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ANNUS FIDEI- NOVA ET VETERA testo prezioso di mons. Carli del 1969

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2012 22:28
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12/10/2012 21:23
 
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[SM=g1740720] 1) L’UBBIDIENZA: virtù contestata.

Il progressismo propugna un concetto nuovo dell’ubbidienza, radicalmente diverso da quello fin qui insegnato e praticato. Non solo in campo ascetico ma anche in campo ecclesiologico. “È passato il tempo — si è scritto — che attraverso il vescovo il parrocchiano era ubbidiente al Papa e per conseguenza ubbidiente al Cristo. Noi desideriamo vivere con il Cristo in maniera diretta ed essere legati con Lui”.
Tutto questo, naturalmente in nome del Concilio! Paolo VI invece parla soltanto di una “rigenerazione” data dal Vaticano II allo spirito e alle forme dell’ubbidienza, mentre “il rapporto tra chi comanda e chi obbedisce, cioè fra chi nella Chiesa è rivestito di autorità e chi ad essa è soggetto, esce dal Concilio riaffermato, purificato, precisato e perfezionato”.
Ed ecco, come. “L’obbedienza, ancor prima di essere ossequio puramente formale e giuridico alle leggi ecclesiastiche e sottomissione all’autorità ecclesiastica, è penetrazione e accettazione del mistero di Cristo che mediante l’obbedienza ci ha salvati; è continuazione ed imitazione del suo gesto fondamentale... assimilazione a Cristo, il divino obbediente... norma fondamentale della nostra pedagogia... coefficiente indispensabile dell’unità interiore della Chiesa... cooperazione effettiva alla sua missione evangelizzatrice... esercizio ascetico di umiltà e spirituale di carità” (Paolo VI).
Non, dunque, “mutamento radicale del rapporto fra autorità e obbedienza, quasi che esso si trasformasse in dialogo vincolante l’autorità e affrancante l’obbedienza” (Paolo VI).


Di ben tutt’altro avviso è il progressismo, il quale auspica che nella Chiesa sorgano “piccole comunità... che antepongano l’obbedienza a Dio alla sudditanza degli uomini, anche se sacralizzati”.
Teorizzata la “disubbidienza costruttiva” o “disubbidienza profetica”, si passa immediatamente a legalizzare e realizzare il rifiuto, anche clamoroso, della legittima autorità ecclesiastica, in nome appunto di una asserita ubbidienza allo Spirito Santo manifestatosi, se del caso, attraverso il responso di un soviet parrocchiale! E chi è questo profeta, autorizzato dal progressismo a disubbidire alla Chiesa? “I superficiali — risponde un noto pubblicista in clergiman — i pavidi, i conformisti lo giudicano un ribelle. La sua, in definitiva, è una disubbidienza in nome di un’ubbidienza più alta: alla coscienza e a Dio. In lui si realizza un paradosso che scandalizza solo i timidi e i mediocri: capace di ubbidire fino alla disubbidienza. Il profeta è tagliato nella stoffa della libertà e dell’amore”. Ed è in base a cotali canoni ascetici che si può additare, su certa stampa cattolica, come modello del moderno prete ubbidiente, uno che respinge il proprio vescovo in visita pastorale!

Un simile espediente non ha nemmeno il pregio della novità. Da sempre si è trovato più comoda l’obbedienza a Dio (o alla propria coscienza, surrogato di Dio) che è inverificabile, che non l’obbedienza, verificabilissima, ad una autorità incarnata in un uomo. Da sempre si è trovato meno costoso rifarsi ad una diretta ispirazione dall’alto, o ad un libro sempre interpretabile ad usum delphini (tanto, né l’una né l’altro sbugiardano i presuntuosi o gli illusi!), che non accettare le decisioni di un uomo in carne e ossa, vicinissimo e sempre in grado di sbugiardare chi osasse distorcere il senso delle sue parole.

Per il progressismo, dunque, l’obbedienza tradizionale nell’ascesi cristiana non è più una virtù; sembrerebbe diventata addirittura un vizio. Ed anche quando, sia pure a denti stretti, ne ammette la necessità, la svuota di contenuto soprannaturale, naturalizzandola o razionalizzandola.
L’ubbidienza viene naturalizzata quando la si tollera, entro i limiti dello stretto indispensabile, unicamente perché l’ordine sociale ecclesiale esige l’esistenza di una guida autorevole, o perché il rispetto delle coscienze dei prossimi postula il buon esempio di un comportamento disciplinato. Se si ferma a queste, sia pur giuste, motivazioni l’ubbidienza non è più una virtù soprannaturale; si riduce ad una forma di utilitarismo. E privata del suo fondamento teologico (= ossequio all’autorità di Dio, percepita sotto il velo dei rappresentanti umani) e cristologico (= imitazione di Cristo “ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce” [Fil. 2, 8]), riesce anche difficile armonizzarla con la dignità e libertà della persona umana.
Si razionalizza l’ubbidienza — e, anche sotto questo profilo, se ne distrugge l’essenza di virtù soprannaturale — se la si accetta solo quando e perché, attraverso il dialogo con l’autorità, ci si è convinti personalmente della giustezza del precetto. L’anima dell’ubbidienza è la fede: lo dice la sua stessa etimologia.
Si ubbidisce a se stessi, quando il motivo di fede, cioè l’autorità di Dio imperante, viene relegato ai margini o addirittura escluso dall’atto di ubbidienza. Non c’è dubbio che anche l’atto di ubbidienza, perché umano, debba essere razionale. Ma, come nell’atto di fede, così anche in quello dell’ubbidienza la razionalità dev’essere esercitata sui preamboli (quali, ad esempio, la legittimità dell’autorità, l’assenza evidente di peccaminosità dall’oggetto comandato, il modo migliore dell’esecuzione, la manifestazione al superiore della propria situazione personale di suddito, ecc.). Ed in questa fase, sarà la prudenza stessa dell’autorità a sollecitare il dialogo informativo col suddito, al fine di raggiungere, nella migliore conformità ai disegni di Dio, l’obiettivo dell’ubbidienza e il bene spirituale dell’ubbidiente.



2) LA CASTITÀ: virtù derisa.

Non è certo da oggi che si contesta, in teoria e in pratica, il dovere di essere casti: ma tra i segni negativi del nostro tempo uno dei più vistosi è che si contesta addirittura il diritto di essere casti, in nome della pienezza della propria personalità e con l’abusato avallo delle scienze psicofisiche, ecc. ecc.

Già Pio XII nel discorso del 15 settembre 1952 (133) e poi nell’enciclica Sacra virginitas del 25 marzo 1954 aveva deplorato che una esagerata esaltazione dello stato matrimoniale — errore protestantico già condannato dal Concilio Tridentino (134) — portasse e deprezzare, come stato di minorazione, la verginità consacrata a Dio. Quelle non erano che le prime avvisaglie della campagna che, dopo il Concilio, si sarebbe scatenata nella Chiesa contro il celibato sacerdotale.
È il progressismo che fornisce ai combattenti armi e munizioni: quel progressismo che, non a caso, nega la perpetua verginità della Madonna, mentre difende la liceità degli anticoncezionali e la possibilità del divorzio per gli sposati. Uno dei suoi corifei ha proclamato tondo tondo che non ci sarà pace nella Chiesa fino a quando non verrà abolita la legge del celibato. Sicché — si domandano con sgomento i buoni laici — tutta la riforma conciliare consisterebbe, per il clero, nel pregare molto meno di prima, nel trovarsi un impiego civile retribuito (il che, in molti luoghi, sarebbe un rubare il pane a dei poveri disoccupati), nell’assumere atteggiamenti secolareschi, e infine nel prender moglie, pretendendo tuttavia di continuare ad esercitare il ministero sacro?


Il progressismo, cui è abituale il ricorso a Giovanni XXIII e al Vaticano II quando crede che gli faccia comodo, ignora volutamente l’atteggiamento dell’uno e dell’altro in merito al celibato sacerdotale (135). Gli basta dileggiare l’enciclica Sacerdotalis coelibatus di Paolo VI; gli basta ripetere alla noia le sue argomentazioni, i responsi dei suoi psichiatri, le sue statistiche, le sue interviste con questo o quel prete contestatore. Gli basta accusare, senza ombra di prova, il celibato come causa della diminuzione delle vocazioni sacre. Non pensa, invece, al grande influsso che esercitano in questo reale, ma complesso, fenomeno proprio le scandalose e clamorose diserzioni che esso patrocina e reclamizza, ed il clima di psicosi dell’ineluttabilità dell’abolizione del celibato che esso ad arte fomenta.

Ho letto in una rivista cattolica, a favore dell’abolizione, questa domanda: “perché guardare con scandalo o con diffidenza quegli uomini che onestamente, senza rivalse di interessi personali, s’interrogano se ora non sia di nuovo utile ritornare ad altri usi in vigore prima di questa legge, ai tempi degli Apostoli ad esempio, o della primitiva Chiesa?”.
Risponderei che non fa scandalo che ci si interroghi sul quomodo (cfr. Lc. 1, 34), cioè sul come vivere meglio il celibato, come rendere meno difficile ai sacerdoti, in un clima tanto difficile quale il nostro, l’adempimento di un impegno assunto liberamente e per convinzione. Fa invece scandalo, e grave scandalo, che si continui ad interrogarsi sul cur (cfr. Gen. 3, l), cioè sulla legittimità e sull’utilità di quell’impegno (utilità, ovviamente, tutta di carattere spirituale e considerata in rapporto all’intera Chiesa), quando tale utilità è stata solennemente riapprovata e riconfermata dal Vaticano II prima ancora che da Paolo VI.
E se nell’anno 1969 pare che perfino qualche vescovo dubiti della convenienza e dell’utilità del celibato, perché in Concilio il 7 dicembre 1965 ha dato il proprio voto favorevole all’intero decreto Presbyterorum ordinis, che risultò approvato con 2257 placet contro 11 non placet?
Che cosa è intervenuto nel frattempo?

Fa scandalo, e gravissimo scandalo, che ad interrogarsi pubblicamente siano, spesso, uomini che prima ancora di contestare il celibato a favore dei futuri preti (i quali hanno davanti a sé tutto il tempo di pensarci bene e, se del caso, di scegliere altra strada), contestano, forse soltanto nel regno del subcosciente, il proprio personale celibato, assunto in tutta libertà ma dal quale sperano di venir legalmente liberati.
È questa situazione psicologica che non li rende giudici disinteressati e insospettabili. Per chi ha già scelto il celibato, in piena libertà e per sempre, è tutta questione di fede nei valori soprannaturali, e di fedeltà alla propria parola giurata. Per chi non ha ancora scelto, è tutta questione di fede e di generosità: se non comprende, perché non gli è stato concesso, la parola della castità consacrata a Dio (cfr. Mt. 19, 11), non ha che da prendere in tempo l’onesta strada del matrimonio.


Oggi non si fa altro che sbandierare la non essenziale associabilità tra celibato e sacerdozio, e ricorrere alla prassi della Chiesa primitiva. Il Magistero non ha mai negato quella dottrina e quella prassi; il Vaticano II ha espressamente dichiarato che la perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli “non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio” (136). Ma qui la questione non verte sulla validità o sulla liceità del sacerdozio in soggetto non celibe, ma soltanto sulla grandissima convenienza, ai fini della funzione e testimonianza sacerdotale, che il sacerdozio venga conferito solo a soggetti volontariamente celibi. Il sacerdozio, per natura sua, è compatibile con tante altre situazioni, (p. e. l’ignoranza, il pubblico impiego, la ricchezza, perfino il peccato); eppure nessuno vorrebbe associarle alla professione di sacerdote. Perché? Ma perché “non tutto giova a tutti” (Eccli. 37, 31); “ tutto mi è lecito, ma non tutto giova” ( l Cor. 6, 12; 10, 23).
La Chiesa, a questo proposito, ha sempre detto con S. Paolo: “non il Signore, ma io” (1 Cor. 7, 12) domando il celibato ai miei sacerdoti. Però non è per superbia che, col medesimo S. Paolo, si affretta a soggiungere: “credo invero di aver anch’io lo Spirito di Dio” (1 Cor. 7, 40). Lo Spirito Santo la anima continuamente; non la blocca allo stadio delle conoscenze e delle prassi dei primi tempi, ma la muove ad approfondire sempre più e sempre meglio il contenuto del Deposito rivelato. Nessuna meraviglia, dunque, se la Chiesa ha approfondito nei secoli la conoscenza della natura, delle esigenze e delle convenienze del sacerdozio ministeriale. Il progressismo che nega la possibilità di questo particolare progresso nega, in definitiva, se stesso.
Orbene, lo Spirito Santo, che ha assistito la Chiesa nel professare e poi, nel Concilio Tridentino, nel dichiarare infallibilmente che lo stato di verginità consacrata è superiore allo stato matrimoniale, perché non avrebbe dovuto assisterla nel maturare la convinzione che l’eccelso carisma del sacerdozio ministeriale, partecipazione ontologica dello stesso sacerdozio di Cristo, è cosa più gradita a Dio e più utile alle anime affidarlo soltanto a coloro i quali siano già in possesso del prezioso carisma del volontario e perpetuo celibato, siano cioè già “uomini di un solo amore” (R. Schutz, priore di Taizé)?

Certo, le autorità ecclesiastiche possono errare, in casi concreti, nell’accertare la presenza in questo o quel soggetto del genuino carisma del celibato, e quindi affidare in mani non idonee il carisma del sacerdozio. Ma sarebbe un negare l’assistenza dello Spirito Santo il supporre che la Chiesa sia andata per sedici secoli, e vada tuttora contro le intenzioni di Dio, contro la legge di natura, contro il bene delle anime coll'esigere, da chi le chiede il carisma sacerdotale, il preventivo possesso del carisma del celibato, nonché il fermo proposito di custodirlo in perpetuo: nel volere, cioè, che i poteri sacramentali più alti siano conferiti soltanto a coloro che, per grazia di Dio e per libera scelta personale, hanno optato per il carisma più alto della perfetta e perpetua continenza in vista del Regno dei cieli.

La legge ecclesiastica del celibato, contro la quale ci si scaglia oggi tanto ferocemente in nome dell’antigiuridismo, altro con fa che portare una protezione, un incoraggiamento, un sostegno estrinseco, ma pur sempre un servizio pregevole, a quell'amore unico giurato dal fragile cuore dell'uomo all’Amore Assoluto. Non diversamente, la legge divina dell’indissolubilità matrimoniale è un servizio reso all’amore dei coniugi; amore che, già per natura sua, dovrebbe essere esclusivo e perpetuo, ma purtroppo è sottoposto alla tentazione di non esserlo più di fatto, in presenza di determinate critiche situazioni.


La rivista cattolica sopra citata insiste nel suo assunto con una ulteriore domanda: “si è mai pensato che la possibilità di avere preti sposati potrebbe rendere più testimoniante — nell’attuale società — la scelta del celibato”?
Risponderei, anzitutto, col dire che la Chiesa è da almeno sedici secoli che ci ha pensato e ci pensa, ed altra risposta non ha trovato e non trova che quella negativa.
Chiederei poi, a mia volta, se proprio nell’attuale società consumistica e materialista la scelta del sacerdozio, a preferenza di ogni altro pur nobile e utile stato di vita, non sia più testimoniante dell’amore a Dio e al prossimo, e cioè delle realtà dello spirito, proprio perché viene unita alla scelta del celibato, come prerequisito per l’assunzione e l’esercizio del ministero sacerdotale.
Istituire due tipi di sacerdozio, uno che imita il vergine Gesù e l’altro che non lo imita, significherebbe in pratica favorire la tendenza, connaturale all’uomo decaduto, verso le scelte più piacevoli, più comode, meno impegnative. [SM=g1740733]
Succederebbe lo stesso fenomeno che succederebbe se, per ipotesi, esistessero due tipi di matrimonio, uno indissolubile e l’altro dissolubile; oppure se, per ipotesi, fossero ugualmente leciti l’uso fecondo e l’uso infecondo del matrimonio. La legge del minimo sforzo col massimo del godimento potrà valere nel regno naturale; ma non si vede come possa avere diritto di cittadinanza nel regno della grazia, nato e fiorito dall’amore sacrificale dell’Uomo-Dio!

Se situazione storica mai esistette che, umanamente parlando, avrebbe consigliato l’abolizione della legge del celibato sacerdotale, questa sarebbe stata la situazione della Chiesa al tempo di S. Gregorio VII. Nonostante tutto, quel santo pontefice romano mantenne la legge, volendo la Chiesa “libera, casta, cattolica”. I secoli posteriori diedero ragione alla sua soprannaturale decisione.

Sono convinto che, nell’eventualità di due tipi di sacerdozio dopo una prassi di sedici secoli di sacerdozio soltanto celibatario (questa circostanza psicologica ha il suo valore!), la testimonianza resa dal sacerdozio celibatario verrebbe praticamente annullata dalla mancata testimonianza da parte del sacerdozio uxorato. A mio modesto avviso, quel giorno in cui la Chiesa fosse costretta a tollerare, “a causa della durezza del vostro cuore” (Mt. 19, 8), l’istituzione regolare del sacerdozio uxorato, sarebbe un gran brutto giorno per lei, un giorno nigro signanda lapillo. Avremmo un movimento non già verso il meglio, ma verso la mediocrità; non un aumento della tonalità soprannaturale della Chiesa e della sua incidenza apostolica, ma piuttosto un pauroso abbassamento. La storia delle chiese orientali, nelle quali il presbiterato viene conferito anche a uomini sposati, documenta inconfutabilmente che tutto quanto di santità, di dottrina, di teologia, di ascetismo, di spirito apostolico e missionario esse posseggono lo debbono soltanto a monaci e a vescovi, cioè a persone votate al celibato.

Concludo auspicando che quanti hanno a cuore il maggiore onore di Dio e il maggior bene delle anime preghino e lavorino perché il Signore non permetta che giunga per la Chiesa cattolica quel tristissimo giorno.



***

Capitolo Settimo

È POSSIBILE LA SOLUZIONE DELLA CRISI?


Nei capitoli precedenti ho cercato di descrivere sommariamente i due estremismi che formano oggi la gravissima crisi nella Chiesa. Per ovvie ragioni di metodo, ho considerato i due atteggiamenti allo stato puro, cioè al limite logico delle loro intrinseche virtualità. In concreto, però, si può essere certi che non esistono né tradizionalisti né progressisti allo stato puro. Intendo dire che, per una felice incoerenza tra principi professati e prassi attuata, di tradizionalisti non ne esiste nemmeno uno il quale non ammetta, in una certa misura, la necessità di progresso e di riforme, e di progressisti parimenti nemmeno uno il quale non ammetta un certo grado di rispetto verso la Tradizione della Chiesa.
Resta, comunque, il fatto che la tensione tra i due gruppi esiste realmente, fa soffrire la Chiesa e la ritarda nell’attuazione dell’autentico aggiornamento stabilito dal Vaticano II.
Non mi soffermo sulla questione se il progressismo attuale sia, come alcuni opinano, una reazione al tradizionalismo, ovvero se, come opinano altri, il tradizionalismo attuale sia una reazione al progressismo. Lo stabiliranno gli storiografi.
Ma, oggi come oggi, è forse cosa certa che cessando il tradizionalismo cesserebbe automaticamente anche il progressismo? O, viceversa, che cessando il progressismo cesserebbe automaticamente anche il tradizionalismo? Mi riesce difficile dare una risposta.
Penso invece di potere e dovere dare una risposta — se mai non emergesse sufficientemente dal fin qui detto — ad un’altra pur legittima domanda e cioè: allo stato attuale delle cose, da quale delle due posizioni proviene il pericolo maggiore per la Chiesa?
[SM=g1740733]

Dare un giudizio salomonico che divida il male a metà mi parrebbe ingiusto. A mio avviso, è da una parte ben determinata che proviene il pericolo maggiore, senza però con questo legittimare il male minore, cioè dichiarare lecita l’adesione a quello dei due estremismi che risulti oggi il meno pericoloso per la Chiesa.

Orbene, confrontandoli per quel che sono, nei principi professati e nell’azione finora svolta, io non esito ad affermare che la Chiesa oggi è esposta a subire un danno molto maggiore da parte del progressismo che non da parte del tradizionalismo. L’opera promossa dal Vaticano II mi sembra più turbata ed ostacolata dalle convulsioni del progressismo che non dalle resistenze del tradizionalismo.
[SM=g1740733]

Il tradizionalismo, numericamente meno consistente e sprovvisto dei potenti strumenti di comunicazione sociale posseduti dal progressismo, si trova in posizione di netto svantaggio. Fa la figura del povero untorello, di manzoniana memoria, benché incontri anche da parte di certe autorità ecclesiastiche periferiche un ingiusto trattamento, che non è equanime se lo si confronta con quello riservato invece al progressismo.
Per il quale c’è tanta comprensione, tanta sopportazione, tanta tolleranza, tanta volontà di rispettoso dialogo; mentre per il tradizionalismo non c’è che sdegnosa ripulsa, rifiuto di qualsiasi caritatevole ascolto.


È fuori dubbio che il tradizionalismo manifesta il proprio attaccamento alla Tradizione in forme inaccettabili, rischiando di far passare come essenziale nella Chiesa ciò che è soltanto accidentale. Resta però il fatto positivo che esso mantiene fermo ciò che per la Chiesa è essenziale e irrinunziabile, perennemente valido, intrinsecamente vitale, anche se, a torto, estende questa sua ferma adesione ad elementi che non la meritano. Col tradizionalismo la Chiesa non avanza, è costretta a rinunziare ad ulteriori arricchimenti nella conoscenza e nell’uso dei tesori del Deposito rivelato, si trova in difficoltà nell’espletamento della sua missione. Però essa rimane in vita, non perde il possesso della sua sostanziale ricchezza.
Non me la sentirei di affermare che se, per ipotesi, la Chiesa, accettando l’atteggiamento del tradizionalismo, rimanesse dopo il Concilio tale e quale si trovava prima del Concilio, non sarebbe più la vera Chiesa di Gesù Cristo, avrebbe sostanzialmente tradito la propria missione! Il tradizionalismo professa integralmente il Credo del Popolo di Dio, e accetta in pieno il principio dell’autorità della Chiesa, anche se, purtroppo, in pratica non sempre la segue, o la segue a malincuore in certe riforme da essa stabilite.
Gli si potrebbe adattare la frase usata da Tertulliano per spiegare, nel famoso incidente di Antiochia, l’atteggiamento tradizionalista di S. Pietro: difetto di comportamento, ma non di dottrina (137). Con la pazienza e con la carità il tradizionalismo potrebbe venir ricuperato. Proprio nell’approfondimento del genuino concetto di Tradizione esso troverebbe i motivi per superare lo scoglio che oggi lo rende chiuso al sano progresso.
[SM=g1740733]

Ma le cose mi sembrano stare ben diversamente per il progressismo. Qui, infatti, è anche l’essenziale della Chiesa che diventa accidentale e mutevole; è l’autentica ricchezza della Rivelazione buttata a mare; è il Credo che viene mutilato o stravolto. Qui, sotto il pretesto del progresso, è la sostanza stessa del cristianesimo che si altera; è l’orientamento di fede soprannaturale che viene negato; è ogni legame con la Tradizione che viene reciso in radice. Qui, con l’intenzione, in sé lodevole, di sviluppare e perfezionare la vitalità del cristianesimo e renderlo accettabile al maggior numero possibile di uomini, si finisce col fargli perdere le ragioni stesse della sua esistenza: “et propter vitam, vivendi perdere caussas” (138)! Qui è il principio stesso dell’autorità che viene contestato e, quindi, annullata alla base ogni possibilità di recupero. Se, per ipotesi, la Chiesa desse ragione al progressismo, si muoverebbe, sì, velocissimamente, ma verso la sua distruzione. Grandi passi, ma fuori strada: e tanto più errerebbe, quanto più correrebbe (139)!

Ecco perché mi sento di affermare che, per la Chiesa, di fronte al tradizionalismo è questione di buona salute o di malattia, mentre invece di fronte al progressismo è questione di vita o di morte! [SM=g1740721]

Esiste la possibilità di una soluzione della crisi?
Non mi contraddico se, pur avendo affermato più sopra che non oso azzardare alcuna previsione sull’esito dell’attuale gravissima crisi, ora affermo che una soluzione teorica esiste, ed indico quali siano, a mio avviso, le condizioni da realizzare affinché tale soluzione si verifichi sul piano concreto. Ma poiché l’adempimento delle condizioni dipende dalla libera volontà degli uomini, oltre che, ben inteso, dalla grazia misericordiosa di Dio, resta sempre valido il mio interrogativo iniziale: fino a quando durerà la crisi? e a che prezzo sarà superata?


A mio modo di vedere, la soluzione teoria della crisi è una sola, e si chiama superamento, per sintesi, dei due estremismi che l’hanno generata: sintesi (cosa assai diversa da compromesso o sincretismo!) degli elementi validi contenuti nell’una e nell’altra posizione. Se la crisi è nata dalla dissociazione dei due legittimi aspetti del Deposito rivelato e dei due elementi essenziali della Chiesa — cioè tradizione e progresso —, la crisi non potrà risolversi se non con la loro ricomposizione.
La Chiesa dovrà accogliere le giuste istanze dei tradizionalisti i quali si rifanno al rispetto della Tradizione, e parimenti le giuste istanze dei progressisti i quali rifanno alla promozione del progresso.
Se la crisi è scoppiata perché è stata vulnerata la “legge dell’incarnazione” — legge che è fondamentale per spiegare le molte (apparenti) antinomie del cristianesimo —, essa cesserà quando si tornerà al rispetto di quella legge. “Nova et vetera”, sta scritto nel Vangelo (Mt. 13,52); non già “nova aut vetera”! Con altre parole, che potrebbero anche costituire dei felici slogans: “progresso nella tradizione, e tradizione nel progresso” (F. M. Sciacca), ovvero: “l’antico che nel nuovo ringiovanisce, e il nuovo che nel vecchio si consacra” (P. G. Semeria).

Questa sintesi deve operarsi dal di dentro della Chiesa: “profert de thesauro suo” (Mt. 13, 52), perché i due elementi da sintetizzare sono parti integranti dell’unico tesoro affidato da Cristo alla sua Chiesa. Ovviamente, a garanzia della legittimità ed ortodossia della sintesi, non sarà possibile prescindere da una autorità responsabile: l’“homo paterfamilias” (Mt. 13, 52) della parabola. Nella Chiesa tale autorità esiste, e divinamente costituita; basta riconoscerla ed accettarla lealmente.
Sono disponibili a ciò le due parti in causa? Ecco il compito determinante affidato alla libera volontà degli uomini. Una volta che gli uomini siano sinceramente disponibili, le condizioni da realizzare sul piano concreto sono, a mio avviso, le seguenti: la preghiera, la riforma interiore, la fedeltà al Concilio Vaticano II, la fedeltà al magistero ordinario della Chiesa, in particolar modo a quello pontificio.



[SM=g1740758]  continua..........

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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