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San Gregorio Magno Regola Pastorale

Ultimo Aggiornamento: 29/11/2013 09:59
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29/11/2013 09:53
 
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28 — Come bisogna ammonire quelli che hanno esperienza dei peccati della carne e quelli che non l’hanno

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che conoscono i peccati della carne e quelli che ne sono ignari. Quelli che ne hanno esperienza, bisogna ammonirli a temere il mare, almeno dopo il naufragio, e a guardarsi con orrore dai pericoli della loro perdizione che già conoscono; ed essi, che sono stati salvati dalla pietà di Dio dopo avere commesso il male, non debbano morire ripetendolo malvagiamente. Così, all’anima che pecca e non cessa mai dal peccare è detto: Sei divenuta sfrontata come una meretrice e non vuoi arrossire (Ger. 3, 3). Pertanto bisogna ammonirli, se non hanno voluto conservare integri i beni naturali ricevuti, ad applicarsi, a riparare almeno quelli infranti. È assolutamente necessario, per loro, considerare quanti sono quelli che, in un così grande numero di fedeli, si custodiscono illibati e convertono gli altri dall’errore. Come pensano di difendersi costoro se, mentre altri restano saldi nella loro integrità, essi non rinsaviscono neppure dopo avere sentito il danno? Come pensano che potranno difendersi se, mentre molti conducono con sé altri al Regno, essi non riconducono neppure se stessi al Signore che li attende? Bisogna ammonirli a considerare i peccati passati e ad evitare i futuri. Perciò, il Signore, per mezzodel profeta, ricorda alle menti corrotte in questo mondo — rappresentate dalla Giudea — le colpe commesse, affinché arrossiscano di contaminarsi con colpe future, dicendo: Hanno fornicato in Egitto, hanno fornicato nella loro adolescenza; là fu compresso il loro petto e furono violati i loro seni verginali (Ez. 23, 3). In Egitto viene compresso il petto, quando la volontà del cuore dell’uomo soggiace al turpe desiderio di questo mondo. In Egitto vengono violati i seni verginali, quando i sensi naturali ancora integri in se stessi, restano viziati dalla corruzione della concupiscenza che preme. Bisogna ammonire coloro che hanno esperienza di peccati della carne a guardare con vigile cura, con, quanta benevolenza Dio ci allarghi il seno della sua pietà, quando dopo il peccato ritorniamo a Lui, là dove dice, per mezzo del profeta: Se un uomo avrà rimandato la moglie ed essa andandosene prenderà un altro marito, forse egli tornerà ancora da lei? Non sarà stata macchiata e contaminata quella donna? Ma tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia ritorna a me, dice il Signore (Ger. 3, 1). Ecco, una donna fornicatrice e per questo abbandonata è proposta come un esempio di giustizia; e a noi, se dopo la caduta ritorniamo, non viene offerta giustizia ma pietà.

Da ciò possiamo renderci conto di quanto sia grande la iniquità con cui pecchiamo se non torniamo a lui dopo il peccato, mentre lui ci risparmia con tanta pietà quando ancora lo stiamo compiendo; o quale sarà l’indulgenza per gli iniqui, che egli non cessa di chiamare dopo la colpa. Questa misericordia della chiamata è ben espressa per mezzo del profeta quando si dice all’uomo che si è ribellato: E i tuoi occhi vedranno il tuo maestro e le tue orecchie udranno la parola di chi ti ammonisce dietro le spalle (Is. 30, 20). Poiché il Signore ammoni di fronte il genere umano, quando in paradiso, all’uomo appena creato, e ancor saldo nel suo libero arbitrio, stabili quello che avrebbe potuto fare e non fare. Ma l’uomo voltò le spalle di fronte a Dio, quando insuperbendo disprezzò i suoi ordini. E tuttavia il Signore non l’abbandonò nella superbia, lui che diede la legge per richiamarlo, mandò angeli ad esortarlo e apparve egli stesso nella nostra carne mortale. Dunque, stando dietro le nostre spalle, ci ammonisce, lui che anche disprezzato ci chiamò a riottenere la grazia. Ciò che dunque poté essere detto al profeta in generale per tutti gli uomini insieme, è necessario sentirlo in particolare dei singoli. Infatti, quando uno conosce i precetti della volontà di Dio, prima di commettere il peccato è come se ascoltasse le parole del suo ammonimento standogli di fronte. Ed è ancora stare davanti al suo volto, il non disprezzare Dio col peccato. Ma quando, abbandonato il bene dell’innocenza, l’uomo brama e sceglie l’iniquità, ha già voltato le spalle al suo volto. E tuttavia ancora, standogli dietro le spalle, il Signore lo segue e lo ammonisce e vuole persuaderlo, anche dopo la colpa, a ritornare a lui. Richiama chi si è rivolto indietro, non riguarda le colpe commesse, dilata il seno della sua misericordia a colui che ritorna. Ascoltiamo dunque la voce che ci ammonisce se, almeno dopo il peccato, ritorniamo al Signore che ci invita. Se non vogliamo temere la giustizia, dobbiamo arrossire della pietà di chi ci chiama perché è tanto più grave l’iniquità con cui egli è disprezzato, quanto più, pur disprezzato, egli non disdegna di chiamare ancora. Al contrario, bisogna ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a temere con tanta maggior cura di rovinare nel precipizio, quanto più in alto stanno.

Bisogna ammonirli a sapere che quanto è più in vista il posto in cui sono collocati, tanto più frequenti sono le frecce con cui l’insidiatore li assale. Egli con tanto maggior ardore suole rialzarsi, quanta più è la forza da cui si vede vinto; e tanto più si indigna d’essere vinto, in quanto vede combattergli contro gli integri accampamenti della carne inferma. Bisogna ammonirli a non cessare di raccogliere i premi [della vittoria], e così, senza dubbio, calpesteranno volentieri le fatiche delle tentazioni che devono sopportare. Se infatti si mira alla felicità a cui si attinge eternamente, diviene lieve ciò che si fatica ed è però passeggero. Ascoltino ciò che è detto per mezzo del profeta: Queste cose dice il Signore agli eunuchi che hanno osservato i miei sabati, che hanno scelto ciò che io voglio e hanno mantenuto il mio patto: darò loro nella mia casa e nelle mie mura un luogo e un nome migliore che ai figli e alle figlie (Is. 56, 4-5). Sono eunuchi coloro che, trattenuti i moti della carne, tagliano in se stessi l’amore dell’opera iniqua. E quale sia il posto che essi hanno presso il Padre, è manifesto, poiché nella casa del Padre, cioè nella dimora eterna, essi sono preferiti anche ai figli. Ascoltino ciò che è detto per mezzo di Giovanni: Questi sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti sono vergini e seguono l’Agnello dovunque vada (Ap. 14, 4). E cantano quel cantico che nessuno può pronunciare se non quei centoquarantaquattromila. Cantare poi, loro soli, il canto all’Agnello è godere con lui in eterno, sopra tutti i fedeli, anche dell’incorruzione della carne. E che tuttavia gli altri eletti possano sentire il cantico, pur non potendo pronunciarlo, è perché la carità li fa lieti della eccelsa beatitudine di quelli, quantunque loro non possano raggiungerla. Ascoltino, gli ignari dei peccati della carne, ciò che la Verità stessa dice di questa integrità: Non tutti comprendono questa parola (Mt. 19, 11). Accenna alla sua grandezza negando che sia di tutti; e avvertendo che difficilmente è compresa, fa intendere a chi ascolta con quanta cautela, quando si sia compresa, debba essere conservata. Bisogna dunque ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a sapere che la verginità è superiore al matrimonio, e tuttavia a non esaltarsi nei confronti degli sposati affinché, scegliendo la verginità e posponendosi agli altri, non abbandonino ciò che stimano il meglio e si custodiscano dall’esaltarsi vanamente. Bisogna ammonirli a considerare che spesso la vita delle persone continenti deve arrossire del confronto con l’operosità di chi vive nel secolo, quando questi operano oltre ciò che è richiesto dalla loro situazione, e quelli non eccitano il loro cuore in corrispondenza al loro stato.

Perciò è ben detto per mezzo del profeta: Arrossisci, Sidone, dice il mare (Is. 23, 4). Infatti, quando la vita di colui che appare ben difeso e, in un certo senso, stabile, viene riprovata nel confronto con quella di chi vive nel secolo, sbattuto dai flutti di questo mondo, è come se Sidone fosse indotta alla vergogna dalla voce del mare. Giacché spesso molti che, dopo aver commesso peccati della carne, ritornano al Signore, si prestano con tanto più ardore nelle buone opere, quanto più si vedono degni di condanna per quelle cattive. E d’altra parte, certuni che perseverano nell’integrità del corpo, vedendo di avere meno di che dolersi, pensano che sia pienamente sufficiente, quanto a loro, l’innocenza della propria vita e non infiammano il loro spirito con alcuno stimolo che ne ecciti il fervore. Così accade per lo più che sia più gradita a Dio una vita ardente d’amore dopo il peccato, che una innocenza giacente nel torpore della propria sicurezza. Perciò è detto per voce del Giudice: Le saranno rimessi i molti peccati perché ha molto amato (Lc. 7, 47); e: Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti per i quali non c’è bisogno di penitenza (Lc. 15, 7). E lo possiamo capire facilmente dalla stessa pratica se pensiamo a come giudichiamo noi con la nostra mente: infatti noi apprezziamo di più una terra che arata — dopo essere stata coperta di spine — produce ricchi frutti, di quella che non ha mai avuto spine e tuttavia, anche coltivata, produce messe sterile. Bisogna ammonire gli ignari del peccato carnale, a non preferirsi agli altri per via dell’eccellenza di uno stato superiore, quando ignorano quanto siano migliori le opere di quelli dello stato inferiore, poiché, nell’esame del giusto Giudice, la qualità delle azioni muta i meriti dello stato di vita. Chi infatti — per trarre esempi dalla realtà — non sa che nella natura delle gemme il carbonchio è più prezioso del giacinto? Ma tuttavia, il colore ceruleo del giacinto è preferito al pallido carbonchio, poiché ciò in cui quello è inferiore per lo stato naturale viene avvalorato dalla bellezza dell’aspetto, e questo, che per lo stato naturale è più prezioso, viene oscurato dalla qualità del colore. Così dunque fra gli uomini: alcuni, posti in uno stato superiore, sono peggiori: altri, posti in uno stato inferiore, sono migliori: perché questi, vivendo bene, vanno oltre la sorte della condizione più bassa; mentre quelli diminuiscono il merito della condizione superiore, perché non le corrispondono con i costumi.

 

29 — Come bisogna ammonire coloro che piangono peccati di opere e coloro che piangono peccati solo di pensiero

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che piangono peccati di opere, e coloro che piangono peccati di pensiero. Bisogna ammonire i primi a lavare con un pianto perfetto i peccati compiuti, per non essere maggiormente stretti dal debito dell’azione commessa, ma diminuire col pianto la soddisfazione dovuta. Poiché è scritto: Ci ha dato da bere lacrime in misura (Sal. 79, 6), per dire, cioè, che l’animo di ciascuno, nel suo pentimento, beva tante lacrime di compunzione, quanto ricorda di essersi inaridito lontano da Dio, nelle colpe. Bisogna ammonirli a ricondurre incessantemente davanti ai propri occhi i peccati commessi, e ad agire nella propria vita in modo che quelli non debbano più essere veduti dal severo Giudice. Perciò David, quando pregava dicendo: Distogli i tuoi occhi dai miei peccati (Sal. 50, 11), poco sopra aveva detto: Il mio delitto mi sta sempre davanti (Sal. 50, 5); come se dicesse: Chiedo di non guardare al mio peccato perché io stesso non cesso di guardarlo. Perciò anche, per mezzo del profeta, il Signore dice: E non mi ricorderò dei tuoi peccati, ma tu ricordateli (Is. 43, 25-26. LXX). Bisogna ammonirli a considerare i peccati uno per uno, e mentre per ciascuno piangono la sozzura del loro errore, con le lacrime purifichino insieme sé e quelli, interamente. Perciò è detto bene, per mezzo di Geremia, pensando ai singoli peccati della Giudea: Il mio occhio ha fatto scendere acque divise (Lam. 3, 48); poiché noi facciamo scendere dagli occhi corsi d’acqua divisi, quando spargiamo per ogni singolo peccato la sua parte di lacrime. Infatti l’animo non prova dolore nello stesso unico momento per tutti i peccati insieme, ma mentre la memoria è toccata più acutamente ora dall’uno ora dall’altro, commovendosi per ciascuno singolarmente, essa si purifica di tutti insieme. Bisogna ammonirli a confidare con certezza nella misericordia che chiedono, per non morire sotto la forza di una eccessiva afflizione. Poiché infatti non sarebbe pietà, nel Signore, porre davanti agli occhi dei peccatori i peccati da piangere, se per parte sua volesse poi colpirli severamente. È evidente infatti, che egli ha voluto sottrarre al suo giudizio coloro che ha fatto giudici di se stessi, prevenendoli con la sua misericordia. Perciò infatti è scritto: Preveniamo il volto del Signore con la confessione (Sal. 94, 2). Perciò è detto per mezzo di Paolo: Se ci giudicassimo da noi stessi non verremmo giudicati (1 Cor. 11, 31). E ancora bisogna ammonirli ad avere così quella fiducia che viene dalla speranza, e tuttavia a non intorpidire in una incauta sicurezza. Spesso, infatti, l’astuto avversario, quando vede l’animo, che egli insidia col peccato, afflitto per la propria rovina, lo seduce con gli allettamenti di una pestifera sicurezza. Ciò è espresso in figura dove si ricorda l’episodio di Dina.
È scritto: Dina usci per vedere le donne di quella regione; ma quando la vide Sichem, figlio di Emor eveo, principe di quel paese, si innamorò di lei e la rapi e dormi con lei violando la sua verginità e la sua anima si uni con lei e alleviò con le carezze la sua tristezza (Gen. 34, 1-3). E Dina esce per vedere le donne della regione straniera, ogni volta che un’anima, trascurando l’oggetto del suo proprio amore e curandosi di attività che le sono estranee, vaga al di fuori della sua condizione e del suo proprio stato. E allora Sichem, principe del paese, la viola, ovvero il diavolo, trovatala presa da occupazioni esterne, la corrompe; e la sua anima si uni con lei, poiché la vede unita a sé nell’iniquità. E quando l’anima, rientrata in sé dalla colpa, si accusa e tenta di piangere il peccato commesso, allora il corruttore richiama ai suoi occhi le speranze e le sicurezze vane, per sottrarla alla utile tristezza; perciò giustamente si aggiunge: e alleviò con le carezze la sua tristezza. Ora, infatti, le parla dei più gravi peccati di altri; ora le dice che quanto ha fatto non è niente e ora che Dio è misericordioso ora le promette che ci sarà in seguito dell’altro tempo per fare penitenza, affinché l’anima condotta attraverso questi inganni tenga in sospeso l’intenzione del pentimento, e poiché, ora, nessun peccato la rattrista, non riceva, poi, alcun bene, e sia, allora, più pienamente sommersa dai supplizi, essa che, ora, gode perfino nei peccati. Bisogna, invece, ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare accuratamente tra le pieghe misteriose dell’animo, se hanno peccato solamente col piacere o anche col consenso. Spesso, infatti, il cuore è tentato e trae piacere dalla malizia della carne, e tuttavia contrasta con la ragione a quella malizia; cosicché, nel segreto del pensiero, ciò che piace rattrista, e ciò che rattrista piace. Ma talvolta l’animo viene talmente assorbito nel baratro della tentazione da non resisterle affatto, e, invece, da seguirla deliberatamente dove il piacere lo spinge; e così che, se si offre la possibilità esteriore, è pronto a consumare gli intimi desideri, attuandoli coi fatti. E ciò non è più colpa di pensiero, quando la colpisce la giusta punizione del severo Giudice, ma è peccato di opera, poiché quantunque la mancanza della possibilità di attuazione distolga esteriormente il peccato, nell’intimo, la volontà l’ha compiuto con l’opera del consenso.
Nel progenitore abbiamo imparato che sono tre i modi con cui perfezioniamo la malizia di ogni colpa: la suggestione, il piacere, il consenso. La prima si compie attraverso il nemico, il secondo attraverso la carne, il terzo con lo spirito. Infatti, l’insidiatore suggerisce il male, la carne si sottopone al piacere e, all’ultimo, lo spirito vinto consente ad esso. In effetti, il serpente suggerì il male, Eva, come carne, si sottomise al piacere; Adamo, come spirito, vinto dalla suggestione e dal piacere, acconsenti (cf. Gen. 3, 1 ss.). E così, riconosciamo il peccato dalla suggestione, restiamo vinti dal piacere e ci leghiamo col consenso. Pertanto, bisogna ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare con cura l’entità della loro caduta nel peccato, affinché la misura del loro pianto corrisponda alla rovina interiore che essi avvertono in se stessi e valga a risollevarli, e non siano indotti ad attuare, con le opere, quei cattivi pensieri che meno li affliggono. Ma soprattutto bisogna incutere timore in loro, non però in modo che ne restino, anche per poco, spezzati. Poiché spesso Dio misericordioso tanto più in fretta lava i peccati del cuore, in quanto non permette che essi sfocino nelle opere; e il male solamente pensato è più rapidamente sciolto, poiché non si lega così strettamente all’effetto dell’opera. Perciò è detto bene per mezzo del salmista: Dissi: confesserò contro di me le mie iniquità al Signore e tu hai rimesso l’empietà (Sal. 31, 3) del mio cuore. Egli infatti ha sottoposto l’empietà del cuore, poiché ha indicato di voler confessare i peccati di pensiero. E mentre dice: Dissi: confesserò, e subito aggiunse: E tu hai rimesso, mostra quanto sia facile su di essi il perdono: mentre ancora si ripromette di chiedere ha già ottenuto, perché, dato che la colpa non era pervenuta all’atto, la penitenza non dovesse giungere al grado del supplizio, ma l’afflizione del pensiero lavasse il cuore che solo la malizia del pensiero aveva macchiato.

 

30 — Come bisogna ammonire coloro che non si astengono dai peccati che piangono, e coloro che si astengono da quelli commessi ma non li piangono

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono. Infatti, bisogna ammonire i primi a sapere considerare con cura che invano si purificano piangendo, coloro che si macchiano vivendo nel peccato, poiché si lavano con le lacrime per poter ritornare, lavati, alla lordura. Perciò infatti è scritto: Il cane è ritornato al suo vomito e la scrofa lavata a rotolarsi nel fango (2 Pt. 2, 22). Il cane, cioè, quando vomita rigetta certamente il cibo che gli opprimeva lo stomaco, ma quando ritorna al vomito, di cui si era alleggerito, si appesantisce di nuovo. E coloro che piangono i peccati commessi, certamente rigettano, confessandola, la malizia con cui si erano malamente saziati e che opprimeva l’intimo dell’animo, ma la riprendono su di sé quando la ripetono dopo averla confessata. E la scrofa, con l’arrotolarsi nel fango dopo essersi lavata, ritorna più sporca di prima. E chi piange i peccati, e tuttavia non rinuncia ad essi, si sottopone alla pena di una colpa maggiore, poiché disprezza proprio quel perdono che poté ottenere con le lacrime, ed è come se si rotolasse nell’acqua fangosa; poiché, mentre sottrae al suo pianto la purezza della vita [ottenuta con esso], davanti agli occhi di Dio rende sordide perfino quelle lacrime. Perciò ancora è scritto: Non dire due volte una parola nella preghiera (Sir. 7, 15); infatti, dire due volte una parola nella preghiera corrisponde a commettere, dopo il pianto, ciò che è necessario tornare a piangere. Perciò è detto per mezzo di Isaia: Lavatevi, siate puri (Is. 1, 16); infatti, chi non custodisce l’innocenza della vita dopo il pianto, trascura di conservarsi puro dopo il lavacro. Pertanto, si lavano e tuttavia non sono puri, coloro che non cessano di piangere i peccati commessi, ma continuano a commettere azioni degne di pianto.
Perciò è detto, per mezzo di un sapiente: Se uno si lava dopo aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo, che cosa serve che si sia lavato? (Sir. 34, 30). Si lava, cioè, dopo aver toccato un morto, chi si purifica col pianto dal peccato; ma tocca il morto dopo il lavacro, colui che dopo le lacrime ripete la colpa. Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, a riconoscersi, davanti agli occhi del Giudice severo, simili a quelli che si presentano di fronte a certi uomini e li blandiscono mostrando grande sottomissione, ma allontanandosi procurano loro inimicizie e danni con effetti atroci. Che cosa significa infatti piangere la colpa se non mostrare a Dio l’umiltà della propria devozione? E che cos’è comportarsi iniquamente dopo avere pianto il peccato, se non praticare superba inimicizia verso colui che si era pregato? Così attesta Giacomo che dice: Chi vuole essere amico di questo secolo, si costituisce nemico di Dio (Giac. 4, 4). Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, a considerare attentamente che per lo più tanto inutilmente i cattivi si muovono a compunzione per la giustizia, quanto spesso i buoni sono tentati al male senza danno. Avviene cioè che, per una mirabile misura della loro disposizione interiore, corrispondente ai loro meriti, quando quelli fanno qualcosa di buono che tuttavia non portano a termine, assumono una superba fiducia, perfino mentre continuano a compiere il male; e costoro — quando vengono tentati dal male cui per altro non consentono — quanto più la loro debolezza li fa esitanti, tanto più, attraverso l’umiltà, puntano i passi del loro cuore, con fermezza e verità, alla giustizia. Balaam, infatti, guardando agli attendamenti dei giusti dice: Muoia la mia anima la morte dei giusti e i miei ultimi momenti siano simili a quelli di costoro (Num. 23, 10); ma quando si fu allontanato il tempo della compunzione, offrì il suo consiglio contro la vita di coloro ai quali aveva chiesto di divenire simile anche nella morte. E quando trovò un’occasione per [soddisfare] la sua avarizia, subito dimenticò tutto quanto aveva desiderato per sé nell’innocenza (cf. Ap. 2, 14). Perciò, invero, il maestro e predicatore delle genti, Paolo, dice: Vedo un’altra legge, nelle mie membra, lottare contro la legge dello spirito e condurmi prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle mie membra (Rom. 7, 23).
Egli certamente viene tentato, proprio per essere più fortemente consolidato nel bene dalla consapevolezza della propria infermità. Com’è dunque che quello è portato alla compunzione e tuttavia ciò non lo fa avvicinare alla giustizia; mentre questi è tentato eppure la colpa non lo macchia, se non che — come apertamente si manifesta — il bene incompiuto non giova ai cattivi né il male non consumato non condanna i buoni? Al contrario, bisogna ammonire coloro che si staccano dal peccato e però non lo piangono, a non stimare perdonate quelle colpe che essi non purificano col pianto, anche sé non le moltiplicano col loro agire. Infatti, uno scrittore che cessa dallo scrivere non cancella ciò che ha scritto in precedenza solo per il fatto di non aggiungervi altri scritti. Né è sufficiente che uno che proferisce ingiurie taccia, per dare soddisfazione, mentre è necessario che contraddica con parole di umile sottomissione quelle pronunciate precedentemente con superbia. Né un debitore è assolto perché non aggiunge debiti a debiti, ma lo è se scioglie quelli con cui è legato. E cose, quando pecchiamo nei confronti di Dio, non diamo soddisfazione solamente se cessiamo di peccare, ma non facciano seguire anche le lacrime, di contro a quei piaceri che abbiamo amato. Se infatti in questa vita non ci fossimo macchiati di nessuna colpa di opere, la stessa nostra innocenza, finché ancora siamo qui, non sarebbe sufficiente alla nostra sicurezza, perché molte azioni illecite busserebbero alla nostra anima; con quale pensiero, allora, si sente sicuro, uno che per le colpe che ha commesso è testimone a se stesso di non essere innocente? Né, d’altra parte, Dio si pasce delle nostre sofferenze, ma invece cura le malattie dei peccati con medicamenti contrari ad essi, affinché noi, che ci siamo allontanati, presi dal diletto dei piaceri, ritorniamo amareggiati nel pianto e, dopo essere caduti lasciandoci andare ad azioni illecite, ci rialziamo trattenendoci anche da quelle lecite; e il cuore che era stato invaso da una gioia insana, arda di una tristezza salutare: esso, che l’esaltazione della superbia aveva ferito, sia curato dall’abiezione di una vita umile. Perciò, infatti, è scritto: Ho detto agli iniqui: non agite iniquamente, e ai peccatori: non alzate la testa (Sal. 74, 5). E i peccatori alzano la testa se non si umiliano a penitenza per la cognizione della propria iniquità. Perciò di nuovo è detto: Un cuore contrito e umiliato Dio non disprezza (Sal. 50, 19).

Infatti, chi piange i peccati ma non se ne distacca, spezza il suo cuore ma non si cura di umiliarlo; chi poi ha già lasciato il peccato ma non lo piange, umilia già il cuore, ma tuttavia rifiuta di spezzarlo. Perciò Paolo dice: Voi foste tutte queste cose, ma siete stati lavati, ma siete stati santificati (1 Cor. 6, 11); perché, cioè, una vita più corretta santifica coloro che l’afflizione delle lacrime, lavandoli, rende puri. Perciò Pietro, vedendo alcuni atterriti dalla considerazione dei loro peccati, li ammonisce dicendo: Fate penitenza: ciascuno di voi sia battezzato (Atti, 2, 38). Volendo parlare del Battesimo, premette il pianto della penitenza, affinché, prima, versassero su di sé l’acqua della propria afflizione e, quindi, si lavassero col sacramento del Battesimo. Con quale pensiero vivono sicuri del perdono, coloro che trascurano di piangere le colpe passate, quando lo stesso sommo Pastore della Chiesa credette che si dovesse aggiungere anche la penitenza al sacramento che principalmente estingue i peccati?

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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