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Ultimo Aggiornamento: 21/03/2013 11:40
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21/03/2013 11:30
 
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UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE
 

IL LINGUAGGIO DELLA CELEBRAZIONE LITURGICA

Corso: “Ars celebrandi”
Roma, Pontificia Università della Santa Croce, 24 febbraio 2011

 

 

La necessità della teologia liturgica

Parlare di linguaggio significa per ciò stesso fare riferimento a una realtà dotata di parola e che esprime se stessa mediante la parola. Il linguaggio, da questo punto di vista, non può mai essere svincolato dal soggetto parlante. Quel linguaggio lo si potrà considerare vero, in quanto pienamente corrispondente al soggetto da cui scaturisce, o lo si potrà considerare falso, ovvero non in sintonia con la verità del soggetto a cui appartiene. Ma, sempre e comunque, lo si dovrà valutare in relazione a quella realtà dalla quale trae origine.

In tal modo, proprio la considerazione del rapporto tra linguaggio e soggetto parlante sarà in grado di aiutarci a rilevare la verità e meno della parola formulata.

Al riguardo, sperando di non azzardare troppo, prendo a prestito la relazione esistente nel vangelo, e così ben delineata da Sant’Agostino, tra Giovanni Battista e il Signore Gesù. Come tutti ben ricordiamo, il Precursore si presenta come voce di un Altro. Una voce che a quell’Altro manifesta assoluta dipendenza e fedeltà. Non intende, infatti, dire nulla di diverso, né di più né di meno, di quanto l’Altro intenda affermare.

Riascoltiamo per un momento il grande Vescovo di Ippona: “Giovanni è la voce che passa, Cristo è il Verbo eterno che era in principio. Se alla voce togli la parola, che cosa resta? Dove non c’è senso intelligibile, ciò che rimane è semplicemente un vago suono. La voce senza parola colpisce bensì l’udito, ma non edifica il cuore” (Discorso 293, 3; PL 1328-1329).

L’immagine agostiniana ci consente di introdurre il tema di cui si deve trattare: ovvero “Il linguaggio della celebrazione liturgica”. In effetti, parlare di linguaggio della celebrazione liturgica sottende che si abbia ben presente che cosa è la celebrazione liturgica o, in termini ancora più generali, che cosa è la liturgia. Altrimenti si corre il rischio di perdersi in un discorso superficiale e disancorato dalle ragioni profonde di un linguaggio che, solo a partire da quelle ragioni, può essere compreso e correttamente praticato; per tornare al paragone accennato, ci ritroviamo ad ascoltare una voce che non ha il retroterra vitale della parola.

E’ per questo motivo che intendiamo sviluppare il discorso sul linguaggio liturgico a partire dall’essenza della liturgia, così da ritrovare la radice da cui scaturisce il suo ricco patrimonio espressivo. In altre parole, solo una ben corredata teologia liturgica è in grado di avviare un discorso corretto sulla liturgia in quanto celebrata e dotata di un suo proprio linguaggio. Ritorna sempre pertinente, al di là di ogni sua possibile interpretazione e contestualizzazione storica, l’antico adagio di Prospero di Aquitania: “Lex orandi – lex credendi”. La Liturgia è la fede celebrata.

 

Un ritratto sintetico dell’essenza della liturgia

Diventa così necessario soffermarsi a illustrare in sequenza alcuni tratti distintivi che caratterizzano l’essenza della liturgia, considerandone poi le conseguenza per quanto attiene l’espressività linguistica. La qual cosa intendo fare riferendomi al Catechismo della Chiesa Cattolica, quale sintesi attualmente più autorevole, anche per quanto attiene alla liturgia, dell’insegnamento del Concilio Vaticano II e del magistero successivo presentato e interpretato in un rapporto di sviluppo nella continuità con la grande tradizione ecclesiale dei secoli precedenti.

Vale la pena, al riguardo, citare i numeri con i quali il testo del Catechismo riassume quanto fin lì affermato in merito alla liturgia, intesa come opera della Santa Trinità.

1110. Nella Liturgia della Chiesa Dio Padre è benedetto e adorato come la sorgente di tutte le benedizioni della creazione e della salvezza, con le quali ci ha benedetti nel suo Figlio, per donarci lo Spirito dell’adozione filiale.

1111. L’opera di Cristo nella Liturgia è sacramentale perché il suo Mistero di salvezza vi è reso presente mediante la potenza del suo Santo Spirito; perché il suo Corpo, che è la Chiesa, è come il sacramento (segno e strumento) nel quale lo Spirito Santo dispensa il Mistero della salvezza; perché, le sue azioni liturgiche, la Chiesa pellegrina nel tempo partecipa già, pregustandola, alla Liturgia celeste.

1112. La missione dello Spirito Santo nella Liturgia della Chiesa è di preparare l’assemblea a incontrare Cristo; di ricordare e manifestare Cristo alla fede dell’assemblea; di rendere presente e attualizzare, con la sua potenza trasformatrice, l’opera salvifica di Cristo, e di far fruttificare il dono della comunione nella Chiesa.

Tenendo presente questa bella sintesi formulata dal Catechismo e senza perdere di vista quanto affermato nello stesso Catechismo nella sua altre parti riguardanti la celebrazione del mistero cristiano, vediamo di illustrare quei tratti distintivi di cui si parlava poc’anzi e che caratterizzano l’essenza della liturgia della Chiesa.

 

La liturgia è opera di Cristo

Alcuni anni fa, nel 2009, è stato pubblicata una raccolta di contributi sulla liturgia del Cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo:

“Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia”.

Si tratta semplicemente di un titolo, non c’è dubbio. A parte il fatto, però, che risulta essere un titolo quanto mai appropriato a illustrare il contenuto del libro, è anche particolarmente indicativo di ciò che troviamo alle radici del discorso sulla liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il Protagonista, il vero e più importante Protagonista della liturgia.

Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua nella sua Chiesa l’opera della nostra Redenzione (cf. Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza, si rende oggi presente nella celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è il Vivente che continua la sua azione salvifica nella Chiesa, comunicando la sua vita che è grazia e anticipo di eternità.

Nella stessa celebrazione eucaristica, l’assemblea radunata risponde al “Mistero della fede”, successivo alla consacrazione, con le parole tanto significative: “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. In questa formulazione della liturgia romana ritroviamo descritti i tre momenti propri di ogni celebrazione sacramentale: ovvero la memoria del passato evento salvifico, la presente azione di grazia nella celebrazione, l’anticipazione della gloria futura.

In tal modo, la Chiesa, convocata per la celebrazione liturgica, rinnova ogni volta l’esperienza della verità dell’affermazione paolina: “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 9). Quel Gesù che ieri, in un preciso momento storico, ha vissuto il mistero della sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione, è lo stesso Gesù di cui oggi, nel tempo che scorre, si rinnova sacramentalmente il mistero della salvezza, così che tutti possano accedervi personalmente. Ed è sempre lo stesso Gesù che la Chiesa attende tornare nella gloria, pregustando però fin da ora, come anticipazione, la gioia della sua presenza e della sua opera.

La liturgia della Chiesa ha una modalità discreta e al contempo chiara di ricordare al popolo di Dio, radunato per la celebrazione dei divini misteri, la presenza fondamentale del grande Protagonista. Mi riferisco al saluto liturgico “Il Signore sia con voi”, che più volte ricorre, ad esempio nella Messa. Questo saluto è scambiato tra celebrante e fedeli all’inizio della celebrazione, più avanti ritorna al momento della proclamazione del vangelo, ancora lo troviamo all’inizio della preghiera eucaristica e, infine, prima della benedizione finale e del congedo. Ogni volta viene così manifestata la presenza del Signore. All’inizio una tale presenza è affermata nella comunità radunata e, in uno modo peculiare, nella persona del sacerdote a motivo del sacramento dell’ordine; al vangelo si ricorda la presenza del Signore nella sua parola proclamata; più tardi, all’inizio della preghiera eucaristica, si annuncia la reale presenza di Cristo nel suo Corpo dato e nel suo Sangue sparso; infine, prima della benedizione e del congedo, si invoca la presenza del Signore nella vita quotidiana dei suoi discepoli.

E’ solo un esempio tra i molti, per dire che non è pensabile andare all’essenza della liturgia senza riaffermare che il suo primo Protagonista è Gesù Cristo. Si ricordi ciò che afferma la Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II: «Per realizzare un’opera così grande (la comunicazione della sua opera di salvezza) Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. E’ presente nel Sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, “egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. E’ presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. E’ presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. E’ presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro” (Mt 18, 20)» (n. 7).

 

La nobile semplicità

La presenza misteriosa e reale di Cristo nella liturgia e il suo essere protagonista nel rito celebrato richiede al linguaggio liturgico lo splendore della nobile semplicità, secondo la celebre dizione del Concilio Vaticano II (cf. Sacrosanctum concilium, n. 34). Ho parlato di “splendore della nobile semplicità”, perché questa è l’espressione completa usata dai Padri Conciliari.

Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve essere letta e compresa nel contesto più ampio del tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo armonico con l’intero insegnamento della Chiesa. In tal modo, ma non è possibile dilungarsi, si vede con chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle insistenze di taluni sopra un certo modo di intendere la semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il rito liturgico sciatto, banale, noioso, insignificante. Si tratta di un modo di intendere la semplicità, non fondato sull’insegnamento della Chiesa e la sua grande tradizione liturgica, ma su precomprensioni di tipo ideologico e sociologico.

Ma ascoltiamo, in proposito, Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui  la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).

Le parole del Papa non potrebbero essere più chiare. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di grettezza, di minimalismo e di male inteso pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo, certo, non per fare spettacolo o per un vuoto estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.

Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: “Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).

 

La liturgia è azione della Chiesa

Tutti abbiamo bene in mente la definizione-descrizione che della liturgia dà il Concilio Vaticano II, prendendo anche a prestito quanto già affermato da Pio XII nell’Enciclica “Mediator Dei”: “Giustamente perciò la liturgia è ritenuta quell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, mediante il quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitata dal Corpo Mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne eguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado” (Sacrosanctum concilium, n. 7).

Dall’affermazione che la liturgia è azione della Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca importanza per quell’essenza della liturgia che si va illustrando. In effetti, quando si dice che la Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che attraversa il tempo, che si realizza nella comunione gerarchica, che è insieme realtà ancora pellegrinante sulla terra e realtà già approdata sulle rive della Gerusalemme celeste.

Nell’agosto del 2006, a Castelgandolfo, Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel corso di un incontro con il clero della diocesi di Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo tipico di un colloquio: “La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel «noi» della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro «io» entrando nel «noi» della Chiesa, arricchendo, allargando questo «io», pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio”.

Entrare nel “noi” della Chiesa che prega. Questo “noi” ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di  là dei singoli fedeli, delle singole comunità, dei singoli gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende presente nella misura in cui si vive la comunione con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica, universale, di una universalità che raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall’eternità.

Ne consegue che fa parte dell’essenza della liturgia il fatto che questa abbia anzitutto  il tratto della cattolicità, dove unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria pur nella legittima diversità delle forme. E poi il tratto della non arbitrarietà, che consegnerebbe alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro consegnato e da custodire e trasmettere. E ancora il tratto della continuità storica, in virtù della quale l’auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, infine, il tratto della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra.

Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come azione della Chiesa non sarebbe sufficiente se non si aggiungesse il tema della partecipazione. Infatti è proprio la liturgia intesa come azione della Chiesa che esige una partecipazione che sia consapevole, attiva e fruttuosa (cf. Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni considerazione in merito rischia di essere senza costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è l’azione di Cristo e della Chiesa. E’ proprio questa azione quella che chiede di essere partecipata in modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è possibile se si realizza una autentica comunione del fedele con l’agire della Chiesa e l’agire di Cristo.

Ma qual è l’agire della Chiesa? E’ l’agire della Sposa che tende a diventare un’unica realtà con Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l’agire di Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo l’azione della Chiesa che tende allo Sposo e, dunque, ci lasciamo coinvolgere dall’azione dello Sposo che è donazione d’amore al Padre per la salvezza del mondo.  

In quanto della Chiesa, poi, una tale azione dovrà realizzare e manifestare la Chiesa stessa, segno visibile della comunione di Dio e degli uomini, in Cristo. E avere, dunque, anche una sua rilevanza esterna, fatta di altre azioni che, esprimendo la compartecipazione di tutti nel modo proprio di ciascuno, troveranno sempre la loro motivazione nell’essere vie di partecipazione all’agire di Cristo. Non si potrebbe parlare, pertanto, di partecipazione autenticamente attiva se, ad esempio, colui che proclama le letture, presenta le offerte, serve all’altare, anima il canto, svolge qualunque altro ministero liturgico non trovasse in questa sua particolare modalità di presenza al rito la via per entrare in comunione con l’agire della Chiesa e di Cristo.

 





[SM=g1740771]  continua.........

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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