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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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La Teologia oggi: prospettive, principi e criteri

Ultimo Aggiornamento: 15/06/2013 21:52
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09/01/2013 23:17
 
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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

LA TEOLOGIA OGGI:

PROSPETTIVE, PRINCÌPI E CRITERI *

 

1. Gli anni successivi al Concilio Vaticano II sono stati estremamente fecondi per la teologia cattolica. Sono emerse nuove voci teologiche, soprattutto quelle dei laici e delle donne; teologie provenienti da nuovi contesti culturali, in particolar modo America Latina, Africa e Asia; nuovi temi di riflessione, quali la pace, la liberazione, l’ecologia e la bioetica; approfondimenti di temi già trattati, grazie ad un rinnovamento negli studi biblici, liturgici, patristici e medievali; e nuove sedi di riflessione, come il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale. Sono tutti sviluppi fondamentalmente positivi. La teologia cattolica ha cercato di percorrere la strada aperta dal Concilio, che ha voluto esprimere «solidarietà, rispetto e amore verso l’intera famiglia umana», entrando in dialogo con essa e offrendo «le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore» [1]. Tuttavia in questo stesso periodo si è anche vista una certa frammentazione della teologia, che nel dialogo sopra richiamato si trova sempre dinanzi la sfida di mantenere la propria identità. Si pone quindi l’interrogativo di che cosa caratterizzi la teologia cattolica e le dia, nelle e attraverso le sue molteplici forme, un chiaro senso di identità nel suo confronto con il mondo di oggi.

2. È evidente che in una certa misura la Chiesa ha bisogno di un discorso comune se vuole comunicare al mondo il messaggio unico di Cristo, sul piano sia teologico sia pastorale. Si può quindi legittimamente parlare della necessità di una certa unità della teologia. Dobbiamo tuttavia comprendere bene che cosa si intende per unità, affinché non vada confusa con l’uniformità o un unico stile. L’unità della teologia, come quella della Chiesa, così come viene professata nel Credo, deve essere strettamente correlata al concetto di cattolicità, come pure ai concetti di santità e di apostolicità [2]. La cattolicità della Chiesa deriva da Cristo stesso, Salvatore del mondo e dell’umanità intera (cfr Ef 1,3-10; 1 Tim 2,3-6). La Chiesa ha quindi dimora in ogni nazione e cultura e cerca di «accogliere tutto per la salvezza e la santificazione» [3]. Il fatto che ci sia un unico Salvatore mostra l’esistenza di un nesso necessario tra cattolicità e unità. Nell’esplorare l’inesauribile Mistero di Dio e le innumerevoli vie attraverso le quali, in contesti diversi, la grazia di Dio opera per la salvezza, la teologia giustamente e necessariamente assume una molteplicità di forme, e tuttavia, nell’indagare l’unica verità del Dio uno e trino e il piano di salvezza incentrato sull’unico Signore Gesù Cristo, questa pluralità deve manifestare tratti familiari distintivi.

3. La Commissione Teologica Internazionale ha già esaminato diversi aspetti del compito teologico in precedenti documenti, in particolare L’unità della fede e il pluralismo teologico (1972), Magistero e teologia (1975) e L’interpretazione dei dogmi (1990) [4]. Il presente testo si propone di individuare i tratti familiari distintivi della teologia cattolica [5]. Si prenderanno in esame quelle prospettive e princìpi di base che caratterizzano la teologia cattolica, e si esporranno i criteri attraverso i quali teologie diverse e molteplici possono comunque essere riconosciute come autenticamente cattoliche e partecipanti alla missione della Chiesa cattolica, che è quella di proclamare la Buona Notizia a persone di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (cfr Mt 28,8-20; Ap 7,9) e, facendo loro sentire la voce dell’unico Signore, raccoglierle tutte in un unico gregge con un unico pastore (Gv 10,16). Tale missione richiede la presenza nella teologia cattolica della diversità nell’unità così come dell’unità nella diversità. Le teologie cattoliche dovrebbero essere identificabili come tali, e sono chiamate a sostenersi a vicenda e a rendere conto reciprocamente del proprio operato, come lo sono gli stessi cristiani nella comunione con la Chiesa per la gloria di Dio. Il presente testoconsiste quindi di tre capitoli, in cui vengono esposti i temi seguenti: nella ricca pluralità delle sue espressioni, protagonisti, idee e contesti, la teologia è cattolica, e quindi fondamentalmente una, se scaturisce da un attento ascolto della parola di Dio (cfr capitolo 1); se si pone consapevolmente e fedelmente in comunione con la Chiesa (cfr capitolo 2); e se è orientata al servizio di Dio nel mondo, offrendo agli uomini e alle donne di oggi la divina verità in forma intelligibile (cfr capitolo 3).

 

[SM=g1740758] Capitolo Primo
L’Ascolto della Parola di Dio

4. «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi personalmente e manifestare il mistero della sua volontà» (cfr Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr Ef 2,18; 2 Pt 1,4)» [6]. «La novità della rivelazione biblica sta nel fatto che Dio si fa conoscere attraverso il dialogo che Egli desidera avere con noi» [7]. La teologia, in tutte le sue diverse tradizioni, discipline e metodi, si basa sull’atto fondamentale di ascoltare con fede la Parola di Dio rivelata, Cristo stesso. L’ascolto della Parola di Dio è il principio definitivo della teologia cattolica; conduce alla comprensione, all’annuncio e alla formazione della comunità cristiana: «La Chiesa si fonda sulla Parola di Dio, nasce e vive di essa» [8]. «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1 Gv 1,3) [9]. Il mondo intero deve ascoltare la chiamata alla salvezza «affinché per l'annuncio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami» [10].

5. La teologia è una riflessione scientifica sulla rivelazione divina che la Chiesa accetta per fede come verità salvifica universale. La pienezza e la ricchezza di questa rivelazione sono troppo grandi per essere colte da una sola teologia e, poiché sono recepite in modi diversi dagli esseri umani, di fatto danno luogo a teologie molteplici. Nella sua diversità, tuttavia, la teologia è unita nel servizio all’unica verità di Dio. L’unità della teologia, quindi, non richiede uniformità, ma piuttosto un unico focalizzarsi sulla Parola di Dio e un’esplicazione delle sue innumerevoli ricchezze da parte di teologie in grado di parlare e comunicare tra loro. Analogamente, la pluralità di teologie non dovrebbe significare frammentazione o discordia, ma piuttosto l’esplorazione, secondo modalità molteplici, dell’unica verità salvifica di Dio.

1. Il primato della Parola di Dio

6. «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Il Vangelo di Giovanni ha inizio con un «prologo». Questo inno mette in luce la portata cosmica della rivelazione, e il culmine della rivelazione nell’incarnazione del Verbo di Dio. «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4). La creazione e la storia costituiscono lo spazio e il tempo in cui Dio rivela se stesso. Il mondo, creato da Dio mediante la sua Parola (cfr Gn 1), è anche, tuttavia, il contesto in cui Dio viene respinto dagli esseri umani. Ciononostante l’amore di Dio verso di loro è sempre infinitamente più grande; «la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5). L’incarnazione del Figlio è il culmine di questo amore immutabile: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). La rivelazione di Dio come Padre che ama il mondo (cfr Gv 3,16.35) si realizza nella rivelazione di Gesù Cristo, crocifisso e risorto, Figlio di Dio e «Salvatore del mondo» (Gv 4,42). «Molte volte e in diversi modi» Dio ha parlato per mezzo dei profeti nei tempi antichi, ma nella pienezza dei tempi ha parlato a noi «per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2). «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che ho ha rivelato» (Gv 1,18).

7. La Chiesa venera grandemente le Scritture, ma è importante riconoscere che «la fede cristiana non è una “religione del Libro”; il cristianesimo è la “religione della Parola di Dio”, non di “una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente”» [11]. Il Vangelo di Dio è testimoniato fondamentalmente dalla sacra Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento [12]. Le Scritture sono «ispirate da Dio e, redatte una volta per sempre», quindi «comunicano immutabilmente la Parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo» [13]. La Tradizione è la fedele trasmissione della Parola di Dio, testimoniata nel canone della Scrittura dai profeti e dagli apostoli, e nella leiturgia (liturgia), martyria (testimonianza) e diakonia (servizio) della Chiesa.

8. Sant’Agostino ha scritto che la Parola di Dio è stata ascoltata da autori ispirati e trasmessa dalle loro parole: «Dio parla da uomo mediante un uomo perché ci cerca così parlando» [14]. Lo Spirito Santo non solo ha ispirato gli autori biblici perché trovassero le giuste parole di testimonianza, ma aiuta anche i lettori della Bibbia in ogni epoca a comprendere la Parola di Dio nelle parole umane delle sacre Scritture. Il rapporto tra Scrittura e Tradizione ha le sue radici nella verità che Dio rivela nella sua Parola per la nostra salvezza: «I libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» [15], e nel corso della storia lo Spirito Santo «introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr Col 3,16)» [16]. «[L]a Parola di Dio si dona a noi nella sacra Scrittura, quale testimonianza ispirata della Rivelazione, che con la viva Tradizione della Chiesa costituisce la regola suprema della fede» [17].

9. Un criterio della teologia cattolica è il riconoscimento del primato della Parola di Dio. Dio parla «molte volte e in diversi modi»: nella creazione, tramite i profeti e i saggi, attraverso le sacre Scritture, e in via definitiva attraverso la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, Verbo fatto carne (cfr Eb 1,1-2).

2. La fede, risposta alla Parola di Dio

10. Scrive san Paolo nella sua lettera ai Romani: «La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). Sono due qui i punti di rilievo. Da una parte Paolo spiega come la fede derivi dall’ascolto della Parola di Dio, sempre «con la forza dello Spirito» (Rm 15,19). D’altra parte chiarisce i modi attraverso i quali la Parola di Dio arriva all’orecchio degli esseri umani: fondamentalmente per mezzo di coloro che sono stati inviati a proclamare la Parola e risvegliare la fede (cfr Rm 10,14-15). Ne consegue che la Parola di Dio per ogni tempo può essere proclamata autenticamente soltanto sul fondamento degli apostoli (Ef 2,20-22) e nella successione apostolica (cfr 1 Tm 4,6).

11. Poiché Gesù Cristo, Verbo fatto carne, «è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione» [18], è parimenti personale la risposta che il Verbo ricerca, ossia la fede. Per fede gli esseri umani si abbandonano interamente a Dio, in un gesto che comporta il «pieno ossequio» dell’intelletto e della volontà al Dio che rivela [19]. L’«obbedienza della fede» (Rm 1,5) è quindi qualcosa di personale. Per fede gli esseri umani aprono l’orecchio per ascoltare la Parola di Dio e la bocca per offrirgli preghiera e lode; aprono il cuore per ricevere l’amore di Dio che è riversato in loro tramite il dono dello Spirito Santo (Rm 5,5); e abbondano «nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13), una speranza che «non delude» (Rm 5,5). Per fede viva possiamo quindi intendere una fede che abbraccia sia la speranza sia l’amore. Inoltre Paolo sottolinea che la fede evocata dalla Parola di Dio dimora nel cuore e dà luogo alla professione verbale: «Perché se con la tua bocca proclamerai: “Gesù è il Signore!”, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa professione di fede per avere la salvezza» (Rm 10, 9-10).

12. La fede, quindi, è esperienza di Dio che comporta la conoscenza di Lui, in quanto la rivelazione dà accesso alla verità di Dio che ci salva (cfr 2 Tm 2,13) e ci rende liberi (cfr Gv 8,32). Paolo scrive ai Galati che, in quanto credenti, «hanno conosciuto Dio, anzi da lui sono stati conosciuti» (Gal 4,9; cfr 1 Gv 4,16). Senza la fede sarebbe impossibile penetrare questa verità, perché essa è rivelata da Dio. La verità rivelata da Dio e accettata nella fede, inoltre, non è qualcosa di irrazionale. Piuttosto dà origine al «culto spirituale [logikè latreia]» che Paolo afferma comportare un rinnovamento del modo di pensare (Rm 12, 1-2). Dalle opere della creazione, con l’ausilio della ragione, possiamo conoscere che Dio esiste ed è uno, Creatore e Signore della storia, secondo una lunga tradizione che ritroviamo nell’Antico (cfr Sap 13,1-9) come nel Nuovo Testamento (cfr Rm 1,18-23) [20]. Tuttavia è solamente attraverso la fede che possiamo conoscere che Dio si è rivelato attraverso l’incarnazione, vita, morte e risurrezione del suo Figlio per la salvezza del mondo (Gv 3,16), e che Dio nella sua vita interiore è Padre, Figlio e Spirito Santo.

13. «Fede» è sia l’atto di credere o confidare, sia ciò che è creduto o professato, rispettivamente fides qua e fides quae. Entrambi gli aspetti operano in una unità inscindibile, poiché la fiducia è adesione a un messaggio con un contenuto intelligibile, e la professione non può essere ridotta a semplici parole prive di contenuto, ma deve venire dal cuore. La fede è una realtà al tempo stesso profondamente personale ed ecclesiale. Nel professare la propria fede, i cristiani dicono sia «credo» sia «crediamo». La fede è professata nella koinonia dello Spirito Santo (cfr 2 Cor 13,13) che unisce tutti i credenti a Dio e tra di loro (cfr 1 Gv 1,1-3), e realizza la sua massima espressione nell’Eucaristia (1 Cor 10, 16-17). Sin dai primissimi tempi all’interno delle comunità dei fedeli sono sorte le professioni di fede. Tutti i cristiani sono chiamati a dare una testimonianza personale della propria fede, ma i credi permettono alla Chiesa in quanto tale di professare la propria fede. Questa professione corrisponde all’insegnamento degli apostoli, la Buona Notizia, nella quale la Chiesa resta salda e dalla quale viene salvata (cfr 1 Cor 15, 1-11)

14. «Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri, i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina» (2 Pt 2,1) [21]. Il Nuovo Testamento mostra abbondantemente che, sin dai primordi della Chiesa, alcuni hanno proposto un’interpretazione «eretica» della fede comune, un’interpretazione contraria alla Tradizione apostolica. Nella prima Lettera di Giovanni, la separazione dalla comunione d’amore è un indicatore di falso insegnamento (1 Gv 2,18-19). L’eresia, quindi, non solo è distorsione del Vangelo, ma lede anche la comunione ecclesiale. «L’eresia è l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il Battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina o cattolica, o il dubbio ostinato» [22]. Chi è colpevole di questa ostinazione nei confronti dell’insegnamento della Chiesa sostituisce il proprio giudizio all’obbedienza alla Parola di Dio (motivo formale della fede), la fides qua. L’eresia ci ricorda che la comunione della Chiesa può essere garantita soltanto se fondata sulla fede cattolica nella sua integrità, e spinge la Chiesa ad una ricerca sempre più approfondita della verità nella comunione.

15. Un criterio della teologia cattolica è che questa ha come propria fonte, contesto e norma la fede della Chiesa. La teologia tiene unite fides qua e fides quae. Espone l’insegnamento degli apostoli, la Buona Notizia su Gesù «secondo le Scritture» (1 Cor 15,3-4), in quanto regola e stimolo/impulso della fede della Chiesa.

3. La teologia, intelligenza della fede

16. L’atto di fede, in risposta alla Parola di Dio, apre a nuovi orizzonti l’intelligenza del credente. Scrive san Paolo: «E Dio che disse “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6). In questa luce la fede contempla il mondo intero in un modo nuovo; lo vede in modo più vero perché, per la potenza dello Spirito Santo, condivide la prospettiva stessa di Dio. Per questo sant’Agostino invita chiunque ricerchi la verità a «credere per comprendere» [crede ut intelligas] [23]. «Abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio», afferma san Paolo, «per conoscere ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor 2,12). Inoltre attraverso questo dono siamo attirati ad una comprensione persino di Dio stesso, poiché «lo Spirito conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio». Insegnando che «noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16), san Paolo afferma implicitamente che per grazia di Dio abbiamo una certa partecipazione persino alla conoscenza che Cristo stesso ha del Padre e, quindi, alla conoscenza che Dio ha di se stesso.

17. Avendo ricevuto per fede «le impenetrabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8), i credenti cercano di comprendere ancora più pienamente ciò in cui credono, meditando queste cose nel loro cuore (cfr Lc 2,19). Guidati dallo Spirito e attingendo a tutte le risorse della loro intelligenza, si sforzano di assimilare il contenuto intelligibile della Parola di Dio, in modo che possa diventare luce e nutrimento per la loro fede. Chiedono a Dio di avere «piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale» (Col 1,9). Èquesta la via che conduce all’intelligenza della fede (intellectus fidei) . Come spiega sant’Agostino, tale desiderio e ricerca di intelligenza prende avvio dal dinamismo stesso della fede: «Chi mediante la vera ragione capisce ciò che prima riteneva certo soltanto per fede, è senz’altro da preferirsi a chi desidera ancora capire ciò che crede. Qualora poi costui non sentisse nemmeno un tale desiderio e considerasse quale solo oggetto da credere le verità che ancora dovesse intendere, ignorerebbe a che giova la fede» [24]. Questo lavoro di comprensione della fede a sua volta contribuisce ad alimentare e a far crescere la fede [25]; è così che «[l]a fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità» [26]. La via dell’intellectus fidei parte dal credere, che è sua fonte e principio permanente, per arrivare alla visione nella gloria (la visione beatifica; cfr 1 Gv 3,2), della quale l’intellectus fidei è anticipazione.

18. L’intellectus fidei assume varie forme nella vita della Chiesa e nella comunità dei credenti, secondo i diversi doni dei fedeli (lectio divina, meditazione, predicazione, teologia come scienza ecc.). Diventa teologia in senso stretto quando il credente intraprende il compito di presentare il contenuto del mistero cristiano in modo razionale e scientifico. La teologia è dunque scientia Dei nella misura in cui è partecipazione razionale alla conoscenza che Dio ha di sé e di tutte le cose.

19. Un criterio della teologia cattolica è che, proprio in quanto scienza della fede, «fede che cerca di comprendere [fides quaerens intellectum[27], essa è dotata di una dimensione razionale. La teologia si sforza di comprendere ciò in cui la Chiesa crede, perché vi crede, e che cosa può essere conosciuto sub specie Dei. In quanto scientia Dei, la teologia cerca di comprendere in modo razionale e sistematico la verità salvifica di Dio.



[SM=g1740771]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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[SM=g1740758] Capitolo Secondo
Rimanere nella Comunione della Chiesa

20. Il giusto luogo della teologia è all’interno della Chiesa, riunita dalla Parola di Dio. L’ecclesialità della teologia è un aspetto costitutivo del compito teologico, poiché la teologia è fondata sulla fede, e la fede stessa è sia personale sia ecclesiale. La rivelazione di Dio è rivolta alla convocazione e al rinnovamento del popolo di Dio, e attraverso la Chiesa i teologi ricevono l’oggetto della loro ricerca. Nella teologia cattolica si è molto riflettuto sui «loci» della teologia, ossia i punti di riferimento fondamentali per il compito teologico [28]. È importante conoscere non solo i loci, ma anche il loro peso relativo, e come si rapportano tra loro.

1. Lo studio della Scrittura come anima della teologia

21. «Lo studio delle sacre pagine» dovrebbe essere «l’anima della sacra teologia» [29]. È questa l’affermazione cardine del Concilio Vaticano II relativamente alla teologia. Ribadisce Papa Benedetto XVI: «Dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento» [30]. La teologia nella sua interezza dovrebbe conformarsi alle Scritture, e le Scritture dovrebbero sostenere e accompagnare tutta l’opera teologica, poiché la teologia si occupa della «verità del Vangelo» (Gal 2,5), e può conoscere la verità soltanto se ne studia le testimonianze normative nel canone della sacra Scrittura [31] e se, nel fare ciò, pone in relazione le parole umane della Bibbia alla Parola vivente di Dio. «Gli esegeti cattolici non devono mai dimenticare che ciò che interpretano è la Parola di Dio […] Lo scopo del loro lavoro è raggiunto solamente quando hanno chiarito il significato del testo biblico come Parola attuale di Dio» [32].

22. Compito dell’esegesi, secondo la Dei Verbum, è accertare «ciò che Dio ha voluto comunicarci» [33]. Per capire e spiegare il significato dei testi biblici [34], deve utilizzare ogni opportuno metodo filologico, storico e letterario, per chiarire e comprendere la sacra Scrittura nel suo contesto e periodo. Si tiene così conto in modo metodologico della storicità della Rivelazione. La Dei Verbum (n. 12) fa particolare riferimento alla necessità di un’attenzione alle forme letterarie: «La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione». Successivamente al Concilio sono stati sviluppati nuovi metodi che possono far emergere nuovi aspetti del significato della Scrittura [35]. La Dei Verbum indica, tuttavia, che per riconoscere la dimensione divina della Bibbia e raggiungere un’interpretazione veramente «teologica» della Scrittura, devono essere considerati anche tre criteri fondamentali: [36] l'unità della Scrittura, la testimonianza della Tradizione e l’analogia della fede [37]. Il Concilio fa riferimento all’unità della Scrittura perché la Bibbia testimonia l’intera verità della salvezza soltanto nella sua multiforme totalità [38]. L’esegesi ha sviluppato modalità metodologiche per considerare il canone della Scrittura nel suo insieme come punto di riferimento ermeneutico per l’interpretazione della Scrittura. In tal modo è possibile valutare la significatività del contesto e del contenuto dei diversi libri e pericopi. Nel complesso, come insegna il Concilio, l’esegesi dovrebbe cercare di leggere e interpretare i testi biblici nell’ampio contesto della fede e della vita del popolo di Dio, sostenuto nel corso dei secoli dall’opera dello Spirito Santo. In tale contesto l’esegesi cerca il senso letterale e si apre al senso più pieno o spirituale (sensus plenior) della Scrittura [39]. «Soltanto dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica – di una esegesi adeguata a questo Libro» [40].

23. Affermando che lo studio della sacra Scrittura è «anima» della teologia, la Dei Verbum ha in mente tutte le discipline teologiche. Questo fondamento nella Parola rivelata di Dio, così com’è testimoniata dalla Scrittura e dalla Tradizione, è essenziale per la teologia. Suo compito primario è l’interpretazione della verità di Dio in quanto verità salvifica. Sollecitata dal Concilio Vaticano II, la teologia intende occuparsi in tutta la sua opera della Parola di Dio e quindi della testimonianza della Scrittura [41]. Così nelle esposizioni teologiche prima di ogni altra cosa vanno «proposti i temi biblici» [42]. Questo approccio corrisponde ancora una volta a quello dei Padri della Chiesa, che furono «in primo luogo ed essenzialmente dei “commentatori della sacra Scrittura”» [43], e apre la possibilità della collaborazione ecumenica: «L’ascolto comune delle Scritture spinge perciò al dialogo della carità e fa crescere quello della verità» [44].

24. Un criterio della teologia cattolica è che questa deve costantemente attingere alla testimonianza canonica della Scrittura, facendo sì che a tale testimonianza sia ancorata tutta la dottrina e la pratica della Chiesa, affinché «la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura» [45]. La teologia deve tentare di spalancare le Scritture ai fedeli cristiani [46], così che questi possano entrare in contatto con la Parola vivente di Dio (cfr Eb,4-12).

2. La fedeltà alla Tradizione apostolica

25. Gli Atti degli Apostoli danno una descrizione della vita delle prime comunità cristiane che è fondamentale per la Chiesa di ogni tempo: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42; cfr Ap 1,3). Questa concisa descrizione, che si colloca alla fine del racconto della Pentecoste, quando lo Spirito Santo aprì la bocca degli apostoli alla predicazione, portando alla fede molti tra coloro che li ascoltarono, mette in luce diversi aspetti essenziali dell’opera dello Spirito tuttora in corso nella Chiesa. Viene già tratteggiata un’anticipazione dell’insegnamento e della vita sacramentale della Chiesa, della sua spiritualità e del suo impegno alla carità. Tutte queste cose hanno avuto inizio nella comunità apostolica, e la trasmissione di questo stile di vita nello Spirito è la Tradizione apostolica. La lex orandi (la norma della preghiera), la lex credendi (la norma della fede) e la lex vivendi (la norma di vita) sono tutte aspetti essenziali di questa Tradizione. Paolo si riferisce alla Tradizione nella quale è stato incorporato come apostolo quando parla di «trasmettere» quello che egli stesso «ha ricevuto» (1 Cor 15,1-11, cfr anche 1 Cor 11,23-26).

26. La Tradizione è dunque qualcosa che è vivo e vitale, un processo in corso dove l’unità della fede trova espressione nella varietà dei linguaggi e nella diversità delle culture. Cessa di essere Tradizione se si fossilizza. «Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse […]. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» [47]. La Tradizione ha luogo nella potenza dello Spirito Santo, il quale, come promesso da Gesù ai discepoli, guida la Chiesa alla verità intera (cfr Gv 16,13) fissando fermamente la memoria di Gesù stesso (cfr Gv 14,26), mantenendo la Chiesa fedele alle sue origini apostoliche, rendendo possibile la trasmissione sicura della fede e incoraggiando una presentazione sempre attuale del Vangelo sotto la direzione dei pastori successori degli apostoli [48]. Componenti vitali della Tradizione sono quindi: uno studio costantemente rinnovato della sacra Scrittura, il culto liturgico, l’attenzione a ciò che ci hanno insegnato nel corso della storia i testimoni della fede, la catechesi che alimenta la crescita nella fede, l’amore pratico a Dio e al prossimo, il ministero ecclesiale strutturato e il servizio reso dal Magistero alla Parola di Dio. Ciò che viene trasmesso «comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all’incremento della fede». La Chiesa «nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» [49].

27. «Le affermazioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega» [50]. Poiché i Padri della Chiesa, d’Oriente come d’Occidente, hanno un ruolo unico nella «fedele trasmissione e spiegazione» della verità rivelata [51], i loro scritti sono un punto di riferimento specifico (locus) per la teologia cattolica. La Tradizione conosciuta e vissuta dai Padri era sfaccettata e pulsante di vita, come mostra la pluralità di famiglie liturgiche e di tradizioni spirituali ed esegetico-teologiche (ad esempio, le scuole di Alessandria e di Antiochia), una pluralità saldamente ancorata e unita nell’unica fede. Durante le grandi controversie del IV e V secolo, la conformità o meno di una dottrina al consenso dei Padri era prova di ortodossia o di eresia [52]. Per Agostino la testimonianza dell’insieme dei Padri era la voce della Chiesa [53]. I Concili di Calcedonia e Trento hanno dato inizio alle loro solenni dichiarazioni con la formula: «Secondo i Santi Padri…» [54], e il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I hanno indicato chiaramente che il «consenso unanime» dei Padri era guida sicura per l’interpretazione della Scrittura [55].

28. Molti dei Padri erano vescovi che, insieme ad altri vescovi, si raccoglievano nei Concili, prima regionali e successivamente mondiali o «ecumenici», che segnano la vita della Chiesa sin dai primissimi secoli, seguendo l’esempio degli apostoli (cfr At 15,6-21). Di fronte alle eresie cristologiche e trinitarie che minacciavano la fede e l’unità della Chiesa durante il periodo patristico, i vescovi si sono riuniti in grandi Concili ecumenici — Nicea I, Costantinopoli I, Efeso, Calcedonia, Costantinopoli II, Costantinopoli III e Nicea II — per condannare l’errore e proclamare la fede ortodossa nei credi e nelle definizioni di fede. Questi Concili hanno attribuito al loro insegnamento, e in particolare alle loro solenni definizioni, carattere normativo e universalmente vincolante; e queste definizioni esprimono e appartengono alla Tradizione apostolica e continuano a servire la fede e l’unità della Chiesa. Concili successivi, riconosciuti come ecumenici in Occidente, hanno proseguito questa prassi. Il Concilio Vaticano II fa riferimento alla funzione d’insegnamento o magistero del Papa e dei vescovi della Chiesa, e afferma che i vescovi insegnano in modo infallibile quando, o radunati col Vescovo di Roma in Concilio ecumenico, o in comunione con lui sebbene dispersi nel mondo, concordano che una particolare dottrina concernente la fede e i costumi «si impone in maniera assoluta». Il Papa stesso, capo del collegio dei vescovi, insegna in modo infallibile quando «quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli […] sancisce con atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale» [56].

29. La teologia cattolica riconosce l’autorità magisteriale dei Concili ecumenici, il magistero ordinario e universale dei vescovi, e il magistero papale. Riconosce lo speciale status dei dogmi, ossia asserzioni «nelle quali la Chiesa propone una verità rivelata in via definitiva, e secondo modalità che sono vincolanti per la Chiesa, così che la loro negazione è respinta in quanto eresia ed è colpita da anatema» [57]. I dogmi appartengono alla Tradizione apostolica viva e sempre attuale. I teologi sono ben consapevoli delle difficoltà attinenti al loro lavoro di interpretazione. Ad esempio, è necessario comprendere la questione oggetto di esame alla luce del suo contesto storico e discernere come il significato e il contenuto di un dogma sono legati alla sua formulazione [58]. Ciononostante i dogmi sono punti di riferimento sicuri per la fede della Chiesa e vengono usati come tali nella riflessione e argomentazione teologica.

30. Nella fede cattolica la Scrittura, la Tradizione e il Magistero della Chiesa sono congiunti inseparabilmente. «La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa», e «l’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa» [59]. La sacra Scrittura non è semplicemente un testo, ma locutio Dei [60] e Verbum Dei [61] testimoniata inizialmente dai profeti dell’Antico Testamento e infine dagli apostoli nel Nuovo Testamento (cfr Rm 1,1-2). Nata in seno al Popolo di Dio, e da questo unificata, letta e interpretata, la sacra Scrittura appartiene alla Tradizione viva della Chiesa, quale testimonianza canonica della fede per ogni tempo. Infatti, «la Scrittura è il primo elemento nella tradizione scritta» [62]. «[L]a Scrittura va proclamata, ascoltata, letta, accolta e vissuta come Parola di Dio, nel solco della Tradizione apostolica dalla quale è inseparabile» [63]. Questo processo è sostenuto dallo Spirito Santo, «per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo» [64]. «La sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio — affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli — ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura» [65].. Attinge tale certezza anche dalla Tradizione apostolica, poiché questa è il processo vivo dell’ascolto della Parola di Dio da parte della Chiesa.

31. Il Concilio Vaticano II distingue fra la Tradizione e quelle tradizioni che appartengono a periodi particolari della storia della Chiesa, o a particolari regioni e comunità, come, ad esempio, gli ordini religiosi o specifiche Chiese locali [66]. Questa distinzione fra Tradizione e tradizioni è stato uno dei principali compiti della teologia cattolica dopo il Vaticano II, e della teologia in generale negli scorsi decenni [67]. È un compito profondamente legato alla cattolicità della Chiesa, e che presenta numerose implicazioni ecumeniche. Sorgono numerosi interrogativi, come, ad esempio: «È possibile determinare in modo più preciso qual è il contenuto dell’unica Tradizione, e attraverso quali mezzi? Le tradizioni che si proclamano cristiane contengono tutte la Tradizione? Come possiamo distinguere fra tradizioni che esprimono la vera Tradizione e quelle che sono semplicemente tradizioni umane? Dove troviamo la vera Tradizione, e dove invece una tradizione impoverita o persino distorta? [68]. Da una parte la teologia deve dimostrare che la Tradizione apostolica non è qualcosa di astratto, ma che esiste concretamente nelle diverse tradizioni che si sono formate all’interno della Chiesa. D’altra parte la teologia deve esaminare perché certe tradizioni sono caratteristiche non della Chiesa nel suo insieme, ma soltanto di particolari ordini religiosi, Chiese locali o periodi storici. Mentre non è opportuno che la Tradizione apostolica sia soggetta a critica, le tradizioni devono invece essere sempre aperte alla critica, in modo che possa aversi quella «continua riforma» di cui ha bisogno la Chiesa [69], e in modo che la Chiesa possa rinnovarsi permanentemente sul suo unico fondamento, ossia Gesù Cristo. Una tale critica mira a verificare se una particolare tradizione esprime realmente la fede della Chiesa in un particolare tempo e luogo e cerca poi di rafforzarla o correggerla attraverso il contatto con la fede viva di ogni tempo e ogni luogo.

32. La fedeltà alla Tradizione apostolica è un criterio della teologia cattolica. Tale fedeltà richiede che vengano recepite in modo attivo e con discernimento le diverse testimonianze ed espressioni della Tradizione apostolica tuttora in corso. Essa comporta lo studio della sacra Scrittura, della liturgia e degli scritti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, nonché attenzione all’insegnamento del Magistero.

3. Attenzione al «sensus fidelium»

33. Nella sua prima lettera ai Tessalonicesi, San Paolo scrive: «Rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera per voi credenti» (1 Ts 2,13). Queste parole illustrano quello che il Concilio Vaticano II ha definito «il senso soprannaturale della fede [sensus fidei] di tutto il popolo» [70], e la «profonda esperienza delle cose spirituali» [71] da parte dei fedeli, ossia il sensus fidelium. Soggetto della fede è il popolo di Dio nel suo insieme, che nella potenza dello Spirito afferma la Parola di Dio. Per tale ragione il Concilio dichiara che la totalità del popolo di Dio partecipa al ministero profetico di Gesù [72] e che, avendo l’unzione che viene dallo Spirito Santo (cfr 1 Gv 2,20.27), «non può sbagliarsi nel credere» [73]. I pastori che guidano il popolo di Dio, al servizio della sua fede, sono essi stessi innanzitutto membri della comunione dei credenti. Quindi la Lumen gentium prima parla del popolo di Dio e del sensus fidei che questo ha [74], e poi dei vescovi [75] che, tramite la successione apostolica nell’episcopato e il conferimento del loro specifico charisma veritatis certum (carisma certo di verità) [76], costituiscono, in quanto collegio in comunione gerarchica con il loro capo, il Vescovo di Roma e successore di Pietro al soglio pontificio [77], il M agistero della Chiesa. Analogamente la Dei Verbum insegna che la Parola di Dio è stata «affidata alla Chiesa» e parla di come ad essa aderisca «tutto il popolo santo», per poi specificare che l’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio è affidato al Papa e ai vescovi [78]. Questo ordinamento è fondamentale per la teologia cattolica. Come ha affermato da sant’Agostino: «Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus» [79].

34. Occorre comprendere correttamente la natura e la localizzazione del sensus fidei o sensus fidelium. Per sensus fidelium non si intende semplicemente un’opinione di maggioranza in una data epoca o cultura, né si tratta soltanto di un’affermazione secondaria rispetto a ciò che viene prima insegnato dal Magistero. Il sensus fidelium è il sensus fidei del popolo di Dio nella sua totalità, obbediente alla Parola di Dio e guidato dai suoi pastori lungo le vie della fede. Il sensus fidelium è quindi il senso della fede profondamente radicato nel popolo di Dio che riceve, comprende e vive la parola di Dio nella Chiesa.

35. Per I teologi il sensus fidelium riveste grande importanza. Non è soltanto oggetto di attenzione e di rispetto, è anche fondamento e locus per il loro lavoro. Da una parte, i teologi dipendono dal sensus fidelium, poiché la fede da essi esplorata e spiegata vive nel popolo di Dio. È chiaro, quindi, che i teologi stessi devono partecipare alla vita della Chiesa per averne una reale conoscenza. D’altra parte, il servizio particolare dei teologi all’interno del corpo di Cristo è anche proprio quello di spiegare la fede della Chiesa così com’è contenuta nelle Scritture, nella liturgia, nei credi, nei dogmi, nei catechismi e nel sensus fidelium stesso. I teologi contribuiscono a chiarire e articolare il contenuto del sensus fidelium, riconoscendo e dimostrando che le problematiche relative alla verità della fede possono essere complesse e richiedono un’indagine puntuale [80]. Ricade inoltre su di loro il compito, di volta in volta, di esaminare criticamente le espressioni della pietà popolare, le nuove correnti di pensiero e i movimenti interni alla Chiesa, in nome della fedeltà alla Tradizione apostolica. Le valutazioni critiche dei teologi devono essere sempre costruttive; devono essere date con umiltà, rispetto e chiarezza: «La conoscenza (gnosis) riempie di orgoglio, mentre l’amore (agape) edifica» (1 Cor 8,1).

36. L’attenzione al sensus fidelium è un criterio della teologia cattolica. Questa dovrebbe cercare di scoprire e articolare correttamente ciò in cui credono effettivamente i fedeli cattolici. Deve parlare la verità nell’amore, in modo che i credenti possano maturare nella fede e non essere «in balia delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14-15).

4. Adesione responsabile al Magistero ecclesiastico

37. Nella teologia cattolica, il Magistero è parte integrante dell’opera teologica stessa, in quanto la teologia riceve il suo oggetto da Dio per mezzo della Chiesa, la cui fede è autenticamente interpretata dal «solo Magistero vivo della Chiesa» [81], ossia il Magistero del Papa e dei vescovi. La fedeltà al Magistero è necessaria affinché la teologia possa essere scienza della fede (scientia fidei) e funzione ecclesiale. Una corretta metodologia teologica richiede quindi una giusta comprensione della natura e autorità del Magistero ai suoi diversi livelli, e delle relazioni che correttamente esistono tra Magistero ecclesiastico e teologia [82]. Vescovi e teologi hanno una chiamata diversa, e devono rispettare le rispettive competenze, per evitare che il Magistero riduca la teologia a mera scienza ripetitiva, o i teologi presumano di sostituirsi all’ufficio di insegnamento dei pastori della Chiesa.

38. Una comprensione della Chiesa come comunione è un buon quadro di riferimento entro il quale considerare come tra teologi e vescovi, tra teologia e Magistero, possa esservi un rapporto di feconda collaborazione. La prima cosa da riconoscere è che i teologi nel loro lavoro e i vescovi nel loro magistero sottostanno entrambi al primato della Parola di Dio, e mai sono ad essa superiori [83]. Tra vescovi e teologi dovrebbe esserci una collaborazione ispirata al rispetto reciproco. Nell’ascolto obbediente a questa Parola e nella sua fedele proclamazione; nell’attenzione al sensus fidelium e nel servizio alla crescita e maturazione della fede; nella loro preoccupazione di trasmettere la Parola alle generazioni future, mostrando rispetto per le nuove sfide e interrogativi; e nella testimonianza colma di speranza dei doni già ricevuti; in tutte queste cose vescovi e teologi hanno i loro rispettivi ruoli in una missione comune [84] dalla quale Magistero e teologia traggono entrambi la propria legittimità e funzione [85]. La teologia studia e articola la fede della Chiesa, e il Magistero ecclesiastico proclama questa fede e la interpreta autenticamente [86].

39. Da una parte il Magistero ha bisogno della teologia per dare prova nei propri interventi non solo di autorità dottrinale, ma anche di competenza teologica e di capacità di valutazione critica; i teologi dovrebbero quindi essere chiamati a fornire assistenza nella preparazione e formulazione dei pronunciamenti magisteriali. D’altra parte il Magistero è per la teologia un ausilio indispensabile, in quanto trasmette autenticamente il deposito della fede (depositum fidei), soprattutto in momenti decisivi di discernimento. I teologi dovrebbero riconoscere il contributo dato dalle affermazioni magisteriali al progresso teologico, e operare affinché tali affermazioni vengano accolte. Gli stessi interventi magisteriali possono stimolare la riflessione teologica, e i teologi dovrebbero mostrare come i propri contributi si conformano e approfondiscono, precedenti affermazioni dottrinali del magistero. Esiste effettivamente nella Chiesa un certo «magistero» dei teologi [87], ma non possono invece trovarvi posto magisteri paralleli alternativi o contrari [88] o posizioni che separino la teologia dal Magistero della Chiesa.

40. Per quanto attiene poi all’interpretazione «autentica» della fede, il Magistero svolge un ruolo che la teologia semplicemente non può assumersi. La teologia non può sostituire un giudizio proveniente dalla comunità teologica scientifica a quello dei vescovi. L’accettazione di questa funzione del Magistero relativamente all’autenticità della fede richiede che vengano riconosciuti i diversi livelli delle affermazioni magisteriali [89]. A questi diversi livelli corrisponde una risposta differenziata da parte dei credenti e dei teologi. L’insegnamento del Magistero non ha tutto lo stesso peso. Questo è di per sé pertinente per il lavoro teologico, e infatti i diversi livelli sono descritti da quelle che vengono denominate «qualificazioni o note teologiche» [90].

41. Proprio in ragione di questa gradazione, l’obbedienza dovuta al Magistero da parte dei teologi in quanto membri del popolo di Dio comporta sempre un commento e una valutazione critica ma costruttiva [91]. La teologia cattolica non può esprimere «dissenso» nei confronti del Magistero, ma può e persino deve indagare e interrogare se vuole svolgere la propria funzione [92]. Qualunque sia la situazione, non basta che ci sia da parte dei teologi un’obbedienza o un’adesione meramente formale ed esteriore. I teologi dovrebbero cercare di approfondire la verità proclamata dal Magistero della Chiesa, ricercandone le implicazioni per la vita cristiana e per il servizio alla verità. In tal mondo i teologi esercitano il proprio compito e l’insegnamento del Magistero non si riduce a semplici citazioni decorative nel discorso teologico.

42. Il rapporto tra vescovi e teologi è spesso caratterizzato da cordialità e fiducia reciproca, nel pieno rispetto delle rispettive chiamate e responsabilità. Ad esempio, i vescovi assistono e partecipano alle riunioni nazionali e regionali delle associazioni teologiche, si rivolgono ad esperti teologici nella formulazione dei propri insegnamenti e orientamenti, e visitano e sostengono le Facoltà e le scuole teologiche presenti nelle loro diocesi. Inevitabilmente nel rapporto tra teologi e vescovi possono talvolta prodursi tensioni. Nella sua profonda analisi dell’interazione dinamica, all’interno dell’organismo vivente della Chiesa, fra i tre uffici di Cristo in quanto profeta, re e sacerdote, il beato John Henry Newman ha riconosciuto la possibilità di tali «contrasti o collisioni croniche» ed è bene ricordare che erano da lui considerati «nella norma delle cose» [93]. «La teologia è il principio fondamentale e regolatore di tutto il sistema ecclesiale», ha scritto, e tuttavia «non sempre la teologia può prevalere» [94]. Riguardo alle tensioni tra teologi e Magistero, la Commissione Teologica Internazionale si è così espressa nel 1975: «Dovunque c’è vera vita lì c’è pure una tensione. Essa non è inimicizia né vera opposizione, ma piuttosto una forza vitale e uno stimolo a svolgere comunitariamente ed in modo dialogico l’ufficio proprio di ciascuno» [95].

43. La libertà della teologia e dei teologi è un tema di particolare interesse [96]. Tale libertà «deriva da una vera responsabilità scientifica» [97]. Il concetto di adesione al Magistero talvolta produce un contrasto critico tra una cosiddetta teologia «scientifica» (dove mancano i presupposti della fede e l’obbedienza ecclesiale) e una cosiddetta teologia «confessionale» (elaborata all’interno di una confessione religiosa), ma tale contrapposizione non è adeguata [98]. Altri dibattiti vertono sulla libertà di coscienza del credente, o sull’importanza del progresso scientifico nell’indagine teologica, e il Magistero viene talvolta rappresentato come una forza repressiva o un freno al progresso. L’analisi di tali problematiche è di per sé parte del compito teologico, affinché possano essere correttamente integrati tra di loro gli aspetti scientifici e confessionali della teologia, e la libertà della teologia possa essere vista entro l’orizzonte del disegno e della volontà di Dio.

44. Dare adesione responsabile al Magistero nelle sue diverse gradazioni è un criterio della teologia cattolica. I teologi cattolici devono riconoscere la competenza dei vescovi e, in particolar modo, del collegio dei vescovi con a capo il Papa, a dare un’interpretazione autentica della Parola di Dio trasmessa nella Scrittura e nella Tradizione [99].

5. La comunità dei teologi

45. Come per qualsiasi altra vocazione cristiana, anche il ministero del teologo, oltre ad essere personale, è anche comunitario e collegiale. Viene cioè esercitato nella e per la Chiesa tutta, e viene vissuto in solidarietà con coloro che hanno avuto la medesima chiamata. I teologi sono giustamente consapevoli e orgogliosi degli stretti vincoli di solidarietà da cui sono uniti gli uni agli altri nel servizio al corpo di Cristo e al mondo. In molti modi diversi, in quanto colleghi presso le scuole e le Facoltà teologiche, in quanto membri delle stesse società e associazioni teologiche, in quanto collaboratori nella ricerca, e in quanto scrittori e docenti, essi si sostengono, si incoraggiano e si ispirano a vicenda; fungono inoltre da guide e mentori per coloro, in particolare studenti universitari, che aspirano a diventare teologi. Inoltre, com’è giusto, tali vincoli di solidarietà si estendono nello spazio e nel tempo, unendo tra di loro teologi di Paesi e culture diverse, come pure teologi appartenenti a epoche e contesti differenti. Questa solidarietà è veramente utile quando promuove la consapevolezza e l’osservanza dei criteri della teologia cattolica così come sono stati individuati in questo documento. Nessuno meglio dei loro colleghi può assistere i teologi cattolici nel loro intento di offrire il miglior servizio possibile, conformemente alle vere caratteristiche della loro disciplina.

46. Al giorno d’oggi, nella ricerca e nelle pubblicazioni, è sempre più diffusa la collaborazione, sia all’interno dello stesso campo teologico, sia in quello trasversale. Vanno promosse le occasioni di interventi, seminari e conferenze, che possano rafforzare la conoscenza e l’apprezzamento reciproco tra colleghi di istituzioni e Facoltà teologiche. Vanno inoltre incoraggiate anche le occasioni di incontro e scambio interdisciplinare tra teologi e filosofi, scienziati naturali e sociali, storici e così via, poiché, come esposto in questo documento, la teologia è una scienza che si sviluppa nell’interazione con le altre scienze, e queste fanno altrettanto nello scambio proficuo con la teologia.

47. In ragione della natura stessa del loro compito, i teologi spesso operano alle frontiere dell’esperienza e della riflessione della Chiesa. In particolare, dato l’ormai ampio numero di teologi laici che hanno esperienza di particolari aree di interazione tra la Chiesa e il mondo, tra il Vangelo e la vita, con le quali possono non avere invece altrettanta familiarità i teologi ordinati e i teologi religiosi, si verifica spesso che, in presenza di nuove circostanze o questioni, i teologi diano un’articolazione iniziale della «fede che cerca di comprendere». I teologi necessitano e meritano di essere sostenuti dalla preghiera di tutta la comunità ecclesiale, e soprattutto reciproca, nei loro sinceri sforzi a favore della Chiesa, ma in tali circostanze è particolarmente importante un’attenta adesione ai criteri fondamentali della teologia cattolica. I teologi dovrebbero essere sempre consapevoli della provvisorietà intrinseca del loro lavoro e sottoporre la loro opera all’esame e alla valutazione di tutta la Chiesa [100].

48. Tra i servizi più preziosi che i teologi si rendono a vicenda vi è quello del reciproco porre interrogativi e della correzione scambievole, ad esempio nella prassi medievale della disputatio e nella consuetudine odierna di sottoporre alla revisione reciproca i propri scritti, in modo che idee e i metodi possano essere progressivamente affinati e perfezionati; questo processo, che di norma trova il suo corretto svolgimento all’interno della comunità teologica stessa [101], può tuttavia essere, per sua stessa natura, lento e limitato ad una dimensione privata; soprattutto in quest’epoca di comunicazione istantanea e di diffusione delle idee ben oltre i confini della comunità teologica propriamente detta, sarebbe poco realistico presumere che un tale meccanismo di autocorrezione sia sufficiente in ogni caso. I vescovi, che custodiscono i fedeli, insegnando loro e prendendosene cura, hanno certamente il diritto e il dovere di parlare, di intervenire e se necessario di censurare il lavoro teologico che essi ritengono essere erroneo o nocivo [102].

49. La ricerca e il dialogo ecumenico costituiscono un ambito unicamente privilegiato e potenzialmente proficuo per la collaborazione tra i teologi cattolici e quelli di altre tradizioni cristiane. Durante questo scambio vengono sottoposte ad una riflessione approfondita tematiche relative alla fede, al significato e al linguaggio. Lavorando per promuovere la comprensione reciproca su questioni che sono state causa di contrasti tra le rispettive tradizioni, i teologi agiscono da ambasciatori per le loro comunità nel santo compito di ricercare la riconciliazione e l’unità dei cristiani, in modo che il mondo possa credere (cfr Gv 17,21). Questa funzione di ambasciatore richiede da parte dei partecipanti cattolici una particolare adesione ai criteri qui esposti, in modo che le molteplici ricchezze contenute nella tradizione cattolica possano essere veramente offerte in quello «scambio di doni» che in un certo senso è sempre il dialogo ecumenico e la collaborazione in generale [103].

50. Un criterio della teologia cattolica è che va esercitata nella collaborazione professionale, nella preghiera e nella carità con l’intera comunità dei teologi cattolici nella comunione ecclesiale, in uno spirito di apprezzamento e sostegno reciproco, attenti sia alle necessità e ai commenti dei fedeli, sia alla guida dei pastori della Chiesa.

6. In dialogo con il mondo

51. «Il popolo di Dio […] crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo» [104]. Il Concilio Vaticano II ha affermato che la Chiesa quindi deve essere pronta a discernere «negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni […] del nostro tempo» quali siano i veri segni dell’agire dello Spirito [105]. «Per svolgere [il proprio] compito è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi [signa temporum perscrutandi] e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico» [106].

52. Nel vivere con fede la loro esistenza quotidiana nel mondo, tutti i cristiani si confrontano con la sfida di interpretare gli avvenimenti e le crisi che caratterizzano le vicende umane, e tutti partecipano a conversazioni e dialoghi in cui, inevitabilmente, viene messa in discussione la fede e si richiede una risposta. La Chiesa intera vive, per così dire, nell’interfaccia tra il Vangelo e la vita quotidiana, che è anche il confine tra passato e futuro man mano che la storia va avanti. La Chiesa è sempre in dialogo e sempre in movimento, e all’interno della comunione dei battezzati, tutti in tal modo dinamicamente impegnati, particolari responsabilità ricadono su vescovi e teologi, come sottolineato dal Concilio. «È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta» [107].

53. A tale riguardo la teologia ha una particolare competenza e responsabilità. Mediante un dialogo costante con le correnti sociali, religiose e culturali del tempo, e con l’apertura verso altre scienze che, utilizzando i propri metodi, studiano questi sviluppi, la teologia può aiutare i fedeli e il Magistero a vedere l’importanza dei movimenti, avvenimenti e tendenze della storia umana, e a discernere e interpretare i modi attraverso i quali è possibile che lo Spirito stia parlando alla Chiesa e al mondo.

54. Per «segni dei tempi» si possono intendere quegli avvenimenti o fenomeni nella storia umana che in un certo senso, in ragione della loro portata o impatto, definiscono un periodo e danno espressione a particolari esigenze o aspirazioni dell’umanità di quel tempo. L’uso che fa il Concilio dell’espressione «segni dei tempi» mostra come avesse pienamente riconosciuto la storicità non solo del mondo, ma anche della Chiesa, che è nel mondo (cfr Gv 17,11.15.18) sebbene non del mondo (cfr Gv 17,14.16). Ciò che accade nel mondo in generale, in positivo o in negativo, non può mai lasciare indifferente la Chiesa. Il mondo è il luogo dove la Chiesa, sulle orme di Cristo, annuncia il Vangelo, rende testimonianza alla giustizia e misericordia di Dio, e partecipa al dramma della vita umana.

55. Negli ultimi secoli si sono avuti grandi sviluppi sociali e culturali. Si potrebbero, ad esempio, citare la scoperta della storicità, e movimenti come l’Illuminismo e la Rivoluzione francese (con i suoi ideali di libertà, uguaglianza e fraternità), i movimenti per l’emancipazione e la promozione dei diritti delle donne, i movimenti per la pace e la giustizia, i movimenti di liberazione e democratizzazione, e il movimento ecologico. In passato l’ambivalenza della storia umana ha portato talvolta la Chiesa ad essere eccessivamente cauta nei confronti di questi movimenti, vedendo soltanto le minacce che questi potevano presentare per la dottrina e la fede cattolica, e trascurandone la significatività. Questi atteggiamenti, tuttavia, si sono gradualmente modificati grazie al sensus fidei del Popolo di Dio, alla chiaroveggenza di singoli credenti profetici, e al paziente dialogo tra teologi e culture circostanti. Si è fatto un miglior discernimento alla luce del Vangelo, con una più pronta disponibilità a vedere come lo Spirito di Dio potesse parlare attraverso tali eventi. In ogni caso il discernimento deve fare un’attenta distinzione tra elementi compatibili col Vangelo e quelli che vi sono contrari, tra contributi positivi e aspetti ideologici, ma la maggiore comprensione del mondo che ne risulta non può che spingere verso un più penetrante apprezzamento di Cristo Signore e del Vangelo [108], poiché Cristo è il Salvatore del mondo.

56. Se il mondo della cultura umana trae vantaggio dall’attività della Chiesa, anche questa beneficia della storia e dell’evoluzione del genere umano». «L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa» [109]. Il meticoloso lavoro di intrecciare legami proficui con altre discipline, scienze e culture per meglio illuminare e ampliare queste vie è compito particolare dei teologi, e il discernimento dei segni dei tempi presenta grandi opportunità per l’opera teologica, nonostante le complesse questioni ermeneutiche che vengono sollevate. Grazie al lavoro di molti teologi, il Concilio Vaticano II ha potuto riconoscere diversi segni dei tempi con riferimento al proprio insegnamento [110].

57. Prestando ascolto alla Parola finale di Dio in Gesù Cristo, i cristiani sono aperti a cogliere le risonanze della sua voce in altre persone, luoghi e culture (cfr At 15,15-17; 17,24-28; Rm 1,19-20). Il Concilio ha esortato i fedeli a «conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti» [111]. Ha insegnato specificamente che la Chiesa cattolica «nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle religioni non cristiane, i cui precetti e dottrine «non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina» ogni persona [112]. Portare alla luce questi germi e discernere questi raggi di verità è anche questo compito speciale dei teologi, che hanno un importante contributo da offrire al dialogo interreligioso.

58. Un criterio della teologia cattolica è che questa dovrebbe essere in dialogo costante con il mondo. Dovrebbe aiutare la Chiesa a leggere i segni dei tempi, illuminata dalla luce che viene dalla rivelazione divina, e nel far ciò a trarne vantaggio nella sua vita e missione.



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[Modificato da Caterina63 09/01/2013 23:19]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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[SM=g1740758] Capitolo Terzo
Rendere Ragione della Verità di Dio

59. La Parola di Dio, accolta nella fede, illumina l’intelligenza e la comprensione del credente. La Rivelazione non viene ricevuta dalla mente umana in modo esclusivamente passivo. Al contrario, l’intelligenza credente abbraccia attivamente la verità rivelata [113]. Spinta dall’amore, si sforza di assimilarla poiché questa Parola risponde ai suoi interrogativi più profondi. Senza aver mai la pretesa di esaurire le ricchezze della Rivelazione, cerca di apprezzare ed esplorare l’intelligibilità della Parola di Dio — fides quaerens intellectum — e di dare una spiegazione ragionata della verità di Dio. In altri termini cerca di esprimere la verità di Dio nelle modalità razionali e scientifiche che sono proprie della comprensione umana.

60. In una triplice indagine, affrontando un certo numero di tematiche attuali, questo capitolo esamina alcuni aspetti essenziali della teologia in quanto razionale attività umana, con una sua posizione autentica e insostituibile all’interno della ricerca intellettuale. Innanzitutto la teologia è un lavoro della ragione illuminata dalla fede (ratio fide illustrata), che cerca di tradurre in discorso scientifico la Parola di Dio espressa nella rivelazione. In secondo luogo, la varietà di metodi razionali da essa impiegati e la pluralità delle discipline teologiche specializzate che ne risultano sono comunque compatibili con l’unità fondamentale della teologia in quanto discorso su Dio alla luce della rivelazione. Terzo, la teologia è strettamente legata all’esperienza spirituale, che essa illumina e dalla quale è sua volta alimentata, e per sua natura si apre ad una sapienza autentica con un vivo senso della trascendenza del Dio di Cristo Gesù.

1. Verità di Dio e razionalità della teologia

61. In questa sezione vengono considerati alcuni aspetti della storia della teologia, dalle sfide dei primi tempi a quelle attuali, con riferimento alla natura scientifica della teologia. Siamo chiamati a conoscere Dio, a conoscere la verità di Dio: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Gesù è venuto a rendere testimonianza alla verità (cfr Gv 18,37) e si è presentato come «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Questa verità è un dono che discende dal «Padre, creatore della luce» (Gc 1,17). Dio Padre ha iniziato quest’opera di chiarimento (cfr Gal 4,4-7) e sarà lui a portarla a compimento (cfr Ap 21,5-7). Lo Spirito Santo è sia Paraclito, consolatore dei fedeli, sia «Spirito della verità» (Gv 14,16-17), che ispira e illumina la verità e guida i fedeli «a tutta la verità» (Gv 16,13). La rivelazione finale della pienezza della verità di Dio sarà il compimento ultimo dell’umanità e della creazione (1 Cor 15,28). Corrispondentemente, il mistero della Trinità deve essere al centro della contemplazione teologica.

62. La verità di Dio, accolta nella fede, incontra la ragione umana. Creata a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26-27) la persona umana è capace, grazie alla luce della ragione, di penetrare al di là delle apparenze fino alla verità profonda delle cose, aprendosi così alla realtà universale. Il riferimento comune alla verità, che è oggettiva e universale, rende possibile un dialogo autentico tra le persone umane. Lo spirito umano è sia intuitivo sia razionale. È intuitivo in quanto coglie spontaneamente i princìpi primi della realtà e del pensiero. È razionale in quanto, partendo da questi princìpi primi, e utilizzando rigorose procedure di analisi e indagine, scopre progressivamente verità precedentemente ignote e le organizza in modo coerente. La «scienza» è la più alta forma che può assumere la coscienza razionale. Designa una forma di conoscenza in grado di spiegare come e perché le cose sono come sono. La ragione umana, essa stessa parte della realtà creata, non si limita a proiettare sulla realtà, con la sua ricchezza e complessità, una struttura di intelligibilità; si adatta all’intelligibilità intrinseca della realtà. A seconda del suo oggetto, ossia del particolare aspetto della realtà che sta studiando, la ragione applica metodi diversi adattati all’oggetto stesso. La razionalità è quindi una, ma assume una pluralità di forme, e tutte sono strumenti rigorosi per acquisire l’intelligibilità della realtà. La scienza analogamente è pluriforme, in quanto ogni scienza ha un suo oggetto e metodo specifico. Esiste una tendenza moderna che riserva il termine «scienza» alle sole scienze dure o hard sciences (matematica, scienze sperimentali ecc.), considerando invece irrazionale o semplice opinione la conoscenza che non corrisponde ai criteri di queste scienze. Questa visione univoca della scienza e della razionalità è riduttiva e inadeguata.

63. La verità rivelata di Dio, quindi, richiede e al contempo stimola la ragione del credente. Da una parte, la verità della Parola di Dio deve essere esaminata e scandagliata dal credente; è così che ha inizio l’intellectus fidei, la forma assunta qui sulla terra dal desiderio del credente di vedere Dio 114. Suo scopo non è affatto sostituire la fede [115], ma piuttosto esso si sviluppa naturalmente dall’atto di fede del credente, e può effettivamente assistere coloro la cui fede vacilla di fronte all’ostilità [116]. Frutto della riflessione razionale del credente è una comprensione delle verità della fede. Tramite l’uso della ragione, il credente coglie i collegamenti profondi tra le diverse tappe della storia della salvezza e anche tra i diversi misteri di fede che si illuminano a vicenda. D’altra parte la fede stimola la ragione stessa e ne allarga i limiti. La ragione è spinta ad esplorare vie che da sola non avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. La ragione esce arricchita da questo incontro con la Parola di Dio, poiché scopre nuovi e insospettati orizzonti [117].

64. Il dialogo tra fede e ragione, tra teologia e filosofia, è quindi necessario non solo alla fede ma anche alla ragione, come spiega Papa Giovanni Paolo II nella Fides et ratio [118]. È necessario perché una fede che rifiuta o disdegna la ragione rischia di cadere nella superstizione o nel fanatismo, mentre una ragione che si chiude deliberatamente alla fede può fare anche grandi progressi ma non raggiungerà la sommità di ciò che può essere conosciuto. Questo dialogo è possibile grazie all’unità della verità nella diversità dei suoi aspetti. Le verità abbracciate nella fede e le verità scoperte dalla ragione non solo non possono in ultima analisi contraddirsi, in quanto procedono dalla medesima fonte, la verità stessa di Dio, creatore della ragione e datore della fede [119], e di fatto si sostengono e si illuminano a vicenda: «La retta ragione dimostri i fondamenti della fede e, illuminata da questa, coltivi la scienza delle cose divine, e la fede, dal canto suo, renda la ragione libera da errori, arricchendola di numerose cognizioni» [120].

65. Questo è il motivo profondo per cui, nonostante che nel pensiero antico religione e filosofia fossero spesso contrapposte, sin dall’inizio la fede cristiana le ha riconciliate in una più ampia visione. In effetti, mentre assumeva la forma di religione, il primo cristianesimo ha spesso visto se stesso non come una nuova religione, ma piuttosto come la vera filosofia [121], capace di arrivare alla verità ultima. Il cristianesimo riteneva di poter insegnare la verità sia su Dio sia sull’esperienza umana. Nel loro impegno verso la verità i Padri della Chiesa hanno quindi deliberatamente creato una distanza tra la loro teologia e la teologia «mitica» e «politica», così come queste venivano percepite all’epoca. La teologia mitica narrava le vicende degli dèi in un modo che non rispettava la trascendenza del divino; la teologia politica costituiva un approccio puramente sociologico e utilitaristico alla religione, incurante della verità. I Padri della Chiesa collocavano il cristianesimo a fianco della «teologia naturale», che sosteneva di poter offrire una spiegazione razionale della «natura» degli dèi [122]. Tuttavia, insegnando che il Logos, principio di ogni cosa, era un essere personale con un volto e un nome, e che questi ricercava l’amicizia con l’umanità, il cristianesimo ha purificato e trasformato l’idea filosofica di Dio, e l’ha introdotta nel dinamismo dell’amore (agape).

66. I grandi teologi d’Oriente hanno colto nell’incontro tra cristianesimo e filosofia greca una provvidenziale occasione per riflettere sulla verità della rivelazione, e cioè la verità del Logos. Per difendere e illuminare i misteri della fede (la consustanzialità delle persone della Trinità, l’unione ipostatica ecc.) hanno adottato, prontamente ma criticamente, i concetti filosofici e li hanno messi al servizio di una comprensione della fede. Tuttavia hanno anche fermamente insistito sulla dimensione apofatica della teologia: la teologia non deve mai ridurre il Mistero [123]. In Occidente, alla fine del periodo patristico, Boezio ha inaugurato un modo di fare teologia che accentuava la natura scientifica dell’intellectus fidei. Nei suoi opuscula sacra ha raccolto tutte le risorse della filosofia ponendole al servizio della chiarificazione della dottrina cristiana, e ha offerto un’esposizione sistematica e assiomatica della fede [124]. Questo nuovo metodo teologico, che utilizza sofisticati strumenti filosofici e mira ad una certa sistematizzazione, ebbe anche qualche sviluppo in Oriente, ad esempio con san Giovanni Damasceno.

67. In tutto il periodo medievale, soprattutto poi con la fondazione delle università e lo sviluppo della metodologia scolastica, la teologia si è progressivamente differenziata, ma non necessariamente separata, da altre forme dell’intellectus fidei (ad esempio, la lectio divina, la predicazione). Si è costituita veramente come scienza, secondo il criterio di scienza esposto da Aristotele, soprattutto nei suoi analytica posteriora: e cioè, per ragionamento era possibile dimostrare perché qualcosa era così e non altrimenti, e per ragionamento era possibile arrivare alle conclusioni partendo dai princìpi. I teologi scolastici cercavano di presentare il contenuto intelligibile della fede cristiana nella forma di una sintesi razionale e scientifica. Per far ciò hanno considerato gli articoli di fede come princìpi nella scienza della teologia. I teologi hanno poi utilizzato la ragione per stabilire con precisione la verità rivelata e per difenderla dimostrando che non era contraria alla ragione, o dimostrandone l’intelligibilità interna. In quest’ultimo caso formulavano una gerarchia (ordo) di verità, cercando quelle che fra tutte fossero le più fondamentali e quindi potessero meglio illuminare le altre [125]. Articolavano le connessioni intelligibili tra i misteri (nexus mysteriorum), e la sintesi così raggiunta esponeva il contenuto intelligibile della parola di Dio in modo scientifico, secondo le esigenze e le capacità della ragione umana. Questo ideale scientifico, tuttavia, non ha mai preso la forma di un sistema ipotetico-deduttivo. Piuttosto è sempre stato modellato sulla realtà che veniva contemplata, la quale supera di gran lunga le capacità della ragione umana. Inoltre, nonostante che i teologi scolastici si siano impegnati in vari esercizi e abbiano utilizzato generi letterari diversi dal commento scritturale, la loro fonte viva di ispirazione era la Bibbia: la teologia mirava appunto ad una migliore comprensione della Parola, e san Bonaventura e san Tommaso si consideravano innanzitutto magistri in sacra pagina. Il ruolo svolto dall’argomento di convenienza (argumentum ex convenientia)era cruciale. Il teologo non ragiona a priori, ma ascolta la rivelazione e ricerca le vie sapienti che Dio ha liberamente scelto nel suo progetto d’amore. Fermamente basata sulla fede, quindi, la teologia ha considerato se stessa come una partecipazione umana alla conoscenza che Dio ha di sé e di tutte le cose (quaedam impressio divinae scientiae quae est una et simplex omnium) [126]. È stata questa la fonte primaria della sua unità.

68. Verso la fine del Medioevo, la struttura unificata della sapienza cristiana, della quale la teologia era elemento centrale, cominciò a sgretolarsi. La filosofia e altre discipline secolari si distaccarono sempre più dalla teologia, e la teologia stessa si frammentò in diverse specializzazioni che talvolta persero di vista la loro profonda connessione. Ci fu una tendenza da parte della teologia a prendere le distanze dalla Parola di Dio, così da diventare in alcuni casi una riflessione puramente filosofica applicata a questioni religiose. Allo stesso tempo, forse in ragione di questo allontanamento dalla Scrittura, si affievolirono la sua dimensione teo-logica e la sua finalità spirituale, e la vita spirituale cominciò a svilupparsi separatamente da una teologia universitaria razionalizzante, e persino in contrapposizione a quest’ultima [127]. La teologia, così frammentata, si fece sempre più distante dalla vita reale del popolo cristiano e meno preparata a rispondere alle sfide della modernità.

69. La teologia scolastica è stata criticata durante la Riforma per aver attribuito un valore eccessivo alla razionalità della fede, non dando invece sufficiente peso al danno arrecato dal peccato alla ragione. La teologia cattolica ha risposto continuando a tenere in grande considerazione l’antropologia dell’immagine di Dio (imago Dei) e la capacità e responsabilità della ragione, ferita ma non distrutta dal peccato, e indicando la Chiesa come il luogo dove Dio poteva essere veramente conosciuto e la scienza della fede veramente sviluppata. La Chiesa cattolica ha così tenuto aperta la possibilità di un dialogo con la filosofia, la filologia e le scienze storiche e naturali.

70. La critica mossa alla fede e alla teologia durante l’Illuminismo, tuttavia, è stata più radicale. Per certi versi l’Illuminismo aveva una spinta religiosa. Tuttavia, allineandosi con il deismo, gli illuministi vedevano adesso una differenza irriconciliabile tra i fatti contingenti della storia e le reali necessità della ragione. La verità, secondo loro, non andava ricercata nella storia, e la Rivelazione, in quanto evento storico, non poteva più essere una fonte affidabile di conoscenza per gli esseri umani. In molti casi la teologia cattolica ha risposto alla sfida del pensiero illuminista con un atteggiamento difensivo. Ha dato priorità all’apologetica più che alla dimensione sapienziale della fede, ha operato una separazione eccessiva tra ordine naturale della ragione e ordine soprannaturale della fede, e ha attribuito grande importanza alla «teologia naturale», e troppo poca all’intellectus fidei, nella comprensione dei misteri della fede. Da questo incontro la teologia cattolica è così uscita per molti versi danneggiata dalla sua stessa strategia. Nelle sue espressioni migliori, tuttavia, ha anche ricercato un dialogo costruttivo con l’Illuminismo e con la sua critica filosofica. Con riferimento alla Scrittura e all’insegnamento della Chiesa, è stato criticato teologicamente il concetto di rivelazione meramente istruttiva, e il concetto di rivelazione è stato rimodulato come rivelazione che Dio fa di sé in Cristo, in modo che la storia poteva ancora essere vista come il luogo degli atti salvifici di Dio.

71. Oggi esiste una nuova sfida, e la teologia cattolica deve affrontare una crisi post-moderna della ragione classica stessa, che ha gravi implicazioni per l’intellectus fidei. Il concetto di verità sembra essere assai problematico. Esiste veramente la «verità»? Si può parlare di un’unica «verità»? Un concetto del genere può forse condurre all’intolleranza e alla violenza? La teologia cattolica tradizionalmente opera con un forte senso della capacità della ragione di andare oltre le apparenze e arrivare alla realtà e alla verità delle cose, ma oggi la ragione viene spesso percepita come debole e sostanzialmente incapace di arrivare alla «realtà». Esiste quindi un problema in quanto l’orientamento metafisico della filosofia, che è stato importante per i precedenti modelli della teologia cattolica, continua a conoscere una crisi profonda. La teologia può contribuire a superare tale crisi e a dare nuova vita ad una metafisica autentica. La teologia cattolica, comunque, è interessata a entrare in dialogo sulla questione di Dio e della verità con tutte le filosofie contemporanee.

72. Nella Fides et ratio, Papa Giovanni Paolo II ha respinto sia lo scetticismo filosofico sia il fideismo, richiamando la necessità di un rinnovamento del rapporto tra teologia e filosofia. Ha riconosciuto nella filosofia una scienza autonoma e un interlocutore cruciale per la teologia. Ha insistito che la teologia deve necessariamente ricorrere alla filosofia: senza la filosofia la teologia non può verificare la validità delle proprie asserzioni, né chiarificare le proprie idee, né comprendere correttamente le diverse scuole di pensiero [128]. «Punto di partenza e fonte» della teologia è la Parola di Dio rivelata nella storia, e la teologia cerca di comprendere questa Parola. Tuttavia la Parola di Dio è Verità (cfr Gv 17,17), e ne consegue che la filosofia, «ricerca umana della verità», può contribuire alla comprensione della Parola di Dio [129].

73. Un criterio della teologia cattolica è che questa deve cercare di dare una presentazione, argomentata scientificamente e razionalmente, delle verità della fede cristiana. Per far ciò deve ricorrere alla ragione e deve riconoscere il forte rapporto tra fede e ragione, in primo luogo la ragione filosofica, così da superare sia il fideismo sia il razionalismo [130].

2. L’unità della teologia nella pluralità di metodi e discipline

74. Questa sezione esamina il rapporto tra teologia e teologie, e anche tra la teologia e le altre scienze. La teologia cattolica, fondamentalmente intesa con sant’Agostino come «ragionamento o discorso su Dio» [131], nella sua essenza è una e in quanto scienza ha le sue caratteristiche distintive: suo oggetto è il Dio uno e unico, e studia il suo oggetto nella maniera ad essa propria, ossia con l’uso della ragione illuminata dalla Rivelazione. Proprio all’inizio della Summa theologiae, san Tommaso spiega che tutto in teologia è compreso in riferimento a Dio, sub ratione Dei [132]. La grande diversità di questioni che il teologo è chiamato a considerare trova la sua unità in questo riferimento ultimo a Dio. Tutti i «misteri» contenuti nei diversi trattati teologici si riferiscono a quello che è, nel senso più stretto, l’unico Mistero assoluto, ossia il Mistero di Dio. Il riferimento a questo Mistero unifica la teologia, nell’ampio ventaglio di temi e contesti che questa ha, e il concetto di reductio in Mysterium può essere prezioso come espressione del dinamismo che unisce in modo profondo le proposizioni teologiche. Poiché il Mistero di Dio è rivelato in Cristo per la potenza dello Spirito Santo, il Concilio Vaticano II ha espresso la necessità che tutti i trattati teologici venissero «rinnovati per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza» [133].

75. I Padri della Chiesa conoscevano il termine «teologia» soltanto nella forma singolare. Per loro la teologia non era «mito», ma il Logos di Dio stesso. Nella misura in cui lo spirito umano è impresso dallo Spirito di Dio attraverso la rivelazione del Logos, ed è condotto a contemplare l’infinito mistero della sua natura e azione, anche gli esseri umani sono messi in grado di fare teologia. Nella teologia scolastica, la diversità delle questioni studiate dai teologi poteva giustificare l’impiego di vari metodi, ma non veniva mai messa in dubbio l’unità fondamentale della teologia. Verso la fine del Medioevo, tuttavia, c’è stata la tendenza ad operare una distinzione e addirittura una separazione tra teologia scolastica e teologia mistica, tra teologia speculativa e teologia positiva, e così via. Nei tempi moderni, in misura crescente, la parola «teologia» viene utilizzata al plurale. Si parla delle «teologie» di diversi autori, periodi o culture, riferendosi ai concetti distintivi, temi significativi e prospettive specifiche di queste «teologie».

76. Diversi fattori hanno contribuito a questa moderna pluralità di «teologie».

- Nella teologia è sempre più accentuata la specializzazione interna in discipline diverse: ad esempio, studi biblici, liturgia, patristica, storia della Chiesa, teologia fondamentale, teologia sistematica, teologia morale, teologia pastorale, spiritualità, catechetica e diritto canonico. Un tale sviluppo è inevitabile e comprensibile, in considerazione della natura scientifica della teologia e delle esigenze della ricerca.

- C’è una diversificazione degli stili teologici sotto l’influsso esterno di altre scienze: ad esempio, la filosofia, la filologia, la storia, e le scienze sociali, naturali e della vita. Di conseguenza in ambiti centrali della teologia cattolica di oggi coesistono forme di pensiero molto diverse: ad esempio, la teologia trascendentale e la teologia storica della salvezza, la teologia analitica, la rinnovata teologia scolastica e metafisica, la teologia politica e della liberazione.

- Per quanto riguarda la pratica della teologia, cresce costantemente la molteplicità di temi, luoghi, istituzioni, intenti, contesti e interessi, e si riscontra un nuovo apprezzamento della pluralità e varietà delle culture [134].

77. La pluralità delle teologie è indubbiamente necessaria e giustificata 135. È innanzitutto conseguenza dell’abbondanza della stessa divina verità, che gli esseri umani possono cogliere soltanto nei suoi specifici aspetti e mai nel suo insieme, e inoltre mai in via definitiva, ma sempre, per così dire, con occhi nuovi. Inoltre, in ragione della diversità degli oggetti da essa considerati e interpretati (ad esempio, Dio, gli esseri umani, gli eventi storici, i testi), e della diversità stessa dell’interrogarsi umano, la teologia deve inevitabilmente ricorrere ad una pluralità di discipline e metodi [136], secondo la natura dell’oggetto studiato. La pluralità di teologie rispecchia in effetti la cattolicità della Chiesa, che si sforza di proclamare l’unico Vangelo alle persone in ogni luogo e in ogni circostanza.

78. La pluralità, naturalmente, ha i suoi limiti. Esiste una fondamentale differenza tra il legittimo pluralismo della teologia da una parte, e il relativismo, eterodossia o eresia, dall’altra. Lo stesso pluralismo, tuttavia, è problematico se manca la comunicazione tra discipline teologiche diverse, o se non vi sono criteri concordati attraverso i quali le diverse forme di teologia possano essere comprese — da se stesse e dagli altri — come teologia cattolica. Essenziale per evitare o superare questi problemi è un comune riconoscimento fondamentale della teologia come impresa razionale, scientia fidei e scientia Dei, così che ogni teologia possa essere valutata in relazione ad una verità universale comune.

79. La ricerca di unità tra la pluralità delle teologie assume oggi svariate forme: l’insistenza sul riferimento ad una tradizione ecclesiale comune della teologia, l’esercizio del dialogo e della interdisciplinarietà, e l’attenzione volta a evitare che le altre discipline con cui si confronta la teologia impongano su di essa il proprio «magistero». L’esistenza di una tradizione teologica comune nella Chiesa (che deve essere distinta dalla Tradizione stessa, ma non da questa disgiunta [137]) è un fattore importante nell’unità della teologia. Nella teologia esiste una memoria comune, in modo che alcuni risultati storici (ad esempio, gli scritti dei Padri della Chiesa, sia d’Oriente sia d’Occidente, e la sintesi di san Tommaso, Doctor communis [138]) restano come punti di riferimento per la teologia di oggi. È vero che alcuni aspetti della precedente tradizione teologica possono e talvolta devono essere abbandonati, ma il lavoro del teologo non può mai fare a meno di un riferimento critico alla Tradizione che l’ha preceduto.

80. Le varie forme di teologia che possono essenzialmente essere oggi identificate (ad esempio, teologia biblica, storica, fondamentale, sistematica, pratica, morale), caratterizzate dalle loro diverse fonti, metodi e compiti, sono tutte fondamentalmente unite da uno sforzo teso alla vera conoscenza di Dio e del piano salvifico di Dio. Tra di esse dovrebbe quindi esserci una stretta comunicazione e cooperazione. Il dialogo e la collaborazione interdisciplinare sono mezzi indispensabili per garantire ed esprimere l’unità della teologia. «Teologia», al singolare, non sta assolutamente a indicare una uniformità di stili o concetti; piuttosto designa una ricerca comune della verità, un comune servizio al corpo di Cristo e la comune devozione all’unico Dio.



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/01/2013 23:23
 
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81. Sin dai tempi antichi la teologia ha lavorato in collaborazione con la filosofia. Sebbene questa associazione continui ad essere fondamentale, in tempi più recenti la teologia ha conosciuto anche altre forme di collaborazione. Gli studi biblici e la storia della Chiesa sono stati assistiti da nuovi metodi di analisi e interpretazione dei testi, e da nuove tecniche per verificare la validità storica delle fonti e per descrivere gli sviluppi sociali e culturali [139]. La teologia sistematica, fondamentale e morale hanno tutte tratto vantaggio dal confronto con le scienze naturali, economiche e mediche. La teologia pratica ha beneficiato dell’incontro con la sociologia, la psicologia e la pedagogia. In tutti questi contatti, la teologia cattolica dovrebbe rispettare la giusta coerenza dei metodi e delle scienze utilizzate, ma dovrebbe anche farne un uso critico, alla luce della fede che è parte dell’identità e della motivazione del teologo [140]. I risultati parziali, ottenuti attraverso metodi mutuati da un’altra disciplina, non possono essere determinanti per il lavoro teologico, e devono essere integrati criticamente con la funzione e l’argomentazione della teologia [141]. Un utilizzo non sufficientemente critico delle conoscenze e dei metodi di altre scienze probabilmente condurrà ad una distorsione e frammentazione del lavoro teologico. In effetti già i Padri ravvisarono in una fusione eccessivamente frettolosa tra fede e filosofia una fonte di eresie [142]. In breve, non si deve consentire alle altre discipline di imporre il proprio «magistero» alla teologia. Il teologo dovrebbe certamente acquisire e utilizzare i dati offerti dalle altre discipline, ma alla luce dei princìpi e metodi propri della teologia stessa.

82. In questa integrazione e assimilazione critica da parte della teologia di dati provenienti da altre scienze, la filosofia svolge un’opera di mediazione. Spetta alla filosofia, in quanto sapienza razionale, inserire in una visione più universale i risultati ottenuti dalle diverse scienze. Il ricorso alla filosofia in questo suo ruolo di mediatore aiuta il teologo a utilizzare i dati scientifici con la dovuta attenzione. Ad esempio, le conoscenze scientifiche acquisite in materia di evoluzione della vita, prima di essere prese in considerazione dalla teologia, devono essere interpretate alla luce della filosofia, per determinarne il valore e il significato [143]. La filosofia inoltre aiuta gli scienziati ad evitare la tentazione di applicare in modo univoco i loro metodi e i frutti della loro ricerca a questioni religiose che richiedono un approccio diverso.

83. Il rapporto tra teologia e scienze religiose o studi religiosi (ad esempio, la filosofia della religione, la sociologia della religione) è di particolare interesse. Le scienze e gli studi religiosi trattano i testi, le istituzioni e i fenomeni della tradizione cristiana, ma, per natura dei loro princìpi metodologici, questo studio avviene dall’esterno, senza interrogarsi sulla verità di ciò che viene esaminato; per loro la Chiesa e la sua fede sono semplicemente oggetti di ricerca alla stregua di qualsiasi altro oggetto. Nel XIX secolo si sono avute notevoli controversie tra la teologia e le scienze e gli studi religiosi. Da una parte si sosteneva che la teologia non è una scienza a motivo dei suoi presupposti di fede; soltanto le scienze e gli studi religiosi potevano essere «oggettivi». D’altra parte si affermava che le scienze e gli studi religiosi sono anti-teologici in quanto negherebbero la fede. Oggi queste antiche controversie riaffiorano ogni tanto, ma ci sono adesso migliori premesse per un dialogo proficuo tra le due parti. Da una parte le scienze e gli studi religiosi sono ora integrati nel tessuto dei metodi teologici poiché, non solo per l’esegesi e la storia della Chiesa, ma anche per la teologia pastorale e fondamentale, è necessario indagare la storia, la struttura e la fenomenologia di idee, temi, riti religiosi ecc. D’altra parte, le scienze fisiche e l’epistemologia contemporanea più in generale hanno dimostrato che non c’è mai una posizione neutrale dalla quale ricercare la verità; lo studioso è sempre portatore di particolari prospettive, intuizioni e presupposti che incidono sulla sua analisi. Rimane tuttavia una differenza essenziale tra teologia e scienze e studi religiosi: la teologia ha come suo oggetto la verità di Dio e su questo oggetto riflette con fede e alla luce di Dio, mentre le scienze e gli studi religiosi hanno come loro oggetto i fenomeni religiosi, e ad essi si avvicinano con un interesse culturale, prescindendo metodologicamente dalla verità della fede cristiana. La teologia, operando una riflessione dall’interno sulla Chiesa e la sua fede, va oltre le scienze e gli studi religiosi, ma può anche beneficiare delle indagini che questi svolgono dall’esterno.

84. La teologia cattolica riconosce la giusta autonomia delle altre scienze, come pure riconosce le competenze professionali e lo sforzo verso la conoscenza che vi si possono ritrovare, ed è stata a sua volta stimolo di sviluppi in molte scienze. La teologia inoltre apre la strada attraverso la quale le altre scienze possono affrontare tematiche religiose. Tramite una critica costruttiva, aiuta le altre scienze a liberarsi dagli elementi antiteologici acquisiti sotto l’influenza del razionalismo. Estromettendo la teologia dal novero delle scienze, il razionalismo e il positivismo hanno ridotto la portata e l’influsso delle scienze stesse. La teologia cattolica critica ogni forma di autoassolutizzazione delle scienze, in quanto autoriduttiva e depauperante [144]. La presenza della teologia e dei teologi al cuore della vita universitaria, e il dialogo con altre discipline reso possibile da tale presenza, contribuiscono a promuovere una visione ampia, analogica e integrale della vita intellettuale. In quanto scientia Dei e scientia fidei, la teologia ha una parte importante nella sinfonia delle scienze e, quindi, rivendica il suo giusto posto nel mondo accademico.

85. Un criterio della teologia cattolica è che questa tenta di integrare una pluralità di indagini e metodi nel progetto unificato dell’intellectus fidei, e insiste sull’unità della verità e quindi sull’unità fondamentale della teologia stessa. La teologia cattolica riconosce i metodi propri delle altre scienze e li utilizza criticamente nella sua ricerca, non si isola dalla critica ed è aperta al dialogo scientifico.

3. Scienza e sapienza

86. Quest’ultima sezione esamina il fatto che la teologia non è soltanto scienza ma anche sapienza, con un ruolo particolare nel rapporto tra l’intera conoscenza umana e il Mistero di Dio. La persona umana non si accontenta di verità parziali, ma cerca di unificare elementi e aree di conoscenza diverse in una comprensione della verità ultima di tutte le cose e della vita umana stessa. Questa ricerca di sapienza indubbiamente anima la stessa teologia, e la pone in stretta relazione con l’esperienza spirituale e con la sapienza dei santi. In un senso più ampio, tuttavia, la teologia cattolica invita ognuno a riconoscere la trascendenza della Verità ultima, che non può mai essere pienamente compresa o conosciuta. La teologia non è solo sapienza di per se stessa, ma anche un invito alla sapienza per le altre discipline. La presenza della teologia nel dibattito scientifico e nella vita universitaria ha potenzialmente l’effetto benefico di ricordare a ognuno la vocazione sapienziale dell’intelligenza umana, richiamando il significativo interrogativo rivolto da Gesù nelle prime parole da lui pronunciate nel Vangelo di Giovanni: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38).

87. Nell’Antico Testamento il messaggio centrale della teologia della sapienza appare tre volte: «Principio della sapienza è il timore del Signore» (Sal 110,10; cfr Pr 1,7; 9,10). Alla base di questa affermazione è l’intuizione dei saggi d’Israele che la sapienza di Dio opera nella creazione e nella storia e che chi comprende ciò comprenderà il significato del mondo e degli eventi (cfr Pr 7ss, Sap 7ss). Il «timore di Dio» è il giusto atteggiamento alla presenza di Dio (coram Deo). La sapienza è l’arte di conoscere il mondo e di orientare la propria vita alla devozione a Dio. Nei libri del Qohelet e di Giobbe, vengono duramente rivelati i limiti della comprensione umana dei pensieri e delle vie di Dio, non già per distruggere la sapienza degli esseri umani, ma per approfondirla entro l’orizzonte della sapienza di Dio.

88. Gesù stesso rientrava in questa tradizione sapienziale di Israele, e in lui viene trasformata la teologia della rivelazione veterotestamentaria. Egli ha così pregato: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Questo sconcerto della sapienza tradizionale si colloca nel contesto evangelico della proclamazione di qualcosa di nuovo: la rivelazione escatologica dell’amore di Dio nella persona di Gesù Cristo. Gesù prosegue: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo», per arrivare così al noto invito: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendente il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,27-29). Questo «imparare» deriva dalla condizione di discepolo in compagnia di Gesù. Soltanto lui svela le Scritture (cfr Lc 24,25-27; Gv 5,36-40; Ap 5,5), perché la verità e la sapienza di Dio sono state rivelate in lui.

89. L’apostolo Paolo critica «la sapienza del mondo» che considera la croce di Gesù Cristo soltanto «stoltezza» (1 Cor 1,18-20). Questa stoltezza, proclama Paolo, è «sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta», «che Dio ha stabilito prima dei secoli» e adesso ha rivelato (1 Cor 2,7). La croce è il momento cruciale del progetto salvifico di Dio. Cristo crocifisso è «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,18-25). I credenti, coloro che hanno «il pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16), ricevono questa sapienza, che dà accesso al «mistero di Dio» (1 Cor 2,1-2). È importante notare che se la sapienza paradossale di Dio, manifestata nella croce, contraddice la «sapienza del mondo», invece non va mai contro l’autentica sapienza umana. Al contrario, la trascende e la realizza in modo imprevisto.

90. La fede cristiana è presto entrata in contatto con la ricerca greca della sapienza. Ha rilevato i limiti di questa ricerca, soprattutto riguardo all’idea di salvezza attraverso la sola conoscenza (gnosis), ma ha anche incorporato dai greci alcune autentiche intuizioni. La sapienza è una visione unificante. Mentre la scienza cerca di rendere conto di un aspetto della realtà particolare, limitato e ben definito, mettendo in luce i princìpi che spiegano le proprietà dell’oggetto studiato, la sapienza cerca di dare una visione unificata dell’insieme della realtà. Si tratta, in effetti, di una conoscenza secondo le cause più alte, più universali e anche più esplicative [145]. Per i Padri della Chiesa, il saggio era colui che giudicava ogni cosa alla luce di Dio e delle realtà eterne, che sono norma per le cose qui sulla terra [146]. Quindi la sapienza ha anche una dimensione morale e spirituale.

91. Come indica il nome, la filosofia vede se stessa come sapienza, o quantomeno come ricerca amorosa della sapienza. La metafisica, in particolare, propone una visione della realtà unificata intorno al mistero fondamentale dell’essere; ma la Parola di Dio, che rivela «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo» (1 Cor 2,9), apre agli esseri umani la via verso una sapienza superiore [147]. Questa soprannaturale sapienza cristiana, che trascende la sapienza puramente umana della filosofia, assume due forme che si sostengono a vicenda, ma che non vanno confuse: la sapienza teologica e la sapienza mistica [148]. La sapienza teologica è opera della ragione illuminata dalla fede. È quindi una sapienza acquisita, nonostante che naturalmente presupponga il dono della fede. Offre una spiegazione unificata della realtà alla luce delle più alte verità della Rivelazione, e tutto illumina partendo dal mistero fondazionale della Trinità, considerato sia di per se stesso sia nella sua azione nella creazione e nella storia. A questo proposito, il Concilio Vaticano I ha affermato: «La ragione, quando è illuminata dalla fede e cerca diligentemente, piamente e con amore, ottiene, con l’aiuto di Dio, una certa comprensione dei misteri, già preziosa per sé, sia per l’analogia con le cose che già conosce naturalmente, sia per la connessione degli stessi misteri fra di loro relativamente al fine ultimo dell’uomo» [149]. La contemplazione intellettuale che scaturisce dall’opera razionale del teologo è così veramente sapienza. La sapienza mistica o «scienza dei santi» è un dono dello Spirito Santo che deriva dall’unione con Dio nell’amore. L’amore infatti crea una efficace connaturalità tra l’essere umano e Dio, il quale permette alle persone spirituali di conoscere e persino patire le cose divine (pati divina) [150], sperimentandole realmente nella loro vita. Si tratta di una conoscenza non concettuale, spesso espressa in poesia. Porta alla contemplazione e all’unione personale con Dio nella pace e nel silenzio.

92. La sapienza teologica e la sapienza mistica sono formalmente distinte ed è importante non confonderle. La sapienza mistica non è mai un sostituto della sapienza teologica. È tuttavia evidente che tra queste due forme di sapienza cristiana esistono stretti legami, sia nella persona del teologo sia nella comunità ecclesiale. Da una parte un’intensa vita spirituale alla ricerca della santità è un requisito della teologia autentica, come dimostrato dall’esempio dei dottori della Chiesa, di Oriente e di Occidente. La vera teologia presuppone la fede ed è animata dalla carità: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché l’amore è da Dio» (1 Gv 4,8) [151]. L’intelligenza dà alla teologia la ragione perspicace, ma il cuore ha la propria sapienza che purifica l’intelligenza. Ciò che è vero di tutti i cristiani, ossia che sono «santi per chiamata» (1 Cor 1,2), ha una particolare risonanza per i teologi. D’altra parte il corretto esercizio del compito teologico di dare una comprensione scientifica della fede permette di verificare l’autenticità dell’esperienza spirituale [152]. Per questo motivo santa Teresa d’Avila voleva che le sue monache ricercassero il consiglio dei teologi: «Quanto più il Signore vi favorirà nell’orazione, tanto più sarà necessario che le vostre opere e la vostra orazione poggino su un saldo fondamento» [153]. In ultima analisi, è compito del Magistero, con l’aiuto dei teologi, determinare se una qualsiasi pretesa spirituale è autenticamente cristiana.

93. Oggetto della teologia è il Dio vivente, e la vita del teologo è necessariamente segnata dallo sforzo costante di conoscere il Dio vivente. Il teologo non può escludere la propria vita dall’impegno di comprendere la realtà intera in riferimento a Dio. L’obbedienza alla verità purifica l’anima (cfr 1 Pt 1,22), e «la sapienza che viene dall’alto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (Gc 3,17). Ne consegue che la ricerca teologica dovrebbe purificare la mente e il cuore del teologo [154]. Questa caratteristica specifica dell’opera teologica non vìola in nessun modo il carattere scientifico della teologia; al contrario vi si accorda profondamente. La teologia è quindi caratterizzata da una spiritualità distintiva, i cui elementi integranti sono: amore per la verità, disponibilità alla conversione del cuore e della mente, uno sforzo verso la santità, e un impegno verso la missione e la comunione ecclesiale [155].

94. I teologi hanno ricevuto una particolare chiamata al servizio nel corpo di Cristo. Per questa chiamata e per i doni ricevuti sono in un rapporto particolare con il corpo e tutti i suoi membri. Vivendo nella «comunione dello Spirito Santo» (2 Cor 13,13), dovrebbero cercare, insieme a tutti i loro fratelli e sorelle, di conformare la propria vita al mistero dell’Eucaristia, «della quale la Chiesa continuamente vive e cresce» [156]. In effetti, chiamati come sono a spiegare i misteri della fede, dovrebbero essere particolarmente legati all’Eucaristia, dove è racchiuso «tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua», la cui carne è resa viva e vivificante dallo Spirito Santo [157]. Come l’Eucaristia è «fonte e culmine» della vita della Chiesa [158] e di «tutta l’evangelizzazione» [159], così è anche fonte e culmine di tutta la teologia. In questo senso la teologia può essere considerata essenzialmente e profondamente «mistica».

95. La verità di Dio non è quindi semplicemente qualcosa che possa essere esplorato nella riflessione sistematica e giustificato nel ragionamento deduttivo; è verità viva, sperimentata grazie alla partecipazione a Cristo, «il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione» (1 Cor 1,30). In quanto sapienza, la teologia è in grado di integrare aspetti della fede sia studiati sia sperimentati, e di trascendere, nel servizio alla verità di Dio, i limiti di ciò che è a rigore possibile da un punto di vista intellettuale. Un tale apprezzamento della teologia come sapienza può contribuire a risolvere due problemi che si presentano oggi alla teologia: innanzitutto offre la possibilità di colmare il divario tra i credenti e la riflessione teologica; e in secondo luogo, offre la possibilità di ampliare la comprensione della verità di Dio, così da facilitare la missione della Chiesa nelle culture non cristiane caratterizzate da diverse tradizioni sapienziali.

96. Il senso di mistero che caratterizza propriamente la teologia conduce ad un pronto riconoscimento dei limiti della conoscenza teologica, che contrasta con qualsiasi pretesa razionalista di esaurire il Mistero di Dio. L’insegnamento del Concilio Lateranense IV è fondamentale: «Perché tra il creatore e la creatura, per quanto la somiglianza sia grande, maggiore è la differenza» [160]. La ragione, illuminata dalla fede e guidata dalla Rivelazione, è sempre consapevole dei limiti intrinseci del proprio operato. È per questo che la teologia cattolica può assumere la forma di teologia «negativa» o «apofatica».

97. Tuttavia la teologia negativa non è affatto una negazione della teologia. La teologia catafatica e quella apofatica non dovrebbero essere messe in contrapposizione ; lungi dallo squalificare un approccio intellettuale al Mistero di Dio, la via negativa mette semplicemente in luce i limiti di un tale approccio. La via negativa è una dimensione fondamentale di ogni discorso autenticamente teologico, ma non può essere separata dalla via affirmativa e dalla via eminentiae [161]. Lo spirito umano, sollevandosi dagli effetti alla Causa, dalle creature al Creatore, comincia con l’affermare la presenza in Dio delle autentiche perfezioni scoperte nelle creature (via affirmativa), quindi nega che queste perfezioni siano in Dio nella forma imperfetta che assumono nelle creature (via negativa); infine afferma esse che sono in Dio in un modo propriamente divino che sfugge alla comprensione umana (via eminentiae) [162]. La teologia giustamente intende parlare veramente del Mistero di Dio, ma al tempo stesso sa che la sua conoscenza per quanto vera è inadeguata alla realtà di Dio, che non potrà mai «comprendere». Come ha detto sant’Agostino: «Se comprendi, non è Dio» [163].

98. È importante avere coscienza del senso di vuoto e di assenza di Dio che molte persone sperimentano oggi, e che pervade una così vasta parte della cultura moderna. La realtà primaria per la teologia cristiana, tuttavia, è la rivelazione di Dio. Suo punto di riferimento obbligatorio è la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo. In questi eventi, Dio ha parlato in modo definitivo attraverso il suo Verbo fatto carne. La teologia affermativa è possibile come conseguenza dell’ascolto obbediente della Parola, presente nella creazione e nella storia. Il Mistero di Dio rivelato in Gesù Cristo dalla potenza dello Spirito Santo è un mistero di ektasis, amore, comunione e compenetrazione delle tre persone divine; un mistero di kenosis, la rinuncia alla figura di Dio da parte di Gesù nella sua incarnazione, per assumere quella di schiavo (cfr Fil 2,5-11); e un mistero di theosis, dove gli esseri umani sono chiamati a partecipare alla vita di Dio e a partecipare «della natura divina» (2 Pt 1,4) attraverso Cristo, nello Spirito. Quando la teologia parla di una via negativa e di un’assenza di parole, si riferisce ad un senso di timore reverenziale davanti al Mistero Trinitario nel quale è la salvezza. Sebbene non sia possibile descriverlo pienamente a parole, per amore i credenti già partecipano al Mistero: «Voi l’amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime» (1 Pt 1, 8-9).

99. Un criterio della teologia cattolica è che questa deve ricercare e rallegrarsi nella sapienza di Dio che è stoltezza per il mondo (cfr 1 Cor 1,18-25; 1 Cor 2,6-16). La teologia cattolica dovrebbe radicarsi nella grande tradizione sapienziale della Bibbia, riallacciarsi alle tradizioni sapienziali del cristianesimo d’Oriente e Occidente, e cercare di gettare un ponte verso tutte le tradizioni sapienziali. Nel ricercare la vera sapienza nello studio del Mistero di Dio, la teologia riconosce la totale priorità di Dio; intende non possedere, ma essere posseduta da Dio. Deve quindi prestare attenzione a ciò che lo Spirito sta dicendo alle Chiese attraverso «la scienza dei santi». La teologia comporta uno sforzo verso la santità e una consapevolezza sempre più profonda della trascendenza del Mistero di Dio.



[SM=g1740771]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/01/2013 23:27
 
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[SM=g1740758] Conclusione

100. Proprio come la teologia è un servizio reso alla Chiesa e alla società, così il presente testo, scritto da teologi, si propone di offrire un servizio ai nostri colleghi, e anche a coloro con i quali entrano in dialogo i teologi cattolici. Scritto con pieno rispetto per tutti coloro che portano avanti l’indagine teologica, e con un senso profondo della gioia e del privilegio della vocazione teologica, cerca di indicare le prospettive e i princìpi che caratterizzano la teologia cattolica, e di presentare i criteri alla luce dei quali questa teologia può essere identificata.
In sintesi, si può dire che la teologia cattolica studia il Mistero di Dio rivelato in Cristo, e articola l’esperienza di fede che fanno coloro che sono nella comunione con la Chiesa e partecipano alla vita di Dio, per grazia dello Spirito Santo, che guida la Chiesa alla verità (Gv 16,13).
Riflette sull’immensità dell’amore attraverso il quale il Padre ha donato al mondo suo Figlio (cfr Gv 3,16) e sulla gloria, grazia e verità che sono state rivelate in lui per la nostra salvezza (cfr Gv 1,14); e sottolinea l’importanza della speranza in Dio più che nelle cose create, una speranza che cerca di spiegare (cfr 1 Pt 3,15).
In tutto il suo operato, accogliendo l’esortazione di Paolo a rendere grazie (Col 3,15; 1 Ts 5,18), persino nelle avversità (cfr Rm 8,31-39), è fondamentalmente dossologica, caratterizzata dalla lode e dal ringraziamento. Poiché studia l’operato di Dio per la nostra salvezza e la natura incomparabile delle sue opere, la gloria e la lode sono la modalità che le è più consona, come san Paolo ha insegnato non solo con le sue parole ma anche con la sua vita: «A colui che in tutto ha il potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen» (Ef 3,20-21).






* NOTA PRELIMINARE. [SM=g1740733]  Lo studio del tema dello statuto della teologia era stato affrontato dalla Commissione Teologica Internazionale già nel quinquennio 2004-2008. Il lavoro si era svolto all’interno di una Sottocommissione, presieduta dal rev.do Santiago del Cura Elena e composta dai seguenti Membri: S .E. Mons. Bruno Forte, S. E. Mons. Savio Hon Tai-Fai, S.D.B., rev.di Antonio Castellano, S.D.B., Tomislav Ivanĉić, Thomas Norris, Paul Rouhana, Leonard Santedi Kinkupu, Jerzy Szymik e prof. dr. Thomas Söding.

Dal momento tuttavia che tale Sottocommissione non ebbe modo di portare a termine il suo lavoro con la pubblicazione di un documento, lo studio fu ripreso nell’ambito della Commissione del quinquennio successivo, sulla base anche del lavoro svolto in precedenza. A questo scopo fu formata una nuova Sottocommissione, presieduta da mons. Paul McPartlan e comprendente i seguenti Membri: s.e. mons. Jan Liesen, rev.di p. Serge Thomas Bonino, O.P., Antonio Castellano, S.D.B., Adelbert Denaux, Tomislav Ivanĉić, Leonard Santedi Kinkupu, Jerzy Szymik, rev.da suor Sara Butler, M.S.B.T., prof. dr. Thomas Söding.

Le discussioni generali su questo tema si sono svolte in numerosi incontri delle Sottocommissioni e durante le Sessioni Plenarie della stessa Commissione Teologica Internazionale, tenutesi a Roma dal 2004 al 2011. Il presente testo è stato approvato dalla Commissione «in forma specifica» il 29 novembre 2011, ed è stato poi sottoposto al suo Presidente, il Card. William Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il quale ne ha autorizzato la pubblicazione.

NOTE

[1] Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 3.

[2] Per questi ultimi due aspetti, vedi sotto, nn. 92-94, e 10,25-32, rispettivamente.

[3] H. de Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Milano, Jaca Book, 1992.

[4] Per L’interpretazione dei dogmi cfr Civ. Catt. 1990 II 144-173.

[5] «Cattolico» si riferisce qui alla Chiesa cattolica in cui sussiste la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica costituita da Cristo e affidata alla cura di Pietro e degli apostoli (cfr Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n.8, Unitatis redintegratio, n.4, Dignitatis humanae, n.1). In tutto il testo il termine «teologia» si riferisce alla teologia così com’è compresa dalla Chiesa cattolica.

[6] Concilio Vaticano II, Dei Verbum, n. 2.

[7] Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (2010), n. 6; cfr Dei Verbum, nn. 2, 6.

[8] Verbum Domini, n. 3.

[9] Salvo dove diversamente indicato, in tutto il documento i testi biblici sono tratti da La Sacra Bibbia della CEI, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, Edb, 2009.

[10] Dei Verbum, n. 1; cfr Agostino, s., De catechizandis rudibus 4, 8 (Corpus Christianorum Series Latina [CCSL] 46,129).

[11] Verbum Domini, n. 7; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), n.108.

[12] Cfr Dei Verbum, nn. 7, 11, 16.

[13] Dei Verbum, n. 21.

[14] Agostino, s., «Deus […] per hominem more hominum loquitur; quia et sic loquendo nos quaerit» (De civitate Dei XVII, 6, 2; [CCSL] 48, 567); cfr Concilio Vaticano II, Dei Verbum, n.12.

[15] Dei Verbum, n. 11.

[16] Dei Verbum, n. 8.

[17] Verbum Domini, n. 18.

[18] Dei Verbum, n. 2.

[19] Cfr Dei Verbum, n. 5, con riferimento anche al Concilio Vaticano I, Dei Filius, cap. 3 (DH 3008).

[20] Cfr Dei Verbum, n. 3; anche Concilio Vaticano I, Dei Filius, cap.2 (DH 3004).

[21] Cfr anche 1 Gv 4,1-6; 2 Gv 7; Gal 1,6-9; 1 Tim 4,1.

[22] CCC, n. 2089.

[23] Agostino, s., In Joannis Evang., XXIX, 6 [CCSL 36, 287]; anche Sermo 43, 7 ([CCSL 41, 511].

[24] Agostino, s., Lettera 120 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum [CSEL 34, 2, 704]): «Porro autem qui vera ratione iam quod tantummodo credebat intelligit, profecto praepondendus est ei qui cupit adhuc intelligere quod credit; si autem non cupit et ea quae intelligenda sunt credenda tantummodo existimat, cui rei fides prosit ignorat».

[25] Cfr Agostino, s., De Trinitate XIV, 1 [CCSL 50, 424]: «Huic scientiae tribuens … illud tantummodo quo fides saluberrima, quae ad veram beatitudinem ducit, gignitur, nutritur, defenditur, roboratur».

[26] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio (1998), parole di apertura.

[27] Anselmo, s., Proslogion, Proemium (in S. Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera omnia, ed. F. S. Schmitt, t. 1, p. 94). In ragione dello stretto legame tra fede, speranza e amore (vedi sopra, n. 11), si può affermare che la teologia è anche spes quaerens intellectum (cfr 1 Pt 3,15) e caritas quaerens intellectum. Quest’ultimo aspetto viene posto in particolare rilievo nell’Oriente cristiano: poiché la teologia spiega il mistero di Cristo che è la Rivelazione dell’amore di Dio (cfr Gv 3,16), essa è amore di Dio espresso in parole.

[28] Cfr, in particolare, Melchior Cano, De locis theologicis, ed. J. Belda Plans (Madrid, 2006). Cano elenca dieci loci: Sacra Scriptura, traditiones Christi et apostolorum, Ecclesia Catholica, Concilia, Ecclesia Romana, sancti veteres, theologi scholastici, ratio naturalis, philosophi, humana historia.

[29] Dei Verbum, n. 24.

[30] Verbum Domini, n. 35; cfr n. 31.

[31] Cfr Concilio di Trento, Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis (DH 1501-1505).

[32] Pontificia Commissione Biblica, L’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993), III, C, 1; cfr Verbum Domini, n. 33.

[33] Dei Verbum, n. 12.

[34] Cfr Dei Verbum. n. 12.

[35] Cfr L’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa, I, B-E.

[36] Verbum Domini, n. 34.

[37] “[D]ovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede” (Dei Verbum, n.12).

[38] Cfr Verbum Domini, n. 39.

[39] Cfr Pontificia Commissione Biblica, L’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993), II, B; anche CCC 115-118. La teologia medievale parla dei quattro sensi della Scrittura: Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia.

[40] Verbum Domini, n. 34.

[41] Sulla posizione centrale della Scrittura nella teologia, cfr Bonaventura, s., Breviloquium, Prologue.

[42] Concilio Vaticano II, Optatam totius, n. 16. Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa Theologiae, Ia, q. 36, a. 2, ad 1: «De Deo dicere non debemus quod in sacra Scriptura non invenitur vel per verba, vel per sensum».

[43] Verbum Domini, n. 37.

[44] Verbum Domini, n. 46.

[45] Dei Verbum, n. 21.

[46] Cfr Dei Verbum, n. 22.

[47] Dei Verbum, n. 8.

[48] Cfr Dei Verbum, n. 7.

[49] Dei Verbum, n. 8.

[50] Dei Verbum, n. 8.

[51] Cfr Optatam totius, n. 16.

[52] Cirillo di Alessandria presentò una raccolta di estratti patristici al Concilio di Efeso; cfr Mansi IV, 1183-1195; E. Schwartz (ed.), Acta Conciliorum Oecumenicorum I, 1.1, pp. 31-44.

[53] Cfr Agostino, s., Contra duas epistulas pelagianorum, 4, 8, 20 [CSEL 60, 542-543]; 4, 12, 32 [CSEL 60, 568-569]; Contra Iulianum,1, 7, 34 [PL 44, 665]; 2, 10, 37 [PL 44, 700-702]. Anche Vincenzo di Lerino, Commonitorium 28, 6 [CCSL 64, 187): «Sed eorum dumtaxat patrum sententiae conferendae sunt, qui in fide et communione catholica sancte sapienter constanter viventes docentes et permanentes, vel mori in Christo fideliter vel occidi pro Christo feliciter meruerun».

[54] Cfr DH 301, 1510.

[55] DH 1507, 3007.

[56] Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 25.

[57] Commissione Teologica Internazionale, L’Interpretazione dei Dogmi (1990), B, III, 3; cfr L’unità della fede e il pluralismo teologico (1972), nn. 6-8, 10-12.

[58] Cfr Giovanni XXIII, «Allocutio in Concilii Vaticani inauguratione», in AAS 84 (1962) 792; Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n.62. Per un’analisi dettagliata dell’intera questione, vedi Commissione Teologica Internazionale L’interpretazione dei dogmi.

[59] Dei Verbum, n. 10.

[60] Dei Verbum, n. 9.

[61] Dei Verbum, n. 24.

[62] J. A. Möhler, L’unità nella Chiesa. Il principio del cattolicesimo nello spirito dei Padri della Chiesa dei primi tre secoli, Roma, Città Nuova, 1969.

[63] Verbum Domini,n. 7.

[64] Dei Verbum, n. 8.

[65] Dei Verbum, n. 9.

[66] Cfr Dei Verbum, n. 8; Lumen gentium, nn. 13, 14; Unitatis redintegratio, nn. 15, 17; Ad gentes, n. 22.

[67] Cfr Y. Congar, Tradition et traditions: I. Essai historique; II. Essai théologique, Paris, 1960; 1963.

[68] Quarta Conferenza mondiale di Fede e Costituzione (Montreal, 1963), «Scrittura, Tradizione e Tradizioni», n. 48, p. 52 (in P. C. Rodger - L. Vischer [eds], New York, 1964). A rigor di termini è anche possibile, come fa questo documento, operare una distinzione fra Tradizione (con la «T» maiuscola) e tradizione (con la «t» minuscola): la Tradizione è «lo stesso Vangelo, trasmesso di generazione in generazione nella Chiesa e dalla Chiesa», è «lo stesso Cristo presente nella vita della Chiesa»; la tradizione è «il processo di trasmissione» (n. 39, p. 50).

[69] Cfr Unitatis redintegratio, n. 6.

[70] Lumen gentium, n. 12.

[71] Dei Verbum, n. 8.

[72] Cfr Lumen gentium, n. 35.

[73] Lumen gentium, n. 12.

[74] Cfr Lumen gentium, capitolo 2.

[75] Cfr Lumen gentium, capitolo 3.

[76] Cfr Dei Verbum, n. 8; Ireneo, s., Adv. Haer., IV, 26, 2.

[77] Cfr Lumen gentium, nn. 21, 24-25.

[78] Dei Verbum, n. 10; vedi sopra, n. 30.

[79] Agostino, s., Sermo 340 A [PL 38, 1483].

[80] L’Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo (1990) parla della verità donata da Dio al suo popolo (nn. 2-5) e colloca «la vocazione del teologo» nel diretto servizio al popolo di Dio, affinché questo possa arrivare alla comprensione dei doni ricevuti nella fede (nn. 6-7).

[81] Dei Verbum, n. 10.

[82] La Commissione Teologica Internazionale ha affrontato tale questione nel documento Magistero e teologia (1975), come pure ha fatto la Congregazione per la Dottrina della Fede nella Donum veritatis.

[83] Cfr Dei Verbum, n. 10.

[84] Cfr Magistero e teologia, Tesi 2. Oggi come nel passato, naturalmente, vescovi e teologi non costituiscono due gruppi del tutto distinti.

[85] Cfr Donum veritatis, n. 21.

[86] Cfr Concilio Vaticano II, Lumen gentium, nn. 21-25, Christus Dominus, n. 12, Dei Verbum, n. 10.

[87] Tommaso d’Aquino distingueva tra magisterium cathedrae pastoralis e magisterium cathedrae magistralis, il primo riferito ai vescovi e il secondo ai teologi. Oggi per Magistero o Magistero ecclesiastico si intende specificamente il primo dei due significati, e in questo senso viene utilizzato nel presente testo. Sebbene i teologi abbiano di fatto una funzione di insegnamento, che può essere formalmente riconosciuta dalla Chiesa, questa non va confusa o contrapposta a quella dei vescovi; cfr Tommaso d’Aquino, s., Contra Impugnantes, c. 2; Quaest. Quodlibet., III, q. 4, a. 9, ad 3; In IV Sent., d. 19, q. 2, a. 3, q. 3, ad 4; anche Donum veritatis, nota a piè di pagina 27.

[88] Cfr Donum veritatis, n. 34.

[89] Cfr Donum veritatis, nn. 13-20.

[90] Cfr Commissione Teologica Internazionale, L’interpretazione dei dogmi, B, II, 3. Le proposizioni teologiche che a vari livelli vanno contro l’insegnamento del Magistero sono oggetto di valutazioni negative o censure corrispondentemente differenziate, e i responsabili vanno incontro a possibili sanzioni; cfr Giovanni Paolo II, Lettera apostolica motuproprio Ad tuendam fidem (1998).

[91] Cfr Magistero e teologia, tesi 8.

[92] Cfr Donum veritatis, nn. 21-41

[93] J. H. Newman, «Preface to the Third Edition», in H. D. Wiedner (ed.), The Via Media of the Anglican Church, Oxford, Clarendon Press, 1990, 27.

[94] Prefazione alla Terza Edizione (pp. 29-30): «Non tutta la conoscenza è idonea a tutte le menti; una proposizione può essere vera, e tuttavia in un particolare tempo e luogo può essere “temeraria, offensiva per orecchie pie, e scandalosa”, seppure non “eretica” né “erronea”» (p. 34).

[95] Magistero e teologia, Tesi 9. La Commissione Teologica Internazionale offre inoltre delle indicazioni sulla prassi da seguire in caso di controversie (cfr Tesi 11-12).

[96] Cfr Magistero e teologia, Tesi 8.

[97] Magistero e teologia, Tesi 8.

[98] Vedi n. 83.

[99] Cfr Lumen gentium, nn. 22, 25.

[100] Cfr Donum veritatis, n. 11.



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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[101] Vedi, ad esempio, Agostino, s., Epist. 82, 5, 36 [CCSL 31A, 122), dove esorta Girolamo, nella libertà dell’amicizia e nell’amore fraterno, a essere franco nella correzione reciproca; anche De Trinitate, I, 3, 5 [CCSL 50, 33], dove afferma che trarrà grande frutto se coloro che sono in disaccordo con lui riusciranno a confutare le sue tesi sostenendo le proprie con carità e verità.

[102] Cfr Commissione Teologica Internazionale, L’interpretazione dei dogmi, C, III, 6.

[103] Cfr Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ut unum sint, n. 28.

[104] Gaudium et spes, n. 11.

[105] Cfr Gaudium et spes, n. 11.

[106] Gaudium et spes, n. 4.

[107] Gaudium et spes, n. 44.

[108] Cfr Gaudium et spes, n. 44.

[109] Gaudium et spes, n. 44.

[110] Cfr Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 43; Unitatis redintegratio, n. 4; Dignitatis humanae, n. 15; Apostolicam actuositatem, n. 14; Presbyterorum ordinis, n. 9.

[111] Concilio Vaticano II, Ad gentes, n. 11.

[112] Concilio Vaticano II, Nostra aetate, n. 2.

[113] Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, IIa-IIae, q. 2, a. 10.

[114] Cfr Anselmo, s., Proslogion, ch. 1 (in S. Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera omnia, ed. F. S. Schmitt, t. 1, p. 100): Desidero aliquatenus intelligere veritatem tuam, quam credit et amat cor meum; anche Agostino, s., De Trinitate, XV, 28, 51 [CCSL 50A, 534].

[115] Cfr Anselmo, s., Proslogion, cap. 1 (in S. Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera omnia, ed. F. S. Schmitt, t. 1, p. 100): Non tento, Domine, penetrare altitudinem tuam […]. Neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam. Nam et hoc credo: quia «nisi credidero, non intelligam».

[116] Cfr Origene, Contra Celsum, Prologo, 4 (ed. M. Boret), [Sources chrétiennes, vol.132, pp. 72-73)]; Agostino, s., De civitate Dei, I [CCSL 47].

[117] Cfr Fides et ratio, n. 73.

[118] Cfr Fides et ratio, n. 77.

[119] Cfr Concilio Vaticano I, Dei Filius (DH 3017); anche Tommaso d’Aquino, s., Summa contra gentiles, I, c. 7.

[120] Concilio Vaticano I, Dei Filius (DH 3019).

[121] Cfr Giustino, Dialogus cum Tryphone, 8, 4 (Iustini philosophi et martyris opera quae feruntur omnia, ed. C. T. Otto (Corpus apologetarum christianorum saeculi secundi, 2, Iéna, 1877, pp. 32-33); Taziano, Oratio ad Graecos, 31 (Corpus apologetarum christianorum saeculi secundi, 6, Iéna, 1851, p.118); anche Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 38.

[122] Cfr Agostino, s., De civitate Dei, VI, 5-12 [CCSL 47, 170-184].

[123] In reazione al razionalismo teologico degli «ariani radicali», i Padri cappadoci e la tradizione teologica greca hanno insistito sull’impossibilità di conoscere l’essenza divina di per se stessa qui sulla terra, né per natura né per grazia, e neppure nello stato di gloria. La teologia latina, convinta che la beatitudine umana può consistere soltanto nella visione di Dio «così come egli è» (1 Gv 3,2), distingue piuttosto tra la conoscenza dell’essenza divina promessa ai beati e la conoscenza completa dell’essenza di Dio che è propria soltanto di Dio stesso. Nella costituzione Benedictus Dei (1336) Benedetto XII ha definito che i beati vedono l’essenza stessa di Dio, faccia a faccia (DH 1000).

[124] Cfr Tommaso d’Aquino, s., In Boethium De Trinitate, prologo(ed. Leonine, t. 50, p. 76): «Modus autem de Trinitate tractandi duplex est, ut dicit Augustinus in I de Trinitate, scilicet per auctoritates et per rationes. Quem utrumque modum Augustinus complexus est, ut ipsemet dicit; quidam vero sanctorum patrum, ut Ambrosius et Hilarius, alterum tantum modum prosecuti sunt, scilicet per auctoritates; Boethius vero elegit prosequi per alium modum, scilicet per rationes, praesupponens hoc quod ab aliis per auctoritates fuerat prosecutum».

[125] Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, IIa-IIae, q. 1, a. 7.

[126] Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia, q. 1, a. 3, ad 2.

[127] Cfr Tommaso da Kempis, Imitatio Iesu Christi, I, 3.

[128] Fides et ratio, n. 66

[129] Cfr Fides et ratio, n. 73.

[130] Cfr Concilio Vaticano I, Dei Filius (DH 3008-3009, 3031-3033).

[131] Agostino, s., «De divinitate ratio sive sermo» (De civitate Dei VIII, 1; [CCSL 47, 216-217]).

[132] Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia, q.1, a.7: «Omnia autem pertractantur in sacra doctrina sub ratione Dei, vel quia sunt ipse Deus, vel quia habent ordinem ad Deum, ut ad principium et finem. Unde sequitur quod Deus vere sit subiectum huius scientiae».

[133] Concilio Vaticano II, Optatam totius, n. 16.

[134] Cfr Commissione Teologica Internazionale, Fede e inculturazione (1989).

[135] Cfr Commissione Teologica Internazionale, L’unità della fede e il pluralismo teologico (1972).

[136] Cfr Commissione Teologica Internazionale, L’interpretazione dei dogmi (1990).

[137] Vedi sopra, capitolo 2, sezione 2: «La fedeltà alla Tradizione apostolica».

[138] Cfr Optatam totius n. 16.

[139] Cfr L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Questo documento costituisce un prezioso paradigma in quanto riflette sulle capacità e i limiti di diversi metodi esegetici contemporanei entro l’orizzonte di una teologia della Rivelazione radicata nelle Scritture stesse e conforme all’insegnamento del Concilio Vaticano II.

[140] Cfr Summa theologiae, Ia, q. 1, a. 5, ad 2, dove san Tommaso dice della teologia: «Haec scientia accipere potest aliquid a philosophicis disciplinis, non quod ex necessitate eis indigeat, sed ad maiorem manifestationem eorum quae in hac scientia traduntur. Non enim accipit sua principia ab aliis scientiis, sed immediate a Deo per revelationem. Et ideo non accipit ab aliis scientiis tamquam a superioribus, sed utitur eis tamquam inferioribus et ancillis».

[141] Ad esempio nella sua enciclica, Veritatis splendor (1993), Giovanni Paolo II ha esortato i teologi morali ad esercitare discernimento nell’utilizzo delle scienze comportamentali (in particolare, nn. 33, 111, 112).

[142] I primi Padri hanno sottolineato che le eresie, soprattutto le varie forme di gnosticismo, spesso derivavano da un’adozione non sufficientemente critica di particolari teorie filosofiche. Vedi, ad esempio, Tertulliano, De praescriptione haereticorum 7, 3 [Sources chrétiennes 46, p. 96]: «Ipsae denique haereses a philosophia subornantur».

[143] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 22 ottobre 1996; vedi anche Fides et ratio, n. 69.

[144] Benedetto XVI osserva una patologia della ragione quando questa si distanzia dalle questioni relative alla verità ultima e a Dio. A seguito di questa nociva autolimitazione, la ragione si assoggetta agli interessi umani ed è ridotta a «ragione strumentale». Si apre così la strada al relativismo. Dati questi pericoli, Papa Benedetto ribadisce più volte che la fede è «una forza purificatrice per la ragione stessa»: «La fede libera la ragione dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta a essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio» (Lettera enciclica Deus caritas est [2005], n. 28).

[145] Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia, q. 1, a. 6.

[146] Cfr Tommaso d’Aquino, s., De Trinitate, XII, 14, 21-15, 25 [CCSL 50, 374-380].

[147] Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia, q. 1, a. 6.

[148] Cfr Tommaso d’ Aquino, s., Summa theologiae, Ia, q. 1 , a. 6, ad 3.

[149] Concilio Vaticano I, Dei Filius, cap. 4(DH 3016).

[150] Cfr Pseudo Dionigi Areopagita, De divinis nominibus, cap. 2, 9 (in Corpus Dionysiacum, I. Pseudo-Dionysius Areopagita, De divinis nominibus, Herausgegeben von Beate Regina Suchla, [«Patristische Texte und Studien, 33», p. 134]).

[151] Cfr Massimo il Confessore, Quattrocento testi sull’amore: «La mente ottiene il dono della teologia quando, condotta sulle ali dell'amore, fissa la sua dimora in Dio. Allora la mente, nella misura concessa alle possibilità umane, contempla gli attributi divini»; vedi anche Riccardo di San Vittore De praeparatione animi ad contemplationem 13 [PL 196, 10A]: Ubi amor, ibi oculus; Tractatus de gradibus charitatis 3, 23 (G. Dumeige (ed.), Textes philosophiques du Moyen Age, 3, Paris, 1955, p. 71): «Amor oculus est, et amare videre est» (Riccardo attribuisce questa frase a sant’Agostino).

[152] Riguardo alle rivelazioni private, che sono sempre sottoposte al giudizio ecclesiastico e che, anche quando autentiche, hanno un valore «essenzialmente diverso dall’unica rivelazione pubblica», vedi la Verbum Domini, n. 14.

[153] Teresa d’Avila, s., Il Cammino di Perfezione, cap. 5.

[154] Cfr Commissione Teologica Internazionale, L’interpretazione dei dogmi, B, III, 4: «La mente ottiene il dono della teologia quando, condotta sulle ali dell’amore […], è portata su, in Dio, e con l’aiuto dello Spirito Santo discerne gli attributi divini».

[155] Cfr Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate [2009], 1.

[156] Lumen gentium, n. 26; cfr Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia [2003], 1.

[157] Presbyterorum ordinis, n. 5.

[158] Lumen gentium, n. 11; cfr Sacrosanctum Concilium, n. 10.

[159] Presbyterorum ordinis, n. 5.

[160] Quarto Concilio Lateranense (DH 806).

[161] Tommaso d’Aquino, s., In IV Sent., d. 35, q. 1, a. 1, ad 2: «Omnis negatio fundatur in aliqua affirmatione».

[162] Cfr Tommaso d’Aquino, s., Quaestiones disputatae de potentia, q. 7, a. 5, ad 2, dove dà un’interpretazione dell’insegnamento di Dionigi.

[163] Agostino, s., «De Deo loquimur, quid mirum si non comprehendis? Si enim comprehendis, non est Deus» (Sermo 117, 3, 5); [PL 38, 663]; «Si quasi comprehendere potuisti, cogitatione tua te decepisti’ (Sermo 52, 6, 16); [PL 38, 360].



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CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

 

 

ISTRUZIONE

DONUM VERITATIS

SULLA VOCAZIONE ECCLESIALE
DEL TEOLOGO

 

 

INTRODUZIONE

1. La verità che rende liberi è un dono di Gesù Cristo (cf. Gv 8, 32). La ricerca della verità è insita nella natura dell’uomo, mentre l’ignoranza lo mantiene in una condizione di schiavitù. L’uomo infatti non può essere veramente libero se non riceve luce sulle questioni centrali della sua esistenza, ed in particolare su quella di sapere da dove venga e dove vada. Egli diventa libero quando Dio si dona a lui come un Amico, secondo la parola del Signore: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15). La liberazione dall’alienazione del peccato e della morte si realizza per l’uomo quando il Cristo, che è la Verità, diventa per lui la «via» (cf. Gv 14, 6).

Nella fede cristiana conoscenza e vita, verità ed esistenza sono intrinsecamente connesse. La verità donata nella rivelazione di Dio sorpassa evidentemente le capacità di conoscenza dell’uomo, ma non si oppone alla ragione umana. Essa piuttosto la penetra, la eleva e fa appello alla responsabilità di ciascuno (cf. 1 Pt 3, 15). Per questo, fin dall’inizio della Chiesa la «regola della dottrina» (Rm 6, 17) è stata legata, con il battesimo, all’ingresso nel mistero di Cristo. Il servizio alla dottrina, che implica la ricerca credente dell’intelligenza della fede e cioè la teologia, è pertanto un’esigenza alla quale la Chiesa non può rinunciare.

In ogni epoca la teologia è importante perché la Chiesa possa rispondere al disegno di Dio, il quale vuole «che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tim 2, 4). In tempi di grandi mutamenti spirituali e culturali essa è ancora più importante, ma è anche esposta a rischi, dovendosi sforzare di «rimanere» nella verità (cf. Gv 8, 31) e tener conto nel medesimo tempo dei nuovi problemi che si pongono allo spirito umano. Nel nostro secolo, in particolare durante la preparazione e la realizzazione del Concilio Vaticano II, la teologia ha contribuito molto ad una più profonda «comprensione delle realtà e delle parole trasmesse»[1], ma ha anche conosciuto e conosce ancora dei momenti di crisi e di tensione.

La Congregazione per la Dottrina della Fede ritiene pertanto opportuno rivolgere ai Vescovi della Chiesa cattolica, e tramite loro ai teologi, la presente Istruzione che si propone di illuminare la missione della teologia nella Chiesa. Dopo aver preso in considerazione la verità come dono di Dio al suo popolo (I), essa descriverà la funzione dei teologi (II), si soffermerà quindi sulla missione particolare dei Pastori (III), e proporrà infine alcune indicazioni sul giusto rapporto fra gli uni e gli altri (IV). Essa intende così servire la crescita nella conoscenza della verità (cf. Col 1, 10), che ci introduce in quella libertà per conquistarci la quale Cristo è morto e risuscitato (cf. Gal 5, 1).

 

I

LA VERITÀ, DONO DI DIO AL SUO POPOLO

2. Mosso da un amore senza misura, Dio ha voluto farsi vicino all’uomo che ricerca la propria identità e camminare con lui (cf. Lc 24, 15). Egli lo ha anche liberato dalle insidie del «padre della menzogna» (cf. Gv 8, 44) e gli ha dato accesso alla sua intimità perché vi trovi, in sovrabbondanza, la verità piena e la vera libertà. Questo disegno d’amore concepito dal «Padre della luce» (Gc 1, 17; cf. 1 Pt 2, 9; 1 Gv 1, 5), realizzato dal Figlio vincitore della morte (cf. Gv 8, 36) è reso continuamente attuale dallo Spirito che guida «alla verità tutta intera» (Gv 16, 13).

3. La verità ha in sé una forza unificante: libera gli uomini dall’isolamento e dalle opposizioni nelle quali sono rinchiusi dall’ignoranza della verità e aprendo loro la via verso Dio, li unisce gli uni agli altri. Il Cristo ha distrutto il muro di separazione che aveva reso gli uomini estranei alla promessa di Dio e alla comunione dell’alleanza (cf. Ef 2, 12-14). Egli invia nel cuore dei credenti il suo Spirito, per mezzo del quale noi tutti in Lui siamo «uno solo» (cf. Ro 5, 5; Gal 3, 28). Così, grazie alla nuova nascita ed all’unzione dello Spirito Santo (cf. Gv 3, 5; 1 Gv 2, 20. 27), diventiamo l'unico e nuovo Popolo di Dio che, con vocazioni e carismi diversi, ha la missione di conservare e trasmettere il dono della verità. Infatti la Chiesa tutta, come «sale della terra» e «luce del mondo» (cf. Mt 5, 13s.), deve rendere testimonianza alla verità di Cristo che rende liberi.

4. A questa chiamata il Popolo di Dio risponde «soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e offrendo a Dio un sacrificio di lode». Per quello che riguarda più specificamente la «vita di fede», il Concilio Vaticano II precisa che «la totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo (cf. 1 Gv 2, 20. 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà peculiare mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando ‘dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici’, esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi»[2].

5. Per esercitare la sua funzione profetica nel mondo, il Popolo di Dio deve continuamente risvegliare o «ravvivare» la propria vita di fede (cf. 2 Tm 1, 6), in particolare per mezzo di una riflessione sempre più approfondita, guidata dallo Spirito Santo, sul contenuto della fede stessa e tramite l'impegno di dimostrarne la ragionevolezza a coloro che gliene chiedono i motivi (cf. 1 Pt 3, 15). In vista di questa missione lo Spirito di verità dispensa, fra i fedeli di ogni ordine, grazie speciali date «per l'utilità comune» (1 Cor 12, 7-11).






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II

LA VOCAZIONE DEL TEOLOGO

6. Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito nella Chiesa si distingue quella del teologo, che in modo particolare ha la funzione di acquisire, in comunione con il Magistero, un’intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e trasmessa dalla Tradizione viva della Chiesa.

Di sua natura la fede fa appello all’intelligenza, perché svela all’uomo la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo. Anche se la verità rivelata è superiore ad ogni nostro dire ed i nostri concetti sono imperfetti di fronte alla sua grandezza ultimamente insondabile (cf. Ef 3, 19), essa invita tuttavia la ragione - dono di Dio fatto per cogliere la verità - ad entrare nella sua luce, diventando così capace di comprendere in una certa misura quanto ha creduto. La scienza teologica, che, rispondendo all’invito della voce della verità cerca l'intelligenza della fede, aiuta il Popolo di Dio, secondo il comandamento dell'apostolo (cf. 1 Pt 3, 15), a rendere conto della sua speranza a coloro che lo richiedono.

7. Il lavoro del teologo risponde così al dinamismo insito nella fede stessa: di sua natura la Verità vuole comunicarsi, perché l'uomo è stato creato per percepire la verità, e desidera nel più profondo di se stesso conoscerla per ritrovarsi in essa e per trovarvi la sua salvezza (cf. 1 Tm 2, 4). Per questo il Signore ha inviato i suoi apostoli perché facciano «discepole» tutte le nazioni e le ammaestrino (cf. Mt 28, 19s.). La teologia, che ricerca la «ragione della fede» ed a coloro che cercano offre questa ragione come una risposta, costituisce parte integrante dell’obbedienza a questo comandamento, perché gli uomini non possono diventare discepoli se la verità contenuta nella parola della fede non viene loro presentata (cf. Rm 10, 14s).

La teologia offre dunque il suo contributo perché la fede divenga comunicabile, e l'intelligenza di coloro che non conoscono ancora il Cristo possa ricercarla e trovarla. La teologia, che obbedisce all’impulso della verità che tende a comunicarsi, nasce anche dall’amore e dal suo dinamismo: nell’atto di fede, l’uomo conosce la bontà di Dio e comincia ad amarlo, ma l’amore desidera conoscere sempre meglio colui che ama[3]. Da questa duplice origine della teologia, iscritta nella vita interna del Popolo di Dio e nella sua vocazione missionaria, consegue il modo con cui essa deve essere elaborata per soddisfare alle esigenze della sua natura.

8. Poiché oggetto della teologia è la Verità, il Dio vivo ed il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo, il teologo è chiamato ad intensificare la sua vita di fede e ad unire sempre ricerca scientifica e preghiera[4]. Sarà così più aperto al «senso soprannaturale della fede» da cui dipende e che gli apparirà come una sicura regola per guidare la sua riflessione e misurare la correttezza delle sue conclusioni.

9. Nel corso dei secoli la teologia si è progressivamente costituita in vero e proprio sapere scientifico. È quindi necessario che il teologo sia attento alle esigenze epistemologiche della sua disciplina, alle esigenze di rigore critico, e quindi al controllo razionale di ogni tappa della sua ricerca. Ma l’esigenza critica non va identificata con lo spirito critico, che nasce piuttosto da motivazioni di carattere affettivo o da pregiudizio. Il teologo deve discernere in se stesso l’origine e le motivazioni del suo atteggiamento critico e lasciare che il suo sguardo sia purificato dalla fede. L’impegno teologico esige uno sforzo spirituale di rettitudine e di santificazione.

10. Pur trascendendo la ragione umana, la verità rivelata è in profonda armonia con essa. Ciò suppone che la ragione sia per sua natura ordinata alla verità in modo che, illuminata dalla fede, essa possa penetrare il significato della Rivelazione. Contrariamente alle affermazioni di molte correnti filosofiche, ma conformemente ad un retto modo di pensare che trova conferma nella Scrittura, si deve riconoscere la capacità della ragione umana di raggiungere la verità, così come la sua capacità metafisica di conoscere Dio a partire dal creato[5].

Il compito proprio alla teologia di comprendere il senso della Rivelazione esige pertanto l’utilizzo di acquisizioni filosofiche che forniscano «una solida ed armonica conoscenza dell’uomo, del mondo e di Dio»[6], e possano essere assunte nella riflessione sulla dottrina rivelata. Le scienze storiche sono egualmente necessarie agli studi del teologo, a motivo innanzitutto del carattere storico della Rivelazione stessa, che ci è stata comunicata in una «storia di salvezza». Si deve infine fare ricorso anche alle «scienze umane», per meglio comprendere la verità rivelata sull’uomo e sulle norme morali del suo agire, mettendo in rapporto con essa i risultati validi di queste scienze.

In questa prospettiva è compito del teologo assumere dalla cultura del suo ambiente elementi che gli permettano di mettere meglio in luce l’uno o l’altro aspetto dei misteri della fede. Un tale compito è certamente arduo e comporta dei rischi, ma è in se stesso legittimo e deve essere incoraggiato.

A questo proposito è importante sottolineare che l’utilizzazione da parte della teologia di elementi e strumenti concettuali provenienti dalla filosofia o da altre discipline esige un discernimento che ha il suo principio normativo ultimo nella dottrina rivelata. È essa che deve fornire i criteri per il discernimento di questi elementi e strumenti concettuali e non viceversa.

11. Il teologo, non dimenticando mai di essere anch’egli membro del Popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che non leda in alcun modo la dottrina della fede.

La libertà propria alla ricerca teologica si esercita all’interno della fede della Chiesa. L’audacia pertanto che si impone spesso alla coscienza del teologo non può portare frutti ed «edificare» se non si accompagna alla pazienza della maturazione. Le nuove proposte avanzate dall’intelligenza della fede «non sono che un’offerta fatta a tutta la Chiesa. Occorrono molte correzioni e ampliamenti di prospettiva in un dialogo fraterno, prima di giungere al momento in cui tutta la Chiesa possa accettarle». Di conseguenza la teologia, in quanto «servizio molto disinteressato alla comunità dei credenti, comporta essenzialmente un dibattito oggettivo, un dialogo fraterno, un’apertura ed una disponibilità a modificare le proprie opinioni»[7].

12. La libertà di ricerca, che giustamente sta a cuore alla comunità degli uomini di scienza come uno dei suoi beni più preziosi, significa disponibilità ad accogliere la verità così come essa si presenta al termine di una ricerca, nella quale non sia intervenuto alcun elemento estraneo alle esigenze di un metodo che corrisponda all’oggetto studiato.

In teologia questa libertà di ricerca si iscrive all’interno di un sapere razionale il cui oggetto è dato dalla Rivelazione, trasmessa ed interpretata nella Chiesa sotto l’autorità del Magistero, ed accolta dalla fede. Trascurare questi dati, che hanno un valore di principio, equivarrebbe a smettere di fare teologia. Per ben precisare le modalità di questo rapporto con il Magistero, è ora opportuno riflettere sul ruolo di quest’ultimo nella Chiesa.

 

III

IL MAGISTERO DEI PASTORI

13. «Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni»[8]. Egli ha dato alla sua Chiesa, mediante il dono dello Spirito Santo, una partecipazione alla propria infallibilità[9]. Il Popolo di Dio, grazie al «senso soprannaturale della fede», gode di questa prerogativa, sotto la guida del Magistero vivo della Chiesa, che, per l’autorità esercitata nel nome di Cristo, è il solo interprete autentico della Parola di Dio, scritta o trasmessa[10].

14. Come successori degli Apostoli, i Pastori della Chiesa «ricevono dal Signore... la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini... ottengano la salvezza»[11]. Ad essi è quindi affidato il compito di conservare, esporre e diffondere la Parola di Dio, della quale sono servitori[12].

La missione del Magistero è quella di affermare, coerentemente con la natura «escatologica» propria dell’evento di Gesù Cristo, il carattere definitivo dell’Alleanza instaurata da Dio per mezzo di Cristo con il suo popolo, tutelando quest’ultimo da deviazioni e smarrimenti, e garantendogli la possibilità obiettiva di professare senza errori la fede autentica, in ogni tempo e nelle diverse situazioni. Ne consegue che il significato del Magistero ed il suo valore sono comprensibili solo in relazione alla verità della dottrina cristiana ed alla predicazione della Parola vera. La funzione del Magistero non è quindi qualcosa di estrinseco alla verità cristiana né di sovrapposto alla fede; essa emerge direttamente dall’economia della fede stessa, in quanto il Magistero è, nel suo servizio alla Parola di Dio, un’istituzione voluta positivamente da Cristo come elemento costitutivo della Chiesa. Il servizio alla verità cristiana reso dal Magistero è perciò a favore di tutto il Popolo di Dio, chiamato ad entrare in quella libertà della verità che Dio ha rivelato in Cristo.

15. Perché possano adempiere pienamente il compito loro affidato di insegnare il Vangelo e di interpretare autenticamente la Rivelazione, Gesù Cristo ha promesso ai Pastori della Chiesa l’assistenza dello Spirito Santo. Egli li ha dotati in particolare del carisma di infallibilità per quanto concerne materie di fede e di costumi. L’esercizio di questo carisma può avere diverse modalità. Si esercita in particolare quando i vescovi, in unione con il loro capo visibile, mediante un atto collegiale, come nel caso dei concili ecumenici, proclamano una dottrina, o quando il Pontefice romano, esercitando la sua missione di Pastore e Dottore supremo di tutti i cristiani, proclama una dottrina «ex cathedra»[13].

16. Il compito di custodire santamente e di esporre fedelmente il deposito della divina Rivelazione implica, di sua natura, che il Magistero possa proporre «in modo definitivo»[14] enunciati che, anche se non sono contenuti nelle verità di fede, sono ad esse tuttavia intimamente connessi, così che il carattere definitivo di tali affermazioni deriva, in ultima analisi, dalla Rivelazione stessa[15].

Ciò che concerne la morale può essere oggetto di magistero autentico, perché il Vangelo, che è Parola di vita, ispira e dirige tutto l’ambito dell’agire umano. Il Magistero ha dunque il compito di discernere, mediante giudizi normativi per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi conformi alle esigenze della fede e ne promuovono l’espressione nella vita, e quelli che al contrario, per la loro malizia intrinseca, sono incompatibili con queste esigenze. A motivo del legame che esiste fra l’ordine della creazione e l’ordine della redenzione, e a motivo della necessità di conoscere e di osservare tutta la legge morale in vista della salvezza, la competenza del Magistero si estende anche a ciò che riguarda la legge naturale[16].

D’altra parte la Rivelazione contiene insegnamenti morali che di per se potrebbero essere conosciuti dalla ragione naturale, ma a cui la condizione dell’uomo peccatore rende difficile l’accesso. È dottrina di fede che queste norme morali possono essere infallibilmente insegnate dal Magistero[17].

17. L’assistenza divina è data inoltre ai successori degli Apostoli, che insegnano in comunione con il successore di Pietro, e, in una maniera particolare, al Romano Pontefice, Pastore di tutta la Chiesa, quando, senza giungere ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in un «modo definitivo», nell’esercizio del loro magistero ordinario propongono un insegnamento, che conduce ad una migliore comprensione della Rivelazione in materia di fede e di costumi, e direttive morali derivanti da questo insegnamento.

Si deve dunque tener conto del carattere proprio di ciascuno degli interventi del Magistero e della misura in cui la sua autorità è coinvolta, ma anche del fatto che essi derivano tutti dalla stessa fonte e cioè da Cristo che vuole che il suo Popolo cammini nella verità tutta intera. Per lo stesso motivo le decisioni magisteriali in materia di disciplina, anche se non sono garantite dal carisma dell’infallibilità, non sono sprovviste dell’assistenza divina, e richiedono l’adesione dei fedeli.

18. Il Pontefice Romano adempie la sua missione universale con l’aiuto degli organismi della Curia Romana ed in particolare della Congregazione per la Dottrina della Fede per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla morale. Ne consegue che i documenti di questa Congregazione approvati espressamente dal Papa partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro[18].

19. Nelle Chiese particolari spetta al vescovo custodire ed interpretare la Parola di Dio e giudicare con autorità ciò che le è conforme o meno. L’insegnamento di ogni vescovo, preso singolarmente, si esercita in comunione con quello del Pontefice romano, Pastore della Chiesa universale, e con gli altri vescovi dispersi per il mondo o riuniti in Concilio ecumenico. Questa comunione è condizione della sua autenticità.

Membro del collegio episcopale in forza della sua ordinazione sacramentale e della comunione gerarchica, il vescovo rappresenta la sua Chiesa, così come tutti i vescovi in unione con il Papa, rappresentano la Chiesa universale nel vincolo della pace, dell’amore, dell'unità e della verità. Convergendo nell'unità, le Chiese locali, con il loro proprio patrimonio, manifestano la cattolicità della Chiesa. Da parte loro, le Conferenze episcopali contribuiscono alla realizzazione concreta dello spirito («affectus») collegiale[19].

20. Il compito pastorale del Magistero, che ha lo scopo di vigilare perché il Popolo di Dio rimanga nella verità che libera, è dunque una realtà complessa e diversificata. Il teologo, nel suo impegno al servizio della verità, dovrà, per restare fedele alla sua funzione, tener conto della missione propria al Magistero e collaborare con esso. Come si deve intendere questa collaborazione? Come si realizza concretamente e quali ostacoli può incontrare? È ciò che occorre adesso esaminare più da vicino.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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IV

MAGISTERO E TEOLOGIA

A. I rapporti di collaborazione

21. Il Magistero vivo della Chiesa e la teologia, pur avendo doni e funzioni diverse, hanno ultimamente il medesimo fine: conservare il Popolo di Dio nella verità che libera e farne così la «luce delle nazioni». Questo servizio alla comunità ecclesiale mette in relazione reciproca il teologo con il Magistero. Quest’ultimo insegna autenticamente la dottrina degli Apostoli e, traendo vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e le deformazioni della fede, proponendo inoltre con l’autorità ricevuta da Gesù Cristo nuovi approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della dottrina rivelata. La teologia invece acquisisce, in modo riflesso, un’intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio, contenuta nella Scrittura e trasmessa fedelmente dalla Tradizione viva della Chiesa sotto la guida del Magistero, cerca di chiarire l’insegnamento della Rivelazione di fronte alle istanze della ragione, ed infine gli dà una forma organica e sistematica[20].

22. La collaborazione fra il teologo ed il Magistero si realizza in modo speciale quando il teologo riceve la missione canonica o il mandato di insegnare. Essa diventa allora, in un certo senso, una partecipazione all’opera del Magistero al quale la collega un vincolo giuridico. Le regole di deontologia che derivano per se stesse e con evidenza dal servizio alla Parola di Dio vengono corroborate dall’impegno assunto dal teologo accettando il suo ufficio ed emettendo la Professione di fede ed il Giuramento di fedeltà[21].

Da quel momento egli è investito ufficialmente del compito di presentare ed illustrare, con tutta esattezza e nella sua integralità, la dottrina della fede.

23. Quando il Magistero della Chiesa si pronuncia infallibilmente dichiarando solennemente che una dottrina è contenuta nella Rivelazione, l’adesione richiesta è quella della fede teologale. Questa adesione si estende all’insegnamento del Magistero ordinario ed universale quando propone una dottrina di fede come divinamente rivelata.

Quando esso propone «in modo definitivo» delle verità riguardanti la fede ed i costumi, che, anche se non divinamente rivelate, sono tuttavia strettamente e intimamente connesse con la Rivelazione, queste devono essere fermamente accettate e ritenute[22].

Quando il Magistero, anche senza l’intenzione di porre un atto «definitivo», insegna una dottrina per aiutare ad un’intelligenza più profonda della Rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per metter in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità, è richiesto un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza[23]. Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare, ma deve collocarsi nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede.

24. Infine il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente.

La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola. Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a secondo dei casi, l’opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento. Il che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è l’autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura dei documenti, dall’insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo stesso di esprimersi[24].

In questo ambito degli interventi di ordine prudenziale, è accaduto che dei documenti magisteriali non fossero privi di carenze. I Pastori non hanno sempre colto subito tutti gli aspetti o tutta la complessità di una questione. Ma sarebbe contrario alla verità se, a partire da alcuni determinati casi, si concludesse che il Magistero della Chiesa possa ingannarsi abitualmente nei suoi giudizi prudenziali, o non goda dell’assistenza divina nell’esercizio integrale della sua missione. Di fatto il teologo, che non può esercitare bene la sua disciplina senza una certa competenza storica, è cosciente della decantazione che si opera con il tempo. Ciò non deve essere inteso nel senso di una relativizzazione degli enunciati della fede. Egli sa che alcuni giudizi del Magistero potevano essere giustificati al tempo in cui furono pronunciati, perché le affermazioni prese in considerazione contenevano in modo inestricabile asserzioni vere e altre che non erano sicure. Soltanto il tempo ha permesso di compiere un discernimento e, a seguito di studi approfonditi, di giungere ad un vero progresso dottrinale.

25. Anche quando la collaborazione si svolge nelle condizioni migliori, non è escluso che nascano tra il teologo ed il Magistero delle tensioni. Il significato che a queste si conferisce e lo spirito con il quale le si affronta non sono indifferenti: se le tensioni non nascono da un sentimento di ostilità e di opposizione, possono rappresentare un fattore di dinamismo ed uno stimolo che sospinge il Magistero ed i teologi ad adempiere le loro rispettive funzioni praticando il dialogo.

26. Nel dialogo deve dominare una duplice regola: là ove la comunione di fede è in causa vale il principio dell’«unitas veritatis»; là ove rimangono delle divergenze che non mettono in causa questa comunione, si salvaguarderà l’«unitas caritatis».

27. Anche se la dottrina della fede non è in causa, il teologo non presenterà le sue opinioni o le sue ipotesi divergenti come se si trattasse di conclusioni indiscutibili. Questa discrezione è esigita dal rispetto della verità così come dal rispetto per il Popolo di Dio (cf. Rm 14, 1-15; 1 Cor 8; 10, 23-33). Per gli stessi motivi egli rinuncerà ad una loro espressione pubblica intempestiva.

28. Ciò che precede ha un’applicazione particolare nel caso del teologo che trovasse serie difficoltà, per ragioni che gli paiono fondate, ad accogliere un insegnamento magisteriale non irreformabile.

Un tale disaccordo non potrebbe essere giustificato se si fondasse solamente sul fatto che la validità dell’insegnamento dato non è evidente o sull’opinione che la posizione contraria sia più probabile. Così pure non sarebbe sufficiente il giudizio della coscienza soggettiva del teologo, perché questa non costituisce un’istanza autonoma ed esclusiva per giudicare della verità di una dottrina.

29. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l’insegnamento del Magistero, come si conviene ad ogni credente nel nome dell’obbedienza della fede. Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi.

30. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato.

In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai «mass-media» invece di rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità.

31. Può anche accadere che al termine di un esame dell’insegnamento del Magistero serio e condotto con volontà di ascolto senza reticenze, la difficoltà rimanga, perché gli argomenti in senso opposto sembrano al teologo prevalere. Davanti ad un’affermazione, alla quale non sente di poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile per un esame più approfondito della questione.

Per uno spirito leale ed animato dall’amore per la Chiesa, una tale situazione può certamente rappresentare una prova difficile. Può essere un invito a soffrire nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la verità è veramente in causa, essa finirà necessariamente per imporsi.

B. Il problema del dissenso.

32. A più riprese il Magistero ha attirato l’attenzione sui gravi inconvenienti arrecati alla comunione della Chiesa da quegli atteggiamenti di opposizione sistematica, che giungono perfino a costituirsi in gruppi organizzati[25]. Nell'Esortazione apostolica Paterna cum benevolentia Paolo VI ha proposto una diagnosi che conserva ancora tutta la sua pertinenza. In particolare qui si intende parlare di quell’atteggiamento pubblico di opposizione al magistero della Chiesa, chiamato anche «dissenso», e che occorre ben distinguere dalla situazione di difficoltà personale, di cui si è trattato più sopra. Il fenomeno del dissenso può avere diverse forme, e le sue cause remote o prossime sono molteplici.

Tra i fattori che possono esercitare la loro influenza in maniera remota o indiretta, occorre ricordare l’ideologia del liberalismo filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca. Di qui proviene la tendenza a considerare che un giudizio ha tanto più valore quanto più procede dall’individuo che si appoggia sulle sue proprie forze. Così si oppone la libertà di pensiero all’autorità della tradizione, considerata causa di schiavitù. Una dottrina trasmessa e generalmente recepita è a priori sospetta e il suo valore veritativo contestato. Al limite, la libertà di giudizio così intesa è più importante della verità stessa. Si tratta quindi di tutt’altro che dell’esigenza legittima della libertà, nel senso di assenza di costrizione, come condizione richiesta per la ricerca leale della verità. In virtù di questa esigenza la Chiesa ha sempre sostenuto che «nessuno può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà»[26].

Il peso di un’opinione pubblica artificiosamente orientata e dei suoi conformismi esercita anche la sua influenza. Sovente i modelli sociali diffusi dai «mass-media» tendono ad assumere un valore normativo; si diffonde in particolare il convincimento che la Chiesa non dovrebbe pronunciarsi che sui problemi ritenuti importanti dall’opinione pubblica e nel senso che a questa conviene. Il Magistero, per esempio, potrebbe intervenire nelle questioni economiche e sociali, ma dovrebbe lasciare al giudizio individuale quelle che riguardano la morale coniugale e familiare.

Infine anche la pluralità delle culture e delle lingue, che è in se stessa una ricchezza, può indirettamente portare a dei malintesi, motivo di successivi disaccordi.

In questo contesto un discernimento critico ben ponderato ed una vera padronanza dei problemi sono richiesti dal teologo, se vuole adempiere la sua missione ecclesiale e non perdere, conformandosi al mondo presente (cf. Rm 12, 2; Ef 4, 23), l’indipendenza del giudizio che deve essere quella dei discepoli di Cristo.

33. Il dissenso può rivestire diversi aspetti. Nella sua forma più radicale, esso ha di mira il cambiamento della Chiesa secondo un modello di contestazione ispirato da ciò che si fa nella società politica. Più frequentemente si ritiene che il teologo sarebbe obbligato ad aderire all’insegnamento infallibile del Magistero, mentre invece, adottando la prospettiva di una specie di positivismo teologico, le dottrine proposte senza che intervenga il carisma dell’infallibilità non avrebbero nessun carattere obbligatorio, lasciando al singolo piena libertà di aderirvi o meno. Il teologo sarebbe quindi totalmente libero di mettere in dubbio o di rifiutare l’insegnamento non infallibile del Magistero, in particolare in materia di norme morali particolari. Anzi con questa opposizione critica egli contribuirebbe al progresso della dottrina.

34. La giustificazione del dissenso si appoggia in generale su diversi argomenti, due dei quali hanno un carattere più fondamentale. Il primo è di ordine ermeneutico: i documenti del Magistero non sarebbero niente altro che il riflesso di una teologia opinabile. Il secondo invoca il pluralismo teologico, spinto talora fino ad un relativismo che mette in causa l'integrità della fede: gli interventi magisteriali avrebbero la loro origine in una teologia fra molte altre, mentre nessuna teologia particolare può pretendere di imporsi universalmente. In opposizione ed in concorrenza con il magistero autentico sorge così una specie di «magistero parallelo» dei teologi[27].

Uno dei compiti del teologo è certamente quello di interpretare correttamente i testi del Magistero, e allo scopo egli dispone di regole ermeneutiche, tra le quali figura il principio secondo cui l’insegnamento del Magistero - grazie all’assistenza divina - vale al di là dell’argomentazione, talvolta desunta da una teologia particolare, di cui esso si serve. Quanto al pluralismo teologico, esso non è legittimo se non nella misura in cui è salvaguardata l’unità della fede nel suo significato obiettivo[28]. I diversi livelli che sono l’unità della fede, l’unità-pluralità delle espressioni della fede e la pluralità delle teologie sono infatti essenzialmente legati fra di loro. La ragione ultima della pluralità è l’insondabile mistero di Cristo che trascende ogni sistematizzazione oggettiva. Ciò non può significare che siano accettabili conclusioni che gli siano contrarie, e ciò non mette assolutamente in causa la verità di asserzioni per mezzo delle quali il Magistero si è pronunciato[29]. Quanto al «magistero parallelo», esso può causare grandi mali spirituali opponendosi a quello dei Pastori. Quando infatti il dissenso riesce ad estendere la sua influenza fino ad ispirare una opinione comune, tende a diventare regola di azione, e ciò non può non turbare gravemente il Popolo di Dio e condurre ad una disistima della vera autorità[30].

35. Il dissenso fa appello anche talvolta ad una argomentazione sociologica, secondo la quale l’opinione di un gran numero di cristiani sarebbe un’espressione diretta ed adeguata del «senso soprannaturale della fede».

In realtà le opinioni dei fedeli non possono essere puramente e semplicemente identificate con il «sensus fidei»[31]. Quest’ultimo è una proprietà della fede teologale la quale, essendo un dono di Dio che fa aderire personalmente alla Verità, non può ingannarsi. Questa fede personale è anche fede della Chiesa, poiché Dio ha affidato alla Chiesa la custodia della Parola e, di conseguenza, ciò che il fedele crede è ciò che crede la Chiesa. Il «sensus fidei» implica pertanto, di sua natura, l'accordo profondo dello spirito e del cuore con la Chiesa, il «sentire cum Ecclesia».

Se quindi la fede teologale in quanto tale non può ingannarsi, il credente può invece avere delle opinioni erronee, perché tutti i suoi pensieri non procedono dalla fede[32]. Le idee che circolano nel Popolo di Dio non sono tutte in coerenza con la fede, tanto più che possono facilmente subire l’influenza di una opinione pubblica veicolata da moderni mezzi di comunicazione. Non è senza motivo che il Concilio Vaticano II sottolinei il rapporto indissolubile fra il «sensus fidei» e la guida del Popolo di Dio da parte del magistero dei Pastori: le due realtà non possono essere separate l’una dall'altra[33]. Gli interventi del Magistero servono a garantire l’unità della Chiesa nella verità del Signore. Essi aiutano a «dimorare nella verità» di fronte al carattere arbitrario delle opinioni mutevoli, e sono l’espressione dell’obbedienza alla Parola di Dio[34]. Anche quando può sembrare che essi limitino la libertà dei teologi, essi instaurano, per mezzo della fedeltà alla fede che è stata trasmessa, una libertà più profonda che non può venire se non dall’unità nella verità.

36. La libertà dell’atto di fede non può giustificare il diritto al dissenso. In realtà essa non significa affatto la libertà nei confronti della verità, ma il libero auto-determinarsi della persona in conformità con il suo obbligo morale di accogliere la verità. L’atto di fede è un atto volontario, perché l'uomo, riscattato dal Cristo Redentore e chiamato da lui all’adozione filiale (cf. Rm 8, 15; Gal 4, 5; Ef 1, 5; Gv 1, 12), non può aderire a Dio se non a condizione che, «attirato dal Padre» (Gv 6, 44), egli faccia a Dio l’omaggio ragionevole della sua fede (cf. Rm 12, 1). Come ha ricordato la Dichiarazione Dignitatis Humanae[35], nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire, con costrizioni o pressioni, in questa scelta che supera i limiti delle sue competenze. Il rispetto del diritto alla libertà religiosa è il fondamento del rispetto dell’insieme dei diritti dell’uomo.

Non si può pertanto fare appello a questi diritti dell’uomo per opporsi agli interventi del Magistero. Un tale comportamento misconosce la natura e la missione della Chiesa, che ha ricevuto dal suo Signore il compito di annunciare a tutti gli uomini la verità della salvezza, e lo realizza camminando sulle tracce del Cristo, sapendo che «la verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore»[36].

37. In forza del mandato divino che gli è stato dato nella Chiesa, il Magistero ha per missione di proporre l’insegnamento del Vangelo, di vegliare sulla sua integrità e di proteggere così la fede del Popolo di Dio. Per realizzare questo talvolta può essere condotto a prendere delle misure onerose, come per esempio quando ritira ad un teologo che si discosta dalla dottrina della fede la missione canonica o il mandato dell’insegnamento che gli aveva affidato, ovvero dichiara che degli scritti non sono conformi a questa dottrina. Agendo così esso intende essere fedele alla sua missione, perché difende il diritto del Popolo di Dio a ricevere il messaggio della Chiesa nella sua purezza e nella sua integralità, e quindi a non essere turbato da un’opinione particolare pericolosa.

Il giudizio espresso dal Magistero in tali circostanze, al termine di un esame approfondito, condotto in conformità con procedure stabilite, e dopo che all’interessato è stata concessa la possibilità di dissipare eventuali malintesi sul suo pensiero, non tocca la persona del teologo, ma le sue posizioni intellettuali pubblicamente espresse. Il fatto che queste procedure possano essere perfezionate non significa che esse siano contrarie alla giustizia ed al diritto. Parlare in questo caso di violazione dei diritti dell’uomo è fuori luogo, perché si misconoscerebbe l’esatta gerarchia di questi diritti, come anche la natura della comunità ecclesiale e del suo bene comune. Peraltro il teologo, che non è in sintonia con il «sentire cum Ecclesia», si mette in contraddizione con l’impegno da lui assunto liberamente e consapevolmente di insegnare in nome della Chiesa[37].

38. Infine l’argomentazione che si rifà al dovere di seguire la propria coscienza non può legittimare il dissenso. Innanzitutto perché questo dovere si esercita quando la coscienza illumina il giudizio pratico in vista di una decisione da prendere, mentre qui si tratta della verità di un enunciato dottrinale. Inoltre perché se il teologo deve, come ogni credente, seguire la sua coscienza, egli è anche tenuto a formarla. La coscienza non è una facoltà indipendente ed infallibile, essa è un atto di giudizio morale che riguarda una scelta responsabile. La coscienza retta è una coscienza debitamente illuminata dalla fede e dalla legge morale oggettiva, e suppone anche la rettitudine della volontà nel perseguimento del vero bene.

La coscienza retta del teologo cattolico suppone pertanto la fede nella Parola di Dio di cui deve penetrare le ricchezze, ma anche l’amore alla Chiesa da cui egli riceve la sua missione ed il rispetto del Magistero divinamente assistito. Opporre al magistero della Chiesa un magistero supremo della coscienza è ammettere il principio del libero esame, incompatibile con l’economia della Rivelazione e della sua trasmissione nella Chiesa, così come con una concezione corretta della teologia e della funzione del teologo. Gli enunciati della fede non risultano da una ricerca puramente individuale e da una libera critica della Parola di Dio, ma costituiscono un’eredità ecclesiale. Se ci si separa dai Pastori che vegliano per mantenere viva la tradizione apostolica, è il legame con Cristo che si trova irreparabilmente compromesso[38].

39. La Chiesa, traendo la sua origine dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo[39], è un mistero di comunione, organizzata, secondo la volontà del suo fondatore, intorno ad una gerarchia stabilita per il servizio del Vangelo e del Popolo di Dio che ne vive. Ad immagine dei membri della prima comunità, tutti i battezzati, con i carismi che sono loro propri, devono tendere con cuore sincero verso un’unità armoniosa di dottrina, di vita e di culto (cf. At 2, 42). È questa una regola che scaturisce dall’essere stesso della Chiesa. Non si possono pertanto applicare a quest’ultima, puramente e semplicemente, dei criteri di condotta che hanno la loro ragione d’essere nella società civile o nelle regole di funzionamento di una democrazia. Ancor meno, nei rapporti all’interno della Chiesa, ci si può ispirare alla mentalità del mondo circostante (cf. Rm 12, 2). Chiedere all’opinione maggioritaria ciò che conviene pensare e fare, ricorrere contro il Magistero a pressioni esercitate dall’opinione pubblica, addurre a pretesto un «consenso» dei teologi, sostenere che il teologo sia il portaparola profetico di una «base» o comunità autonoma che sarebbe così l’unica fonte della verità, tutto questo denota una grave perdita del senso della verità e del senso della Chiesa.

40. La Chiesa è «come il sacramento, cioè il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»[40]. Di conseguenza ricercare la concordia e la comunione è aumentare la forza della sua testimonianza e la sua credibilità; cedere invece alla tentazione del dissenso, è lasciare che si sviluppino «fermenti di infedeltà allo Spirito Santo»[41].

Pur essendo la teologia ed il Magistero di natura diversa e pur avendo missioni diverse che non possono essere confuse, si tratta tuttavia di due funzioni vitali nella Chiesa, che devono compenetrarsi ed arricchirsi reciprocamente per il servizio del Popolo di Dio.

Spetta ai Pastori, in forza dell’autorità che deriva loro da Cristo stesso, vigilare su questa unità e impedire che le tensioni che nascono dalla vita degenerino in divisioni. La loro autorità, andando al di là delle posizioni particolari e delle opposizioni, deve unificarle tutte nell’integrità del Vangelo, che è «la parola della riconciliazione» (cf. 2 Cor 5, 18-20).

Quanto ai teologi, in forza del loro proprio carisma, spetta anche ad essi partecipare all’edificazione del Corpo di Cristo nell’unità e nella verità, ed il loro contributo è più che mai richiesto per un’evangelizzazione a scala mondiale, che esige gli sforzi di tutto quanto il Popolo di Dio[42]. Se può ad essi accadere di incontrare delle difficoltà a causa del carattere della loro ricerca, essi devono cercarne la soluzione in un dialogo fiducioso con i Pastori, nello spirito di verità e di carità che è quello della comunione della Chiesa.

41. Gli uni e gli altri avranno sempre presente che il Cristo è la Parola definitiva del Padre (cf. Eb 1, 2) nel quale, come osserva San Giovanni della Croce, «Dio ci ha detto tutto insieme ed in una sola volta»[43], e che, come tale, egli è la Verità che libera (cf. Gv 8, 36; 14, 6). Gli atti di adesione e di ossequio alla Parola affidata alla Chiesa sotto la guida del Magistero si riferiscono in definitiva a Lui ed introducono nello spazio della vera libertà.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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CONCLUSIONE

43. Madre e perfetta Icona della Chiesa, la Vergine Maria è stata fin dagli inizi del Nuovo Testamento proclamata beata, a motivo della sua adesione di fede immediata e senza incertezze alla Parola di Dio (cf. Lc 1, 38. 45), che continuamente conservava e meditava nel suo cuore (cf. Lc 2, 19. 51). Ella è così diventata, per tutto il Popolo di Dio affidato alla sua materna sollecitudine, un modello ed un sostegno. Ella mostra ad esso la via dell’accoglienza e del servizio della Parola, ed insieme il fine ultimo da non perdere mai di vista: l’annuncio a tutti gli uomini e la realizzazione della salvezza portata al mondo dal suo Figlio Gesù Cristo.

Concludendo questa Istruzione, la Congregazione per la Dottrina della Fede invita caldamente i Vescovi a mantenere e a sviluppare con i teologi relazioni fiduciose, nella condivisione di uno spirito di accoglienza e di servizio della Parola, e in una comunione di carità, nel cui contesto si potranno più facilmente superare alcuni ostacoli inerenti alla condizione umana sulla terra. In tal modo tutti potranno essere sempre di più servitori della Parola e servitori del Popolo di Dio, perché questo, perseverando nella dottrina di verità e di libertà udita fin dall’inizio, rimanga anche nel Figlio e nel Padre, e ottenga la vita eterna, realizzazione della Promessa (cf. 1 Gv 2, 24-25).

Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Istruzione, decisa nella riunione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 24 maggio 1990, nella solennità dell’Ascensione del Signore.

 

 

+ Joseph Card. RATZINGER
Prefetto

 

+ Alberto BOVONE
Arcivescovo tit. di Cesarea di Numidia
Segretario



[1] Costit. dogm. Dei Verbum, n.8.

[2] Costit. dogm. Lumen Gentium, n.12.

[3] Cf. S.BONAVENTURA, Prooem.in I Sent., q. 2, ad 6: «quando fides non assentit propter rationem, sed propter amorem eius cui assentit, desiderat habere rationes».

[4] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Discorso in occasione della consegna del premio internazionale Paolo VI a Hans Urs von Balthasar, 23 giugno 1984: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII, 1 (1984) 1911-1917.

[5] Cf. Conc. Vaticano I, Costit. dogm. De fide catholica, De revelatione, can.1: DS 3026.

[6] Decreto Optatam totius, n.15.

[7] GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai teologi ad Altötting, 18 novembre 1980: AAS 73 (1981) 104; cf. anche PAOLO VI, Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 11 ottobre 1972: AAS 64 (1972) 682-683; GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 26 ottobre 1979: AAS 71 (1979) 1428-1433.

[8] Costit. dogm. Dei Verbum, n.7.

[9] Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Mysterium Ecclesiae, n. 2: AAS 65 (1973) 398s..

[10] Cf. Costit. dogm. Dei Verbum, n.10.

[11] Costit. dogm. Lumen Gentium, n.24.

[12] Cf. Costit. dogm. Dei Verbum, n.10.

[13] Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n.25; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Mysterium Ecclesiae, n. 3: AAS 65 (1973) 400s..

[14] Cf. Professio Fidei et Iusiurandum fidelitatis: AAS 81 (1989) 104s: «omnia et singula quae circa doctrinam de fide vel moribus ab eadem definitive proponuntur».

[15] Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n.25; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Mysterium Ecclesiae, nn.3-5: AAS 65 (1973) 400-404; Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis: AAS 81 (1989) 104s.

[16] Cf. PAOLO VI, Encicl. Humanae vitae, n.4: AAS 60 (1968) 483.

[17] Cf. Conc. Vaticano I, Costit. dogm. Dei Filius, Cap.2: DS 3005.

[18] Cf. C.I.C. Can. 360-361; PAOLO VI, Costit. Apost. Regimini Ecclesiae universae, 15 agosto 1967, AAS 59 (1967) 897-899; GIOVANNI PAOLO II, Costit. Apost. Pastor Bonus, 28 giugno 1988, AAS 80 (1988) 873-874.

[19] Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n. 22-23. Come è noto, a seguito della seconda Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, il Santo Padre ha affidato alla Congregazione dei Vescovi l’incarico di approfondire lo «Status teologico-giuridico delle Conferenze Episcopali».

[20] Cf. PAOLO VI, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla Teologia del Concilio Vaticano II, 1 ottobre 1966: AAS 58 (1966) 892s.

[21] Cf. C.I.C. can.833; Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis: AAS 81 (1989) 104s.

[22] Il testo della nuova Professione di fede (cf. nota 15) precisa l’adesione a questi insegnamenti in questi termini: «Firmiter etiam amplector et retineo...»

[23] Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n. 25; C.I.C. can. 752.

[24] Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n.25 par.1.

[25] Cf. PAOLO VI, Esort. apost. Paterna cum benevolentia, 8 dicembre 1974: AAS 67 (1975) 5-23. Si veda anche CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiar. Mysterium Ecclesiae: AAS 65 (1973) 396-408.

[26] Dichiar. Dignitatis Humanae, n.10.

[27] L'idea di un «magistero parallelo» dei teologi in opposizione e in concorrenza con il magistero dei Pastori si appoggia talvolta su alcuni testi in cui San Tomaso d’Aquino distingue fra «magisterium cathedrae pastoralis» e «magisterium cathedrae magisterialis» (Contra impugnantes, c.2; Quodlib. III, q.4, a.1 (9); In IV Sent. 19, 2, 2, q.3 sol.2 ad 4). In realtà questi testi non offrono alcun fondamento a questa posizione, perché San Tomaso è assolutamente certo che il diritto di giudicare in materia di dottrina spetta solo all’«officium praelationis».

[28] Cf. PAOLO VI, Esort. apost. Paterna cum benevolentia, n.4: AAS 67 (1975) 14-15.

[29] Cf. PAOLO VI, Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 11 ottobre 1973: AAS 65 (1973) 555-559.

[30] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Encicl. Redemptor Hominis, n.19: AAS 71 (1979) 308; Discorso ai fedeli di Managua, 4 marzo 1983, n.7: AAS 75 (1983) 723; Discorso ai religiosi a Guatemala, 8 marzo 1983, n.3: AAS 75 (1983) 746; Discorso ai Vescovi a Lima, 2 febbraio 1985, n.5: AAS 77 (1985) 874; Discorso alla Conferenza dei Vescovi belgi a Malines, 18 maggio 1985, n.5: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII, 1 (1985) 1481; Discorso ad alcuni Vescovi americani in visita ad limina, 15 ottobre 1988, n.6: L’Osservatore Romano, 16 ottobre 1988, p.4.

[31] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esort. apost. Familiaris Consortio, n.5: AAS 74 (1982) 85-86.

[32] Cf. la formula del Concilio di Trento, sess. VI, cap. 9: fides «cui non potest subesse falsum»: DS 1534; cf. SAN TOMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q.1, a.3, ad 3: «Possibile est enim hominem fidelem ex coniectura humana falsum aliquid aestimare. Sed quod ex fide falsum aestimet, hoc est impossibile».

[33] Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n.12.

[34] Cf. Costit. dogm. Dei Verbum, n. 10.

[35] Cf. Dichiar. Dignitatis Humanae, nn.9-10.

[36] ibid., n.1.

[37] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Costit. Apost. Sapientia Christiana, 15 aprile 1979, n.27,1: AAS 71 (1979) 483; C.I.C can.812.

[38] Cf. PAOLO VI, Esort. apost. Paterna cum benevolentia, n.4: AAS 67 (1975) 15.

[39] Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n.4.

[40] ibid., n.1.

[41] Cf. PAOLO VI, Esort. apost. Paterna cum benevolentia, n. 2-3: AAS 67 (1975) 10-11.

[42] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esort. apost. post-sinodale Christifideles laici, n. 32-35: AAS 81 (1989) 451-459.

[43] SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Monte Carmelo, II 22,3.

[SM=g1740771]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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