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ANNUS FIDEI- NOVA ET VETERA testo prezioso di mons. Carli del 1969

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2012 22:28
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12/10/2012 21:01
 
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[SM=g1740771]  c) L’etica della situazione, accettata in pieno dalla teologia progressista, oltre che su un concetto errato della legge morale naturale riposa su un concetto errato del valore della coscienza umana.
La verità della coscienza viene sacrificata alla sincerità della medesima, e così le si attribuisce una piena autonomia soggettivistica. La coscienza individuale viene presentata come se fosse la norma suprema, e quindi unica (esasperazione logica del profetismo carismatico, cioè del libero esame protestantico) della liceità o illiceità dei comportamenti; mentre invece la coscienza è soltanto norma immediata dei comportamenti, et quidem vincolata all’obbligo di cercare la verità, cioè la propria conformità all’ordine morale oggettivo.
E l’ordine morale oggettivo viene manifestato alla coscienza anche mediante il ricorso al criterio riflesso della legittima autorità. Si dimentica che in tanto la coscienza individuale sincera è norma immediata dell’agire in quanto essa, presuntivamente, riflette la norma oggettiva che sta al di sopra di lei, cioè la legge divina. Ma non è più norma valida dell’agire quando essa o versa nel dubbio positivo circa l’esistenza e il contenuto della norma oggettiva, oppure pretende agire in difformità dal contenuto della norma oggettiva sufficientemente conosciuta o direttamente o mediante la legittima autorità.


Ci si domanda allora con apprensione come si sia potuto sentenziare da certi prelati che la coscienza individuale dei coniugi, benché a conoscenza del responso dato dal Papa come autorevole interprete della legge morale naturale, è giudice definitivo della liceità dell’uso dei contraccettivi, e quindi quei coniugi non debbono venir considerati fuori dell’amore di Dio e indegni dei Sacramenti! Ma quell’autorevole responso pontificio non deve costituire il criterio, sia pure estrinseco e riflesso, su cui la coscienza di un cattolico ha l’obbligo di rettificare se stessa? E come potrà dirsi ancora sincera quella coscienza che volontariamente non cerca la verità della legge divina, perché rifiuta a bella posta la luce proveniente dall’interpretazione di quella Autorità che Dio ha stabilito a guida dei cattolici, specialmente nei casi di questioni difficili e disputate?


Per legittimare l’atteggiamento di consapevole rifiuto dell’insegnamento di Paolo VI è stata escogitata una curiosa teoria: quella dei due doveri. Si è detto che, attesa l’alternativa di due doveri (il rispetto del carattere fecondo degli atti coniugati da una parte, e la stabilità dell’amore coniugale dall’altro: entrambi comandati da Dio) in cui, qualunque sia la decisione presa, non si può evitare un male, la saggezza tradizionale prevede di ricercare davanti a Dio quale dovere sia, nel caso, maggiore: e i coniugi possono tranquillamente seguire la decisione da essi ritenuta più doverosa, foss’anche quella dell’uso dei contraccettivi.
Ma questo mi pare un puro e semplice sovvertimento del Vangelo, il quale afferma che il massimo, e dunque sempre preminente, dovere del cristiano è quello di amare Dio (cfr. Mt. 22, 37), e che l’amore a Dio si concretizza nell’osservare la sua legge (cfr. Giov. 15, 10; 1 Giov. 2, 4 sgg.) una volta che questa sia sufficientemente conosciuta. È sul metro di tale fattivo amore di Dio che si deve confrontare qualsiasi comportamento del cristiano; anche il comportamento sessuale del coniuge, del quale pur è stato detto: “Se qualcuno viene a me e non odia [...] la moglie (cioè: se ama la moglie più di me, cfr. Mt. 10, 37) [...] ed anche la sua stessa vita, non può essere mio discepolo” (Lc. 14, 26)! Nel caso in questione il vero conflitto non è tra due doveri ugualmente imposti dalla legge del Signore; è piuttosto tra il dovere assoluto di amare quel Dio che vieta l’uso dei contraccettivi e la libera scelta di un mezzo, intrinsecamente disonesto, ritenuto, per volontario errore, necessario al conseguimento della stabilità dell’amore coniugale. Il fine, fosse pure comandato dalla legge di Dio, non può mai coonestare l’uso di un mezzo che è intrinsecamente disonesto e pertanto vietato dalla legge stessa di Dio! L’amore di Dio, concretizzato nel rispetto di uno dei suoi precetti negativi (quelli cioè che, come insegna la teologia, obbligano semper et pro semper), deve prevalere in ogni caso anche se talora, per fragilità o malizia umana, ne risultasse difficile l’adempimento di uno dei precetti positivi (quelli cioè che, come insegna la teologia, obbligano semper at non pro semper).


In tutta questa faccenda dell’opposizione all’enciclica Humanae Vitae si è dimenticato l’insegnamento del Concilio Vaticano II sull’esistenza e sul primato dell’ordine morale oggettivo, contenuto in uno dei documenti meno conosciuti e ancor meno utilizzati, cioè il decreto Inter mirifica: “il Concilio proclama che il primato dell’ordine morale oggettivo deve essere assolutamente rispettato da tutti, poiché solo esso supera ed armonizza nel debito modo tutti gli altri ordini delle cose umane, per quanto questi eccellano in dignità, non escluso l’ordine artistico. Solo l’ordine morale, infatti, investe l’uomo nella totalità della sua stessa natura, l’uomo, creatura di Dio dotata di ragione e chiamata ad un fine soprannaturale; e lo stesso ordine morale, se integralmente e fedelmente rispettato, porta l’uomo a raggiungere la pienezza e perfezione della felicità” (128).

Si è accusata l’enciclica Humanae vitae di contraddire l’insegnamento del Concilio in materia di vita coniugale. L’accusa è falsa. La costituzione pastorale Gaudium et spes riafferma l’obbligo che hanno i coniugi di uniformare la propria coscienza ai dettami della legge divina, autenticamente interpretata dal Magistero. [SM=g1740722]
Il giudizio sul numero dei figli da procreare ed educare debbono formularlo, in ultima istanza, i coniugi stessi, mettendosi davanti a Dio e tenendo conto sia del proprio bene personale sia di quello dei figli, già nati o previsti, e valutando le condizioni di vita del proprio tempo e del proprio stato, sotto l’aspetto tanto materiale quanto spirituale; e, in fine, salvaguardando la scala dei valori del bene della comunità familiare, della società temporale e della stessa Chiesa. “Però nella loro linea di condotta i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma debbono essere sempre guidati da una coscienza, la quale deve essere conformata alla legge divina stessa, docili al Magistero della Chiesa che in modo autentico quella legge interpreta alla luce del Vangelo... I figli della Chiesa, fondati su questi principi, nel regolare la procreazione non potranno seguire strade che il Magistero, nell’interpretare la legge divina, condanna” (129).


Orbene, il Magistero ha condannato come intrinsecamente illecita la strada dei contraccettivi. Come può allora un cattolico, pur conoscendo il responso dell’Autorità suprema della Chiesa, appellarsi in contrario al giudizio della propria coscienza? E se mai fosse ammissibile l’appello al giudizio della propria coscienza in materia di contraccettivi, perché non dovrebbe ugualmente ammettersi in materia di adulterio, di sterilizzazione, di fecondazione artificiale ecc. ecc., qualora la coscienza dei coniugi li pensasse mezzi necessari per fomentare la stabilità dell’amore coniugale? Anzi, qualsiasi legge divina e umana, qualsiasi dogma di fede proposto a credere dalla Chiesa potrebbe venir lecitamente respinto, senza la perdita dell’amicizia di Dio e del godimento dei beni spirituali, qualora la coscienza individuale ritenesse di non poterlo accettare, perché non convinta della sua fondatezza. La logica porterebbe al crollo completo di ogni validità oggettiva dell’ordine dogmatico e dell’ordine morale di fronte al giudizio “situazionale” o “esistenziale”, che dir si voglia, della coscienza individuale! E di fatto un prelato cattolico è giunto ad affermare che “è possibile che una persona non dia il proprio assenso ai dogmi, e ciononostante abbia la fede nel suo cuore, come impegno vivo verso il Cristo”!

d) Lo sfasamento del progressismo in materia di morale coniugale non è che il riflesso di un più vasto sfasamento circa la sfera della morale sessuale.
Il progressismo rimprovera ai teologi tradizionalisti di aver concentrato la loro attenzione esclusivamente sui peccati sessuali, come se non ne esistessero altri. L’accusa, presa nella sua generalità, è infondata, mentre può essere fondata se rivolta a taluni moralisti. Ma ora il progressismo sta cadendo nell’eccesso opposto, concentrando la sua attenzione solo sul campo del sociale, e quasi nullificando i peccati contro il VI e il IX comandamento; tanta è la glorificazione del sesso che esso promuove, e tanti i diritti del sesso che esso proclama. Le esperienze sessuali extramatrimoniali non sarebbero più colpa, o almeno non sarebbero più colpa grave. La Chiesa potrebbe, anzi dovrebbe, benedire le unioni degli omosessuali: qualche prete l’ha già fatto! Un noto canonista non vede “che sia contrario alla rivelazione evangelica del matrimonio” l’apprendistato in amore, cioè il convivere more uxorio prima di impegnarsi in forma irrevocabile; quindi la Chiesa potrebbe consentirlo, senza negare i suoi sacramenti o senza espellerne gli autori dal suo seno! In una rivista diretta da religiosi fu riportata una lirica dove il poeta, tra altre cose irrepetibili per decenza, diceva: “Credi nel corpo, credi nel tuo corpo... segui i dettami del tuo corpo. Esso sa le tue necessità. Rispondi quando esso grida libertà”. È intuibile di che libertà si tratti!


e) Per il progressismo l’idea di legge, di precetto, è da rigettare perché inaccettabile dall’uomo moderno, sensibilissimo alla propria dignità e libertà e insofferente di tutto quanto gli venga imposto dal di fuori.
Se così, che ne sarà dei comandamenti di Dio e dei precetti ecclesiastici? È stato risposto: “le norme morali non vengono direttamente da Dio... L’uomo è moralmente autonomo per volontà divina, e la responsabilità che accompagna questa autonomia è il cuore della legge divina”! Per esempio, la cosiddetta legge dell’indissolubilità del matrimonio non sarebbe un obbligo, ma soltanto un ideale proposto da Dio, desiderato da Lui, ma che in pratica realizzerà soltanto chi se la sente. Ne consegue che nessuna autorità ecclesiastica può comandare o proibire alcunché sotto pena di peccato. Ciò sarebbe abuso di potere, ingerenza indebita in affari che riguardano soltanto la coscienza personale; sarebbe putrido giuridismo, farisaico legalismo, alieno dallo spirito del Vangelo. Tutt’al più, la Chiesa dovrebbe limitarsi a proporre degli ideali, a dare delle esortazioni; poi, ognuno si regolerà come meglio crede in coscienza, a seconda del senso di responsabilità e di maturità carismatica che possiede.

Non è a dire quale entusiastica accoglienza trovi nel mondo una siffatta morale, chiamata “liberatrice dai vecchi tabù”. Le conseguenze in campo disciplinare sono cronaca di tutti i giorni!

f) Rimane così spiegato perché il progressismo ce l’abbia a morte con l’asserito giuridismo della Chiesa cattolica. Non è, a dir vero, un atteggiamento nuovo; ma è nuova la virulenza che esso ha assunto prendendo a pretesto il Vaticano II. Al fondo soggiace un’errata concezione ecclesiologica, negatrice in pratica della legge dell’incarnazione, già denunziata nel 1943 dall’enciclica Mystici corporis e poi nel 1950 dall’enciclica Humani generis. Allora si contrapponeva la “chiesa della carità” alla “chiesa del diritto”; oggi, cambiando vocabolario ma non significato, si contrappone la “chiesa-istituzione” alla “chiesa-avvenimento”, la “chiesa-struttura” alla “chiesa-happening”, la “chiesa-autorità” alla “chiesa-carisma”, la “chiesa delle decretali” alla “chiesa dello Spirito Santo”. Ogni istituto giuridico non sarebbe che sovrastruttura indebita, da eliminare perché offuscherebbe il mistero della Chiesa. Si giunge a dire che “le strutture ecclesiastiche sono la tomba di Dio ed è solo fuori di esse che Dio potrà rinascere”!
Eppure, anche le strutture giuridiche, connaturali ad ogni società visibile, fanno parte del “sacramento” della Chiesa, sono espressione del mistero d’amore di Dio verso l’uomo, sono a servizio della missione salvifica.
La Chiesa è il prolungamento mistico di Cristo; e come il Verbo incarnato non è soltanto Dio ma anche uomo, così pure la Chiesa non è soltanto “mistero “invisibile” (= errore protestantico), ma anche società con strutture visibili. E tali strutture, benché “siano qualche cosa di ordine del tutto inferiore, se si paragonano ai doni spirituali di cui la Chiesa è stata dotata e di cui essa vive, e alla loro divina sorgente”, tuttavia derivano anch’esse da Cristo, almeno nelle loro linee essenziali. Anche “le ragioni giuridiche culle quali la Chiesa è fondata e costituita hanno origine dalla costituzione divina dàtale da Cristo e contribuiscono al conseguimento del suo fine soprannaturale” (130). Perfino l’autorità giudiziaria, e quindi penale, è nella Chiesa un servizio di carità reso alla comunità del Popolo di Dio. L’avversione, quindi, al cosiddetto giuridismo, oltre che un gratuito angelismo, è la negazione di un aspetto costituzionale della Chiesa.


È stato affermato da un prelato che gli attuali mali della Chiesa deriverebbero dal predominio in essa della scolastica e del legalismo, cioè del “rispetto della legge e dell’autorità per amore di se stessa”. Eppure la dottrina autentica della Chiesa, di cui ogni vescovo dev’essere testimone e maestro, ha sempre insegnato a vedere ed amare nella legge giusta la volontà di Dio, e a venerare nell’autorità ecclesiastica Dio stesso: ne ha sempre fatto, dunque, una questione di fede.
Se abusi esistono, questi sono imputabili alle persone ma non all’istituzione. Ed infatti, i progressisti più scaltri assicurano di contestare non il principio dell’autorità ma il modo di esercitarla. “Si pensi — ha scritto uno di loro — al modo di comportarsi indicato da Cristo per il buon pastore e al modo indicato da alcuni canoni in cui l’autorità convoca, processa, punisce”. Peccato che non vengano indicati i canoni incriminati. Ma ne trascriverò io uno, che apre e dà il tono a tutta la parte II del libro V “de delictis et poenis” del Codice di Diritto Canonico.
Recita, dunque, il can. 2214 del Codice: “Si abbia davanti agli occhi il monito del Tridentino: Si ricordino i Vescovi e gli altri Ordinari che essi sono dei pastori e non dei seviziatori (“percussores”) e debbono governare i propri sudditi non così da tiranneggiarli, ma piuttosto da amarli come figli e fratelli, e sforzarsi di trattenerli dalle cose illecite mediante le esortazioni e gli ammonimenti, per non essere costretti a punirli con le debite pene in caso di trasgressione. Tuttavia se accada che i sudditi pecchino per umana debolezza, i Vescovi osservino la prescrizione data dall’Apostolo: li convincano, li riprendano, li esortino con ogni bontà e pazienza, poiché spesso è più efficace per i corrigendi la benevolenza che l’asprezza, più l’esortazione che la comminazione, più la carità che l’uso della potestà. Se però ci sia bisogno della verga a motivo della gravità del delitto, allora si unisca al rigore la mansuetudine, al giudizio la misericordia, alla severità la mitezza, affinché venga mantenuta senza asprezza la disciplina pur salutare e necessaria ai fedeli, e i colpiti si emendino o, in caso di mancata resipiscenza, gli altri siano tenuti lontani dai vizi mediante l’esempio salutare della punizione” (131).


Con questo non s’intende negare, tutt’altro, che certi modi con cui certe autorità ecclesiastiche esercitarono storicamente la loro potestà siano riprovevoli; che certi istituti giuridici vigenti abbiano bisogno di riforma. Però deve rimanere fermo il principio che “se la Chiesa è società visibile, gerarchica... non può fare a meno di darsi delle leggi, coerentemente derivate dalla Rivelazione e dai bisogni sempre insorgenti della sua vita, sia interiore che esteriore. Per correggere i possibili inconvenienti del cosiddetto giuridismo, il primo rimedio sarà non tanto nell’abolire la legge ecclesiastica, quanto nel sostituire a prescrizioni canoniche imperfette e anacronistiche altre prescrizioni canoniche meglio formulate. Chi alimenta avversione preconcetta verso la legge della Chiesa non ha il vero “sensus Ecclesiae”; e chi crede di far progredire la Chiesa demolendo semplicemente le strutture del suo edificio spirituale, dottrinale, ascetico, disciplinare, in pratica demolisce la Chiesa, accoglie lo spirito negativo di chi la diserta, e di chi non l’ama e non la costruisce” (Paolo VI).

È già in fase di avanzata elaborazione, a cura della S. Sede, la revisione dei Codici di Diritto Canonico, latino ed orientale. Ma è fuori dubbio che anche nella doverosa opera di depurazione e semplificazione dell’apparato giuridico occorre mantenere il sano equilibrio. Non si può pretendere, come pretende il progressismo, che l’apparato giuridico della Chiesa sia il medesimo quando essa è numericamente un “pusillus grex”, uno sparuto manipolo di neofiti localizzato in un breve giro di spazio e in una civiltà molto semplice, dove il fervore delle origini supplisce a tante cose e tante altre ne rende superflue, e quando invece essa si dilata in tutto il mondo, viene a contatto con le più svariate e complesse culture, si distanzia di secoli dalle sue origini e conta centinaia di milioni di adepti, purtroppo non tutti specchio di coerenza tra fede creduta e vita vissuta!
E quanto più crescono le differenze degli ordinamenti locali tanto più cresce la necessità che una autorità centrale agisca a salvaguardia dell’unità e del bene comune. Né è a credere ingenuamente che il cosiddetto giuridismo diminuisca, solo che si effettui un più vasto decentramento di poteri, o che cessi di essere giuridismo per il solo fatto che anziché a Roma ci si possa rivolgere, poniamo, a Bruxelles o a New York o a Utrecht. Non si farebbe che spostare il giuridismo da un titolare più lontano ad uno più vicino, e forse più molesto!


Non può, dunque, fare paura la sana critica di questa o quella persona in autorità (salva, però, sempre la verità e la carità), di questo o quell’istituto giuridico ecclesiastico. Ma fanno paura le ragioni addotte dai progressisti a sostegno della loro critica, perché viene contestato in radice il principio stesso dell’autorità ecclesiastica a tutti i livelli. Estendendo abusivamente al campo ecclesiastico la concezione laicistica dell’uguaglianza, della libertà personale, della fratellanza, dell’autonomia della coscienza, della democrazia ecc. ecc. (non senza indebite citazioni dal Vaticano II), certi preti protestatari hanno potuto condannare il principio d’autorità come “eredità del diritto romano imperiale”. È superfluo, seppur doloroso, aggiungere che l’autorità maggiormente bersagliata dal progressismo odierno è quella del Romano Pontefice, anche se a parole si afferma di volersela prendere solo con la sua Curia. Il vento dell’antiromanità spira oggi ben forte. “La Chiesa cattolica — si dice oltr’Alpe — e la Chiesa di Roma non sono la stessa cosa. La Chiesa di Roma non è neppure la Chiesa madre: che era quella di Gerusalemme, ormai morta... La Chiesa di Roma è fra tutte le nostre Chiese — Lione, Milano, Parigi, Colonia, Utrecht, ecc. — la sorella più anziana, e in tal senso la più venerabile. Speriamo soltanto che la vecchiaia non oscuri in lei la spontaneità e l’umiltà. Noi vogliamo riformare le strutture della nostra Chiesa, cioè ridarle lo spirito del Vangelo, che è spirito di libertà e di autenticità”! Le chiese d’oltr’Alpe, dunque, si sentono sorelle ma non figlie della Chiesa di Roma, e si ritengono in possesso del carisma idoneo a restituire a Roma il perduto spirito evangelico. Evidentemente, lassù c’è chi non ricorda più in quale legittimo senso la Chiesa Romana “madre e maestra di tutte le chiese” possa e debba identificarsi con la Chiesa Cattolica, come hanno fatto diversi Concili Ecumenici (132)!

L’ascetica del progressismo

Intimamente legata con la dogmatica e la morale, l’ascetica riceve dal progressismo un trattamento analogo.
In un cristianesimo prevalentemente orizzontale e sociologico, come lo vede il progressismo, è difficile collocare lo “scandalo della croce” (Gal. 5, 11) , il “rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc. 9, 23).
Travisando i testi conciliari relativi al dialogo col mondo per salvarlo, si è giunti a contraddire il monito dell’apostolo S. Giovanni: “Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo si taglia fuori dell’amore del Padre; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Giov. 2, 15-17).


L’ascetica tradizionale, predicata dalla Chiesa e attuata in grado eroico da una legione di Santi, è ritenuta non confacente alla civiltà consumistica: “l’idea di abnegazione non conviene più al tempo attuale”. Perciò i progressisti non la predicano e non la praticano più; assieme alle massime eterne, la considerano roba da Medioevo. Parlano più spesso e più volentieri della risurrezione di Gesù che non della sua passione e morte, mentre Egli ha detto: “Non doveva forse il Cristo patire tali cose per entrare nella sua gloria”? (Lc. 24, 26). Hanno più fiducia nella previdenza umana, personale o sociale, che non nella Provvidenza di Dio; più nella terapia e nella psicologia che non nelle virtù soprannaturali e nei doni dello Spirito Santo; più in una “marcia per la pace” che in un’Ora di Adorazione. Perciò pregano di meno, molto di meno; e si dispensano dalla preghiera personale sotto pretesto di quella comunitaria. La confessione frequente, nonostante il monito della Humani generis, è mal vista; del resto, torna più comoda la confessione comunitaria che quella auricolare.

La nuova ascetica presenta un cristianesimo sempre più accomodante, sempre più edulcorato; un cristianesimo dagli “sconti” sempre più facili e larghi. Chiede all’uomo meno impegno, meno sforzo di avvicinamento all’ideale che, per un cristiano, altro non può essere se non “Gesù Cristo, e Costui crocifisso” (1 Cor. 2, 2). Tutto questo è tremendamente logico, quando si parta da principi come il seguente: “La morte di Gesù Cristo sulla croce non ha alcun senso. Se Dio Padre avesse accettato il sacrificio di suo Figlio, sarebbe stato un sadico”! È tremendamente consequenziale che si diventi nemici della croce di Cristo” (Fil. 3, 18), e che la Chiesa oggi abbia a soffrire soprattutto a per la defezione e per lo scandalo di certi ecclesiastici e religiosi che crocifiggono la Chiesa” (Paolo VI). La mortificazione ha il suo valore solo se intesa come fatto “cristiano”, cioè come assimilazione a Cristo che ha redento il mondo per mezzo della sua amorosa sofferenza.

Quando nel 630 fu ricuperata la Croce di Cristo, che era stata depredata dai Persiani, l’imperatore Eraclio volle riportarla a Gerusalemme rivestito dei suoi ricchi paludamenti orientali. Ma, come viene narrato, non riusciva a camminare con quella sacra reliquia fino a quando, per suggerimento del vescovo Zaccaria, non si tolse di dosso i segni di un fasto troppo contrastante con l’umiliazione del divino Crocifisso. Alla Chiesa d’oggi, chiamata dal Concilio a compiere un balzo in avanti, il progressismo intima, spesso con insolenza, di togliersi di dosso i paludamenti fastosi di un tempo. E sta bene! Ma vuole toglierle di dosso anche la Croce del Signore; e questo è un sacrilegio! [SM=g1740733]

Potrebbe mai essere autentica una riforma che eliminasse dal cristianesimo lo spirito di sacrificio, che imbroccasse la strada del comodismo? Nemmeno la riforma protestante osò tanto, almeno ai suoi inizi; si presentò, anzi, come un ritorno all’ascetismo del Vangelo. E dovrebbe invece ridursi ad una corsa al lassismo la riforma promessa e promossa dal Vaticano II, anziché un aiuto alle anime per meglio servire Dio, nell’imitazione più fedele del Cristo?

Queste cose, che certi preti e religiosi oggi non capiscono più, le capiscono benissimo tanti buoni laici. [SM=g1740721] “Non si dà né mai si è data vita spirituale senza ascesi. Il rifiuto dell’ascesi è la morte di ogni spiritualità” (F. Mauriac). Lo spirito di feconda riforma non può essere oggi diverso da quello che fu in tutti i tempi (del tempo di Citeaux, del tempo di S. Teresa e di S. Giovanni della Croce), voglio dire cioè: una riforma verso il più difficile, verso uno sradicamento delle piccole beatitudini, per meglio prendere radice nel centro della Tradizione” (J. Guitton).

Voglio fare alcune riflessioni su due virtù, non certo le uniche e nemmeno le principali dell’ascesi cristiana, che oggi però formano problema, e spesso tragedia, per i sacerdoti e per i religiosi: l’ubbidienza e la castità.



[SM=g1740758]  continua...........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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