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Alcune Omelie del venerabile Padre Tomas Tyn O.P.

Ultimo Aggiornamento: 03/11/2012 12:57
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[SM=g1740758] Qui a seguire vi offriamo alcune importanti omelie....

Sant’Alberto Magno,
Vescovo e dottore della Chiesa del XIII secolo
(15 novembre)


Conferenza tenuta alle suore Domenicane di Bologna

Scienza e Fede, Fede e Ragione.

Sorelle carissime, oggi tutta la Chiesa è in festa, in particolare voi dell’ordine di san Domenico, per la solennità di sant’Alberto Magno, un grande vescovo e un grande predicatore della fede, un uomo di orazione e di scienza. Oserei dire che egli fu uomo di scienza proprio perché fu uomo di orazione. Questo sembra strano alla moderna mentalità laica, che tende a separare queste due sfere accuratamente, sostenendo che ci si può dedicare alla scienza solo quando si fa astrazione dalla fede. Viceversa si pensa (anche nel popolo cristiano c’è questa convinzione) che, per dedicarsi pienamente alla fede e all’orazione, bisogna evitare lo studio (sentito come una distrazione). Invece sant’Alberto ci insegna proprio questo: l’unità globale e organica del sapere porta l’anima a Dio, che nelle cose create contempla il Creatore. Noi con la nostra intelligenza abbiamo la grande prerogativa, dataci dal Creatore, di riconoscere in tutto quello che egli ha creato, che ha posto in essere, una traccia della sua sapienza e della sua bontà.

L’uomo si fa sapiente quando dalle creature risale al Creatore. Per sant’Alberto dedicarsi alla scienza era come dedicarsi alla preghiera e dare gloria, onore e lode a Dio. Egli viveva la sua vita spirituale nella dimensione adorante della preghiera, della ricerca e dello studio. Se adoriamo Dio, se crediamo in Cristo, se ci sforziamo di vivere la vita soprannaturale di grazia, anche a noi compete il dono mistico della divina sapienza, infusa nei nostri cuori assieme alla carità, che è impronta e sigillo dello Spirito santo. Care sorelle, se ci sforzassimo di vivere soprannaturalmente, dovremmo non disprezzare mai la scienza umana, l’amore di Dio ci dovrebbe portare all’amore per la scienza. Mi viene in mente la frase dolorosa e violenta con cui sant’Alberto biasima alcuni confratelli dell’ordo praedicatorum, qui blasphemant id quod ignorant, riprendendo un’espressione già presente nella lettera di Giuda (Gd 10: " Costoro bestemmiano tutto ciò che ignorano "), facendo riferimento alla lettera di San Giuda, il quale parla di quegli empi che, come animali irrazionali bestemmiano quelle cose che non sanno. A che cosa si riferisce in particolare sant’Alberto? Allo studio della filosofia, delle scienze, di quelle cose che chiamiamo humana, perché inciviliscono l’uomo, sottraendolo alla barbarie, nel senso più vero e globale della persona, non quell’umanesimo riduttivo, che è retaggio del rinascimento. L’uomo è al centro di tutto, se pone Dio al centro di tutto. L’antropocentrismo è conseguenza del teocentrismo. Sant’Alberto sottolinea l’importanza della ricerca filosofica, scientifica, razionale e umana nell’ambito ben più grande e sublime della fede, della sapienza divina, della sapienza soprannaturale.

A un cristiano non è lecito giungere né a un eccesso di razionalismo, né a un eccesso di fideismo. Per i razionalisti a oltranza tutto è spiegabile tramite la sola ragione e non c’è bisogno di esplorare i territori della metafisica. Per loro è sufficiente applicarsi al mondo dei fenomeni. Ma questo fenomenismo naturalistico uccide non solo la fede, ma anche la ragione. Ecco la tragedia dell’uomo moderno: la razionalità, allontanandosi dalla sapienza della fede, si allontana anche da sé stessa. Infatti l’oggetto ultimo della ragione umana, la quale è una facoltà per eccellenza spirituale, non può essere che Dio. Come da un lato bisogna evitare lo scoglio del razionalismo, cioè di una razionalità infatuata del mondo finito, così si deve con altrettanta cura evitare quella piaga che dilaga sempre più nel popolo cristiano: la "fede impaurita". Sant’Alberto se la prende con quei fideisti i quali pensano che la fede vada in crisi appena comincia a pensare. Care sorelle, com’è debole quella fede che teme il pensiero della ragione! La fede non è forse una luce che inonda il nostro intelletto umano, scendendo da Dio? Non è forse radicata nel Verbo e perciò salda come roccia incrollabile? Allora se siamo certi della nostra fede (come ogni buon cristiano cattolico deve essere), non dobbiamo certamente temere la ragione! Fede e ragione si appartengono a vicenda, come giustamente dice la colletta di questa messa. Facciamone un programma di vita.

Ciò che fece diventare grande sant’Alberto fu la ricerca dell’armonia tra fede e ragione. Queste due sfere si danno testimonianza a vicenda, si appoggiano l’una all’altra. Oggi invece si dice: " Lasciamo perdere la cultura, bando alle cose intellettuali, demandiamole ai laici. Noi ci dedichiamo solo alla vita di fede ". Questo è il miglior modo per perdere la fede. Infatti ne perdiamo la sostanza soprannaturale e la sostituiamo con le nostre povere certezze umane. Quando si teme di affrontare una domanda razionale, vuol dire che già abbiamo paura, già dubitiamo della nostra fede. Perciò una fede sicura, una fede orante, una fede soprannaturale, lungi dall’avere paura della cultura, immediatamente si fa cultura. È una reazione assolutamente spontanea, da sempre: la fede sùbito diviene pensiero, spontaneamente.

D’altra parte sarebbe ben strano che noi ricevessimo da Dio verità così eccelse, così grandi per poi lasciarle nella nostra mente senza coltivarle, senza trarne le ultime conclusioni. Insomma, la fede spontaneamente si fa teologia e la teologia non è tale, se non è razionale, se non fa ricorso a quella sapienza umana che è la filosofia. Sant’Alberto biasima i confratelli fideisti, che "bestemmiano ciò che ignorano", perché vogliono escludere l’intelligenza umana dallo studio del sacro, come se ci fosse la possibilità di conoscere senza adoperare l’intelletto. È una contraddizione in termini! Se l’uomo non fosse dotato d’intelligenza, Dio non potrebbe nemmeno rivelarglisi. Perché mai Dio non si rivela ai minerali e alle piante? Perché non si rivela agli animali irrazionali? Per il solo motivo che queste creature, per quanto buone, non hanno la ragione. Dio invece si rivela all’Angelo e all’uomo perché hanno la razionalità. L’interlocutore di Dio nel dialogo della rivelazione (dialogo in cui Dio prende sovranamente l’iniziativa), non può che essere la ragione creata, umana o angelica che sia. La risposta di fede alla rivelazione è ancora una risposta razionale e l’amore che accompagna e vivifica la nostra fede si manifesta ancora tramite la cultura teologica e filosofica e, in generale, tramite tutte le scienze umane, purché sapienzialmente coltivate.

In questo secolo di divisioni, di divorzi in tutti i sensi, occorre ritornare alla sapienza dei nostri padri, in particolare a quella di sant’Alberto, reso grande dalla sua infaticabile ricerca dell’armonia tra fede e ragione. Voi forse, sorelle care, obietterete: " Com’è possibile che ragione e fede si diano la mano, essendo delle realtà assolutamente distanti e diverse l’una dall’altra? ". Eppure è così. La cultura ha un vitale bisogno della fede. Esaminando la storia, vi accorgerete che non c’è cultura senza religione. Ogni cultura, dopo la venuta di Cristo, deve confrontarsi con il cristianesimo. Sta dalla parte di Cristo? Allora sarà una cultura veramente umana. Si metterà contro Cristo? Allora subirà la sorte di tutti coloro che si pongono contro Dio, attratti dal maligno.

Quando leggo certi scritti di atei intelligenti e sofisticati, così infervorati, talvolta mi sembra di sentire sant’Alberto che ci rimprovera dal cielo: " Se voi cristiani, se voi sacerdoti, se voi uomini e donne di chiesa, adoperaste tanta intelligenza e diligenza nel difendere la fede, quanta quella gente adopera per togliere la fede dalle anime, le sorti della fede sarebbero ben diverse ".

Care sorelle, la cultura vera non può non essere amica della religione e in particolare dell’unica vera religione. In questo tempo di scetticismo bisogna avere il coraggio di dire che tra le religioni umane ce n’è una e una sola che è pienamente vera e rivelata: quella cristiana. Tramite la verità del Cristianesimo — l’unica religione rivelata — cultura e fede diventano alleate. È un’alleanza imprescindibile. Là dove quell’alleanza non c’è, la cultura va in rovina. Voi forse mi chiederete: " La fede cosa riceve dalla cultura? ". Nel mondo spirituale le perfezioni si appoggiano a vicenda, cioè le perfezioni minori si sottomettono a quelle maggiori e ricevono il loro splendore. Nel contempo le perfezioni maggiori non disdegnano superbamente quelle minori, ma s’appoggiano ad esse, come a sicure fondamenta. San Tommaso, parlando della prudenza e della carità, dice: " Infinitamente più grande della prudenza è la carità, non c’è alcun dubbio. Però la carità, con santa umiltà, si lascia guidare dalla povera prudenza ". Uno potrebbe obiettare: " Abbiamo la fede. Che bisogno c’è di farsi una cultura? ". No! La fede molto umilmente vuole la cultura, perché riconosce in tutto ciò che c’è di vero la voce di Dio, quella voce di Dio che ci parla naturalmente in ogni creatura. È importante non permettere che ci sia una separazione traumatica, spaventosa, tale da ferire l’animo dell’uomo, tra cultura, religione e fede. Bisogna però, per giungere a questo, avere una sapienza globale, che non esclude nulla. Purtroppo le nostre scienze fenomeniche di oggi sono completamente avulse da una visione globale dell’uomo. Ecco perché traumatizzano l’animo umano. Nella vita intellettuale bisogna rispettare molti equilibri. Perciò occorre da un lato evitare con accuratezza la parzialità della cultura scientifica e filosofica, dall’altro rinunciare agli sconfinamenti in settori non di competenza. Delle cose bisogna avere una visione globale, ma anche articolata. Una cosa è la fisica, altra cosa è la matematica; una cosa è la filosofia, altra cosa sono le scienze. Non bisogna confondere. C’è purtroppo una certa tendenza a scavalcare le parti inferiori e a legarsi troppo in fretta a quelle superiori. Bisogna invece rispettare i singoli passaggi, cioè inquadrare bene ciò che è minore e ciò che è maggiore, facendo convergere le singole parti della razionalità umana all’edificazione di una sapienziale globalità. La filosofia deve rispettare e amare le scienze, in altre parole. Quindi non solo s’ha da evitare il divorzio tra fede e sapienza umana, ma nell’ambito stesso della sapienza umana bisogna anche avere una visione d’insieme di tutti i suoi settori.

Ho notato nella vita intellettuale della nostra cara città di Bologna una tendenza (che si afferma purtroppo dappertutto, ma in particolare nei centri culturalmente insigni come Bologna per via del suo celebre Studio) a dormire sugli allori, cioè a essere soddisfatti della propria sapienza, dicendo: " Ho studiato. Non ho più nulla da imparare da nessuno ". Questo non è un atteggiamento né fecondo né umile. L’intelligenza dà testimonianza alla fede, perché entrambe hanno la profonda esigenza di farsi umili e docili. L’intelligenza è umile e docile sottomettendosi all’Essere; la fede è umile e docile sottomettendosi alla parola di Dio. Se la nostra anima è fatta per Dio, come allora potrebbe essere soddisfatta di qualche verità particolare? Con animo appassionato sant’Alberto afferma che la vita di un uomo che s’accontenta dell’intellectus possibilis non è una vita veramente umana. Per lui l’intelletto si divide in "agente" e "possibile". Questi due tipi costituiscono l’intelletto "formale", il quale può essere "simplex" e "compositus". Poi c’è l’intellectus innatus, cui s’affianca l’intellectus adeptus, cioè l’intelligenza che l’uomo acquista con lo studio. Sant’Alberto conclude: " Un’anima, che non si dedica alla cultura, non vive a livello della sua dignità umana ". Sono parole tremende, ma vere. Già Aristotele diceva che l’unica definizione plausibile dell’uomo era questa: "anima razionale". L’uomo è un essere vivente dotato di razionalità, dotato di intellettualità.

Il testamento spirituale di sant’Alberto è questo: bisogna inculcare negli uomini, soprattutto nei ragazzi, l’amore disinteressato per la verità, evitando una concezione materialistica dell’intelletto (infatti la verità non deve servire per avere un posto nella società o per svolgere questo o quel lavoro). Guai a dire " Siccome ho imparato, chiudo le orecchie, perché la mente non si riempia di troppe verità! ".

Inoltre sant’Alberto è per noi un perfetto paradigma di spirito critico. Invece la mentalità contemporanea è acritica, poiché si fonda su Kant, per il quale non è l’oggetto che determina il soggetto, ma è il soggetto (cioè il pensiero) che detta legge all’essere.

Se si rinnega il fondamento della nostra ragione, se si rinnegano i principî incrollabili di identità, di non contraddizione e di causalità, si cade in balia dei fenomeni. Allora che cosa bisogna fare? Bisogna ritornare al sano realismo della ragione e dire finalmente che la ragione, se infatuata superbamente di sé stessa, si autodistrugge e distrugge l’uomo. La ragione, al contrario, può dare agli uomini una felicità parziale su questa terra (in attesa della felicità eterna del cielo), solo se, assieme alla fede che l’aiuta, umilmente si sottomette alla dignità dell’Essere, di quell’Essere di per sé eternamente sussistente che è Dio.

Così sia.






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758] Trascrizione dell’omelia di p. Tomas Tyn
Primo sabato del mese.
Ancora sul Cuore Immacolato di Maria


Era veramente doveroso dedicare questo giorno, dato che la sacra liturgia ne dà la libertà, al Cuore Immacolato di Maria, Cuore immacolato della Vergine, Vergine che ha concepito nella fede perfetta e piena e soprannaturale ed obiettiva e sicura il Figlio del Dio vivente nel suo Cuore Immacolato prima ancora che lo concepisse nel suo grembo verginale.

Quel mistero, cari fratelli, del Cuore Immacolato di Maria, il mistero cioè di una fede integra, come di una verginità integra ed illibata. Vedete, cari fratelli, proprio in questi difficili frangenti, in queste difficili evenienze che succedono nella S. Chiesa di Dio, ebbene è cosa assolutamente necessaria richiamare alla nostra mente Colei che è la nostra speranza, Colei che è l’arca della nuova alleanza, Maria, il segno della nostra salvezza, Maria la portatrice di Cristo, Maria che ci conduce a Cristo, Maria cari fratelli che deve essere il nostro esempio, il nostro esempio sia per quanto riguarda la verginità della nostra fede, sia per quanto riguarda la pienezza della nostra carità, esempio di carità, cari fratelli.

Entrambe queste disposizioni che così perfettamente si verificavano in quel Cuore immacolato che Iddio ha scelto come tabernacolo per il suo Figlio, verginità e carità, cari fratelli, devono essere anche le disposizioni del nostro cuore per vivere pienamente e perfettamente il mistero della Chiesa, di quella Chiesa che così lucidamente, così splendidamente ci è posta dinanzi, la Chiesa Santa di Dio nella futura splendida parusia, la Madre del Signore.

Ecco cari come è bello leggere le letture, la prima lettura tratta dall’Ecclesiastico, il XXIV capitolo, dove appunto l’autore sacro ispirato dallo Spirito Santo di Dio profeticamente riferendosi a Maria e nel contempo alla Chiesa perché appunto Maria è il tipus Ecclesiae, come dice anche il Concilio, ebbene, cari fratelli dice appunto questo autore sacro ispirato da Dio parlando quasi per bocca di Maria: "ego quasi vitis fructificavi fructus odoris et suavitatis". "Come una vite ho portato il frutto".

Quante volte, cari fratelli, il Signore, sia nella Scrittura dell’antica alleanza, sia nel S. Vangelo, proprio descrive la realtà del suo popolo, del popolo di sua conquista, del regale sacerdozio del popolo santo che è la Chiesa, sia quella dell’antica alleanza, sia quella secondo lo Spirito, l’Israele nuovo secondo lo Spirito Santo, che è la Chiesa della nuova ed eterna alleanza. Vedete, il mistero della Chiesa è sempre dal Signore presentato alle nostre menti, alla nostra fede proprio in questa immagine della Chiesa orante.

È cosa molto bella vedere come anche in Maria valgono perfettamente queste parole della mistica vigna, Maria è la mistica vigna. Non a caso dice appunto quello stupendo inno della Chiesa di oriente che si chiama Akathistos: Tu sei colei, tu sei quel terreno ubertoso che coltivi il divino cultore. Vedete, cari fratelli, Maria è proprio quel terreno fecondo, verginale e fecondo nel contempo che germoglia come mistica vigna, germoglia la mistica vite.

Chi è quella vite, miei cari fratelli? Ce lo dice S. Giovanni nel suo Vangelo: "Io sono la vite, voi i tralci". Chi è dunque che nasce da quella mistica vigna se non il Cristo? Il Cristo sia Gesù, vero Dio e vero uomo, sia poi anche il mistero di Gesù che si prolunga attraverso i secoli fino alla fine del mondo, cioè i tralci che si attaccano a quella vite, i tralci che da quella vite, dalla radice di quella vite ricevono linfa vitale, cioè la grazia di Dio, la vita partecipata nella Trinità Santissima.

Ecco, cari fratelli, come Maria giustamente tramite questa immagine della vigna e della vite appare a noi come proprio come imago Ecclesiae, l’immagine della Chiesa. La Chiesa è una vigna, così anche Maria è una vigna, da Maria germoglia il Cristo, dalla Chiesa germoglia il Cristo nelle anime, madre è Maria, madre è la Chiesa, Vergine è Maria, vergine è la Chiesa, nello Spirito cari fratelli vergine è la Chiesa. Maria era vergine nell’anima e nel corpo, la Chiesa è vergine nell’anima, non sempre nel corpo, nella sua vita travagliata su questa terra, voi lo sapete, cari fratelli, non voglio scandalizzarvi con certe critiche, eppure anche dei Santi mariani ebbero delle parole belle, correttamente intese, sulla Chiesa paragonandola ad una persona virtuosissima, buona, innocente, però innocente dopo aver fatto penitenza.

Non approfondisco di più questo concetto, cari fratelli, in una maniera più attenuata S. Agostino dice che la Chiesa durante la sua vita in questa terra è un corpo misto, cioè nella sua anima, questo è il mistero così difficile, ma anche così soave e bello, bisogna che chiediamo allo Spirito Santo di Dio la grazia di illuminare le nostre menti per dare più tempo al mistero della Chiesa.

Vedete, i pagani non lo capiscono, voi ben sapete quanto il paganesimo sta dilagando in questi tristi tempi, anche dentro alla Chiesa. Sapete, ci sono i pagani i quali non capiscono questo, quando dicono: "Io credo in Dio, in nostro Signore Gesù Cristo e nei preti, nelle suore proprio non ci credo". Ora la persona del sacerdote non è certo un dogma di fede, si capisce bene, e tanto meno le virtù di persone anche consacrate. Vedete come bisogna distinguere fra la Chiesa nella santità della sua anima, perché l’anima mistica della Chiesa, invisibile, ma così forte cari fratelli, così onnipotentemente e soavemente forte l’anima della Chiesa è lo stesso Spirito Santo increato di Dio, vedete cari fratelli, allora, chi più santo dello Spirito Santo del Signore che è amore, che è purezza, che è sapienza, che è Dio stesso? Perciò nella sua anima la Chiesa è tutta santa, proprio come una sposa immacolata, senza ruga e senza macchia.

Ecco perché giustamente Maria con il suo Cuore immacolato, pieno di fede e di carità, perché Maria rappresenta così egregiamente la Chiesa. Ahimè, cari fratelli, mentre Maria è vergine ed illibata nell’anima e nel corpo, la Chiesa è tersa nell’anima, non sempre nel corpo. Dico "non sempre" perché il corpo sociale della Chiesa, dice S. Agostino, è misto di buoni e di cattivi, e certo la fede cattolica si impegna proprio in questo. Altrimenti saremmo luterani, che Dio ce ne guardi.

Voi sapete che i giansenisti e poi altre eresie insegnavano che la Chiesa non c’è ancora, la Chiesa è la comunità futura, la Chiesa ci sarà alla fine dei tempi, la Chiesa, anche quella vera, quella cattolica istituita da Gesù, la Chiesa non è ancora veramente Chiesa. La Chiesa secondo questi signori è la comunità degli eletti, ebbene no, la Chiesa è certo l’assemblea trionfante nei cieli dei Santi, degli Angeli nella gioia della Trinità Santissima, ma la Chiesa è anche quel corpus permixtum che cammina qua sulla terra lontano dal Signore in un difficoltoso pellegrinaggio, cari fratelli.

Allora vedete in questo suo corpo che è vero, non quello glorificato e risorto, ma nel suo corpo terreno, impastato da tante miserie, la Chiesa, cari fratelli, può essere ed è di fatto esposta a tante debolezze, tante fragilità, tanti peccati, se pur non è mai peccato aver il cattivo gusto dei modernisti che proprio elencano tutte le colpe della Chiesa dicendo, a differenza di quanto diciamo davanti all’Altare del Signore, si spera in buon latino: "mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa", questi tali invece dicono: "tua culpa, tua culpa", capite miei cari fratelli, le colpe sono nostre, la Chiesa di suo è santa, se poi non è santa la colpa è innanzitutto nostra, cioè di ciascuno di noi, vero cari fratelli?

Ebbene, è cosa molto importante, proprio importante notare quale sia il legame che unisce la anime alla Chiesa. Questo legame è duplice. La nostra fede, che si appoggia sulla immutabilità della parola di Dio, su quel Cristo che è sempre lo stesso ieri, oggi e nei secoli eterni, la nostra fede invero ci dice con chiarezza che duplice è la comunione con la Chiesa: tramite la fede vera e tramite la carità.

Ora voi sapete cari fratelli come il nostro bene amato Papa, il Papa antimodernista per eccellenza come S. Pio X ha scomunicato quella eresia che dice che ci può essere carità senza la fede. Pensateci bene, ci può essere purtroppo fede senza la carità, ma non ci può essere carità senza la fede. Perché ? perché la carità è molto più della fede, la carità è la perfezione della vita soprannaturale. Ora sarebbe ben assurdo avere il tutto senza avere la parte, ora capite quel che voglio dire, insomma alla logica tomistica e non solo tomistica, alla logica del buon senso appare alla luce, ebbene ai modernisti non appare, i nostri modernisti pretendono che ci sia quella carità senza la fede.

Io amo, sono in comunione con tutti, ma la fede mi vacilla, capite. E no, se io sono in comunione di carità con la chiesa, lo sono prima e innanzi tutto tramite la fede. Alla fede, cari fratelli, si oppone un peccato orrendo, il peccato che S. Tommaso chiama il peccato dell’eresia, ora è interessante che S. Tommaso dica che il peccato dell’eresia è un peccato contro la fede, perché dice che l’eretico crede ciò che gli pare e piace; dei 12 o 14 articoli di fede l’eretico dice: il 50 per cento mi va, l’altro 50 per cento non mi va. Ma sarebbe lo stesso anche se fosse l’uno per cento, anche se non è così quantificabile, anche se fosse una sola piccola, minima, ma non ci sono piccole verità di fede sapete, tutte le verità sono uguali, la Trinità e l’Immacolata Concezione, tutta parola di Dio.

Quindi se io nego anche un solo iota io ho negato tutto, cari fratelli, nella fede o si ha tutto o niente. Allora capite in questi ultimi tempi quando si scomunica latae sentetiae: io penso anche a tutti quelli che incorrono in scomuniche ereticali in cui c’è scritto "anatema sit". Vedete il concilio di Trento: "Se qualcuno dirà che la Santa Messa non è vero sacrificio incruento del nostro Signore Gesù Cristo… e via dicendo, anatema sit".

Vedete cari fratelli, quanti sono fuori della Chiesa. Il primo legame della Chiesa è il legame della fede vera. Poi c’è l’altro legame importantissimo, quello della carità. E contro la carità si pecca con tutti i peccati, perché non c’è peccato che non sia opposto alla carità, suprema delle virtù. Però in particolare si pecca contro la carità ecclesiastica con il peccato dello scisma, dice S. Tommaso, cosa gravissima, lacerare la tunica inconsutile di Cristo.

Vedete cari fratelli, in questo momento difficile noi che siamo cattolici e perciò amiamo la tradizione, perché per gli altri è una opzione facoltativa, il nostro amore per la tradizione e la pienezza della fede è un nostro dovere. Noi ci sentiamo proprio servi inutili, la nostra fede ce l’ha data il Signore, non è nostra, noi ne siamo servi e servi inutili. Non ce la siamo meritata quella grazia, vero cari fratelli? Ma che gioia nonostante le persecuzioni e le sofferenze, che gioia essere attaccati a tutto il magistero della Chiesa, da S. Pietro, anzi da Gesù stesso fino al nostro Papa che è Pietro attuale, Dio tra noi.

Vedete, cari fratelli, quindi: pienezza della fede e nel contempo pienezza della carità. Guai, cari fratelli, se la fede si allontana dalla carità e la carità dalla fede, queste due cose si appartengono a vicenda, la pienezza della tradizione appartiene a Pietro e Pietro appartiene alla pienezza della tradizione, vedete cari fratelli quale è il nostro compito, arduo e difficile, amare la tradizione per godere della fede cattolica, amare il Papa per godere della carità ecclesiastica! Ecco cari fratelli, che il Signore ci aiuti. Il Cuore Immacolato della beata Vergine ci aiuti tutti a farlo. Come è bello questo, fede è carità, entrambe le cose.

Così cari fratelli pensando alla mistica vigna, ci sono nella Scrittura questi due tipi di demolitori della vigna santa, dice infatti il salmo: "un cinghiale venne fuori per devastare la vigna del Signore", queste sono le lacerazioni esterne, che il Signore ce ne liberi. Poi dice il profeta Geremia nel suo pianto: "vulpes deambulaverunt", le volpi cammineranno per il monte santo del Signore, così, cosa interessante, anche il Cantico dei cantici, capitolo 2 versetto 15, che dice appunto: "Catturateci — dicono gli sposi del Cantico — catturateci piccole volpi che camminano per la vigna e la stanno devastando perché produce frutti velenosi".

Vedete, cari fratelli, quindi se devasta il singularis cinghiale del bosco con devastazione appariscente, devastano anche le piccole volpi che si aggirano per la vigna e che in qualche modo mordono le radici di questa mistica vigna. Vedete, cari fratelli, c’è chi vuole operare questa modernistica separazione della fede dalle sue radici cristiche. Ecco allora: che cosa dobbiamo fare ? Non permettere né che il cinghiale del bosco, ma nemmeno che le piccole volpi, che non si vedono, devastino la mistica vigna del Signore.

Maria Immacolata ci aiuti, cari fratelli. Proprio quando la Chiesa è travagliata, quando la vigna è invasa e dai cinghiali e dalle volpi, più dannose degli stessi cinghiali, noi che cosa facciamo? Facciamo resistenza e ai cinghiali e alle volpi! Va bene, cari fratelli? Nella speranza del Cuore Immacolato di Maria, perché in Maria, nel suo Cuore Immacolato c’è sia la pienezza della fede che la perfezione della carità.

Così, cari fratelli, la Chiesa, noi tutti che indegnamente facciamo parte della sposa di Cristo, dobbiamo guardare a Maria, perché ciò che la Chiesa deve essere e non è ancora, ciò che la Chiesa sarà solo nel trionfo escatologico in Cielo, questo la Chiesa lo vede già realizzato in Maria. Sursum corda, fratelli cari, guardiamo al Cuore Immacolato, speranza nostra, sicurezza nostra in questi tempi burrascosi e chiediamo a Maria che ci implori a Dio, Lei onnipotente nell’intercessione che ci implori dalla Trinità Santissima il dono della fede, piena, tradizionale e non che fa differenza di tempo, ma che crede tutto in tutti i tempi, astraendo dai tempi, perché la parola di Dio non conosce mutamenti e nel contempo che ci dia la soave Madre del Signore, che ci dia la perfezione della sua materna carità, che ci dia un cuore filiale che sappia amarla e stimarla come Madre nostra e sappia riconoscere il suo volto materno anche nella nostra Chiesa, nella santa Chiesa fondata sulla roccia di Pietro e così sia.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758] Omelia su san Callisto papa e martire
..è dedicato alla memoria di un Papa della chiesa delle origini, alla memoria del Papa e martire Callisto I .


Il suo pontificato cade nei primi decenni del terzo secolo dopo Cristo, precisamente si colloca tra gli anni 217-222, cinque anni di un relativamente breve pontificato, ma di un pontificato molto sofferto, di un pontificato molto lacerato, di un pontificato in cui si sono verificati tanti scismi e tante eresie hanno sconvolto l’urbe, la città che è la sede di Pietro, il vicario di Cristo sulla terra.

Era un martirio già il pontificato di S. Callisto, a parte poi la sua morte proprio in testimonianza alla fede. Che cosa è successo? Anzitutto dobbiamo descrivere per summa capita la vita del Santo e poi cercheremo di approfondire alcuni temi particolari. S. Callisto è stato eletto al soglio pontificio da una condizione estremamente umile, tanto è vero che era schiavo, proprio uno schiavo. Voi sapete che cosa significava la schiavitù nei tempi dell’antichità, nei tempi dell’antica Roma. Era veramente uno schiavo e però il Signore si è degnato di sceglierlo come suo vicario sulla terra.

Proprio questa sua umile condizione ha suscitato una ribellione nel clero romano contro di lui, capeggiata, questa ribellione che tanto lo fece soffrire da un altro santo, cosa curiosa vedete cari fratelli, sono ambedue santi, S. Callisto perché tramite il suo pontificato si santificò come un buon pastore del gregge di Cristo, e S. Ippolito, che era l’antipapa, vedete anche lui si fece santo, ma come si fece santo? Tramite la penitenza, perché verso la fine dei suoi giorni, esiliato assieme al Papa S. Ponziano, anche lui esiliato nell’isola della Sardegna, ebbene si pentì, rinunciò a questa usurpata carica del papato e morì riconciliato con la chiesa. Questo gesto suo di umiltà, il fatto di aver sopportato con eroica carità proprio l’esilio per la santa chiesa di Dio, ebbene anche questo gli valse la santità. Ebbene due santi che però in quel momento stavano l’uno contro l’altro. Ippolito, l’antipapa accusava Callisto calunniosamente di condurre una vita dissoluta e non solo, diceva di lui anche di favorire l’eresia del così detto monarchianismo, o anche sabelianismo, o anche modalismo, un’eresia trinitaria che non ammetteva una distinzione reale tra le divine persone. Un’eresia molto moderna in fondo, miei cari, perché se voi leggete certi trattati della teologia più aggiornata, vi rendete conto come spesso succede c’è questa stranissima sintesi del modernismo, la quale ovviamente è un’eresia come abbiamo già avuto modo di vedere irrazionale, quindi nella sua irrazionalità il modernismo cerca di sintetizzare eresie di segno opposto. Da un lato i nostri trattati più aggiornati della sé dicente dogmatica, che non merita questo nome, da un lato favoriscono l’errore dell’arianesimo, cioè il Verbo non è Dio, dall’altro lato favoriscono l’errore di Sabelio in quanto dicono che le Persone Divine non sono altro che le diverse funzioni che l’unico Dio assume nei riguardi dell’umanità lungo la storia della salvezza. Vedete la diversità modale, cioè secondo i diversi modi in cui Dio si rapporta all’uomo, Dio Creatore è Dio Padre, Dio Salvatore è il Verbo, Dio santificatore è lo Spirito Santo, ma secondo appunto questa eresia dei così detti monarchiani o Sabeliani non si distinguevano realmente le divine Persone. Questa eresia poi degenerò in modo talmente grave che si chiamò addirittura patripassianismo. Perché? Perché questi eretici sostenevano che sulla Croce non morì soltanto il Verbo, ma essendo il Verbo indistinto dal Padre, sulla Croce patì e morì il Padre stesso, patripassianismo, quindi professavano la passibilità di Dio, cioè il fatto che Dio possa soffrire e morire. Di fatto il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, non solo il Verbo Incarnato, ma anche il Padre avrebbe sofferto la passione e la morte.

Questa era l’eresia che sconvolgeva in quel momento tutta la città di Roma e non solo essa perché si è diffusa anche in altre parti dell’orbe cattolico.

Ora calunniosamente fu accusato il Papa S. Callisto I di favorire quella eresia. Ebbene era lui che si dava da fare per ergere un baluardo di sana dottrina cattolica contro il proliferare del sabelianesimo, condannandolo esplicitamente e scomunicando gli eretici, quindi fece perfettamente il suo dovere ed ha smentito così i suoi accusatori, i suoi calunniatori. Ippolito lo accusò inoltre di lassismo e si trattava della vicenda, voi lo sapete bene era una vexata quaestio che si poneva alle origini della chiesa cattolica, ebbene la difficoltà della riconciliazione degli eretici, riconciliazione dei lapsi, di coloro che si sono staccati in qualunque modo dall’unità della Chiesa, dalla comunione con la Chiesa. Come avveniva questa riconciliazione? Tramite dure penitenze, capite bene cari fratelli, quando ci penso a questi archeologismi contemporanei, a questa tendenza ad annientare la tradizione sotto il pretestuoso motivo di tornare alla tradizione più originaria. Già Pio XII con la sua straordinaria lucidità ha chiaramente bollato e denunciato questo errore, soprattutto in liturgia ed ora sappiamo bene a quali effetti ha condotto. Poi si dice per esempio: facciamo pure la Comunione in mano. Non vi dico, cari fratelli, quanto ci soffro di queste nuove disposizioni, penso che anche voi condividerete la sofferenza che Gesù non sarà più trattato che si sarebbe meritato, capite. Tanto è vero che poi proprio questo atteggiamento di porgere la Santa Comunione nella bocca dei fedeli è così bello come gesto. Vedete si blatera, scusate se uso queste parole forti, della cristianità matura, adulta, ma quella gente se fosse veramente adulta nell’adorazione del Santissimo, morirebbe di adorazione. Adorare, cosa significa? Rimanere a bocca aperta, capite cari fratelli, non a mano, lì così, a bocca aperta.

Risulta proprio dal racconto dell’ultima cena che Gesù intingeva i bocconi nel Calice e li porgeva ai suoi discepoli. E i discepoli si sentivano forse umiliati? Si sentivano forse offesi nella loro grande dignità di cristiani adulti? No, vedevano in questo gesto di Gesù quello che veramente era, un gesto di infinito amore e da parte loro corrispondevano a quella tenerezza di Gesù con una altrettanto sentita e profonda umiltà.

Ecco, cari fratelli, questa è la vera maturità dell’uomo cristiano, la maturità di uno che si fa piccolo, si fa bambino, perché di costoro è il regno dei cieli.

Non voglio insistere su questo, ad ogni modo cari fratelli, al giorno di oggi si dice: facciamo come facevano i primi cristiani. Si, ma magari facessimo così anche per le penitenze, ma di questo non si parla, si parla solo di quelle cose che fanno comodo. Ad ogni modo nelle penitenze c’erano due partiti, come voi ben sapete, c’era il partito dei rigoristi e l’altro la grande chiesa che era molto più comprensiva, che era molto più condiscendente verso i peccatori, non che il Papa Callisto che rappresentava appunto il consenso della santa madre chiesa e della sua bontà materna, non che il Papa Callisto fosse come i nostri modernisti di oggi che pensano ad un perdono senza penitenza, quindi la penitenza comunque c’era, si trattava di determinarne appunto la misura. Su questo punto sorse una grande tensione tra il Papa Callisto e l’antipapa Ippolito. Istituì, vedete che era un Papa che amava la penitenza e che cercava di santificare il popolo cristiano tramite queste volontarie rinunce, istituì il Papa Callisto i tre sabati dell’anno come giorni di digiuno, quindi fissò dei giorni particolari in cui i fedeli dovevano fare particolare e più profonda penitenza. I documenti del IV secolo lo annoverano tra i martiri, quindi abbiamo anche delle notizie relativamente antiche riguardo la sua morte di martire.

Ora cari fratelli, dopo questi brevi cenni alla vita di Papa Callisto, proviamo a meditare alcuni temi fondamentali. Che cosa significa per noi cristiani di oggi questa tensione tra il Papa legittimo, S. Callisto I e l’antipapa Ippolito? In fondo Ippolito fece una rivolta, uno scisma, di natura decisamente elitaria, pseudoaristocratica, cioè Ippolito si risentì che lui segretario dell'antecessore di S. Callisto, uomo dottissimo, è vero, se voi andate a visitare i musei vaticani, vedete un reperto interessantissimo, cioè la statua di un pensatore, di stile romano tardivo, su una cattedra dove c’è in greco un elenco dei suoi scritti ed è appunto la statua di S. Ippolito, antipapa allora appunto ai tempi di S. Callisto. Ebbene uomo intelligentissimo, uomo che si dava arie di elitarismo, per così dire, e che suscitò per questi motivi di rigorismo, di purezza evangelica, di coerenza con la vita della fede, suscitò uno scisma. E’ curioso, cari fratelli, voi potreste dirmi : se era uno scisma isolato, poca gente lo seguiva. No, il clero e il popolo romano si sono spaccati in due parti. Quindi era uno scisma molto, oserei dire, popolare. Allora mi ha fatto molto pensare questo fatto che una ribellione pretesa elitaria suscita tante simpatie popolari ed oserei dire democratiche. Come mai, cari fratelli ? Che stranamente in un clima di irrazionalità e di fideismo puristico, il culto del mago intelligente, iniziato ad arcani misteri è più coltivato che mai. Come mai, cari fratelli? Non vedete il quadro della nostra epoca? E’ esattamente tale e quale. Cosa interessante Chesterton ebbe ad osservare rispetto a quel mito niciano del superuomo, a questa adorazione degli eroi, a questa adorazione dell’uomo forte, ebbene diceva Chesterton molto giustamente, con molto spirito cristiano : è forse una cosa umanamente comprensibile invocare l’uomo forte, l’uomo deciso della situazione, però una cosa non deve rimanere oscura, una cosa deve essere assolutamente chiara, cioè che non sono i personaggi forti che adorano l’uomo forte, paradossalmente sono proprio i deboli, i vili cari fratelli, che invocano il personaggio che poi porterà l’ordine. Quindi questa adorazione del superuomo in fondo non significa forza da parte degli adoratori, significa semplicemente la debolezza dei loro nervi, osserva giustamente Chesterton. E’ Verissimo. Notate che questo culto del superuomo, culto squisitamente pagano ed anticristiano è molto diffuso, è molto popolare, capite cari fratelli, è molto democratico. In sostanza paradossalmente, come vedete, ogni democrazia come ebbe già ad analizzare Platone, ogni democrazia tramite l’anarchia conduce alla tirannide, cioè alla prepotenza dell’uomo che si afferma invocato da tanti altri deboli che si mettono ad adorarlo. Noi esattamente stiamo vivendo in questo clima.

Chi è poi oggi l’uomo forte? Sono gli intellettuali, capite cari fratelli, gli intellettuali dichiarati tali da chi? Creati ex nihilo, miei cari, se fosse possibile, ma quasi, poco ci manca, creati ex nihilo dai giornalisti, cari fratelli, quell’incensarsi gli uni gli altri, come dice Gesù, voi vi date la gloria gli uni agli altri. Come è vero! L’intellettuale della situazione. Vedete al giorno di oggi è la stessa superbia di Ippolito che si oppone a quel povero ignorante, quel povero schiavo che era il Papa Callisto, che il Santo Padre mi perdoni, ma si può dire quello che si dice di lui in questi paesi tutti modernisticamente sovvertiti, si dice: si, è un povero curato che non capisce niente della nostra cristianità occidentale aggiornata alle ultime acquisizioni della teologia più raffinata. Esattamente quello che diceva Ippolito ai tempi di S. Callisto. Da dove deriva questo culto così poco intellettuale dell’intellettuale? Deriva appunto da questo clima di irrazionalità in cui gli intellettuali non sono più controllati, cioè non c’è più nessuno che possa sondare la loro intellettualità, se è vera o no, se sono veramente al servizio della verità o se sono al servizio del volgo. Vedete cari fratelli, pensate solo alla lettera dei 163 autodichiaratisi intellettuali, se voi leggete i loro scritti è proprio una cosa meschina ed obbrobriosa, non in tutti, bisogna differenziare, ci sono quelli più intelligenti, se andate a leggere Ranel è un uomo molto intelligente, perciò stesso molto pericoloso. Ma se andate a leggere un Ting, Hans Tin…vi viene da ridere perché sono cose anche scientificamente inconsistenti. Allora chi li nomina intellettuali? Il giornalismo, e la massa li segue, perché oggi quello che è importante è essere contestatori, la conformità del non conformismo, chi è con il Papa è considerato come un servo, come uno schiavo, invece questi intellettuali autodichiaratisi tali sono all’avanguardia delle masse che marciano verso i luminosi futuri. Capite, cari? Allora sono dei "deman", dei pagliacci, scusate se lo dico, lo dico proprio perché l’intellettualità mi sta tanto a cuore, ma vedete l’intellettualità vera è l’intellettualità classica, non soggettivisticamente sovvertita, è l’intelletto che si mette a servizio della verità e mettendosi in ubbidienza alla verità si sottomette in ultima analisi a Dio. Invece il pensiero reso libero, rivoluzione francese, liberi pensatori, il pensiero resosi libero, è libero nel senso che è in balia di tutti, il pensiero manipolabile per eccellenza. Provate a studiarlo e vedrete come i nostri liberi pensatori, proprio perché non credono ai dogmi, proprio perché non credono al principio di identità, perché non credono al principio di non contraddizione, alla logica e la logica è sempre dogmatica, non critica, proprio perché non credono alla ragione, proprio per questo, cari fratelli, diventano manipolati da qualsiasi potere, soprattutto dal potere delle masse, che è il potere più tirannico che ci sia. Demagogo, come nell’antica Grecia, i sicofanti, che erano al servizio del primo arrivato. Che cosa obbrobriosa, cari fratelli!

Quindi giustamente il nostro caro, caro arcivescovo, il nostro cardinale, che gioia averlo sentito in questa omelia stupenda su S. Petronio, la rivoluzione francese, che cosa ci ha regalato? La ghigliottina e le stragi di stato, verissimo. Ancora peggio, ci ha regalato, perché poi questi signori dicono, ma poi bisogna vedere che la rivoluzione francese ha dato adito all’uomo moderno, certo, sospettavo io che mostruoso deve essere il parto di quel mostro che è l’uomo moderno. La rivoluzione francese davvero è un mostro, spiritualmente, non solo negli effetti esterni, la ghigliottina le stragi, anche quello fa ribrezzo, ma spiritualmente. Da lì, cari fratelli, che deriva quella polmonite, come ebbe a dire anche il nostro Cardinale, una bella analogia di proporzionalità che fece dicendo : in fondo il razionalismo sta alla ragione come la polmonite sta ai polmoni. Non è il razionalismo che coltiva la ragione, è il razionalismo che rinnega la salute della ragione.

Allora, cari fratelli, voi che siete, come dire, immuni da questi pericoli del soggettivismo, prendete quei nostri intellettuali per quello che veramente sono, non si meritano altro, prendeteli per quello che sono, dei pagliacci, dei servi, non di Dio, cari fratelli. Quando non si serve Dio, si servono degli esseri da poco, generalmente succede questo.

Infine cosa interessante che tutte le riforme ereticali si ispirano al turismo: bisogna cambiare la chiesa, bisogna renderla più pura, più evangelica, più povera. Questo era il blaterare di V….., di Giovanni Huss, era quello di un Lutero, di un Pietro Valgo, così dicevano gli Albigesi, tutti, tutti gli eretici pressappoco prendevano occasione del loro errore richiamando la Chiesa alla purezza evangelica. Pensate solo al fenomeno dei giansenisti, vedete cari fratelli dove finisce questa coerenza disincarnata, questa coerenza che vorrebbe essere coerente solo con lo spirito, divorziando per così dire lo spirito dalla concretezza della storia umana, dalla concretezza della società in cui viviamo, dalla concretezza dei segni sacramentali. I giansenisti, lo sapete bene, hanno un profondo, inveterato odio contro tutto ciò che è segno esterno, segno sacramentale, devozione a Maria Santissima, devozione ai Santi. Perché? Per purezza evangelica. Loro adorano solo lo Spirito. Pensateci bene, cari fratelli, le due rivolte, una del ‘500, Lutero e il rinascimento, pensate poi al giansenismo abbinato all’illuminismo con tutte le conseguenze edonistiche che ne scaturiscono. Si verifica ancora una volta quello che diceva S. Paolo: quegli eretici che si dimenticano il Cristo umile e Crocifisso in mezzo a noi, il Verbo Incarnato, questi eretici, che sembrano esaltare lo spirito, finiscono poi malamente nella carne.

Vedete, cari fratelli, è così, quando si disincarna lo spirito di Dio da questo mondo, il mondo ripiomba nella sua immanenza e il mondo si dispera.

Bisogna allora, cari fratelli, che chiediamo al nostro festeggiato di oggi il Papa S. Callisto, bisogna tornare alla saggezza della Chiesa di sempre, che era tanto vigorosa nei punti di dottrina e tanto misericordiosa verso i peccatori. Vedete proprio questo oggi l’abbiamo perso, la dottrina non importa a nessuno, ciascuno creda a quello che vuole, purché sia coerente. Ma coerente con che cosa, se non c’è una dottrina ben definita? Ebbene torniamo alla saggezza della chiesa di sempre, alla saggezza di quella chiesa che si premura anzitutto di definire i dogmi, poi esorta i cristiani a vivere secondo la loro fede e là dove non riescono, ebbene li abbraccia ancora come una tenera madre che abbraccia i suoi figli che hanno sbagliato per riconciliarli con Dio e così sia.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758]  Omelia sui santi Simone e Giuda
(28 ottobre 1989 - ultima omelia registrata)


Vangelo secondo S. Giovanni 15,18 e seguenti.
"Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" (e seguenti).

Cari fratelli e sorelle in Gesù Cristo Signore e Salvatore nostro, quest’oggi la Santa Chiesa si rallegra nella festa dei Santi apostoli Simone e Giuda. Le notizie che abbiamo di questi due insigni principi della Santa Chiesa, di quelle colonne sulle quali poggia l’edificio spirituale fondato dal divino Redentore, le notizie che abbiamo di questi due grandi apostoli di Cristo sono molto scarse. Sappiamo che Simone era soprannominato anche lo Zelote e Giuda si chiamava anche Giuda Taddeo. Sappiamo che Giuda era anche detto fratello di Giacomo (probabilmente Giacomo minore) e sappiamo infine dalla storia ecclesiastica che come quasi tutti gli apostoli, anche i Santi Simone e Giuda hanno sigillato la loro predicazione di Cristo Signore con il loro sangue, imitando così il Re dei Martiri.

Che bella cosa allora, cari fratelli, meditare su quel testamento, su quella consegna che Gesù fa ai suoi discepoli, ai suoi apostoli, mandandoli nel mondo intero e dicendo a loro con la sua intimità, con la sua verità, perché Lui che è la verità non ci può dire nulla di falso, non ci nasconde nulla, cari fratelli, ci dice tutto. Gesù ci dice: ecco, io vi mando come agnelli, come pecore in mezzo a dei lupi! E’ terribile questo dire. Il mondo è agguerrito, il mondo è ostile, il mondo è fatto di lupi e i lupi sbranano. Che cosa devono fare gli apostoli? Devono essere come degli agnelli. E’ difficile, cari fratelli, ma tutto il cristianesimo si cela in questo, nella vittoria stupenda dell’amore del Redentore sull’odio del mondo. Abbiamo fiducia! Io ho vinto il mondo. Il mondo, cioè il dominio del maligno, dell’infernale nemico, il mondo che soggiace alle leggi nemmeno mondane, alle leggi infernali, ebbene quel mondo, cari fratelli, è stato vinto da Gesù, dal regno di Lui e del Padre suo, dal regno di amore.

Ecco perché Gesù nel suo testamento, nel XV capitolo del Vangelo di S. Giovanni dice anzitutto ai suoi discepoli: "questo vi comando, questo è il mio mandato, che voi vi amiate reciprocamente". E Gesù stesso pone la misura dell’amore reciproco dei cristiani nell’amore con il quale Lui ci ama: "amatevi gli uni gli altri" dice il Signore "come Io vi ho amato!". Che grande cosa, cari fratelli, che grande cosa l’amore di Gesù, l’amore infinito, l’amore che noi, poveri esseri umani, con il nostro piccolo cuore umano, dobbiamo imitare l’amore di Dio, un amore infinito, un amore sconfinato, un amore che sommerge ogni male nell’infinità del suo bene.

Cari fratelli, è così difficile questa via, però questa è l’unica via per imitare Gesù, questo è il suo testamento, questa è la sua precisa volontà, che ci amiamo gli uni gli altri come Egli ci ha amato.

Dobbiamo allora meditare l’amore di Dio. Anzitutto cari fratelli, sull’amore si deve parlare di quella santità, perché è una delle parole più sante che ci siano, perché la parola Amore è un nome di Dio, uno dei tanti nomi con i quali Dio viene denominato, ma uno dei più appropriati. S. Giovanni dice semplicemente "Dio è amore". Tutta la Trinità Santissima è amore, ma in particolare, fratelli cari, sappiamo che spetta essere amore a Colui che è il nesso del Padre con il Figlio, allo Spirito Santo, allo Spirito Signore e Datore di vita. Lo Spirito Santo è amore, amore del Padre e del Figlio. Un nome santo quindi quello dell’amore, un nome santo che non va profanato. Non va profanato soprattutto dalle menzogne mondane, perché il mondo soggiace a colui che è il menzognero sin dall’inizio. Vedete, cari fratelli, il modernismo che noi amanti (non per merito nostro, ma per grazia di Dio) della tradizione della Santa Romana Cattolica Chiesa, quello che noi deploriamo è anzitutto quel fenomeno devastante della Santa Chiesa, il fenomeno del modernismo ovvero la mondanizzazione della Chiesa. Ecco, cari fratelli, sarebbe quasi da dire: la satanizzazione della chiesa, capite come è grave quella parola, è terribile, perché il mondo appartiene al principe del male, della menzogna. Ma io stesso non oserei dire queste parole. Perché le dico? Perché il sommo pontefice Paolo VI ebbe a dire: "per qualche fessura il fumo del demonio è entrato nel tempio di Dio" Nel tempio di Dio Padre! il fumo del demonio, ecco la mentalità mondana.

Ecco cari fratelli, come la parola amore, la più santa, si tende a mondanizzarla, cioè a parlare dell’amore cristiano come fosse un amore profano qualsiasi. Sullo stile, per rendermi comprensibile subito, sullo stile un po' dell’americanesimo, sullo stile "I love everybody", io amo tutti, no cari fratelli, sullo stile della tolleranza ad oltranza, io vivo e lascio vivere gli altri. E’ Questo l’amore? Esiste l’amore, cari fratelli, fondato sull’assenza totale della verità? No, no. L’amore sì che deve riversarsi su tutti, assolutamente su tutti, senza eccezione alcuna. In questo senso l’amore cristiano è veramente universale. Ma non è universale nel senso che tutto mi vada bene, capito quello che voglio dire? Di qualsiasi cosa si faccia bisogna soprassedere, no.

L’amore è amore della verità, adesione terribile, tragica, invincibile, oserei dire che l’Amore è una crocifissione, capite cari fratelli. [con le mani aperte si mette simbolicamente sulla Croce]

"Il mio Amore è stato crocifisso" dice S. Ignazio di Antiochia. Gesù, Gesù è l’amore completo, l’Amore del Padre per il mondo, Gesù è crocifisso, legato, a quel legno della Croce, a quell’altare del sacrificio. Vedete cari fratelli la menzogna mondana, la libertà dell’amore, l’amore se è libero, è menzognero, l’amore vero è un amore che si lega. L’amore vero è un amore che si crocifigge. [urla e fa lo stesso segno di crocifissione di prima].

Avete capito, cari fratelli? Vedete allora la distinzione? Non basta parlare di amore, amore, amore, amore: tutti i modernisti hanno la bocca piena di amore, amore, amore, non abbiamo bisogno di verità, di insegnamenti, di dottori, no, abbiamo bisogno di amore, di volerci bene. Non è questo l’amore vero, no. L’amore ha un nome preciso: Gesù! E questo Crocifisso! E a Lui dobbiamo rendere, a Lui dare testimonianza, come i Santi Apostoli che nella lontana Persia hanno versato il loro sangue in testimonianza alla parola del Vangelo. Avrebbero potuto benissimo evitare. I nostri modernisti pluralisti avrebbero dialogato, avrebbero detto: vi sono argomenti validi, le religioni attuali, bisogna avere stima dei fratelli separati, non separati, lontani, vicini dialogare con tutti. Il martirio non ci sarebbe stato.

Invece gli Apostoli sono andati lì per amore, a predicare che cosa? La verità! La verità di Gesù. Ecco, cari fratelli, non sfuggite anzi tutto quella prima profanazione gravissima del nome santo dell’Amore che è il tentativo di fondare l’amore sull’uomo, mentre il vero amore è fondato sulla verità. Il vero amore non si sente mai libero, ma si sente sempre legato, si sente crocifisso con Gesù.

Allora, detto questo, bisogna anche dire che noi dobbiamo in Gesù, in vista di Lui, per condurre le anime a Lui, l’unico Salvatore delle anime nostre, in vista di Lui nessuno deve essere escluso dal nostro amore. Il segno dell’autenticità dell’amore cristiano è proprio questo: esso non esclude nessuno. L’amore umano, nella piccineria del nostro cuore, siamo creati, siamo creature finite e quindi il nostro amore umano, (è vero, poi alla luce della grazia tutto quello che è valido anche su un piano naturale viene sublimato e santificato) l’amore umano è un amore selettivo, affinità elettive, anche l’amore, anche quello più benevolo e disinteressato, a livello umano, è selettivo. I nostri amici ce li scegliamo, siamo contenti di farlo, è una bella cosa. Nel cristianesimo, nell’amore cristiano i nostri amici sono gli amici di Gesù. I nostri amici non ce li scegliamo, i nostri amici ce li ha scelti Gesù. E chi sono gli amici di Gesù? S. Giovanni dice giustamente : "amicus amico, amicus". Se io ho un amico e se sono anche emotivamente ben disposto, se non vi sono anomalie anche su un piano umano, gli amici del mio amico diventano immediatamente anche amici miei. Ora se io sono amico di Gesù, tutti gli amici di Gesù sono amici miei. E chi mai è escluso dall’amore di Cristo? Nessuno, per tutti Gesù ha versato il Sangue della Redenzione.

Allora il primo comandamento, cari fratelli, che ci amiamo gli uni con gli altri. E poi Gesù, come prevedendo il dubbio dei discepoli, il dubbio atroce, il dubbio che ci rende deboli, che ci toglie il fervore dell’amore soprannaturale della carità, Gesù prevedendo questo dice: "non spaventatevi, se il mondo vi odia". Voi cari fratelli, lo sperimentate da voi stessi, come l’amore viene ripagato con l’odio, come il perdono viene ripagato con rinnovata malizia, noi amiamo e il mondo ci odia. E’ più facile odiare, voi lo sapete bene, è più difficile costruire che distruggere, in questo senso noi ci sentiamo deboli e sfiduciati. Il mondo e il principe di questo mondo, sembra che siano più forti di noi, sembra che abbiano già la battaglia vinta. Allora Gesù incoraggia i suoi discepoli, dice: "quando il mondo vi odia, non spaventatevi, è cosa normale. Sappiate però che il mondo prima di aver odiato voi ha odiato me, priorem me odio habet". Stupende queste parole. Il mondo, prima ancora di odiare i discepoli, ha odiato il Maestro. Quale consolazione, cari fratelli per noi! Capite, di essere odiati proprio da quel mondo che se la prende anche con Gesù, vuol dire che siamo dalla parte giusta, che siamo amici del Signore. Se uno è amato dal mondo, dice la Scrittura, non può essere amico di Dio, è chiaro. A differenza del modernismo che pretende una universalità diciamo così, uniforme, il Vangelo è molto chiaro sulle scelte della fede: o con il mondo contro Dio, o con Dio e allora odiati dal mondo.

Voi sapete bene che c’erano dei santi che si preoccupavano davvero della salvezza dell’anima e un segno di santità e di bontà, quando il mondo se la prende con voi. Bisogna rallegrarsi, lo dice Gesù stesso: "Esultate, rallegratevi perché allora i vostri nomi sono scritti in cielo". Così hanno fatto anche ai profeti, questi tali che perseguitavano i profeti, così hanno fatto anche alla stessa divinità. Così, cari fratelli, se il mondo ci odia, non spaventiamoci, il mondo prima ancora ha odiato Gesù. Per prima sia in senso temporale, ma anche per "prima" in senso oserei dire strutturale, nel senso dell’intensità, con maggiore odio il mondo ha odiato Gesù.

Noi siamo ben poca cosa dinanzi a Gesù, bisogna dirlo con chiarezza, ma abbiamo almeno una remota partecipazione di quel grande amore, che in Gesù era pienezza. S. Tommaso dice: quell’amore che in Gesù c’era per essenza, in noi c’è per qualche remota partecipazione. Ora così siccome il mondo come un branco di lupi, se la prende con il Santo, Gesù era infinitamente odiato. E come rispondeva Gesù a questo odio che abbiamo detto? Amando.

Allora Gesù ce lo dice chiaramente: "quia de mundo non estis, poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, propterea ..per questo il mondo vi odia". Se il mondo si accorgesse che c’è della mondanità in noi, il mondo amerebbe quello che è suo. E’ chiaro: semper similis cum simili, come si dice, le amicizie suppongono sempre una certa similitudine, una certa affinità fra le parti. Quindi se il mondo si accorgesse per il suo istinto malefico e perfido, se il mondo si accorge immediatamente che quella persona è mondana, allora la ama. Invece se il mondo si accorge che quella persona è stata strappata al mondo, non trova nulla simile a sé in quell’anima.

Come è bella questa parola: "Io vi ho scelto" (non abbiamo tempo, abbiamo trasgredito come sempre i limiti del tempo) . Comunque fratelli, vi lascio con questo pensiero, cioè Gesù ci dice "Io vi ho scelti dal mondo". Quindi dinanzi a questa nostra apprensione, questa nostra debolezza, questo nostro venire quasi meno davanti all’odio del mondo, quel preoccuparci, quel dire: "ma perché il mondo se la prende tanto con noi? Perché dobbiamo soffrire tanto, perché siamo sempre perseguitati? Perché, perché!" Gesù ci dice "non preoccupatevi. Questo accade perché io vi ho strappati al mondo", e quell’essere strappati al mondo è una vera liberazione, è un privilegio, è un immenso beneficio del Salvatore. Quindi non ci lamentiamo, ( perché un po’ di mondanità l’abbiamo anche noi e ci lamentiamo) non scendere a patti con il mondo, essere amici del mondo e quando il mondo ci osteggia, si dice : no, io vi ho scelto dal mondo.

Cari fratelli, che grande privilegio! Gloriamoci allora cari fratelli. Bisogna allora che noi, che abbiamo la grazia, non il merito, la grazia in verità di amare la Santa Chiesa Cattolica nella purezza della tradizione, cari fratelli, noi dobbiamo lasciarci odiare dal mondo e gloriamoci di questo. Mentre siamo odiati è bello amare e perdonare, ma amare sempre non nel vacuo della menzogna pluralistica, ma nella determinatezza dell’unica, cattolica verità, della verità di Gesù Crocifisso, unico Salvatore e Redentore del mondo.
Amen


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/11/2012 12:54
 
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[SM=g1740758] Omelia sui Santi Innocenti. Martiri del I secolo
28 dicembre


Caratteristiche del Martirio

Il martirio vero non può verificarsi se non nella piena e sincera adesione alla fede cattolica. Tre sono le dimensioni del martirio. La prima è quella della fortezza, la seconda è quella della fede, la terza è quella della carità. In primo luogo la fortezza. San Tommaso d’Aquino, insistendo sulla necessità della carità nel martirio e richiamando le parole di san Paolo "anche se dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova" (1Cor 13, 3), dice che nel martirio la carità è la virtù imperante, mentre la virtù imperata (quella virtù che compie l’atto del martirio) è la fortezza. Una virtù obliata in questi tempi e soprattutto travisata. Per la tendenza al pacifismo oggi si proclama la non violenza in assoluto come un valore a sé stante, mentre noi sappiamo bene che la non violenza in sé non è un valore, dipende dalle circostanze, poiché c’è una violenza giusta e ovviamente c’è una violenza ingiusta. Quindi bisogna dimostrare come la fortezza, che comporta certamente anche una certa aggressività ed un certo uso della forza, possa essere una virtù morale. San Tommaso dice che il compito della fortezza è quello di rendere l’uomo stabile, perseverante nella virtù, nel bonum honestum, quindi nel bene assoluto, anche davanti alle minacce di morte. L’uomo forte non è semplicemente colui che persevera, ma è precisamente colui che esercita la virtù della fortezza in tutte le sue sfumature e accezioni, davanti ai mali sia maggiori che minori. La fortezza e il coraggio non hanno valore di virtù se non perseverano nella verità, nel bene morale obiettivo e nel bene soprannaturalmente rivelato da Dio. La fortezza, e in particolare la fortezza eroica dei martiri, si collega strettamente con l’adesione alle verità di fede. San Tommaso, fondandosi sulla sapienza degli antichi, in particolare di Aristotele, dice che Dio diede alla dimensione sensitiva dell’uomo le passioni, che sono delle disposizioni fondamentalmente buone, ma devono essere moderate dalla virtù, dalla ragione. Le passioni che s’accompagnano alla fortezza sono due: l’audacia, che aggredisce il male per eleminarlo, e il timore, che fugge davanti al male. La fortezza, sia sul piano naturale dei valori umani, sia sul piano soprannaturale, presenta sempre questo duplice aspetto di aggressione e di fuga. Bisogna moderare l’audacia, per perseverare davanti alla minaccia del male senza pretendere di eliminarlo. Occorre poi reprimere la passione del timore per essere pazienti. Là dove non si può evitare il male, bisogna sopportarlo, con razionalità, con fiducia, con perseveranza.

Entrambi i lati della fortezza (sia la sua aggressività, sia la sua disponibilità a patire là dove il male è inevitabile) sono virtuosi e buoni. Tommaso tuttavia dichiara, molto giustamente, che l’aspetto più eroico della fortezza è quello della pazienza, senza tuttavia escludere, come fanno i nostri pacifisti, l’aspetto della moderata aggressione. L’aspetto della pazienza prevale nettamente, perché la fortezza dà all’uomo una certa stabilità davanti ai mali difficili da combattere. È più difficile — continua san Tommaso — sopportare a lungo il male, che aggredirlo per debellarlo e rimuoverlo. Quindi la pazienza prevale sull’aggressività. Ecco perché il vangelo ci consiglia di non opporre resistenza al male, consiglio travisato dai nostri contemporanei i quali affermano che il non resistere al male vuol dire lasciarsi calpestare nei propri diritti e lasciarsi schiaffeggiare. Ma è questa la pazienza? No, cari fratelli, non è questa la pazienza. Perché? Perché il vangelo è delicato e va spiegato non con la rozzezza della nostra privata interpretazione (come dice san Pietro in 1Pt 1, 20-21), ma alla luce della tradizione di santa romana Chiesa, unica interprete autentica del vangelo. La Chiesa dice che Gesù nel vangelo differenzia accuratamente i precetti dai consigli.

San Tommaso usa un’espressione stupenda quando afferma che il vangelo, essendo legge della perfezione, è legge della libertà dei figli di Dio. Perciò il Signore si contenta di riconfermare la legge: " Sono venuto non per abolire, ma per dare compimento " (Mt 5, 17). La legge non è abrogata, ma è ribadita dall’autorità divina del Salvatore. Gesù ci dà consigli non per fare ciò che è doveroso e necessario, ma per fare sempre di più. Questa è la generosità della carità, che non si accontenta di poco, ma che ha uno spirito di supererogatorietà (così la chiama san Tommaso), giacché tende a una perfezione sempre maggiore.

Quindi si capisce perfettamente come l’etica individuale del vangelo sia insopportabile per l’uomo di oggi, che è collettivista e mal tollera la sua libertà. Per essere perfetto, devo avere la virtù della pazienza, devo subire il male, non devo opporvi resistenza. Che generosità, che bellezza, che nobiltà spirituale nel rinunciare ai propri diritti, cari fratelli! Gesù ce lo dice chiaramente: " A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra " (Lc 6, 29). Perfezione stupenda. Tuttavia ciò non toglie il diritto alla legittima difesa. Chi rivendica il suo diritto è nel giusto. Ma anche chi rinuncia al suo diritto fa bene. Perciò il vangelo ci consiglia di essere pazienti, di non resistere al male. Alcuni, non riuscendo a capire che si tratta di un’etica soprannaturale e individuale, biasimano questo consiglio con argomentazioni sociali, naturali e politiche. Ora affermo, in termini un po’ paradossali, che è non solo lecito, ma anche molto lodevole porgere la propria guancia. Tuttavia guai a me se porgo la guancia al carnefice del mio fratello! Io posso rinunciare al diritto che è mio, proprio perché è mio, ma se rinuncio al diritto del mio fratello sono ingiusto e, se sono ingiusto, non posso considerarmi caritatevole. Se lo facessi, si tratterebbe di carità menzognera, non autentica, inesistente. La carità non toglie di mezzo la giustizia, ma riconferma le sue esigenze. Perciò sul piano sociale, naturale e politico, là dove sono in ballo diritti non miei, ma di tutta una comunità, di tutta una nazione, persino di tutta la Chiesa, questi diritti vanno ribaditi con estrema chiarezza, con severità e anche con aggressività (che come s’è detto è una passione della fortezza). Spero di aver chiarito la distinzione.

La seconda dimensione del martirio è quella della fede. Mi limiterò soltanto ad alcuni aspetti della questione. San Tommaso dice che l’oggetto specifica l’atto e l’abito della virtù. Quindi dall’oggetto la virtù prende la sua definizione, la sua essenza, la sua struttura. Ora l’oggetto della fede è la verità rivelata da Dio. La fede illumina la nostra ragione. Nella fede possiamo capire — sia pure in minima parte, perché adesso vediamo solo come in uno specchio e non ancora faccia a faccia — a quale eccelso compito è destinato dal Creatore il nostro intelletto. Nella nostra epoca apparentemente intellettualistica s’assiste invece allo spaventoso avvilimento della facoltà intellettiva. Pensate al soggettivismo, al relativismo, all’indifferentismo... L’uomo moderno ha perso il gusto di dire: "questo è vero, questo è falso". È un gusto squisitamente evangelico, perché il Salvatore dice: " Sia il vostro parlare sì, sì o no, no; il di più viene dal maligno " (Mt 5, 37). Sono parole tremende. Qui si vede da che parte viene il soggettivismo e il relativismo moderni. Bisogna dire con chiarezza che l’uomo ha accesso alla verità. E la verità rivelata ci obbliga moralmente. Bisogna sottomettere l’intelletto alla verità.

È chiaro allora che non ci sono màrtiri se non cattolici. Gli altri non possono pretendere la gloria del martirio. Hanno coraggio, questo sì, senz’altro. Sono anche ammirati. Ma se non c’è testimonianza data alla verità, non c’è martirio. Questa è la stoltezza dell’uomo moderno, il quale da relativista non vede l’obbligatorietà e la normatività della verità e dice: " Sì, sono màrtiri i cattolici, ma sono màrtiri anche gli altri ". Non è così. Bisogna stare nella verità con fortezza e con perseveranza.

La fede poi sostiene le stesse verità naturali dell’intelligenza umana. Insomma la fede necessariamente deve diventare anche una cultura umana, naturale, sul piano sia individuale sia sociale e politico.

La terza dimensione del martirio è quella della carità. La carità senza la verità non è carità. San Tommaso dice con chiarezza che questo dipende dalla struttura stessa delle facoltà umane. L’intelletto precede la volontà. Non intendo dire che la volontà non abbia qualcosa di suo che si aggiunge all’intelletto (questo è innegabile). Quello che voglio affermare è che, affinché la volontà sia corretta, deve aderire non alle sue fantasie e ai suoi capricci, ma a quello che l’intelletto le presenta come verità obiettiva e certa. Non si può dire: " Quella persona non ha fede, però è tanto caritatevole! ". Semmai si potrà dire che quello è un filantropo. Però tra filantropia e carità c’è una differenza abissale. L’amore naturale, pur essendo giusto, edificante e bello, non salva. Invece l’amore soprannaturale è una partecipazione alla terza persona della santissima Trinità. Dio ha effuso nei nostri cuori la carità che si fonda sulla verità e non su qualsiasi verità, bensì sulla verità soprannaturale, certa e obiettiva dell’amore.

Preghiamo i festeggiati di oggi — i bambini innocenti fatti uccidere da Erode alla nascita di Gesù — che intercedano per noi dal cielo affinché ci sia data sì l’audacia, sì la carità, ma soprattutto la fermezza, la gioia, l’obiettività e la sicurezza della verità e così sia.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758] Omelia su san Raffaele Arcangelo
Essere per Essenza ed essere per Partecipazione. Creazione e natura degli Angeli.


Oggi 24 ottobre la liturgia dei tempi antichi prevedeva una memoria particolare di san Raffaele. Perciò penso che la festa odierna, che tributa un onore particolare a questo Arcangelo, uno dei sette che stanno davanti al volto del Signore, ci sproni a meditare anzitutto sulla bontà, sulla misericordia e sulla grandezza di Dio onnipotente, il quale manifesta la sua bontà e la sua perfezione. Cari fratelli, Dio è pienezza dell’essere, non è causato da un altro essere superiore ed è la causa causante incausata di tutte le cose. La pienezza dell’essere non può ricevere altro essere da altri. Dio è l’oceano dell’essere, come dicevano i Padri della Chiesa. San Tommaso scisse: "Deus est actus purus essendi". Dio è l’atto puro dell’essere. Perciò Dio non può essere causato.

C’è un altro punto su cui dobbiamo riflettere: Dio, se da un lato non può essere causato, dall’altro non è tenuto a causare. Molti pensatori hanno affermato che Dio è quasi obbligato a creare l’uomo. Pensate per esempio all’emanazionismo dei neoplatonici; pensate più di recente al sistema hegeliano. Hegel ha osato affermare che "senza il mondo, Dio non sarebbe Dio". Questa prospettiva sembra obbligare il Signore a creare il mondo. Invece il dogma cattolico e la sana ragione metafisicamente approfondita ci dicono che Dio, pienezza dell’essere, è sovranamente libero nel chiamare all’essere le cose che non sono, come dice anche san Paolo apostolo nella Lettera ai Romani. Le cose prima della loro creazione non sono. Dio ex nihilo le pone in essere, ossia dal loro non-essere, senza alcun oggetto preesistente, le pone in essere e in tutto il loro essere. Il loro essere quindi non è assoluto, come Dio che è l’Essere per essenza, l’Ipsum Esse, essere sussistente, come dice San Tommaso, ma è solo l’essere per partecipazione, essere ricevuto da Dio, per comunicazione della Cosa prima, che è Dio. La creazione non ha altro motivo se non la sovrana libertà del Signore. Ma anche la libertà di Dio non è una forma di arbitrio indifferente rispetto al bene e al male, bensì è motivata, è finalizzata, si innesta nella perfezione della finalità. Nonè indifferente il bene dal male, così che Dio possa scegliere il male, ma è indifferente solo nel bene, così che Dio può scegliere un bene anziché un altro. Cosa vuole Dio? Non certo un bene da cui egli debba dipendere, ma un bene che egli stesso crea. Quindi la creazione è l’espressione di una bontà e di una saggezza perfettamente libere del Signore.

Cari fratelli, noi con la nostra mentalità immanentistica e materialistica siamo talmente infatuati di noi stessi e talmente immersi nel "sensibile", che tendiamo a dire che il mondo basta a sé stesso e spiega sé stesso. Ci sono alcuni sciagurati (che ormai hanno rinunciato alla loro razionalità) i quali affermano che non c’è un perché, non c’è una causa, tutto è nato per caso. Questo offende non solo il Signore (cosa già molto grave), ma anche la ragione umana, che postula il principio di causalità. Non solo lo postula, ma lo ritiene assolutamente evidente, limpido e chiaro. Cioè tutte le cose, tutti gli esseri finiti che hanno ricevuto l’essere, sono causati da qualcuno. Da chi, se non da colui che è la pienezza dell’essere e non riceve l’essere da nessuno?

Quindi il Signore, nella sua infinita bontà, chiama all’essere le cose che ancora non sono. In questa sua opera di creazione egli è motivato dall’amore di quel sommo bene che è lui stesso. Infatti l’oggetto primario dell’amore di Dio e della sua volontà non può che essere Dio stesso. Già Aristotele ebbe l’intuizione che Dio è spirito, dunque la concezione di un Dio personale. La Scrittura dice la stessa cosa (cfr. Gv 4, 24). Aristotele si esprime un po’ diversamente, ma la sostanza è identica, cioè dice: "Dio è pensiero", pensiero in quanto è qualcosa di spirituale, non di materiale. Ora — dice Aristotele — Dio è il solo pensiero, pensiero sussistente, perché è sommamente perfetto. Il pensiero dipende dalla cosa pensata, tanto che si parla di dipendenza del soggetto dall’oggetto. Perciò Dio, se è il sommo pensiero, deve pensare il sommo pensabile, e il sommo pensabile è la verità più grande che ci sia. Qual è la verità più sublime? È la verità stessa di Dio. Allora Aristotele conclude in quella pagina stupenda della sua Metafisica: "Se dunque l’intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, pensa sé stessa e il suo pensiero è pensiero di pensiero", (Arist., Metaph. 1074b34). È splendido! Ecco un esempio di praeparatio evangelii tramite il pensiero dei filosofi pagani.

Dio è pensiero pensante sé stesso. Potremmo dire che Dio è anche amore che ama il sommo bene, cioè sé stesso. Spesso viene mossa un’obiezione piuttosto sciocca da anime (anche buone) che si scandalizzano: " Il Signore, se ama solo sé stesso, è un grande egoista, cioè un accentratore di tutte le cose a sé ". Semmai è un egoista molto decentratore, perché da quell’amore che Dio ha per sé scaturisce la vera perfezione di ogni creatura. Infatti non c’è bene che non sia esemplato sull’esemplare che è il sommo bene, cioè su Dio.

Dio è sommamente benevolo e disinteressato nel suo amore, perché pone in essere le creature a somiglianza del suo essere increato. È chiaro che l’essere di Dio non è creabile. Quindi Dio non può porre alla propria altezza nessuna creatura. Sarebbe una contraddizione creare l’increato. Perciò tutte le creature sono meno di Dio: sono enti per partecipazione. Nella dovizia delle creature Dio manifesta l’unica, somma, infinita sua bontà.

Il Signore fa risplendere nel creato non tutta la sua bontà, ma un riflesso di essa. Il creato è una teofania, come ebbero a dire, sia pure correndo un certo pericolo di panteismo, Giovanni Scoto Eriùgena e Giovanni Duns Scoto: "Tutte le creature sono simbolo di Dio e hanno una bontà intrinseca, che è segno di una bontà ben più grande, la bontà di Dio".

È stupendo pensare alla volontà e all’intelligenza di Dio che si manifestano nella creazione. È molto bello vedere come proprio Dio, volendo il bene della creatura,vuole per essa il bene della partecipazione al suo Essere divino, quindi le creature ricevono da Dio quell’essere e quella perfezione che sono loro propri. È questo il momento che è, oserei dire, dell’autonomia della creatura, della sua propria consistenza ontologica. Dio non riduce le creature a sé, come pensava Spinoza (il quale affermava che le creature fossero solo dei modi dell’unica sostanza divina). Questa è un’eresia. Tutte le creature hanno una loro sussistenza, sono delle sostanze create che sussistono in sé. Dio, dunque, nella creazione si manifesta "decentratore", ma nel contempo la relativa autonomia delle creature dipende da Dio, perché da Dio derivano alle creature l’essere e la perfezione.

Tutto questo discorso sulla creazione quale attinenza ha con gli Arcangeli? L’attinenza esiste ed è profonda. Noi pensiamo solo alle creature dell’ordine sensibile e materiale. Invece il Signore nel creare, proprio perché creando ama e amando crea, cerca sempre la maggiore perfezione dell’universo, per far risplendere la sua similitudine. Questa è la saggezza di Dio, come disse colui che giustamente viene chiamato Angelicus doctor, perché spesso parla degli Angeli oltre che imitarli con la purezza della sua vita santa. Nelle creature sensibili appare certamente qualche cosa della bellezza di Dio, ma molto di più essa appare nelle creature puramente intellettive, cioè negli angeli (che sono puri spiriti).

Quando meditiamo sugli Angeli, ne abbiamo un’idea inadeguata. Essi sono delle entità grandissime, intermedie tra Dio e l’uomo. Ci superano in maniera incommensurabile. Mi commuove pensare che il Signore, pur avendo creato degli esseri così infinitamente, così sproporzionatamente superiori a noi, tuttavia ce li mandi come messaggeri al fine di aiutarci e proteggerci, come diceva S. Gregorio Magno. Angelo è nome di funzione, non di sostanza o di natura; quindi quelle sostanze dette "separate", di cui parlava Aristotele (persino Aristotele conosceva in qualche misura gli angeli), ebbene quelle sostanze separate e immateriali sono inviate da Dio perché ci "custodiscano" e pensino al nostro bene. Pensiamo a questo punto alla missione dell’Angelo custode.

Come abbiamo una filiale familiarità con il Signore, è giusto averla anche con gli Angeli che il Signore dèputa alla nostra custodia. Oggi abbiamo letto nel libro deuterocanonico di Tobia che Tobia fu risanato dall’angelo Raffaele, il cui nome significa appunto "Dio guarisce". Cari fratelli, rendiamoci conto della misericordia del Padre nostro che è nei cieli. Come sono grandi questi esseri che egli destina a proteggere la nostra pochezza e fragilità!

Per darvi un’idea di quanto siano grandi gli Angeli, basterebbe dire, in termini tecnici, che essi non sono individuati tramite la materia (infatti sono immateriali, cioè puri spiriti),ossia in ogni individualità angelica non c’è, come negli esseri umani, una materia corporale che divide la specie in tanti individui, come avviene in noi, ove la specie umana si divide in tanti individui, ma ciascuno di loro rappresenta in sé tutta la specie angelica. Tento ora di spiegarmi: noi siamo uomini e ciascuno di noi, nella sua individualità, esprime in piccolissima parte la perfezione di ciò che è esser uomo (cioè, come diceva Platone, la perfezione dell’idea d’uomo). Pensate come sarebbe grande quell’uomo che, nella sua individualità, esprimesse da solo tutta la perfezione di ciò che è essere uomini. Ebbene, questo sono gli Angeli, il genere Angelo non ha sotto di sé molti individui, ma soltanto molte essenze specifiche, ciascuna delle quali è una individualità e una persona per conto proprio. Ciascuno di loro, nella sua individualità, esprime tutta la specie angelica. Cosa stupenda, della quale avremo sufficiente avvertenza solo quando la nostra anima si spoglierà del corpo, per far compagnia — così speriamo — agli Angeli beati, ai santi nella Gerusalemme celeste.

Cari fratelli, vorrei invitarvi in questa festa di san Raffaele arcangelo a pensare alla bontà di Dio, il quale ha creato, al di là del mondo sensibile, quelle creature angeliche, delle quali non abbiamo nessun concetto, creature sovrumane e intellettive che, in maniera infinitamente più perfetta di quanto possiamo fare noi, esprimono la saggezza e la bontà. Poi pensate anche che gli Angeli, sostanze immateriali, separate, infinitamente superiori a noi, esprimono ciascuno la perfezione di ciò che è essere Angeli. Infine pensate alla bontà del Signore, che deputa gli Angeli alla nostra custodia. Presentandosi a Tobia e a Tobi, Raffaele dice: "Io sono Raffaele, uno dei sette angeli che sono sempre pronti a entrare alla presenza della maestà del Signore" (Tb 12, 15). Dei sette angeli conosciamo il nome soltanto di tre: san Michele, san Gabriele e san Raffaele. Il primo significa "Chi è come Dio?"; il secondo "Dio si è mostrato forte"; il terzo "Dio guarisce". Ognuno di questi nomi cela un significato mistico e sempre benefico nei riguardi dell’uomo. San Michele arcangelo difende i diritti di Dio e s’oppone a Satana, l’avversario per eccellenza; san Gabriele manifesta la grandezza dei decreti divini e perciò è deputato a recare i messaggi più sublimi, come quello a Maria Vergine; san Raffaele è l’angelo guaritore per eccellenza. Allora, poiché ben sappiamo quante sono le piaghe dell’anima nostra, supplichiamo l’arcangelo Raffaele affinché, per mezzo della sua angelica illuminazione, il Signore ci guarisca, ci purifichi, ci santifichi e ci faccia interamente suoi, in attesa di partecipare un giorno alla gioia degli Angeli e dei Santi in cielo.
Così sia.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/11/2012 12:57
 
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[SM=g1740758] Omelia su san Giovanni Battista
Precursore di Gesù
29 agosto: memoria della sua passione e morte

Martirio per l’Ordine Morale e la Purezza.




Oggi si ricorda la nascita non su questa terra, ma in cielo di san Giovanni Battista, il precursore del Signore. Tra tutti i martiri egli ha l’onore particolare di essere celebrato due volte dalla Chiesa, una (il 24 giugno) per la sua nascita, l’altra (il 29 agosto) per la sua morte. In questo giorno si ricorda la decapitazione di san Giovanni. Un padre della Chiesa dice: caput prophetae factum est pretium meretricis, la testa del profeta è divenuta il prezzo di una meretrice. Ecco con quale astuzia agisce il demonio contro i santi di Cristo! Pensiamo all’inimicizia che il Signore pose sin dall’inizio tra gli uomini buoni e santi, che appartengono a Gesù, e la stirpe di Satana, il serpente antico. Nessun pacifismo potrà mai togliere di mezzo questa inimicizia irriducibile. Sono terribili le insidie del demonio, perché in esse la più depravata sensualità si unisce alla più sfacciata crudeltà. Sensualità e crudeltà sono due strumenti di Satana che vanno sempre di pari passo.

È bene che pensiamo anzitutto al motivo che portò san Giovanni al martirio. Tutti i Santi hanno dovuto subire la crudele inimicizia dell’infernale nemico e del mondo che soggiace al suo potere. Tutti i santi hanno testimoniato la loro fede in Cristo e alcuni tra loro, i màrtiri, cioè i "testimoni" per eccellenza, hanno persino versato il sangue per la loro perseveranza nella fede. Il martirio è una testimonianza basata sull’oblazione della propria vita.

Per essere màrtiri non basta farsi ammazzare. Bisogna morire per Cristo, cioè per qualcosa che supera la nostra la vita. Il mondo di oggi stenta a capirlo. Persino nella Chiesa s’è fatta strada la mentalità superficiale e poco metafisica, secondo la quale il bene supremo dell’uomo è la sua vita. Se c’è qualcosa di anticristiano, di antievangelico è proprio questo porre alla sommità della scala del bene il bene della vita fisica. Il vangelo è in perfetta consonanza con quanto disse già il poeta pagano Giovenale: Summum crede nafas animam praeferre pudori / et propter vitam vivendi perdere causas "Reputa il peggiore dei disonori il preferire la vita all’onestà e per salvare la vita il perdere le motivazioni del vivere" (8, 83-84). Al di là della vita biologica c’è un’altra vita, la vita spirituale. Se dobbiamo curare la nostra vita terrena, molto più bisogna rimanere fedeli alla vita del Verbo, di cui abbiamo visto la luce, la gloria, la grazia e la verità. Manteniamoci fedeli alla parola del Signore, giacché nella fede contempliamo non già la parola di un uomo, ma la verità increata di Dio.

San Giovanni morì per una verità di ordine non speculativo, ma etico. Spesso i màrtiri, soprattutto nei primi secoli cristiani, morivano per affermare i contenuti speculativi della fede, ad esempio per professare la divinità di Cristo, figlio unigenito del Padre, o per dire che non c’erano altri dei. San Giovanni invece fu messo a morte per un motivo diverso, un motivo pratico e morale. L’ordine pratico riguarda quelle verità che dobbiamo realizzare nella nostra vita tramite le nostre azioni responsabili. San Giovanni muore per un’ammonizione coraggiosa rivolta a Erode, Erode l’intemperante, Erode l’incestuoso, Erode il depravato. San Giovanni gli dice con severità e chiarezza: "Non ti è lecito (non licet tibi) tenere la moglie di tuo fratello, habere uxorem fratris tui" (Mc 6, 18). Quindi san Giovanni muore per la santità della famiglia, del matrimonio, per la virtù della purezza.

Ecco una virtù della quale al giorno d’oggi si sente poco parlare. Molti sono intimiditi da un certo psicologismo di bassa lega, da un’antropologia (scusate, cari fratelli, se dico così, ma ne ho ben donde) che bisognerebbe chiamare più brutologia che antropologia, giacché riduce l’uomo allo stato di una bestia irragionevole, come se l’uomo non fosse altro che la sua polimorfa libido. Purtroppo è vero che la sfera razionale dell’uomo è alquanto debole, però è quella che lo rende umano. L’uomo è un animale ragionevole. Ha sì una vita sensitiva, ha sì delle passioni, però quello che lo rende uomo e che lo distingue da tutti gli altri esseri inferiori è la sua razionalità, la sua intellettualità, la sua spiritualità.

Il Pontefice attualmente regnante spesso trova delle espressioni molto belle. Per esempio questa: "vivere secondo la verità dell’uomo". La verità della fede è non solo soprannaturalmente rivelata, ma è anche naturale. Il Signore, quando rivela a Mosè sul monte Sinai i dieci comandamenti, non dice cose nuove, ma ribadisce semplicemente i contenuti della cosiddetta legge naturale. Dio ha pietà dell’ignoranza dell’uomo e con la sua autorevolezza riafferma quelle verità che nell’uomo erano state presenti fin dall’inizio. La legge del Signore non è diventata dettato morale dal momento in cui Dio l’ha rivelata scrivendo le tavole di pietra con il suo dito. No! Essa vale dal momento in cui il Signore alitò il suo spirito divino nelle narici dell’uomo fatto di terra, come racconta il libro della genesi. L’uomo, da quando è stato creato, ha in sé i precetti della legge divina.

Cari fratelli, bisogna essere sapienti, bisogna in qualche moto tornare alla lucidità di pensiero degli Antichi, del pensiero tomista ed aristotelico, il quale ci parla di essenze. Esiste una essenza dell’uomo: ciò per cui l’uomo è uomo, quella che i greci chiamavano filosofia è intrisa di religione. L’uomo ha per sua essenza delle finalità naturali, alle quali deve sottomettersi e che Dio stesso gli ha dato. Non è l’uomo che le ha escogitate, egli deve solo realizzarle nel suo agire libero e responsabile. Certo, è possibile agire contro la legge naturale, ma è altrettanto possibile — anzi doveroso — assecondarla.

San Giovanni muore per una verità naturale: la santità del matrimonio. La castità coniugale è un valore che non ha bisogno di essere rivelato: è iscritto nella natura dell’uomo. Chi muore anche per la verità più lontana dal centro della fede, per una verità che costituisce una propaggine della fede, muore per tutta la fede. Invece vi sono alcuni che, per voler essere ecumenici (oggi va tanto di moda), dicono che per andare d’accordo con i fratelli separati basta differenziare le verità di fede. Ci sono delle verità di fede sostanziali (la Trinità, l’incarnazione ecc.) e delle verità di fede secondarie. Fra queste ultime ci sono — Dio mi pedoni — verità riguardo la Madonna, i santi e persino i sacramenti. Ovviamente la linea che separa le une dalle altre è assolutamente arbitraria. Contro questi "ecumenici" san Tommaso dice: "Il motivo per cui crediamo le verità rivelate da Dio non si differenzia secondo quella o quell’altra verità. Si crede non per il contenuto che Dio ha rivelato, ma per il fatto che Dio si è rivelato". Quindi tutte le verità della fede sono ugualmente importanti: o si crede tutto o, se si eccettua qualcosa, non si crede più. San Tommaso su questo punto è stato severo. E la Chiesa ha fatto sua la dottrina di lui. Gli eretici mantengono qualche verità, ma ne rigettano qualche altra, a loro piacimento. Per esempio credono nella Trinità, ma non nel sacramento del matrimonio. Così fanno una scelta. Invece per il Signore tutte le verità, speculative o morali, fanno parte dell’unica, inscindibile e completa verità.

San Giovanni, morendo per la santità del matrimonio, è veramente un martire della fede. Si deve all’occorrenza morire anche per le verità di ordine pratico e morale.

Aggiungo solo una parola circa il motivo del martirio di San Giovanni in riferimento ai tre personaggi del dramma: Erode, Erodiade e Salomè. Questo ultimo è il nome della ragazza, che non risulta dal testo evangelico, ma dalla tradizione.

Alcune considerazioni su Erode. Erode è un esempio concreto del sillogismo del peccatore. La recta ratio dell’agire, il corretto giudizio sul piano morale, risultato della virtù della prudenza, non sono puramente razionali. Il ragionamento matematico, per esempio, in quanto speculativo, non è influenzato dalle disposizioni affettive dello stesso matematico. Invece la razionalità pratica, dice San Tommaso d’Aquino, è un’estensione della razionalità speculativa ed è finalizzata all’azione, le azioni sono sempre motivate anche affettivamente. Nell’agire tendiamo sempre a realizzare qualcosa che ci appare come buono. Perciò, per valutare correttamente il bene e il male, non basta essere intelligenti, bisogna anche essere coerenti, bisogna avere un’affettività giustamente impostata e ordinata. Pensate per esempio all’antico testamento. Là si tuona contro i giudici che si lasciano corrompere. Il giudice sa benissimo di fare del male, ma la sua avidità è tale che sottopone il bene della giustizia al suo interesse personale. Cosa lo fa sragionare? Non la mancanza d’intelligenza, ma il disordine passionale. Così anche Erode è incostante. Egli condivide qualche verità, ascolta volentieri il Battista, s’intrattiene con lui, sa di avere davanti a sé un vero profeta, ma non ha costanza nella fede. A causa di che cosa? A causa delle passioni. Basta che Salome si metta a danzare un po’ e sùbito la sua scarsa razionalità soccombe alla prepotenza delle passioni. Cambia immediatamente parere e in maniera sconsiderata le dice: "Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, foss’anche la metà del mio regno" (Mc 6, 23).

Erode fu molto incauto. San Tommaso afferma che i sovrani dovrebbero essere prudenti, anzi prudentissimi, perché spetta a loro governare non solo sé stessi, ma intere nazioni. Invece in Erode la prudenza fu corrotta dalla sua passionalità.

Vorrei che meditaste sull’infernale sposalizio tra la sensualità rappresentata da una ragazzina, Salome, e la crudeltà del potere, rappresentata da Erodiade. La storia sia antica che recente ci presenta spesso queste figure. Per esempio Messalina, la terza moglie dell’imperatore Claudio, dipinta da Tacito come donna dispotica e dissoluta. Oppure Agrippina Minore, la madre di Nerone, femmina ambiziosa e crudele. La prima fu depravata sul piano del concupiscibile, la seconda sul piano dell’irascibile. Un’altra figura assetata di potere fu la shakespeariana Lady Macbeth, per molti versi simile a Erodiade. In loro la crudeltà e la brama di potere si alleano con la sensualità. Non posso citare certi esempi contemporanei, perché mi mancano le espressioni. C’è chi dice: "Per avere la pace, per non fare la guerra, basta darsi ai piaceri di ordine sensibile". Cosa succede? Succede che non c’è meno violenza. La violenza, che prima poteva essere anche giusta, diventa solo ingiusta, solo crudele e solo vile! Ecco, che cosa ci guadagneremmo. C’è in tutti noi una misteriosa aggressività, una brama smodata e una tendenza al male che viene dal peccato delle origini. Da qui la necessità di una lotta ascetica, della quale oggi, anche uomini di Chiesa, non parlano più con il pretesto di respingere il "dualismo di anima e di corpo". Non vogliono sentirsi chiamare antiquati, repressi, complessati. Ora in realtà, cari fratelli, diciamocelo chiaramente, non ci sono scelte: o abbassarci a livello di bestie o, pur accettando la rinuncia, innalzarci alla dignità dei Santi: non ci sono altre vie. Io, ve lo dico sinceramente, preferisco la seconda via, anche se la più ardua, non priva di lotte e sofferenze. Non voglio scorciatoie per la felicità, ma preferisco la via dei Santi.

Alla depravazione dobbiamo opporre la nostra morale cattolica, morale che non cambia. Ho sentito con queste mie povere orecchie persone che negli anni Sessanta dicevano: "la droga ci fa buoni". I Beatles hanno cominciato a cantare su temi di droga, facendo così propaganda. Cosa mi è toccato sentire? Non già la voce limpida e chiara di san Giovanni Battista, non già la voce del profeta che gridava non licet tibi!, ma ho sentito: "bisogna comprendere quei giovanotti, devono fare le loro esperienze...". Adesso ne vediamo le conseguenze infernali. Chi ha fatto del bene a quei giovani? Coloro che hanno alzato la voce o coloro che sono stati zitti?

Vedete, cari fratelli, come il mondo cade nell’errore rispetto al bene e al male? Pensate a quel veleno del mondo di oggi, che distrugge le anime giovanili. Pregate, perché sappiamo dal vangelo che certi demòni non possono essere cacciati se non con il digiuno e con la preghiera. Pregate per i giovani, perché il Signore li sostenga e possano essere aiutati ad anteporre l’eccellenza della fede cattolica a queste mene dell’inferno e il Signore possa sostenerci tutti con quella parola che tutto sostiene, con la parola della sua verità e così sia.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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