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Jorge Mario Bergoglio è Papa Francesco, il primo gesuita e argentino di origini italiane

Ultimo Aggiornamento: 22/10/2015 11:53
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16/02/2014 08:39
 
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  Dostoevskij, Romano Guardini e Paolo VI negli scritti riproposti dal gesuita argentino Diego Fares, amico di Papa Francesco, nell’ultimo numero di Civiltà cattolica

IACOPO SCARAMUZZI
CITTÀ DEL VATICANO

Romano Guardini e Dostoevskij, Paolo VI e il marxismo. In un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Civiltà cattolica il gesuita Diego Fares, professore di teologia alla Pontificia universidad Catolica argentina “che conosce Papa Francesco da quarant’anni”, ricostruisce, con testi inediti in Italia, la “antropologia politica” di Jorge Mario Bergoglio. Un pensiero che ruota attorno al “popolo fedele” e alla “vicinanza” dei pastori nei suoi confronti. Idee che Bergoglio elaborò sin dai tempi del suo provincialato dei gesuiti argentini (1973-1979) che coincisero, in parte, con i drammatici anni della dittatura militare iniziata nel 1976.

“Già nel 1974, l’allora giovane provinciale Jorge Mario Bergoglio, all’apertura della congregazione provinciale dei gesuiti argentini, metteva in rilievo ‘il riconoscimento del senso di riserva religiosa che il popolo fedele possiede’”, scrive padre Fares nel fascicolo del quindicinale dei gesuiti che esce oggi. In uno scritto del 1982, Meditaciones para religiosos, Bergoglio spiega al riguardo: “Quando studiavo teologia, quando ripassavo il Denzinger e i trattati per dimostrare le tesi, mi colpì molto una formulazione della tradizione cristiana: il popolo fedele è infallibile in credendo, nel credere. Da qui poi trassi la mia formula personale, che non sarà molto precisa, ma che mi aiuta molto: quando vuoi sapere ciò che crede la Madre Chiesa, rivolgiti al Magistero, perché esso ha l’incarico di insegnarlo in maniera infallibile; ma quando vuoi sapere come crede la Chiesa, rivolgiti al popolo fedele”. Questa “formula personale” si concretizza nella frase seguente: “Il Magistero ti insegnerà chi è Maria, ma il nostro popolo fedele ti insegnerà come si ama Maria”.

Passano pochi anni, nel 1975 viene pubblicata la Evangelii nuntiandi di Paolo VI (documento che il futuro Papa “ha sempre considerato particolarmente ispirato”), lo stesso hanno ha luogo la XXXII congregazione generale dei gesuiti. E in un articolo successivo intitolato Criteri di azione apostolica, Bergoglio torna a parlare di “popolo come riserva”, affermando che la “inculturazione del Vangelo”, che mira al “processo di cambiamento delle strutture (persino nelle strutture del cuore)”, deve “compiere lo sforzo di giustizia per non tradire la cultura del nostro popolo, i suoi valori e le sue aspirazioni legittime, evitando di filtrarli attraverso la nostra mentalità ‘illuminista’”. Scrive Bergoglio: “I popoli hanno abitudini, capacità di valutazione, contenuti culturali che sfuggono a qualsiasi classificazione: sono sovrani nella loro possibilità di interpellare”. Questo conduce ad “affinare l’udito per udire tali richiami e presuppone umiltà, affetto, abitudine all’inculturazione e, soprattutto, l’aver respinto da sé l’assurda pretesa di trasformarsi in ‘voce’ dei popoli, pensando forse che essi non la abbiano. Tutti i popoli ce l’hanno, magari ridotta a volte a un sussurro a causa dell’oppressione. Bisogna aguzzare l’udito e ascoltarla, ma non voler parlare noi al loro posto. Per un pastore, la domanda iniziale di ogni riforma delle strutture dovrebbe essere: ‘Che cosa mi chiede il mio popolo?’’.

In particolare, il commento di Bergoglio al più noto decreto della congregazione generale del 1979, il IV intitolato “La nostra missione oggi: diaconia della fede e promozione della giustizia”, “bandiera – chiosa padre Fares – di coloro che si impegnavano con i poveri giustificando perfino la lotta armata, e antibandiera di coloro che non si volevano assolutamente impegnare con essi”, era questo: “Camminando pazientemente e umilmente con i poveri, scopriremo in che cosa possiamo aiutarli, dopo aver prima accettato di ricevere da loro. Senza questo lento camminare con loro, l’azione a favore dei poveri e degli oppressi sarebbe in contraddizione con le nostre intenzioni e impedirebbe ad essi di far sentire le loro aspirazioni e di acquisire da sé gli strumenti per una effettiva assunzione in prima persona del loro destino personale e collettivo”. La concezione di Bergoglio, riassume padre Fares, “superò chiaramente le false antinomie che dividevano i cristiani in progressisti e conservatori”.

Convinzioni che portano l’arcivescovo di Buenos Aires, anni dopo, a parlare – che si tratti della crisi economica dell’Argentina nel 2001 o l’incontro dell’episcopato latino-americano ad Aparecida nel 2009 – di “cultura dell’incontro”: “Gesù – afferma Bergoglio in una messa nel 2012 – non faceva proselitismo, accompagnava. Il Dio vicino, vicino alla nostra carne. Il Dio dell’incontro che va all’incontro con il suo popolo. Il Dio che mette il suo popolo in una situazione di incontro. E con quella vicinanza, con questo camminare crea quella cultura dell’incontro che ci fa fratelli, ci fa figli, e non membri di una ong o proseliti di una multinazionale. Vicinanza, è questa la proposta”. Dietro la concezione che Francesco ha del popolo, scrive Fares, troviamo Romano Guardini, “e dietro di lui”, il Dostoevskij de I fratelli Karamazov: “E’ il popolo che, nonostante le sue miserie e i suoi peccati, è autenticamente umano e, nonostante tutta la sua bassezza, è ricco di contenuti e sano, perché affonda le sue radici nella struttura essenziale dell’essere”.







Mons. Xuereb: vi racconto il mio anno accanto a Papa Francesco, parroco del mondo



Ricorre giovedì prossimo il primo anniversario dall’elezione di Papa Francesco alla Cattedra di Pietro. Un anno straordinario per la vita della Chiesa, un “tempo della misericordia” come il Pontefice stesso ha più volte sottolineato. Tra le persone che più da vicino hanno accompagnato il Santo Padre in questi dodici mesi intensissimi c’è il suo segretario particolare, mons. Alfred Xuereb, nominato recentemente dal Papa segretario generale della Segreteria per l’Economia del Vaticano. In questa intervista esclusiva alla Radio Vaticana, al microfono di Alessandro Gisotti, mons. Xuereb ripercorre questo primo anno con Francesco a partire proprio da quell’indimenticabile 13 marzo di un anno fa:RealAudioMP3 

R. – Lei mi fa rivivere tante emozioni e anche tantissimi ricordi molto profondi: erano momenti particolari, che sicuramente rimarranno nella Storia. Un Papa che lascia il suo Pontificato … Dal 28 febbraio, il giorno ultimo del Pontificato di Papa Benedetto, quando abbiamo lasciato per sempre il Palazzo Apostolico, fino al 15 marzo, quindi fino a due giorni dopo l’elezione del nuovo Papa, io sono rimasto con il Papa emerito a Castel Gandolfo per tenergli compagnia e anche per aiutarlo nel suo lavoro di segreteria. Il momento del distacco da Papa Benedetto per me è stato un momento molto struggente, perché ho avuto la fortuna di vivere per cinque anni e mezzo con lui e lasciarlo, distaccarmi da lui è stato un momento molto difficile. Le cose erano precipitate, io non sapevo che proprio in quel giorno avrei dovuto fare le valigie e lasciare Castel Gandolfo e anche lasciare Papa Benedetto. Ma dal Vaticano mi chiedevano di fare in fretta, fare le valigie e andare a Casa Santa Marta perché Papa Francesco stava persino aprendo lui la posta, da solo: non aveva un segretario che lo aiutasse. In quella mattinata sono passato più volte in cappella per avere lume, perché mi sentivo anche un po’ confuso. Però ero certo, avevo la netta sensazione che io fossi guidato dall’Alto e mi rendevo conto che stava succedendo qualcosa di straordinario, anche per la mia vita. Sono poi entrato nello studio di Papa Benedetto piangendo e, con un nodo alla gola, ho cercato di dirgli quanto ero triste e quanto fosse difficile il mio distacco da Lui. L’ho ringraziato per la Sua benevola paternità. Gli ho rassicurato che tutte le esperienze vissute nel Palazzo Apostolico con lui mi hanno tanto aiutato a guardare meglio “alle cose di lassù”. Poi mi sono inginocchiato per baciargli l’anello, che non era più quello del Pescatore, e lui, con sguardo di paternità, di tenerezza, come sa fare lui, si è alzato in piedi e mi ha benedetto.

D. – Che ricordo ha del suo primo incontro con Papa Francesco?

R. – Mi ha fatto entrare nel suo studio, mi ha accolto con la sua ormai nota cordialità, e devo dire che mi ha fatto anche un scherzo, uno scherzo – se così posso dire – da Papa! Aveva una lettera in mano e con tono serio mi disse: “Ah, ma qui abbiamo dei problemi, qualcuno non ha parlato molto bene di te!”. Io ammutolii, ma poi capii che si riferiva alla lettera che Papa Benedetto gli aveva inviato per informarlo che lui mi aveva lasciato libero e che poteva chiamarmi al suo servizio. In questa lettera, Papa Benedetto aveva avuto la bontà di elencare alcuni miei pregi. Poi Papa Francesco mi ha invitato a sedermi sul divano e lui accanto a me, su una sedia. Mi ha chiesto – con molta fraternità – di aiutarlo nel suo gravoso compito. Infine ha voluto sapere qual è il mio rapporto con i Superiori e con altre persone di certa responsabilità. Gli ho risposto che ho un buon rapporto con tutti, almeno per quanto mi riguarda.

D. – Cosa la colpisce della personalità di Papa Francesco, avendo il privilegio di vivere ogni giorno accanto a Lui?

R. - La sua determinazione. Una convinzione che sono sicuro che gli viene dall’Alto, perché è uomo profondamente spirituale che cerca nella preghiera l’ispirazione da Dio. Per esempio, la visita a Lampedusa lui l’ha decisa perché dopo alcune volte che è entrato in cappella, gli è venuta in continuazione questa idea: andare di persona a incontrare queste persone, questi naufraghi, e piangere sui morti. E quando lui ha capito che gli venivano in mente più volte, allora è stato sicuro che Dio la voleva. L’ha fatta, anche se non c’era molto tempo per prepararla. Lo stesso metodo lui lo usa per la scelta delle persone che chiama a collaborare con lui da vicino.

D. – Cosa invece la colpisce guardando al Pastore Francesco, alla sua dimensione pubblica, a come in fondo esercita il ministero petrino?

R. – Qualcun altro mi ha fatto una domanda simile, e rispondo dicendo che mi viene in mente spontaneamente la figura del missionario. Quel classico missionario che parte, va tra gli indigeni per far conoscere loro il Vangelo, Gesù Cristo …. Ecco, io vedo in Francesco il missionario che sta chiamando a sé la folla, quella folla che magari si sente smarrita, con l’intento di riportarla al cuore del Vangelo. E’ diventato – per così dire – il parroco del mondo e sta incoraggiando quanti si sentono lontani dalla Chiesa a ritornare con la certezza che troveranno il loro posto nella Chiesa. Lui vede nel clericalismo e nella casistica dei forti ostacoli affinché tutti si possano sentire amati dalla Chiesa, accompagnati da essa. Invece, parroci e sacerdoti ci dicono quasi quotidianamente quante persone sono tornate alla Confessione e alla pratica della fede per l’incoraggiamento di Papa Francesco, specialmente quando ci ricorda che Dio non si stanca mai di perdonarci. Lui, come avete visto, ha un’attenzione speciale per i malati, e questo perché lui vede in loro il corpo di Cristo sofferente. E dimentica completamente i suoi malanni. Per esempio, nei primi mesi del suo Pontificato aveva un forte dolore a causa della sciatica che si era ripresentata. I medici gli avevano consigliato di evitare di abbassarsi ma lui, trovandosi davanti a malati in carrozzella o a bambini infermi nei loro passeggini si china su di loro comunque e fa sentire la Sua vicinanza. Così pure, per esempio, è successo durante la celebrazione eucaristica a Casal del Marmo la sera del Giovedì Santo durante la lavanda dei piedi. Nonostante senz’altro il dolore che avrà sentito, si è inginocchiato davanti a ciascuno dei dodici giovani detenuti per baciar loro i piedi.

D. – Papa Francesco sembra instancabile, a guardarlo negli incontri, nelle udienze… Come vive la sua quotidianità anche di lavoro, a Casa Santa Marta?

R. – Mi creda, non perde un solo minuto! Lavora instancabilmente. E quando sente il bisogno di prendere un momento di pausa, non è che chiude gli occhi e non fa niente: si mette seduto e prega il Rosario. Penso che almeno tre Rosari al giorno, li prega. E mi ha detto: “Questo mi aiuta a rilassarmi”. Poi riprende, riprende il lavoro. Riceve una persona dopo l’altra: il personale della portineria di Santa Marta ne è testimone. Ascolta con attenzione e ricorda con straordinaria capacità quanto sente e quanto vede. Si dedica alla meditazione presto, la mattina, preparando anche l’omelia della Messa a Santa Marta. Poi, scrive lettere, fa telefonate, saluta il personale che incontra e si informa sulle loro famiglie.

D. – Uno dei doni più belli di questo primo anno di Pontificato sono senz’altro gli incontri tra Papa Francesco e Papa Benedetto. Lei, che è come un anello di congiunzione tra loro, cosa può dirci di questo “rapporto fraterno”?

R. – In una recente intervista, Papa Francesco ha rivelato questo: che lui lo consulta, chiede di sapere il suo punto di vista. Sarebbe una grande perdita non attingere a questa grande fonte di saggezza e di esperienza! Infatti, da subito l’ha chiamato: è come avere il nonno in casa è, come dire, avere il saggio dentro casa. Ecco, da subito Papa Francesco ha visto questa presenza come un dono inestimabile, simile a quel vescovo saggio appena eletto che trova un sapiente sostegno nel suo vescovo emerito. E’ significativo – per esempio – il fatto che abbia voluto inginocchiarsi nella cappella a Castel Gandolfo non sul suo inginocchiatoio, ma accanto a Papa Benedetto. E poi, ha voluto la sua presenza nell’inaugurazione della statua di San Michele Arcangelo qui, nei Giardini Vaticani … e l’ha convinto a partecipare al Concistoro che c’è stato per i nuovi cardinali. E’ una presenza che arricchisce il Pontificato di Papa Francesco.

D. – Da ultimo, cosa le sta dando personalmente questo servizio al Papa Francesco, dopo aver servito da vicino Benedetto XVI e, ricordiamolo, anche Giovanni Paolo II?

R. - Mi rendo conto che il Signore mi sta conducendo per vie veramente misteriose. Non avrei mai immaginato di poter compiere questo tipo di servizio. Ma Dio è così. Altrimenti siamo noi i programmatori della nostra via di santità. Io trovo un grande aiuto nella luminosa testimonianza di affidamento a Dio che ho avuto la grazia di cogliere di persona da Papa Giovanni Paolo II, dal Papa Emerito, Benedetto, il quale – è diventato un modo per sorridere – ogni volta che si trovava davanti ad una situazione difficile amava incoraggiarci dicendo: “Il Signore ci aiuterà”. Ecco, ovviamente il sostegno sia umano che spirituale nella preghiera, che so che fa anche per me Papa Francesco, mi è di grande conforto.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/03/10/mons._xuereb:_vi_racconto_il_mio_anno_accanto_a_papa_francesco,/it1-779997 
del sito Radio Vaticana 




 

[Modificato da Caterina63 10/03/2014 22:32]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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