chiesa” (Mt. 16, 18).
Sono anch’io figlio della speranza cristiana. Tengo per indubitato che soltanto a Dio spetta l’ultima parola, la parola della vittoria. Ma, quando vorrà Egli dirla, dopo quante e quali prove, e forse battaglie perdute, io non so. “Il Padre ha riserbato al suo potere i tempi e i momenti decisivi” (Atti 1,7).
La mia fede e la mia speranza non mi autorizzano a scartare a priori l’ipotesi che la Chiesa, indefettibile per garanzia di Gesù, possa conoscere anche nell’epoca attuale giorni di grandi tribolazioni, apostasie vaste e clamorose, smarrimenti di pastori, lagrimevoli perdite di anime. Il cuore potrà suggerirmi il desiderio che Dio risparmi alla sua Chiesa una tale iattura; ma il freddo raziocinio non me ne dà, oggi come oggi, alcuna certezza.
Certo, la Chiesa possiede tante e tali risorse interiori che di qualsiasi epoca, anche la più triste, può fare una primavera pentecostale. Ma nei suoi membri umani essa ha, purtroppo, tanta fallibilità da poter vederle tutte neutralizzate, quelle risorse, e la grazia stessa di un Concilio risolversi praticamente in un fallimento, per non dire occasione di rovina per moltissimi.

Preferisco dire crisi nella Chiesa, anziché crisi della Chiesa. Già S. Ambrogio precisava che “non in se stessa, ma in noi, è ferita la Chiesa; badiamo, dunque, che il nostro fallo non diventi lacerazione della Chiesa” (2). La Chiesa, dunque, santa Sposa di Cristo, rimane danneggiata dalle colpe dei suoi stessi figli.

È una eventualità verificabile in ogni tempo, anche in quello post-conciliare. Sarebbe, pertanto, una sottile forma di trionfalismo volere, a tutti i costi, attribuire alla situazione particolare della Chiesa uscita dal Vaticano II ciò che le è stato divinamente garantito solo in prospettiva globale ed escatologica.

Crisi gravi, anzi gravissime, la Chiesa ha conosciuto anche in altre epoche della sua storia, anche dopo altri Concili. Ha superato quelle; supererà anche questa, non v’è alcun dubbio. Ma è sul prezzo che essa dovrà pagare per tale superamento che qui ci si interroga con trepidazione.

In altre parole: io non mi domando, come ha fatto qualcuno che non aveva più la fede, se la Chiesa avrà un domani, ma quale sarà il domani della Chiesa dopo il passaggio dell’attuale ciclone.
Dico francamente che mi stupisce assai la sicurezza, quasi aprioristica, con cui da molti si qualifica l’attuale soltanto come “crisi di crescenza”, “esuberanza di vitalità” della Chiesa, preventivata dopo ogni Concilio, anzi necessaria e provvidenziale, comunque di breve durata. Tale sicurezza, a mio avviso, è pericolosa anche perché, se di null’altro si tratta che di crescenza, viene spontaneo il concluderne: fenomeno normale, s’aggiusta da sé, non preoccupiamocene troppo!
Temo che si dia corpo ai propri lodevoli desideri. Sinceramente, bramerei anch’io che l’attuale crisi fosse per tutta la cattolicità il crogiuolo temporaneo attraverso cui la vita di fede e di grazia si faccia più pura, più ricca, più personale. Ma chi o che cosa mi autorizza a scartare il dubbio che quell’opinione, pur largamente condivisa, possa risultare un tragico tranquillante? Che non già la fede e la grazia siano in crescita, non già l’impegno morale della sequela di Cristo si vada estendendo ed affinando, ma, piuttosto, siano in fase di crescita galoppante il razionalismo e il naturalismo, che svuotano di contenuto religioso e fede e morale, e la contestazione teorica e pratica dell’autorità sacra, che mina dalle fondamenta l’edificio della Chiesa?

Si ripete spesso, con l’aria. quasi di chi alza la voce per farsi coraggio: “Non sono più i tempi degli scismi! Roba del passato!”. Fosse vero. Ma perché mai gli scismi non sarebbero oggi più possibili? Dove sta scritto? Chi l’ha decretato?
E non dimentichiamo che, ancorché non più dichiarati formalmente, come un tempo, mediante la pubblica affissione di tesi ereticali da una parte e bolle di scomunica dall’altra, gli scismi più insidiosi e deleteri rimangono quelli negati a parole ma esistenti nei fatti. La conclamata volontà di certi novatori di “andare avanti restando nella Chiesa” potrebbe anche significare il deliberato proposito di giuocare allo svuotamento del cristianesimo dal di dentro, di “portare l’infedeltà nel cuore stesso della Chiesa”. Costoro potrebbero rimanere dentro le strutture, perché gli riesca più facile “non solamente interpretare la realtà della Chiesa, ma cambiarla, alla luce del vangelo di Gesù Cristo”. Questo fenomeno — riconosciamolo pure, con sincerità — non avveniva dopo i Concili del passato, quando i contestatori del magistero ecclesiastico se ne separavano apertamente. Così, almeno, la nettezza delle posizioni assicurava la purezza della fede dei cattolici!


Trovo scritto che lo sbalordimento prodotto dai fenomeni che avvengono oggi nella Chiesa “non arriverà certo al vertice parossistico quale lo vide S. Girolamo, quando nel 350, dopo furiosi dibattiti politico-conciliari, rivelò che il mondo intero, addolorato, era stupito di ritrovarsi ariano”. Non arriverà certo... Ma donde tanta certezza? Perché non potrebbe accadere, poniamo tra qualche decennio, che un secondo S. Girolamo fosse costretto a riconoscere, gemendo, che l’intera cristianità non si ritrova più cristiana?
(....)
“Dal frutto si conosce l’albero” (Mt. 12, 33), ha detto Gesù. Diagnostichiamo, dunque, la natura della crisi dai frutti che essa produce. Illudersi ancora sulla sua natura è, a mio avviso, uno dei sintomi più allarmanti della sua gravità.
Siamo avvertiti, pertanto, che crescita o regresso, progresso o involuzione si stabiliscono per la Chiesa in base a criteri completamente diversi da quelli delle società umane. Il parametro della sua crescita o della sua crisi è unicamente quello soprannaturale: cioè, la crescita o la crisi della fede, della speranza e della carità.
Se oggi esiste crescita nella Chiesa — ed esiste, grazie al Cielo — si trova proprio in quella porzione della Chiesa che non provoca la crisi, non partecipa alla crisi, supera la crisi altrui.
L’altra porzione, quella in crisi, non produce crescita ma regresso! Altro che dire, dunque, con tanta stampa cattolica timorosa di apparire retrograda e integrista: “la crisi è segno di vitalità”; “è meglio la contestazione che l’immobilismo”; “se ci si interessa tanto delle cose di Chiesa, è segno che la Chiesa è in crescita”; “vive sono le comunità ecclesiali dove ci si ribella anche al proprio vescovo, morte le altre dove non succede niente”! Simili ragionamenti sono di pretta marca naturalistica.

Comunque una cosa è certa, e degna della massima riflessione.
In termini ben diversi da quelli degli ottimisti ad oltranza, sulla crisi che travaglia il mondo cattolico, si esprime ormai da anni, quasi ogni settimana, il santo Padre Paolo VI.
Egli si dimostra pienamente fiducioso in Dio ma, al tempo stesso, angosciato per i non pochi e non piccoli sintomi di un turbine di idee e di fatti, quale nessuno avrebbe immaginato potesse scatenarsi dopo il Concilio: sintomi che egli nettamente individua e descrive, sia pure con la carità che si astiene dall’indicare per nome le persone dei responsabili.

[SM=g1740758] ........... continua...........



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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