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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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San Gregorio Magno Regola Pastorale

Ultimo Aggiornamento: 29/11/2013 09:59
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29/11/2013 09:21
 
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5 — Alcuni chiamati alla massima dignità del governo delle anime potrebbero giovare col loro esempio, ma rifiutano cercando la propria quiete


 


Ci sono in effetti alcuni che ricevono doti eccellenti di virtù e vengono esaltati per i loro grandi doni capaci di sostenere gli altri nell’esercizio della vita ascetica. Costoro sono puri per l’amore della castità, forti di quel vigore che è frutto dell’astinenza, sazi del delizioso nutrimento della dottrina, umili nella loro paziente longanimità, saldi della forza dell’autorità, benigni a motivo della loro pietà, rigorosi di quella severità che è propria della giustizia. Costoro però escludono per lo più anche se stessi da questi doni che non hanno ricevuto per sé soli ma anche per gli altri, se quando siano chiamati alla massima dignità del governo delle anime rifiutano di accettarla. E poiché pensano al loro guadagno e non a quello altrui, si privano proprio di quei doni che desiderano possedere a uso privato. Perciò infatti la Verità dice ai discepoli: Non può restare nascosta una città posta su un monte, né si accende una lampada e la si pone sotto un moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti coloro che sono in casa (Mt. 5, 15). Perciò dice a Pietro: Simone di Giovanni, mi ami? (Gv. 21, 17) E lui che subito aveva risposto che lo amava si sentì dire: Se mi ami, pasci le mie pecore (Gv. 21, 17). Se dunque la cura pastorale è testimonianza d’amore, chiunque ricco di virtù rifiuta di pascere il gregge di Dio ha in ciò stesso la prova che egli non ama il Pastore sommo. Perciò Paolo dice: Se Cristo è morto per tutti, dunque tutti sono morti, e se è morto per tutti resta che coloro che vivono non vivano pia per sé ma per colui che è morto per loro ed è risorto (2 Cor. 14, 15). Perciò ancora Mosè dice che un fratello che sopravvive al fratello morto senza figli ne sposi la moglie e generi figli a nome del fratello; e se rifiuterà di prenderla la donna gli sputi in faccia e il parente più prossimo di lei gli tolga un sandalo, e la sua abitazione sia detta casa dello scalzato (cf. Deut. 25, 5). Ora, il fratello morto è certamente colui che apparendo dopo la sua gloriosa risurrezione disse: Andate, dite ai miei fratelli (Mt. 28, 10). Egli è come morto senza figli, poiché non ha completato il numero dei suoi eletti, e allora al fratello superstite viene ordinato di ricevere la sua sposa.


Poiché è certamente cosa degna che la cura della Santa Chiesa venga imposta a chi più di ogni altro è in grado di governarla. E se egli non vuole, la donna gli sputa in faccia, giacché chiunque non ha cura di giovare agli altri coi doni che ha ricevuto, la Santa Chiesa gli rimprovera anche ciò che egli fa di buono ed è come se gli gettasse saliva in faccia. Ma egli è anche colui a cui viene tolto il sandalo da un piede così che la sua casa sia detta dello scalzato, poiché è scritto: Calzati i piedi per prepararsi al annunciare l’Evangelo della pace (Ef. 6, 15). Dunque proteggiamo ambedue i piedi coi sandali se ci prendiamo cura degli altri come di noi stessi; ma è come se perdesse con vergogna il sandalo da un piede colui che pensando alla propria utilità trascura quella del prossimo. Così, come abbiamo detto, ci sono alcuni ricchi di grandi doni i quali ardono dal desiderio della sola contemplazione e rifiutano di assoggettarsi all’utilità del prossimo attraverso il servizio della predicazione, perché amano la quiete appartata e aspirano alla meditazione in solitudine. Se si dovesse giudicarli con rigore sotto questo aspetto, essi sono responsabili nei confronti di tante anime, quante sono quelle cui avrebbero potuto giovare venendo a stare fra gli uomini. In effetti con quale pensiero colui che avrebbe potuto brillare nella sua dedizione a vantaggio del prossimo prepone il proprio ritiro alla utilità degli altri, quando lo stesso Unigenito del Sommo Padre, per giovare a molti, è uscito dal seno del Padre (cf. Gv. 1, 18; 8, 42; ecc.) per venire fra gente come noi?


 


6 — Coloro che fuggono il peso del governo delle anime per umiltà sono veramente umili quando non resistono al decreto divino


 


Ci sono poi alcuni che rifiutano solo per umiltà, per non essere cioè preferiti a coloro ai quali si stimano inferiori. La loro umiltà, se si circonda anche delle altre virtù, è certamente vera agli occhi di Dio, perché essa non si ostina a respingere ciò cui le viene ordinato di sottomettersi come cosa utile. Non è veramente umile cioè colui che capisce di dovere stare alla guida degli altri per decreto della volontà divina e tuttavia disprezza questa preminenza. Se invece è sottomesso alle divine disposizioni e alieno dal vizio dell’ostinazione ed è già prevenuto con quei doni coi quali può giovare agli altri, quando gli viene imposta la massima dignità del governo delle anime, egli deve rifuggire da essa col cuore, ma pur contro voglia deve obbedire.


 


7 — Si dà spesso il caso che alcuni aspirino lodevolmente all’ufficio della predicazione, e altri lodevolmente vi si lascino attirare costretti


 


Sebbene non di rado ci sia chi lodevolmente aspira all’ufficio della predicazione, c’è anche chi lodevolmente vi si lascia attirare se è costretto. Possiamo renderci conto facilmente di ciò se pensiamo all’opposto atteggiamento di due profeti: uno si offrì spontaneamente per essere mandato a predicare, l’altro pieno di timore si rifiutò. Isaia infatti si offri di propria iniziativa al Signore che chiedeva chi mandare, dicendo: Eccomi, manda me (Is. 6, 8). Geremia invece è mandato e tuttavia resiste umilmente per non esserlo, dicendo: Ah, ah, ah, Signore Dio, ecco non so parlare perché sono un ragazzo (Ger. 1, 6). Ecco, usci fuori una parola diversa dall’uno e dall’altro, ma essa non sgorgò da una diversa sorgente d’amore, giacché due sono i precetti della carità, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Isaia bramando di giovare al prossimo con la vita attiva aspira all’ufficio della predicazione; mentre Geremia desiderando di aderire sinceramente all’amore del Creatore attraverso la contemplazione oppone che egli non deve essere mandato a predicare. Pertanto l’uno aspirò lodevolmente a ciò di cui l’altro lodevolmente ebbe terrore: questo non voleva guastare, parlando, i frutti di una tacita contemplazione, quello non volle sentire, tacendo, i danni di un’attività nutrita solo di desiderio. Tuttavia bisogna penetrare sottilmente l’animo di ambedue e capire che chi rifiutò non resistette fino all’ultimo; e colui che volle essere mandato, prima si vide purificato dal carbone acceso dell’altare (cf. Is. 6, 6-7) a significare che nessuno osi accostarsi ai ministeri sacri senza essere stato purificato, o anche che colui che la grazia celeste ha scelto non contraddica superbamente sotto il pretesto dell’umiltà. Dunque, poiché è molto difficile che una persona qualsiasi possa riconoscere di essere stata purificata, è più che sicuro declinare l’ufficio della predicazione; tuttavia, come s’è detto, non bisogna insistere con ostinazione nel rifiutarlo quando si riconosce che è volontà celeste l’assumerlo. Si tratta di due disposizioni dell’animo a cui Mosè aderì mirabilmente poiché, dovendo essere guida di una moltitudine tanto grande, non volle ma obbedì (cf. Es. 3, 10 – 4, 18). Forse sarebbe stato superbo se avesse assunto la guida di una popolazione numerosissima senza trepidazione, e sarebbe ancora risultato superbo se avesse rifiutato di obbedire all’ordine del Creatore. Così, in ambedue i casi, egli fu insieme umile e soggetto, poiché misurando se stesso non volle essere capo del popolo e tuttavia acconsenti fidando sulle forze di colui che glielo ordinava. Da questo esempio si rendano conto certe persone irriflessive, di quanto è grande la loro colpa, se per il proprio desiderio non temono di essere preposti ad altri, quando — pur dietro l’ordine di Dio — uomini santi temettero di assumere la guida del popolo. Mosè trepida dietro l’invito del Signore, e un inetto qualunque anela ad un ufficio d’onore. Così, chi è spinto a cadere con forza sotto i propri pesi offre volentieri le sue spalle per caricarsi di quelli altrui: non ha la forza di sopportare il peso di cui è già carico e aumenta quel che porta.


 


8 — Alcuni bramano il potere e si appropriano di una affermazione dell’Apostolo ai fini della propria concupiscenza


 


Per lo più coloro che bramano il potere si appropriano della parola con cui l’Apostolo dice: Se qualcuno desidera l’episcopato desidera un buon ufficio (1 Tim. 3, 1), e l’adoperano ai fini della propria concupiscenza. Egli tuttavia pur lodando il desiderio volge subito in motivo di timore ciò che ha lodato, perché immediatamente aggiunge: Occorre però che il vescovo sia irreprensibile (1 Tim. 3, 2); e continuando poi a enumerare le virtù necessarie, chiarisce in che cosa consiste questa irreprensibilità. Incoraggia quanto al desiderio, ma incute timore col precetto come se dicesse apertamente: Lodo ciò che voi cercate, ma prima imparate bene che cos’è che cercate, perché se trascurate di misurare voi stessi, la vostra consapevolezza non appaia tanto più disonorevole, in quanto ha fretta di mostrarsi a tutti rivestita della dignità episcopale. Così, colui che fu grande maestro del ministero pastorale, da un lato spinge i suoi ascoltatori e incoraggia, dall’altro li trattiene col timore, per difenderli dalla superbia, con la descrizione della perfetta irreprensibilità, e per disporli alla vita che li attende lodando l’ufficio da loro richiesto. È da notare però che egli parlava così in un tempo in cui chiunque fosse a capo del popolo veniva condotto per primo ai supplizi del martirio. Allora sì era cosa lodevole aspirare all’episcopato, quando si sapeva con certezza che attraverso di esso si sarebbe giunti alle più gravi torture. Anche per questo il ministero dell’episcopato viene definito con l’espressione buon ufficio, quando è detto: Se qualcuno desidera l’episcopato, desidera un buon ufficio (1 Tim. 3, 1). Pertanto, colui che cerca l’episcopato per la gloria di quell’onore e non per il buon ufficio di questo ministero, testimonia da sé, per se stesso, che non è l’episcopato ciò a cui egli aspira. In effetti, non solo egli non ama affatto l’ufficio sacro, ma non sa neppure che cosa sia, lui che anelando alla massima dignità del governo pastorale, nei pensieri nascosti della sua mente si pasce della sottomissione altrui, gode della lode rivolta a sé, esalta il suo cuore al pensiero dell’onore, esulta per l’abbondanza dei beni affluenti da ogni parte. Così si cerca il guadagno del mondo, proprio sotto l’apparenza di quella dignità attraverso la quale i guadagni del mondo si sarebbero dovuti distruggere. E quando la mente medita di impadronirsi del sommo grado dell’umiltà avendo di mira la propria esaltazione, muta e deforma nell’intimo ciò a cui aspira esteriormente.


 


9 — La mente di coloro che vogliono dominare spesso si lusinga con il finto proposito di compiere opere buone


 


Ma per lo più coloro che bramano di ricevere il magistero pastorale si pongono in animo anche il proposito di qualche opera buona, e quantunque nella loro aspirazione a quel magistero abbiano di mira la propria esaltazione, tuttavia considerano a lungo col pensiero le grandi cose che faranno e avviene che in essi tutt’altra cosa è ciò che la loro intenzione soffoca nel profondo, da ciò che la considerazione superficiale rappresenta al loro animo. Infatti, non di rado il pensiero mente a se stesso riguardo a sé e si immagina — quanto al bene operare — di amare ciò che di fatto non ama, e — quanto alla gloria del mondo — di non amare ciò che ama. E bramando il potere del primato, mentre lo cerca diviene timoroso verso di esso, ma quando l’ha ottenuto si fa audace. Infatti, finché è proteso ad esso, trepida di non arrivarci, ma una volta arrivato, immediatamente giudica che quanto ha ottenuto gli fosse dovuto di pieno diritto. E quando incomincia a godere mondanamente del primato ottenuto, si dimentica volentieri di tutto quanto aveva meditato di compiere con spirito religioso. Perciò è necessario che quando l’immaginazione va oltre i limiti di ciò che è praticamente realizzabile, subito l’attenzione della mente sia richiamata alle opere compiute in precedenza, perché ciascuno valuti quanto è stato capace di compiere da suddito e così si renda immediatamente conto se può, come prelato, compiere le opere buone che si è proposto. Perché colui che stando all’ultimo posto non ha cessato di insuperbire non è per nulla in grado di apprendere l’umiltà quando sia salito al luogo più alto. Non sa fuggire la lode che gli viene ampiamente tributata, colui che ha imparato a bramarla quando ne era privo. Né può vincere la cupidigia colui che si dispone a provvedere a molti, mentre prima per sé solo non gli bastavano i propri beni. Pertanto ciascuno scopra se stesso dall’esame della sua vita passata perché nella sua brama di potere l’immaginazione non lo illuda. Del resto, per lo più al posto di governo si perde perfino l’uso del bene operare che si osservava in una vita tranquilla, giacché sul mare calmo anche un inesperto sa guidare diritta una nave, ma se il mare è mosso da ondate tempestose anche un marinaio esperto ci si trova in difficoltà. E che cosa è il culmine del potere se non una tempesta per la mente? In essa la navicella del cuore è agitata dal fluttuare dei pensieri, spinta incessantemente qua e là fino ad infrangersi per gli improvvisi eccessi nel parlare e nell’agire, come contro degli scogli. E così tra questi frangenti, quale via occorre seguire e quale linea tenere se non questa: che chi è ricco di virtù venga costretto ad accedere al governo delle anime, e chi è privo di virtù sia costretto a non accostarvisi? Se il primo resiste in modo assoluto, veda di non dover essere giudicato come colui che ha nascosto il denaro ricevuto dopo averlo avvolto in un fazzoletto (cf. Lc. 19, 20). Perché avvolgere il denaro nel fazzoletto significa nascondere i doni ricevuti, nell’ozio di una molle rilassatezza. D’altra parte, chi brama il governo delle anime badi che attraverso l’esempio di un agire perverso non si trovi ad essere di inciampo per coloro che vogliono entrare nel Regno; alla maniera dei farisei, i quali — secondo la parola del Maestro — non ci entrano loro né permettono che ci entrino gli altri (cf. Mt. 23, 13). Costui deve poi anche considerare che, quando il presule eletto assume la cura del popolo, è come un medico che si accosta ad un malato. Dunque, se nel suo agire sono ancora vive le passioni, con quale presunzione si affretta a medicare chi è stato percosso, colui che porta la propria ferita sul volto?


 


10 — Come deve essere chi si accosta al governo delle anime


 


Pertanto, in tutti i modi deve essere trascinato, a divenire esempio di vita, colui che morendo a tutte le passioni della carne vive ormai spiritualmente; ha posposto a tutto il successo mondano; non teme alcuna avversità; desidera solamente i beni interiori. Pienamente conformi alla sua intima disposizione, non lo contrastano né il corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio. Egli non è condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. Per le sue viscere di misericordia si piega ben presto al perdono ma non deflette dalla più alta rettitudine, passando sopra più di quanto conviene. Non commette nulla di illecito, ma piange come proprio il male commesso dagli altri. Compatisce la debolezza altrui con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni del prossimo come di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile agli altri, così che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno per fatti passati. Si studia di vivere in modo tale da essere in grado di irrigare, con le acque della dottrina, gli aridi cuori del suo prossimo. Attraverso la pratica della preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede, lui cui in modo speciale è detto dalla parola profetica: Mentre ancora tu parli, io dirò: Eccomi, sono qui (Is. 58, 9). Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo niente di lui. Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della sua grazia con la sua condotta di vita? O come può chiedergli perdono per gli altri uno che non sa se egli è placato verso di lui? A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a sua volta a causa del proprio peccato. Giacché sappiamo tutti molto bene che se chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è irato viene provocato a cose peggiori. Pertanto, chi è ancora stretto dai desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga autore di rovina per i sudditi.


 


11 — Com’è colui che non deve accostarsi al ministero


 


Ciascuno dunque misuri saggiamente se stesso, perché non osi assumere la funzione di governo a sua condanna se in lui regna ancora il vizio; e non aspiri a divenire intercessore per le colpe degli altri colui in cui permane la depravazione del suo peccato. Perciò viene detto a Mosè dalla voce celeste: Parla ad Aronne: chiunque appartenente a famiglie della tua discendenza avrà un difetto, non offrirà pani al Signore Dio suo né si accosterà per servirlo (Lev. 21, 17). Poi prosegue immediatamente: Se sarà cieco, zoppo, col naso troppo piccolo o troppo grande e storto, con una frattura a un piede o a una mano, sia gobbo o cisposo, con albugine nell’occhio, la scabbia, l’erpete nel corpo, l’ernia (Lev. 21, 18). È cieco chi non conosce la luce della contemplazione celeste, e avvolto dalle tenebre della vita presente, incapace di guardare con amore alla luce che deve venire, non sa dove dirigere i passi del suo operare. Perciò è detto nella profezia di Anna: Custodirà i passi dei suoi santi, e gli empi taceranno nelle tenebre (1 Sam. 2, 9). Zoppo, invece, è colui che vede con certezza dove deve dirigersi, ma per debolezza d’animo non sa mantenersi perfettamente sulla via della vita, che pure vede; e ciò perché i passi del suo operare non seguono efficacemente gli sforzi del suo desiderio, là dove esso mira, cioè a una condizione virtuosa a cui non sa innalzarsi la sua molle consuetudine di vita. Perciò infatti Paolo dice: Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie per i vostri passi, perché qualcuno zoppicando non erri ma piuttosto sia guarito (cf. Ebr. 12, 12-13). Ha il naso piccolo colui che non è adatto a osservare la misura della discrezione. In effetti, col naso distinguiamo odori gradevoli e sgradevoli, dunque è giusto rappresentare col naso la discrezione con la quale scegliamo le virtù e riproviamo i peccati. È perciò che si dice, in lode della sposa: Il tuo naso è come torre sul Libano (Cant. 7, 4), poiché è evidentemente con la discrezione che la Santa Chiesa scorge quali tentazioni procedono da singole cause e, come chi osserva dall’alto, riconosce le guerre dei vizi che stanno per sopravvenire. Ma ci sono alcuni che per non essere stimati troppo poco intelligenti si impegnano spesso più del necessario in certe analisi ricercate in cui poi falliscono per l’eccessiva sottigliezza. Perciò è detto anche: o col naso grande e storto. Questo infatti rappresenta la sottigliezza eccessiva del discernimento che, per essere cresciuto oltre il conveniente, confonde da se stesso il retto procedere della sua attività. Ha il piede o la mano fratturata colui che non sa percorrere in alcun modo la via di Dio ed è completamente escluso dalle buone opere, perché non ne partecipa neppure imperfettamente come lo zoppo, ma è del tutto estraneo ad esse. Gobbo, poi, è colui cui il peso delle sollecitudini terrene fa abbassare il capo affinché non si volga mai a guardare verso l’alto, ma sia attento solamente a ciò che viene calpestato nei luoghi più bassi. E se qualche volta gli avviene di sentire parlare dei beni della patria celeste, gravato com’è dal peso di una consuetudine perversa, non volge ad essi gli occhi del cuore, poiché colui che è tenuto curvo a terra dalla consuetudine delle cure terrene, non è capace di drizzare verso l’alto la sua meditazione. È di costoro che il salmista dice: Sono incurvato e umiliato in ogni tempo (Sal. 37, 7). Anche la Verità in persona rimprovera la loro colpa, dicendo: Il seme caduto fra le spine sono coloro che dopo avere udito la parola, se ne vanno e vengono soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita e non portano frutto (Lc. 8, 14).


Il cisposo è colui il cui ingegno è lucido e acuto per la conoscenza della verità, e tuttavia le sue azioni carnali lo oscurano. In effetti, negli occhi cisposi le pupille sono sane, ma le palpebre, malate per la continua secrezione di umore si gonfiano, e per la frequenza di questo deflusso si indeboliscono così che anche la acutezza della pupilla ne resta menomata. E ci sono alcuni la cui sensibilità resta ferita da una vita dedita ad attività carnali: la sottigliezza d’ingegno consentirebbe loro di scorgere ciò che è retto, ma essi sono oscurati dalla pratica di un agire depravato. Così è cisposo colui a cui la natura ha fatto acuta la sensibilità ma il suo comportamento corrotto la confonde. Ben vien detto loro, per mezzo dell’angelo: Ungi col collirio i tuoi occhi per vedere (Ap. 3, 18). Allora ungiamoci gli occhi col collirio per vedere e aiutiamo con la medicina di un buon operare l’acutezza del nostro intelletto, per conoscere lo splendore della vera luce. Ha l’albugine nell’occhio colui al quale l’accecamento, prodotto dalla sua presunzione di sapienza e di giustizia, non permette di vedere la luce della verità. Infatti, se la pupilla dell’occhio è nera, vede, ma se porta una macchia bianca, non vede nulla. Poiché è chiaro che, se l’uomo nella sua meditazione si riconosce stolto e peccatore, giunge all’esperienza della chiarezza interiore. Se invece egli si attribuisce la candida lucentezza della sapienza e della giustizia, si esclude da sé dalla conoscenza della luce divina; e tanto meno riesce a penetrare la chiarezza della vera luce, quanto più per la sua presunzione si esalta ai propri occhi. Come è detto di certuni: Dicendo di essere sapienti sono divenuti stolti (Rom. 1, 22). È poi affetto da scabbia persistente colui che è dominato da una incessante richiesta della carne. Infatti, nella scabbia è come se l’ardore delle viscere affiorasse sulla pelle, e con essa giustamente si designa la lussuria poiché se la tentazione del cuore si affretta a esprimersi negli atti, è appunto un ardore intimo che prorompe come scabbia della pelle, e ormai esteriormente copre il corpo di piaghe; poiché il piacere che non si sa reprimere nel pensiero, domina poi anche nell’azione. E Paolo si preoccupava di come togliere il prurito dalla pelle quando diceva: Non vi colga alcuna tentazione se non umana (1 Cor. 10, 13); come a dire: è certamente umano che il cuore sopporti una tentazione, ma è demoniaco, nella lotta con la tentazione, lasciarsi vincere da essa mettendola in opera. Similmente è come chi ha l’erpete nel corpo chiunque ha l’animo devastato dall’avidità, che se non è contenuta nelle piccole cose è inevitabile che si espanda oltre misura. L’erpete in effetti ricopre il corpo in modo indolore e, senza alcun fastidio di colui che ne è colpito, si ingrandisce deturpando il decoro delle membra; allo stesso modo l’avidità, mentre dà quasi l’impressione di procurare piacere a colui che ne è preso, di fatto gli piaga l’anima e mentre gli rappresenta al pensiero quanto può ancora giungere a possedere, lo accende alla discordia senza provocargli però dolore alla ferita, perché promette, all’animo che arde per essi, abbondanza di beni derivanti dalla colpa stessa. Ma il decoro deturpato delle membra significa che la bellezza delle altre virtù è corrotta a causa dell’avidità, e come l’erpete devasta tutto il corpo, così l’avidità distrugge l’animo con tutti gli altri vizi, secondo l’insegnamento di Paolo che dice: La cupidigia è radice di tutti i mali (cf. 1 Tim. 6, 10).

E il malato di ernia è chi non pratica il vizio e tuttavia ne ha la mente gravata dal pensiero continuo e smodato; e se di fatto non è trascinato fino all’atto del peccato, tuttavia il suo animo gode del piacere della lussuria senza alcuno stimolo a resistergli. Si ha, come è noto, la malattia dell’ernia quando l’umore viscerale scende nelle parti virili che si gonfiano in modo certo molesto e indecoroso. Pertanto, con malato d’ernia, si intende colui che trascorrendo alla lascivia con ogni suo pensiero, porta nel cuore un peso vergognoso, e quantunque non esprima nell’atto questa depravazione, non riesce però a strapparsene con la mente; e non è capace di innalzarsi decisamente alla pratica delle buone opere perché è gravato di nascosto da questo peso turpe. Perciò, a chiunque sia gravato di qualcuno di questi vizi è proibito offrire pani al Signore, perché non possa in alcun modo sciogliere i peccati degli altri lui che è ancora preda dei propri. Dunque, poiché abbiamo indicato in breve in qual modo uno può accostarsi degnamente al magistero pastorale, e come lo debba temere chi ne è indegno, ora intendiamo mostrare in che modo, colui che vi sia pervenuto in modo degno, debba vivere in esso.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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