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Messaggi e Discorsi del Papa agli Ordini Religiosi, Consacrati e Movimenti laicali

Ultimo Aggiornamento: 22/01/2018 08:58
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01/02/2016 14:10
 
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GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA MISERICORDIA

GIUBILEO DELLA VITA CONSACRATA

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Aula Paolo VI
Lunedì, 1° febbraio 2016

[Multimedia]



  

Discorso consegnato dal Santo Padre:

Cari fratelli e sorelle,

sono contento di incontrarmi con voi al termine di questo Anno dedicato alla vita consacrata.

Un giorno, Gesù, nella sua infinita misericordia, si è rivolto a ciascuna e ciascuno di noi e ci ha chiesto, personalmente: «Vieni! Seguimi!» (Mc 10,21). Se siamo qui è perché gli abbiamo risposto “sì”. A volte si è trattato di un’adesione piena di entusiasmo e di gioia, a volte più sofferta, forse incerta. Lo abbiamo comunque seguito, con generosità, lasciandoci guidare per vie che non avremmo neppure immaginato. Abbiamo condiviso con Lui momenti di intimità: «Venite in disparte […] e riposatevi un po’» (Mc6,31); momenti di servizio e di missione: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13); perfino la sua croce: «Se qualcuno vuol venire dietro a me […] prenda la sua croce» (Lc 9,23). Ci ha introdotti nel suo stesso rapporto con il Padre, ci ha donato il suo Spirito, ha dilatato il nostro cuore sulla misura del suo, insegnandoci ad amare i poveri e i peccatori. Lo abbiamo seguito insieme, imparando da Lui il servizio, l’accoglienza, il perdono, la carità fraterna. La nostra vita consacrata ha senso perché rimanere con Lui e andare sulle strade del mondo portando Lui, ci conforma a Lui, ci fa essere Chiesa, dono per l’umanità.

L’Anno che stiamo concludendo ha contribuito a far risplendere di più nella Chiesa la bellezza e la santità della vita consacrata, intensificando nei consacrati la gratitudine per la chiamata e la gioia della risposta. Ogni consacrato e consacrata ha avuto la possibilità di avere una più chiara percezione della propria identità, e così proiettarsi nel futuro con rinnovato ardore apostolico per scrivere nuove pagine di bene, sulla scia del carisma dei Fondatori. Siamo riconoscenti al Signore per quanto ci ha dato di vivere in questo Anno così ricco di iniziative. E ringrazio la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che ha preparato e realizzato i grandi eventi qui a Roma e nel mondo.

L’Anno si conclude, ma continua il nostro impegno a rimanere fedeli alla chiamata ricevuta e a crescere nell’amore, nel dono, nella creatività. Per questo vorrei lasciarvi tre parole.

La prima è profezia. E’ il vostro specifico. Ma quale profezia attendono da voi la Chiesa e il mondo? Siete anzitutto chiamati a proclamare, con la vostra vita prima ancora che con le parole, la realtà di Dio: dire Dio. Se a volte Egli viene rifiutato o emarginato o ignorato, dobbiamo chiederci se forse non siamo stati abbastanza trasparenti al suo Volto, mostrando piuttosto il nostro. Il volto di Dio è quello di un Padre «misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore» (Sal 103,8). Per farlo conoscere occorre avere con Lui un rapporto personale; e per questo ci vuole la capacità di adorarLo, di coltivare giorno dopo giorno l’amicizia con Lui, mediante il colloquio cuore a cuore nella preghiera, specialmente nell’adorazione silenziosa.

La seconda parola che vi consegno è prossimità. Dio, in Gesù, si è fatto vicino ad ogni uomo e ogni donna: ha condiviso la gioia degli sposi a Cana di Galilea e l’angoscia della vedova di Nain; è entrato nella casa di Giairo toccata dalla morte e nella casa di Betania profumata di nardo; si è caricato delle malattie e delle sofferenze, fino a dare la sua vita in riscatto di tutti. Seguire Cristo vuol dire andare là dove Egli è andato; caricare su di sé, come buon Samaritano, il ferito che incontriamo lungo la strada; andare in cerca della pecora smarrita. Essere, come Gesù, vicini alla gente; condividere le loro gioie e i loro dolori; mostrare, con il nostro amore, il volto paterno di Dio e la carezza materna della Chiesa. Che nessuno mai vi senta lontani, distaccati, chiusi e perciò sterili. Ognuno di voi è chiamato a servire i fratelli, seguendo il proprio carisma: chi con la preghiera, chi con la catechesi, chi con l’insegnamento, chi con la cura dei malati o dei poveri, chi annunciando il Vangelo, chi compiendo le diverse opere di misericordia. Importante è non vivere per sé stessi, come Gesù non ha vissuto per Sé stesso, ma per il Padre e per noi.

Arriviamo così alla terza parola: speranza. Testimoniando Dio e il suo amore misericordioso, con la grazia di Cristo potete infondere speranza in questa nostra umanità segnata da diversi motivi di ansia e di timore e tentata a volte di scoraggiamento. Potete far sentire la forza rinnovatrice delle beatitudini, dell’onestà, della compassione; il valore della bontà, della vita semplice, essenziale, piena di significato. E potete alimentare la speranza anche nella Chiesa. Penso, ad esempio, al dialogo ecumenico. L’incontro di un anno fa tra consacrati delle diverse confessioni cristiane è stata una bella novità, che merita di essere portata avanti. La testimonianza carismatica e profetica della vita dei consacrati, nella varietà delle sue forme, può aiutare a riconoscerci tutti più uniti e favorire la piena comunione.

Cari fratelli e sorelle, nel vostro apostolato quotidiano, non lasciatevi condizionare dall’età o dal numero. Ciò che più conta è la capacità di ripetere il “sì” iniziale alla chiamata di Gesù che continua a farsi sentire, in maniera sempre nuova, in ogni stagione della vita. La sua chiamata e la nostra risposta mantengono viva la nostra speranza. Profeziaprossimitàsperanza. Vivendo così, avrete nel cuore la gioia, segno distintivo dei seguaci di Gesù e a maggior ragione dei consacrati. E la vostra vita sarà attraente per tante e tanti, a gloria di Dio e per la bellezza della Sposa di Cristo, la Chiesa.

Cari fratelli e sorelle, ringrazio il Signore per quello che siete e fate nella Chiesa e nel mondo. Vi benedico e vi affido alla nostra Madre. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me.



________________________________

Il santo Padre ha però parlato a braccio ecco il testo ufficiale






Parole pronunciate a braccio dal Santo Padre:

Cari sorelle e fratelli,

ho preparato un discorso per questa occasione sui temi della vita consacrata e sui tre pilastri; ce ne sono altri, ma tre importanti della vita consacrata. Il primo è la profezia, l’altro è la prossimità e il terzo è la speranza. Profezia, prossimità, speranza. Ho consegnato al Cardinale Prefetto il testo, perché leggerlo è un po’ noioso, e preferisco parlare con voi di quello che mi viene dal cuore. D’accordo?

Religiosi e religiose, cioè uomini e donne consacrati al servizio del Signore che esercitano nella Chiesa questa strada di una povertà forte, di un amore casto che li porta ad una paternità e ad una maternità spirituale per tutta la Chiesa, un’obbedienza… Ma in questa obbedienza ci manca sempre qualcosa, perché la perfetta obbedienza è quella del Figlio di Dio, che si è annientato, si è fatto uomo per obbedienza, fino alla morte di Croce. Ma ci sono tra voi uomini e donne che vivono un’obbedienza forte, un’obbedienza… - non militare, no, questo no; quella è disciplina, un’altra cosa – un’obbedienza di donazione del cuore. E questo è profezia. “Ma tu non hai voglia di fare qualcosa, quell’altra?...” - “Sì, ma secondo le regole devo fare questo, questo e questo.

E secondo le disposizioni questo, questo e questo. E se non vedo chiaro qualcosa, parlo con il superiore, con la superiora, e, dopo il dialogo, obbedisco”. Questa è la profezia, contro il seme dell’anarchia, che semina il diavolo. “Tu che fai?” - “Io faccio quello che mi piace”. L’anarchia della volontà è figlia del demonio, non è figlia di Dio.
Il Figlio di Dio non è stato anarchico, non ha chiamato i suoi a fare una forza di resistenza contro i suoi nemici; Lui stesso lo ha detto a Pilato: “Se io fossi un re di questo mondo avrei chiamato i miei soldati per difendermi”. Ma Lui ha fatto l’obbedienza del Padre. Ha chiesto soltanto: “Padre, per favore, no, questo calice no... Ma si faccia quello che Tu vuoi”.
Quando voi accettate per obbedienza una cosa, che forse tante volte non ci piace… [fa il gesto di ingoiare] …si deve ingoiare quell’obbedienza, ma si fa.

Dunque, la profezia. La profezia è dire alla gente che c’è una strada di felicità, di grandezza, una strada che ti riempie di gioia, che è proprio la strada di Gesù. È la strada di essere vicino a Gesù. È un dono, è un carisma la profezia e lo si deve chiedere allo Spirito Santo: che io sappia dire quella parola, in quel momento giusto; che io faccia quella cosa in quel momento giusto; che la mia vita, tutta, sia una profezia. Uomini e donne profeti. E questo è molto importante. “Mah, facciamo come fanno tutti…”. No. La profezia è dire che c’è qualcosa di più vero, di più bello, di più grande, di più buono al quale tutti siamo chiamati.

Poi l’altra parola è la prossimità. Uomini e donne consacrate, ma non per allontanarmi dalla gente e avere tutte le comodità, no, per avvicinarmi e capire la vita dei cristiani e dei non cristiani, le sofferenze, i problemi, le tante cose che si capiscono soltanto se un uomo e una donna consacrati diventano prossimo: nella prossimità. “Ma, Padre, io sono una suora di clausura, cosa devo fare?”.

Pensate a santa Teresa del Bambin Gesù, patrona delle missioni, che con il suo cuore ardente era prossima, e le lettere che riceveva dai missionari la facevano più prossima alla gente. Prossimità. Diventare consacrati non significa salire uno, due, tre scalini nella società. È vero, tante volte sentiamo i genitori: “Sa Padre, io ho una figlia suora, io ho un figlio frate!”. E lo dicono con orgoglio. Ed è vero! È una soddisfazione per i genitori avere i figli consacrati, questo è vero.
Ma per i consacrati non è uno status di vita che mi fa guardare gli altri così [con distacco]. La vita consacrata mi deve portare alla vicinanza con la gente: vicinanza fisica, spirituale, conoscere la gente. “Ah sì Padre, nella mia comunità la superiora ci ha dato il permesso di uscire, andare nei quartieri poveri con la gente… “ – “E nella tua comunità, ci sono suore anziane?” – “Sì, sì… C’è l’infermeria, al terzo piano” – “E quante volte al giorno tu vai a trovare le tue suore, le anziane, che possono essere tua mamma o tua nonna?” – “Ma, sa Padre, io sono molto impegnata nel lavoro e non ce la faccio ad andare…”.

Prossimità! Qual è il primo prossimo di un consacrato o di una consacrata? Il fratello o la sorella della comunità. Questo è il vostro primo prossimo. E anche una prossimità carina, buona, con amore. Io so che nelle vostre comunità mai si chiacchiera, mai, mai… Un modo di allontanarsi  chiacchiere. Sentite bene: non le chiacchiere, il terrorismo delle chiacchiere. Perché chi chiacchiera è un terrorista. È un terrorista dentro la propria comunità, perché butta come una bomba la parola contro questo, contro quello, e poi se va tranquillo. Distrugge!
Chi fa questo distrugge, come una bomba, e lui si allontana. Questa, l’apostolo Santiago diceva che era la virtù forse più difficile, la virtù umana e spirituale più difficile da avere, quella di dominare la lingua. Se ti viene di dire qualcosa contro un fratello o una sorella, buttare una bomba di chiacchiera, morditi la lingua! Forte! Terrorismo nelle comunità, no!
“Ma Padre se c’è qualcosa, un difetto, qualcosa da correggere?”. Tu lo dici alla persona: tu hai questo atteggiamento che mi dà fastidio, o non sta bene. O se non è conveniente – perché alle volte non è prudente – tu lo dici alla persona che può rimediare, che può risolvere il problema e a nessun altro. Capito? Le chiacchiere non servono. “Ma in capitolo?”. Lì sì! In pubblico, tutto quello che senti che devi dire; perché c’è la tentazione di non dire le cose in capitolo, e poi di fuori: “Hai visto la priora? Hai visto la badessa? Hai visto il superiore?...”. Ma perché non lo ha detto lì in capitolo?...

È chiaro questo? Sono virtù di prossimità. E i Santi avevano questo, i Santi consacrati avevano questo. Santa Teresa di Gesù Bambino mai, mai si è lamentata del lavoro, del fastidio che le dava quella suora che doveva portare alla sala da pranzo, tutte le sere: dal coro alla sala da pranza. Mai! Perché quella povera suora era molto anziana, quasi paralitica, camminava male, aveva dolori – anch’io la capisco! –, era anche un po’ nevrotica… Mai, mai è andata da un’altra suora a dire: “Ma questa come dà fastidio!”. Cosa faceva? La aiutava ad accomodarsi, le portava il tovagliolo, le spezzava il pane e le faceva un sorriso. Questa si chiama prossimità. Prossimità! Se tu butti la bomba di una chiacchiera nella tua comunità, questa non è prossimità: questo è fare la guerra! Questo è allontanarti, questo è provocare distanze, provocare anarchismo nella comunità. E se, in questo Anno della Misericordia, ognuno di voi riuscisse a non fare mai il terrorista chiacchierone o chiacchierona, sarebbe un successo per la Chiesa, un successo di santità grande! Fatevi coraggio! Le prossimità.

E poi la speranza. E vi confesso che a me costa tanto quando vedo il calo delle vocazioni, quando ricevo i vescovi e domando loro: “Quanti seminaristi avete?” - “4, 5…”. Quando voi, nelle vostre comunità religiose – maschili o femminili – avete un novizio, una novizia, due… e la comunità invecchia, invecchia…. Quando ci sono monasteri, grandi monasteri, e il Cardinale Amigo Vallejo [si rivolge a lui] può raccontarci, in Spagna, quanti ce ne sono, che sono portati avanti da 4 o 5 suore vecchiette, fino alla fine… E a me questo fa venire una tentazione che va contro la speranza: “Ma, Signore, cosa succede? Perché il ventre della vita consacrata diventa tanto sterile?”.
Alcune congregazioni fanno l’esperimento della “inseminazione artificiale”. Che cosa fanno? Accolgono…: “Ma sì, vieni, vieni, vieni…”. E poi i problemi che ci sono lì dentro…
No. Si deve accogliere con serietà!
Si deve discernere bene se questa è una vera vocazione e aiutarla a crescere.

E credo che contro la tentazione di perdere la speranza, che ci dà questa sterilità, dobbiamo pregare di più. E pregare senza stancarci. A me fa tanto bene leggere quel brano della Scrittura, in cui Anna – la mamma di Samuele – pregava e chiedeva un figlio. Pregava e muoveva le labbra, e pregava… E il vecchio sacerdote, che era un po’ cieco e che non vedeva bene, pensava che fosse ubriaca. Ma il cuore di quella donna [diceva a Dio]: “Voglio un figlio!”.
Io domando a voi: il vostro cuore, davanti a questo calo delle vocazioni, prega con questa intensità? “La nostra Congregazione ha bisogno di figli, la nostra Congregazione ha bisogno di figlie…”. Il Signore che è stato tanto generoso non mancherà la sua promessa. Ma dobbiamo chiederlo. Dobbiamo bussare alla porta del suo cuore.

Perché c’è un pericolo - e questo è brutto, ma devo dirlo -: quando una Congregazione religiosa vede che non ha figli e nipoti ed incomincia ad essere sempre più piccola, si attacca ai soldi. E voi sapete che i soldi sono lo sterco del diavolo. Quando non possono avere la grazia di avere vocazioni e figli, pensano che i soldi salveranno la vita; e pensano alla vecchiaia: che non manchi questo, che non manchi quest’altro… E così non c’è speranza! La speranza è solo nel Signore! I soldi non te la daranno mai. Al contrario: ti butteranno giù! Capito?.

Questo volevo dirvi, invece di leggere le pagelle che il Cardinale Prefetto vi darà dopo…

E vi ringrazio tanto per quello che fate. I consacrati – ognuno col suo carisma. E voglio sottolineare le consacrate, le suore. Cosa sarebbe la Chiesa se non ci fossero le suore? Questo l’ho detto una volta: quando tu vai in ospedale, nei collegi, nelle parrocchie, nei quartieri, nelle missioni, uomini e donne che hanno dato la loro vita…
Nell’ultimo viaggio in Africa – questo l’ho raccontato, credo, in una udienza – ho trovato una suora di 83 anni, italiana. Lei mi ha detto: “E’ da quando avevo - non ricordo se mi ha detto 23 o 26 anni - che sono qui. Sono infermiera in un ospedale”. Pensiamo: dai 26 anni fino agli 83! “E ho scritto ai miei in Italia che non tornerò più”.
Quando tu vai in un cimitero e vedi che ci sono tanti missionari religiosi morti e tante suore morte a 40 anni perché hanno preso le malattie, queste febbri di quei Paesi, hanno bruciato la vita… Tu dici: questi sono santi! Questi sono semi! Dobbiamo dire al Signore che scenda un po’ su questi cimiteri e veda cosa hanno fatto i nostri antenati e ci dia più vocazioni, perché ne abbiamo bisogno!

Vi ringrazio tanto per questa visita, ringrazio il Cardinale Prefetto, Monsignor Segretario, i Sottosegretari per quello che avete fatto in questo Anno della Vita Consacrata. Ma, per favore, non dimenticare la profezia dell’obbedienza, la vicinanza, il prossimo più importante, il prossimo più prossimo è il fratello e la sorella di comunità, e poi la speranza. Che il Signore faccia nascere figli e figlie nelle vostre Congregazioni. E pregate per me. Grazie!




SANTA MESSA CON I FRATI CAPPUCCINI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana, Altare della Cattedra
Martedì, 9 febbraio 2016

[Multimedia]



 

Nella liturgia della Parola di oggi si riscontrano due atteggiamenti. Un atteggiamento di grandezza davanti a Dio, che si esprime nell’umiltà di re Salomone, e un altro atteggiamento di meschinità che viene descritto da Gesù stesso: come facevano i dottori della legge, che tutto era preciso, lasciavano da parte la legge, per osservare le loro piccole tradizioni.

La tradizione vostra, dei Cappuccini, è una tradizione di perdono, di dare il perdono. Tra di voi ci sono tanti bravi confessori: è perché si sentono peccatori, come il nostro fra Cristoforo. Sanno che sono grandi peccatori, e davanti alla grandezza di Dio continuamente pregano: “Ascolta, Signore, e perdona” (cfr 1 Re 8,30). E perché sanno pregare così, sanno perdonare. Invece, quando qualcuno si dimentica la necessità che ha di perdono, lentamente si dimentica di Dio, si dimentica di chiedere perdono e non sa perdonare. L’umile, colui che si sente peccatore, è un gran perdonatore nel confessionale. L’altro, come questi dottori della legge che si sentono “i puri”, “i maestri”, sanno soltanto condannare.

Vi parlo come fratello, e in voi vorrei parlare a tutti i confessori, specialmente in quest’Anno della Misericordia: il confessionale è per perdonare. E se tu non puoi dare l’assoluzione – faccio questa ipotesi – per favore, non “bastonare”. La persona che viene, viene a cercare conforto, perdono, pace nella sua anima; che trovi un padre che lo abbracci e gli dica: “Dio ti vuole bene”; e che lo faccia sentire! E mi spiace dirlo, ma quanta gente - credo che la maggioranza di noi l’abbia sentito - dice: “Io non vado mai a confessarmi, perché una volta mi hanno fatto queste domande, mi hanno fatto questo…”. Per favore…

Ma voi Cappuccini avete questo speciale dono del Signore: perdonare. Io vi chiedo: non stancatevi di perdonare! Penso a uno che ho conosciuto nell’altra diocesi, un uomo di governo, che poi, finito il suo tempo di governo come guardiano e provinciale, a 70 anni è stato inviato in un santuario a confessare. E quest’uomo aveva una coda di gente, tutti, tutti: preti, fedeli, ricchi, poveri, tutti! Un gran perdonatore. Sempre trovava il modo di perdonare, o almeno di lasciare in pace quell’anima con un abbraccio. E una volta andai a trovarlo e mi disse: “Senti, tu sei vescovo e puoi dirmelo: io credo che pecco perché perdono troppo, e mi viene questo scrupolo…” – “E perché?” – “Non so, ma sempre trovo come perdonare…” – “E cosa fai, quando ti senti cosi?” – “Vado in cappella, davanti al tabernacolo, e dico al Signore: Scusami, Signore, perdonami, credo che oggi ho perdonato troppo. Ma, Signore, sei stato Tu a darmi il cattivo esempio!’”. Ecco. Siate uomini di perdono, di riconciliazione, di pace.

Ci sono tanti linguaggi nella vita: il linguaggio della parola, anche ci sono i linguaggi dei gesti. Se una persona si avvicina a me, al confessionale, è perché sente qualcosa che gli pesa, che vuole togliersi. Forse non sa come dirlo, ma il gesto è questo. Se questa persona si avvicina è perché vorrebbe cambiare, non fare più, cambiare, essere un’altra persona, e lo dice con il gesto di avvicinarsi. Non è necessario fare delle domande: “Ma tu, tu…?”. Se una persona viene, è perché nella sua anima vorrebbe non farlo più. Ma tante volte non possono, perché sono condizionati dalla loro psicologia, dalla loro vita, dalla loro situazione… “Ad impossibilia nemo tenetur”.

Un cuore largo… Il perdono… Il perdono è un seme, è una carezza di Dio. Abbiate fiducia nel perdono di Dio. Non cadere nel pelagianesimo! “Tu devi fare questo, questo, questo, questo…”. Ma voi avete questo carisma dei confessori. Riprenderlo, rinnovarlo sempre. E siate grandi perdonatori, perché chi non sa perdonare finisce come questi dottori del Vangelo: è un grande condannatore, sempre ad accusare… E chi è il grande accusatore, nella Bibbia? Il diavolo! O fai l’ufficio di Gesù, che perdona dando la vita, la preghiera, tante ore lì, seduto, come quei due [san Leopoldo e san Pio]; o fai l’ufficio del diavolo che condanna, accusa… Non so, non riesco a dirvi un’altra cosa. In voi lo dico a tutti, a tutti i sacerdoti che vanno a confessare. E se non se la sentono, che siano umili e dicano: “No, no, io celebro la Messa, pulisco il pavimento, faccio tutto, ma non confessare, perché non so farlo bene”. E chiedere al Signore la grazia, grazia che chiedo per ognuno di voi, per tutti voi, per tutti i confessori, anche per me.

   


[Modificato da Caterina63 09/02/2016 14:24]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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