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Ricordando e pregando con Benedetto XVI Dottore della Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 20/06/2016 21:58
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28/01/2014 14:07
 
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[SM=g1740717] [SM=g1740720] Febbraio 2013 Febbraio 2014 Ricordando pregando con Benedetto XVI

Lo sappiamo, ci troviamo in una situazione nuova, unica, storica, e proprio per questo vogliamo usare al meglio questi eventi, anche quando non li comprendiamo pienamente. Benedetto XVI, oggi Papa Emerito, ci aveva invitati un anno fa a "salire" spiritualmente quel monte con lui, promettendoci di pregare per noi, ma chiedendo anche di pregare con lui per la Chiesa e per tutta l'umanità lacerata da discordie, guerre, violenze, leggi immorali e di totale chiusura a Dio.
Eccolo il modo per ricordare Benedetto XVI in senso fecondo e di comunione ecclesiale.
Grazie Padre santo per la sua discreta presenza in mezzo a noi che, come diceva santa Teresina di Lisieux: "nel cuore della Chiesa mia Madre, sarò l'amore".

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Lui, e niente altro

EDITORIALE

Ora, forse, iniziamo a vedere. C’è voluto tempo, certo. Come accade davanti a un fatto così imponente, così capace di stravolgere la nostra misura, da richiedere un cammino lungo perché cuore e ragione si allarghino a fargli spazio. Ma adesso, forse... 

Domenica 24 febbraio, Benedetto XVI ha recitato il suo ultimo Angelus. Centomila persone in piazza, milioni collegati in diretta. E a molti è venuto in mente un altro Angelus, una domenica di maggio di tre anni fa. San Pietro era stracolma di fedeli, arrivati con l’idea di manifestare il loro affetto a un Pontefice sotto tiro per la campagna di stampa sullo scandalo-pedofilia. Alcuni di loro s’erano ritrovati capovolti. Prima da una frase di don Julián Carrón, la guida di Cl («guardate che non andiamo a Roma per sostenere il Papa, ma per essere sostenuti da lui»), poi dall’impressione vivissima data proprio da lui, da quell’uomo che visto dal colonnato sembrava ancora più piccolo, quasi un puntino bianco, eppure così saldo e forte da potercisi davvero appoggiare. Da sostenere tutto il peso non solo di quei giorni, ma della Chiesa. 
Bene, è la stessa immagine che molti hanno portato con sé anche dall’ultimo Angelus. A quella finestra c’era un uomo più anziano, dall’apparenza ancora più fragile - anzi, così fragile da ammettere di aver bisogno di «un modo più adatto alla mia età e alle mie forze» per servire la Chiesa. E tuttavia in grado di trasmettere al suo popolo quello che si respirava in piazza: una serenità impensabile. Una letizia imprevedibile, pur nel dolore del distacco. In una parola, una libertà potente. Perché? Da dove viene quella forza?

Molti, moltissimi sono stati segnati da questo Papa. Dalla sua paternità. Dal rigore pacato e affascinante del suo insegnamento. Dalla limpidezza con cui ha spiegato il cristianesimo rendendolo accessibile a tutti e interessante per molti, anche per i “lontani”. 
Ora, però, vediamo di più. E capiamo di più. Il cuore di tutto, la cifra di questi anni, vieneprima di tutto ciò, e lo attraversa: è la fede di Joseph Ratzinger. Il suo abbandono totale a Cristo. La sua testimonianza, così limpida da farsi via via addirittura trasparente, come a voler sfrondare tutto, ogni apparenza, perché davanti ai nostri occhi potesse semplicementeaccadere un fatto: Cristo. Lui, e niente altro. Un fatto così solido da reggere a ogni sfida e ogni circostanza, come ha detto lo stesso Benedetto chiudendo il suo ultimo, bellissimo discorso ai parroci di Roma: «Sarò sempre con voi. E insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: vince il Signore! Grazie!».

Vince Cristo, sempre. È Lui a sostenerci. Sarà Lui a farlo pure durante e dopo il prossimo Conclave, quando un altro «umile operaio» sarà chiamato a lavorare «nella vigna del Signore», e anche attraverso la sua opera, nel tempo - nel tempo: che dono prezioso di Dio è poter vedere la Sua Potenza dispiegarsi nel tempo, della storia e delle nostre vite! - si vedrà quanto siano povere e sterili le analisi con cui di solito pretendiamo di leggere la Chiesa (le lotte di potere, i limiti, le debolezze) e in fondo la realtà, e quanto, invece, conti una sola cosa, l’unica capace di illuminare tutto: la Sua Presenza. Cristo risorto.

Per questo il Tracce che state per sfogliare non è un omaggio al passato, ad un Pontefice che lascia per entrare nella storia: è un invito a guardare un Fatto presente. Qualcosa che giudica tutto: le elezioni, la guerra, la cultura... Qualcuno che illumina la vita. Perché ha vinto la morte. Buona Pasqua.



Chi sei Tu?

Julián Carrón

BENEDETTO XVI - LA LETTERA A REPUBBLICA  dalla Rivista Tracce marzo 2013

L’11 febbraio l’annuncio della rinuncia al ministero petrino. Una notizia storica, che per un istante ha fermato il mondo. «In quel minuto di silenzio c’era tutto», come scrive il presidente della Fraternità di Cl in questo articolo apparso su La Repubblica. Lo ripubblichiamo, assieme ad un percorso attraverso il Pontificato e alcune testimonianze, per approfondire quello che abbiamo imparato da questo Papa

Caro Direttore, il suo editoriale sull’annuncio di Benedetto XVI descrive la situazione in cui tutti ci siamo venuti a trovare lunedì mattina. «È una notizia universale, che fa il giro del mondo e lo stupisce. (...) Guai a far finta di niente».
Per un istante il mondo si è fermato. 
Tutti, dovunque fossimo, abbiamo sostato in silenzio, specchiandoci nei volti altrettanto stupiti di chi avevamo accanto. In quel minuto di silenzio c’era tutto. Nessuna strategia di comunicazione avrebbe potuto provocare un simile contraccolpo: eravamo davanti a un fatto tanto incredibile quanto reale, che si è imposto con una tale evidenza da trascinare tutti, facendoci alzare lo sguardo dalle cose solite.

Che cosa è stato in grado di riempire il mondo intero di silenzio, all’improvviso? 

Quel minuto stupefatto ha bruciato d’un colpo tutte le immagini che di solito ci facciamo del cristianesimo: un evento del passato, una organizzazione mondana, un insieme di ruoli, una morale circa le cose da fare o da non fare. No, tutto questo non riesce a dare ragione adeguata di ciò che è accaduto l’11 febbraio. La spiegazione va cercata altrove.

Perciò, davanti al gesto papale mi sono detto: qualcuno si sarà domandato chi è mai Cristo per Joseph Ratzinger, se il legame con Lui lo ha indotto a compiere un atto di libertà così sorprendente, che tutti - credenti e non credenti - hanno riconosciuto come eccezionale e profondamente umano? 
Evitare questa domanda lascerebbe senza spiegazione l’accaduto e, quel che è peggio, perderemmo ciò che di più prezioso ci testimonia. Esso grida, infatti, quanto è reale nella vita del Papa la persona di Cristo, quanto Cristo deve essergli contemporaneo e potentemente presente per generare un gesto di libertà da tutto e da tutti, una novità inaudita, così impossibile all’uomo. 

Pieno di stupore, sono allora stato costretto a spostare lo sguardo su ciò che lo rendeva possibile: chi sei Tu, che affascini un uomo fino a renderlo così libero da suscitare anche in noi il desiderio di quella stessa libertà? «Cristo me trae tutto, tanto è bello», esclamava un altro appassionato di Cristo, Jacopone da Todi: non ho trovato altra spiegazione.
 

Con la sua iniziativa il Papa ha dato una tale testimonianza a Cristo da far trasparire con potenza tutta la Sua attrattiva, a tal punto che essa in qualche modo ci ha afferrati tutti: eravamo davanti a un mistero che catturava l’attenzione. Dobbiamo ammettere quanto sia raro trovare una testimonianza che costringa il mondo, almeno per un istante, a tacere.

Anche se, subito dopo, la distrazione ci stava già trascinando altrove, facendoci scivolare - l’abbiamo visto in tante reazioni - negli inferi delle interpretazioni e dei calcoli di “politica ecclesiastica”, impedendoci di vedere che cosa ci ha realmente avvinto nell’accaduto, nessuno potrà più cancellare da ogni fibra del proprio essere quell’interminabile istante di silenzio. 
Non solo la libertà, ma anche la capacità del Papa di leggere il reale, di cogliere i segni dei tempi, grida la presenza di Cristo. 
Parlando di Zaccheo, il pubblicano salito sul sicomoro per vedere passare Gesù, sant’Agostino dice: «E il Signore guardò proprio Zaccheo. Egli fu guardato e allora vide. Se non fosse stato guardato, non avrebbe visto». 

Il Papa ci ha mostrato che solo l’esperienza presente di Cristo permette di “vedere”, cioè di usare la ragione con lucidità, fino ad arrivare a un giudizio assolutamente pertinente sul momento storico e a immaginare un gesto come quello che lui ha compiuto: «Ho fatto questo in piena libertà per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede». 
Un realismo inaudito! Ma dove ha origine? «Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura» (Udienza generale del mercoledì, 13 febbraio 2013). 

L’ultimo atto di questo pontificato mi appare come l’estremo gesto di un padre che mostra a tutti, dentro e fuori della Chiesa, dove trovare quella certezza che ci renda veramente liberi dalle paure che ci attanagliano. E lo fa con un gesto simbolico, come gli antichi profeti di Israele che, per comunicare al popolo la certezza del ritorno dall’esilio, facevano la cosa più apparentemente assurda: comperare un campo.
Anche lui è così certo che Cristo non farà mancare la Sua guida e la Sua cura alla Chiesa che per gridarlo a tutti fa un gesto che a tanti è sembrato assurdo: mettersi da parte per lasciare a Cristo lo spazio di provvedere alla Chiesa una nuova guida con le forze necessarie per assolvere il compito. 

Ma questo non riduce il valore del gesto alla sola Chiesa. Attraverso la cura della Chiesa, secondo il Suo misterioso disegno, Cristo pone nel mondo un segno nel quale tutti possono vedere che non sono da soli con la loro impotenza. Così «nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza», che spesso provocano confusione e smarrimento, il Papa offre a ogni uomo una roccia dove ancorare la speranza che non teme le burrasche quotidiane permettendogli di guardare al futuro con fiducia.

(Pubblicato su la Repubblica del 15 febbraio 2013
con il titolo “La croce di Ratzinger
).


    


MI HA FATTO VEDERE CHE LA RAGIONE È RAPPORTO CON IL MISTERO

Costantino Esposito

BENEDETTO XVI

C’è un tratto peculiare, nella testimonianza di Benedetto XVI, che in questi ultimi anni si è rivelato per me con sempre maggiore evidenza e da cui forse si può capire - e seguire - il suo contributo originale al mondo contemporaneo. Un mondo segnato in maniera pervasiva dal dramma del nichilismo realizzato, nel quale diviene dapprima problematico, poi confuso e infine bloccato il nesso vitale tra l’io e il senso della realtà o tra la ragione e la verità. 

Questo tratto peculiare consiste nella riproposizione instancabile di una domanda decisiva da parte del Papa: se cioè l’uomo sia ancora capace di conoscere il Mistero dell’essere e disponibile alla possibilità che questo Mistero si faccia riconoscere in una forma concreta, reale, storica. Si tratta di una domanda quasi completamente archiviata nella cultura contemporanea, per cui la conoscenza si è ridotta ad un processo di misurazione o ad una tecnica di gestione del mondo, e il Mistero viene confinato al di là del reale oppure semplicemente si frange e si dissolve nelle nostre interpretazioni. E la verità delle cose o è un prodotto in nostro potere o semplicemente non è. Qui è il «deserto» che il Papa vuole attraversare e condividere come un «pellegrino», come ha detto all’inizio dell’Anno della Fede.

Egli ha fatto vedere, partendo dalla sua personale esperienza, che la ragione dell’uomo non si accontenta mai di tale soluzione, perché è “intessuta” di quella domanda di realtà, come un bisogno infinito di essere (il quaerere Deum di cui ha parlato nel grande discorso parigino ai Bernardins nel 2008). Quest’attesa, questa possibilità della nostra ragione è il segno che essa consiste in un rapporto con il Mistero presente. 

Un rapporto che non è dato una volta per tutte, ma rinasce, o può rinascere di continuo, a partire da un fatto che riaccade: l’incontro - attraverso le cose, gli eventi, le persone - con il Logos divino che mi crea e mi vuole in un gesto “amoroso”, in cui è affermato il valore irriducibile e irripetibile di me. 

Come il Papa disse al Convegno Ecclesiale di Verona del 2006, qui «viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale», per cui anche la nostra intelligenza e la nostra libertà sarebbero solo il prodotto di un “caso” necessario e la nostra stessa ricerca sarebbe un’attesa inutile e vana. Solo se la Razionalità non è un’idea iperurania o una costruzione mentale, ma una Persona vivente, Cristo, acquista rilievo e forza la ragione di ogni persona, nella stupefacente corrispondenza tra la nostra capacità di conoscere il mondo ed il carattere intelligibile, sensato, della realtà che ci viene incontro.

Per dirla con il suo amato Agostino, l’esperienza della verità si fonda sull’essere “presi”, conquistati ogni volta da essa: e il segno di questa esperienza è il “gusto”, la “gioia” che essa fa nascere in noi: gaudium de veritate. Solo arrivando al vero, seguendo il suo “tocco”, possiamo scoprire affettivamente la portata incommensurabile del nostro “io”; ma anche la verità non rimane astrattamente in sé, al di fuori di questo rapporto: essa ha bisogno proprio di me per accadere sempre di nuovo.

    



COSì MI HA SVELATO LO SGUARDO CHE DIO HA SU DI NOI

padre Sergio Massalongo

BENEDETTO XVI

Anch’io alla notizia delle “dimissioni” del Papa sono entrato in quel silenzio, colto così bene da don Julián Carrón nella sua lettera a la Repubblica. Tutta la vita monastica non è in effetti che il permanere in quel silenzio, non provocato da noi, in cui c’è tutto noi stessi. Eppure quella notizia del Papa è stata per me un silenzio nel silenzio, è stata cioè uno svelamento, non tanto di ciò che fa il Papa, ma dello sguardo che Dio ha su di lui. Benedetto XVI l’ha riflesso su di noi, e così ci ha mostrato come si può vivere continuamente alla presenza di Cristo.

È stato per me un silenzio commovente, che ha ravvivato le ragioni, e sconvolgente per la corrispondenza alla vita nella sua originalità. Il Papa ha spalancato quell’orizzonte infinito nel quale dimora quotidianamente e che ad ogni uomo è caro come il respiro, anche se non lo sa.

In queste “dimissioni” del Papa non è per niente l’aspetto di “rinuncia” che mi colpisce, quanto il momento creativo che esse sono, che costringe a risalire all’Origine in cui uno consiste, a fare cioè l’esperienza di sentirsi fatti, voluti dal Signore. Mentre a livello naturale l’uomo, dentro la realtà comune, come “io”, è nella solitudine, da cui cerca di fuggire con l’immaginazione, questo fatto è il contrario dell’immaginazione, non ci lascia nell’incertezza, ma ci butta direttamente tra le braccia di Cristo. È una nuova rinascita.

Questo contraccolpo per chi ha seguito il magistero di Benedetto XVI non è un fatto né casuale né isolato. Tra i molti che si potrebbero citare, particolarmente caro è stato il discorso tenuto a Parigi al Collège des Bernardins, nel settembre 2008, nel quale il Papa pone il monachesimo alle origini della teologia occidentale e alle radici della cultura europea. Monachesimo, non come ricordo del passato o fuga dalla realtà, né tanto meno come spiritualità particolare, ma come autenticità del fatto cristiano da rivivere oggi. «Dentro le cose provvisorie (i monaci) cercano il definitivo», Cristo. 

Colui che non passa è con noi e ci chiama a seguirLo nella Regola attraverso la voce della campana che ritma e ordina il tempo a Cristo presente, a quell’Unica Bellezza capace di operare il miracolo di una vera unità tra gli uomini. Come risulta dalle ultime parole del messaggio del Papa, il suo futuro sarà «una vita dedicata alla preghiera» per la Santa Chiesa di Dio. Non è questa una riduzione della sua personale vocazione, ma un compimento. La preghiera infatti è trovare Dio al fondo di sé; essa è dunque un lavoro educativo che comporta libertà e sacrificio per riconoscere ed affermare che è un Altro il valore della propria vita, e questo è uno strappo continuo da sé. Solo chi si sente preso da Gesù può abbandonare totalmente se stesso nelle Sue mani.

In un messaggio del 16 luglio 2012, in occasione dell’anniversario della fondazione del monastero di San José ad Ávila, Benedetto XVI tracciava la figura del santo con tratti che potrebbero essere autobiografici: «Un santo non è colui che compie grandi imprese basandosi sull’eccellenza delle sue qualità umane, ma chi permette con umiltà a Cristo di penetrare nella sua anima, di agire attraverso la sua persona, di essere Lui il vero protagonista di tutte le sue azioni e i suoi desideri, Colui che ispira ogni iniziativa e sostiene ogni silenzio».

Questo silenzio che il Papa ha aperto nel nostro cuore col suo messaggio diventa ora dimora e sfida permanente alla verità della nostra umanità. È in questa pienezza di rapporto con Cristo che ci fa, nella quale siamo tutti attirati, l’esperienza di una continua novità.








[Modificato da Caterina63 28/01/2014 18:18]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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NON HO MAI VISTO UNO SGUARDO COSì LIETO

Luca Doninelli

BENEDETTO XVI

Gli avvenimenti hanno il potere di riaccendere la memoria, illuminando di senso particolari che erano rimasti nascosti, quasi dimenticati. Anche noi siamo come quei ricordi: quasi non esistiamo finché Qualcosa viene a illuminarci, a darci senso. 

Quattro luglio 2011. Due anni dopo il famoso incontro nella Cappella Sistina, con alcuni artisti ero stato invitato a celebrare con un dono personale gli ottantacinque anni di Benedetto XVI, in Vaticano. Era una giornata torrida e io sudavo nel mio abito grigio. 

Il Papa tardava a giungere: un problema improvviso, enorme, rispetto al quale il nostro piccolo raduno era pressoché niente, lo aveva costretto a un lavoro supplementare. 

Giunse chiedendoci scusa per il ritardo. Sorrideva, disse di essere felice di trovarsi lì, con noi. Intanto erano circolate voci circa la causa di quel ritardo, e io mi stupii all’idea che, dopo quel momento che doveva essere stato per lui molto complicato, potesse con tanta semplicità e letizia donarsi a noi.
Invece si interessò a ciascuno, rivolse domande a tutti. Quando me lo trovai davanti, gli chiesi in ginocchio di pregare per il mio amico Emanuele, che era molto malato. Lui si fece ripetere il nome per ricordarlo bene e mi assicurò la sua preghiera. 

Non ho mai visto uno sguardo così lieto e fiducioso. Quest’uomo dall’intelligenza impareggiabile affidava come un bambino a Cristo tutti gli istanti della sua vita. Oggi non posso non pensare a quello sguardo, a quella luce. E anche se, sicuramente, un’ombra tragica grava sul cammino della Chiesa, non posso disgiungere la sua libera decisione da quello sguardo. 

Dio può metterci alla prova anche con il Suo silenzio, dice quello sguardo, ma non ci abbandona, e non abbandona la Sua Chiesa, nemmeno per un istante. Questo abisso di fiducia e di positività è stato il suo grande dono di quel giorno, per tutti i giorni.






DA LUI HO IMPARATO COME SI Può INSEGNARE Ciò CHE è VERO

Andrea Simoncini

BENEDETTO XVI

Provare a sintetizzare in poche righe ciò che debbo a Benedetto XVI è davvero impossibile. A me sembra che tutto quel che ha detto e tutto quel che ha fatto abbia una sola spiegazione razionale: Cristo. Cristo presente, adesso. 
È stato don Giussani a farmi amare la figura di san Pietro, quando tante volte ce l’ha descritto assieme a Gesù che, di fronte ai suoi mille peccati e alla sua totale incapacità, gli chiede: «Mi ami tu?». E Pietro, pieno di tradimenti, ma completamente “travolto” dalla simpatia umana per quell’Uomo, risponde senza esitazione: «Sì! Lo sai che ti amo». Ecco, se debbo confessare l’impressione che mi ha sempre suscitato questo Papa, fino al suo ultimo gesto della rinuncia, è che davvero siamo davanti al “successore” di Pietro. Benedetto XVI è proprio uno come lui: un uomo affascinato da Gesù presente adesso, dominato dalla attrattiva e dalla certezza suscitata dal figlio di Dio, presente ora. 

Se debbo ricordare un momento particolare in cui questa consapevolezza mi ha sorpreso, è stata l’omelia del 2012 dinanzi al Ratzinger Schülerkreis, il “circolo” dei suoi ex-allievi a Castelgandolfo. Ero particolarmente curioso nel leggere questo suo intervento perché mi chiedevo: «Il Papa è stato ed è un teologo di fama mondiale, un vero maestro. Ebbene, che tipo di professore sarà stato? Come avrà educato i suoi allievi? Come avrà insegnato la verità?». Al fondo, questa mia domanda nasceva da una sorta di “dilemma” che, insegnando anch’io in università, mi sono sempre portato dietro: ma come si fa ad insegnare ciò che è “vero”? Oggi, infatti, questa parola - “verità” - porta con sé un sentore di “violenza”: se uno ritiene che la sua posizione sia “vera”, questo vuol dire che le altre sono false e, allora, di che discutiamo? La discussione può avere un solo scopo: convincerti. 

Debbo dire che il Papa, in quell’omelia, sembrava parlasse a me. «Chi di noi oserebbe gioire della verità che ci è stata donata? Ci viene subito la domanda: ma come si può avere la verità? Questo è intolleranza! L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più credere affatto alla verità o parlare della verità». E fin qui, mi sono sentito descritto nelle mie domande e perplessità; ma sono rimasto del tutto sbalordito da come il Papa prosegue: «Nessuno può dire: ho la verità - questa è l’obiezione che si muove - e, giustamente, nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei».
Nessuno può dire «ho la verità», e giustamente.

La verità, infatti, non è un discorso o una teoria, ma è un Uomo vivente.
Di colpo mi sono così reso conto che per anni avevo ceduto in partenza all’idea che la verità fosse una misura, una formula capace di spiegare con esattezza tagliente l’accadere delle cose. Se fosse così, affermarla sarebbe davvero intollerabile. Finalmente ho compreso da dove nasce il timore di tanti miei amici e colleghi - e talvolta mio - di fronte alla parola “verità”: ne abbiamo una idea ridotta, la verità è uno schema, una misura. Mentre nel Papa la verità è un uomo eccezionale che ci viene incontro e ci chiede: «Mi ami tu, più di tutto?». 

Pellegrini della verità, questo siamo. «Non possediamo la verità, è lei che ci possiede!». È un capovolgimento assoluto. La verità è una relazione, un affectus. E tutto quel che possiamo fare è non frapporre niente alla sua attrattiva.






HO VISSUTO AFFAMATO DEL SUO MAGISTERO

padre Aldo Trento

BENEDETTO XVI

La decisione del Santo Padre, dopo alcuni istanti di smarrimento, grazie a quanto ci ha detto Julián Carrón mi ha colmato di stupore e di silenzio. E quello che mi era apparso come un terremoto, che mi aveva privato di ogni certezza, si è trasformato in una provocazione: ma io in chi pongo la mia consistenza? Chi è il mio centro affettivo, qual è la ragione della mia vita? La decisione del Papa si basa su risposte chiare a queste domande. «L’incredibile libertà di un uomo afferrato da Cristo», ha scritto Carrón. «Un uomo afferrato da Cristo» come san Paolo, o dal Mistero, come Abramo, Giacobbe, Mosè, uomini educati a vivere stando con lo sguardo, l’intelligenza e il cuore di fronte alla grande Presenza.

Benedetto XVI mi ha testimoniato questa libertà di lasciarsi guidare dalla voce del Mistero, vivendo intensamente, attraverso la preghiera e il silenzio, la realtà, il luogo dove il Mistero è divenuto un Tu in Cristo Gesù. 

Durante questi anni di Pontificato ho percepito con stupore la sintonia tra il suo magistero, espressione della sua vita di fede, e il carisma del Servo di Dio don Giussani. Ciò che mi ha segnato profondamente, dando un gusto nuovo alla mia vocazione missionaria, è stata la centralità di Cristo, espressa in modo profondo e commovente già nelle sue prime parole, in cui ci invitava a non aver timore di Cristo, ma a riconoscere in Lui l’Unicum che comprende pienamente l’uomo rivelandogli ciò che ha nel cuore. Cristo non solo non ci toglie nulla, ma ci dà tutto. 

Questa certezza, che ha sempre mosso la sua vita, ha trovato in me non solo l’unica ragione della mia vita, la sua consistenza, la sua gioia, ma è stata anche l’origine di una passione missionaria senza precedenti. Quante volte tornando a casa dopo un lungo viaggio attraverso il Paraguay e contemplando per tutto il cammino l’immensa pianura costellata di case, mi ritrovavo a piangere al pensiero che Cristo non era ancora arrivato là!

Ho vissuto affamato del suo magistero al punto che - senza badare al costo - ho deciso di pubblicare ogni mese tutto ciò che il Santo Padre diceva, poiché ero certo che fosse l’unico strumento in un Paese e in un Continente dove non esiste quella tradizione romana che avrebbe potuto educare il mio popolo alla fede vissuta come un Avvenimento, superando quel moralismo pauroso ed asfissiante della vita.

La passione del Santo Padre per Cristo si esprime come passione totale per l’uomo, per il cuore dell’uomo. In questo senso il suo sguardo alla realtà e a tutto ciò che nasce da un amore grande alla realtà mi costringe a domandarmi, per esempio se la clinica è veramente un luogo di evangelizzazione, come lui ha affermato nell’ottobre 2012 alla conclusione di un Congresso medico celebrato a Roma.
O come quando nel suo messaggio per la Giornata mondiale del malato, celebrata nel suo amato santuario di Altötting, in Germania, ha ricordato che dobbiamo «riconoscere nel volto del fratello infermo il Santo Volto di Cristo». Sono provocazioni che mi hanno sempre educato a nutrire una grande passione affinché ciò che Dio ha operato nella mia vita e mediante la mia umile persona possa essere segno della Sua gloria nel mondo. 

Osservandolo e seguendolo come un figlio ho imparato a sentire il bisogno del silenzio, di quel silenzio pieno della Presenza di Cristo. Ho gustato ogni giorno di più la bellezza e l’amore per Cristo presente nell’Eucarestia, fino a che questa è diventata la guida e il fondamento della mia vita e di tutti i miei gesti. La modalità con cui vivevo la liturgia, momento culminante della preghiera e fonte della bellezza che raduna in armonia tutte le cose, mi ha portato a vivere ogni cosa con una tensione all’Infinito che mi consentiva di curare ogni particolare, favorendo il cammino educativo di tutti.
Infine da Benedetto XVI ho imparato, come da don Giussani, che il vertice della carità è la bellezza, l’unica capace di risvegliare il cuore assopito, anestetizzato, dell’uomo di oggi.




Quando disse che Dio non è un’ipotesi distante

Marco Bersanelli

BENEDETTO XVI

La figura di Benedetto XVI ha illuminato con forza straordinaria e con grande dolcezza la vita di moltissimi uomini e donne del nostro tempo. Come migliaia e migliaia di altre persone anch’io sono rimasto conquistato da questo Papa grande e semplice, dalle sue parole, dai suoi giudizi, dal suo modo di porsi così libero e pieno di ragioni. 

Ricordo che quando fu eletto otto anni fa, nel mondo accademico e scientifico le reazioni di molti colleghi furono titubanti, se non negative. Ma poi pian piano in tanti di loro si è fatta strada una crescente curiosità, un rispetto, un’ammirazione. Non in tutti, certo, ma in coloro che hanno guardato. Forse queste persone - quelle che ho in mente - non si sono convertite, ma hanno visto in azione una umanità convincente, non riducibile a schemi pregressi, e hanno potuto riconoscere che la fede è in grado di generare un tipo umano credibile, instancabilmente teso al bene del mondo e di ogni persona, con un acume umano forse irreperibile altrove.

Papa Benedetto ha testimoniato che Cristo è una risposta plausibile all’immensità del desiderio umano, uno spartiacque nella storia del cosmo, il volto del mistero accessibile alla nostra umanità: «Per noi Dio non è un’ipotesi distante, non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il Big Bang. Dio si è mostrato in Gesù Cristo. Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio. Nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi». 

Benedetto XVI è stato una presenza imponente nel mezzo dell’umanità contemporanea, inquieta, lacerata. Ha parlato al cuore di noi figli del Terzo Millennio, consapevole del senso di soffocamento in cui rischiamo di ingabbiare la nostra anima, indaffarati come siamo a rincorrere qualche forma vecchia o nuova di potere. E ha mostrato che Cristo comprende fino al midollo questa nostra sofferenza e ci viene incontro, immeritatamente: «Non soltanto noi esseri umani siamo inquieti in relazione a Dio. Il cuore di Dio è inquieto in relazione all’uomo». 

La libertà inaudita con cui Benedetto XVI ha concepito il suo gesto di rinuncia al Pontificato ha sorpreso tutti e almeno per un attimo ha lasciato il mondo intero senza parole. Uno stupore che questo Papa ci aveva già destato tante altre volte per la nettezza della sua testimonianza di fronte al mondo, intervenendo davanti ai potenti del Vecchio e del Nuovo continente, o davanti agli ultimi nel Terzo Mondo, eludendo polemiche, superando i pregiudizi, sorprendendoci per la sua capacità di valorizzare ogni traccia di bene presente in chiunque e in qualunque cultura.
Ora credo che, come a migliaia di altre persone, mi mancherà. Ma certamente il suo silenzio sosterrà la voce di chi gli succederà, e sarà per tutti noi una modalità inedita e potente con cui il Mistero si farà presente alla nostra memoria.






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di mons. Giampaolo Crepaldi*

 

ROMA, domenica, 21 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il tentativo della stampa di coinvolgere Benedetto XVI nella questione pedofilia è solo il più recente tra i segni di avversione che tanti nutrono per il Papa. Bisogna chiedersi come mai questo Pontefice, nonostante la sua mitezza evangelica e l’onestà, la chiarezza delle sue parole unitamente alla profondità del suo pensiero e dei suoi insegnamenti, susciti da alcune parti sentimenti di astio e forme di anticlericalismo che si pensavano superate. E questo, è bene dirlo, suscita ancora maggiore stupore e addirittura dolore, quando a non seguire il Papa e a denunciarne presunti errori sono uomini di Chiesa, siano essi teologi, sacerdoti o laici.

Le inusitate e palesemente forzate accuse del teologo Hans Küng contro la persona di Jopeph Ratzinger teologo, vescovo, Prefetto della Congregazione della Fede e ora Pontefice per aver causato, a suo dire, la pedofilia di alcuni ecclesiastici mediante la sua teologia e il suo magistero sul celibato ci amareggiano nel profondo. Non era forse mai accaduto che la Chiesa fosse attaccata in questo modo. Alle persecuzioni nei confronti di tanti cristiani, crocefissi in senso letterale in varie parti del mondo, ai molteplici tentativi per sradicare il cristianesimo nelle società un tempo cristiane con una violenza devastatrice sul piano legislativo, educativo e del costume che non può trovare spiegazioni nel normale buon senso si aggiunge ormai da tempo un accanimento contro questo Papa, la cui grandezza provvidenziale è davanti agli occhi di tutti.

A questi attacchi fanno tristemente eco quanti non ascoltano il Papa, anche tra ecclesiastici, professori di teologia nei seminari, sacerdoti e laici. Quanti non accusano apertamente il Pontefice, ma mettono la sordina ai suoi insegnamenti, non leggono i documenti del suo magistero, scrivono e parlano sostenendo esattamente il contrario di quanto egli dice, danno vita ad iniziative pastorali e culturali, per esempio sul terreno delle bioetica oppure del dialogo ecumenico, in aperta divergenza con quanto egli insegna. Il fenomeno è molto grave in quanto anche molto diffuso.

Benedetto XVI ha dato degli insegnamenti sul Vaticano II che moltissimi cattolici apertamente contrastano, promuovendo forme di controformazione e di sistematico magistero parallelo guidati da molti “antipapi”; ha dato degli insegnamenti sui “valori non negoziabili” che moltissimi cattolici minimizzano o reinterpretano e questo avviene anche da parte di teologi e commentatori di fama ospitati sulla stampa cattolica oltre che in quella laica; ha dato degli insegnamenti sul primato della fede apostolica nella lettura sapienziale degli avvenimenti e moltissimi continuano a parlare di primato della situazione, o della prassi o dei dati delle scienze umane; ha dato degli insegnamenti sulla coscienza o sulla dittatura del relativismo ma moltissimi antepongono la democrazia o la Costituzione al Vangelo. Per molti la Dominus Iesus, la Nota sui cattolici in politica del 2002, il discorso di Regensburg del 2006, la Caritas in veritate è come se non fossero mai state scritte.

La situazione è grave, perché questa divaricazione tra i fedeli che ascoltano il Papa e quelli che non lo ascoltano si diffonde ovunque, fino ai settimanali diocesani e agli Istituti di scienze religiose e anima due pastorali molto diverse tra loro, che non si comprendono ormai quasi più, come se fossero espressione di due Chiese diverse e procurando incertezza e smarrimento in molti fedeli.

In questi momenti molto difficili, il nostro Osservatorio si sente di esprimere la nostra filiale vicinanza a Benedetto XVI. Preghiamo per lui e restiamo fedelmente al suo seguito.

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Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân”.

   

[Modificato da Caterina63 14/07/2015 13:24]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Quel «CUORE DOCILE» DI Salomone mi ha aperto una strada

Marta Cartabia

BENEDETTO XVI

Il 22 settembre 2011, Benedetto XVI pronunciava al Bundestag un discorso di portata storica, per la cultura giuridica e, più in generale, per la cultura contemporanea, segnando una svolta in decenni di dibattiti accesi sul ruolo della religione nello spazio pubblico: non la rivelazione, ma la ragione e la natura nella loro correlazione, sono il corredo con cui ogni cristiano è lanciato nella storia. 

Se mi è consentita una notazione di carattere personale, aggiungerei che l’immagine iniziale di quel discorso è, e resterà, per me indimenticabile: al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stato concesso di avanzare una richiesta. Ed egli chiede a Dio un cuore docile, ovvero una ragione aperta, cioè «la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace».
Pochi giorni prima, il 2 settembre 2011, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, mi aveva conferito, in modo del tutto inatteso, un incarico istituzionale, nominandomi componente della Corte Costituzionale italiana.
Così, la mia vita professionale, che fino a quel momento si era dispiegata interamente in ambito accademico, mutava radicalmente di segno.
Un cambiamento di vita, più e prima che professionale.

Nulla di più pertinente avrebbe potuto accompagnarmi in quella svolta, di quel desiderio, espresso dal giovane re Salomone, di poter agire seguendo una ragione spalancata, capace di discernere e di orientarsi al bene e al giusto.
Questo invito a spalancare continuamente le finestre della ragione, che sempre tende a rinchiudersi in un edificio di “cemento armato” - secondo l’espressione di Benedetto XVI al Bundestag -, segna la strada che mi è offerta, personalmente, per cercare di servire la giustizia nell’agorà, ogni giorno. 

Come la ragione, così tutta la nostra umanità tende continuamente a rattrappirsi. Ma che cosa può permetterle di tornare incessantemente a spalancarsi? In ogni intervento del suo Pontificato, Benedetto XVI ha mostrato una profonda comprensione del dramma dell’uomo contemporaneo. Ha mostrato un amore all’uomo e alla verità fuori dal comune.
Quale l’origine di tutto questo? Guardando ai frutti della sua personalità ricca e umanissima, non si può fare a meno di chiedersi quale sia il loro punto sorgivo. In ogni parola e in ogni gesto eglitestimonia che cosa accade alla ragione e al cuore di un uomo che vive una fede reale, cioè vive in un rapporto intenso con Cristo presente.
Testimone di Cristo: fino al gesto supremo della sua rinuncia, frutto di una decisione, presa, come egli stesso ha affermato, «dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio». Una decisione che può scaturire solo dalla «presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all’interno del soggetto stesso», secondo le parole del beato Newman.
Pochi mesi sono trascorsi da quando Benedetto XVI, rivolgendosi ai suoi ex-allievi, diceva: «Nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! (...) Non possiamo dire: ho la verità, ma la verità è venuta verso di noi e ci spinge. Dobbiamo imparare a farci muovere da lei, a farci condurre da lei. E allora brillerà di nuovo». 

E di nuovo ha brillato.






IL PAPA È MIO E NON L’HO PERSO

Rose Busingye

BENEDETTO XVI

Non ho mai pensato a Benedetto XVI come al “Papa”, lontano da me. Era, è un amico, un parente. Una persona che è parte di me. Un regalo.
Quando mi parlava di Dio, di Cristo, investiva tutta la totalità del mio io. Come un padre che ti prende per mano e ti spiega il perché delle cose, e capisci che lui c’entra con la tua vita. Il Papa c’entra con la mia vita. Se tutto è di Cristo e lui è di Cristo, il Papa è mio. Non è uno sforzo, una fatica, dire questo: è una cosa così normale. È mio. Ciò che è di Dio è mio, ciò a cui appartengo è mio.
Dentro la fede ti trovi unita ad ogni uomo. È difficile da spiegare. Benedetto XVI l’ho incontrato tre volte, sempre a Roma.
La sua faccia, il modo con cui ti guarda che è un abbraccio... Non ti viene da sentirlo lontano, ma da buttarti tra le sue braccia. Come in quelle di tuo padre. Scompare l’immagine formale del Papa, e non per mancanza di rispetto, ma perché ti senti a casa; ti verrebbe da raccontargli di te, dei tuoi sentimenti, di quello che ti è capitato. Come un bambino che si confida con il padre. 

Quando ho ricevuto la notizia delle dimissioni mi sono sentita come i discepoli di Emmaus che discutevano fra loro e un po’ si lamentavano. Anche io mi sono detta: «Ecco, non è venuto in Uganda, è cominciato l’Anno della Fede... E adesso?».
Tutto quello che attendevo sembrava sospeso. Come un bambino che aspetta il papà dopo un lungo viaggio, e gli dicono che non arriverà. Non c’è disperazione perché sai che tuo padre c’è, ma rimane la domanda: chi mi spiegherà? Dopo, per grazia, è arrivato il messaggio di Carrón. È stato come se mi dicesse: «Non ti batteva il cuore quando Gesù parlava e spiegava le scritture?».
Proprio la stessa esperienza dei discepoli di Emmaus. Mi sono ricordata la lettera di Benedetto XVI al Meeting: la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito. Niente è perso, ma ridefinito. Quel messaggio mi ha spiegato quello che stava succedendo.
È stato capire che dentro questa appartenenza a Dio non si perde niente; e poi è esplosa la gratitudine per avere un padre che ti educa all’esistenza delle cose. Carrón mi ha fatto dire: «Non l’ho perso, il Papa lo ha fatto per me».
Quello che costruisce il Papa costruisce me, ciò che il Papa mi ha indicato fino ad ora è ciò che rende liberi entrambi.












Fraternamente CaterinaLD

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Un altro tipo di Ragione

John Waters

BENEDETTO XVI - SORPRESI DA LUI

Ogni sua parola ha avuto lo scopo di portarci «oltre»: noi stessi, l’apparenza, il mondo. Nella certezza che la Chiesa non è opera nostra, ma «l’irrompere di qualcos’altro». Ma anche ora che si ritira nel «silenzio di Dio» continuerà ad accompagnarci al fondo di tutto. Ecco come 

Un padre ci insegna ad aderire, a comprendere più a fondo, a rimandare, a rinunciare, a obbedire in tutta la profondità che questi termini hanno. Un grande padre è sempre una sorpresa per i suoi figli. Fa cose che non si aspettano, ma con una chiarezza che, stranamente, non li sorprende mai. A volte, davanti a un padre veramente grande, appare chiaro che la totalità del compito della paternità è più importante per lui persino del desiderio, così profondamente umano, di essere amato dagli altri esseri umani. Il significato di ciò - di questa intenzione del padre - è che esiste un oltre, verso il quale occorre andare, anche a fronte del sacrificio di ciò che è presente, disponibile e profondamente desiderato. È una dura lezione, per il maestro come per il discepolo, per il padre come per i figli, ma è la più importante di tutte.
Un padre così è stato, per gli ultimi otto anni, papa Benedetto XVI. Come ci ha commosso, con le sue parole che vanno oltre le parole! Come ci ha accompagnato con la sua mite certezza! Come ci ha tenuti vicini a sé, perché potessimo farci più vicini a Lui!
Ho molto amato Benedetto XVI proprio perché, da padre, nella vita di ogni giorno ho potuto vedere la limpidezza e la grandezza delle sue intenzioni e dei suoi desideri per il mondo che ha amato con così grande paternità.
Questo amore mi ha lasciato dapprima ammutolito, all’udire della sua decisione di abbandonare il ministero papale. Ma poi ho avuto la grazia di leggere le parole di un altro padre, Julián Carrón, che ha parlato della «mossa di libertà senza precedenti del Santo Padre, che privilegia innanzitutto il bene della Chiesa. Così egli mostra a tutti di essere totalmente affidato al disegno misterioso di un Altro. Chi non desidererebbe una simile libertà? Il gesto del Papa è un richiamo potente a rinunciare a ogni sicurezza umana, confidando esclusivamente nella forza dello Spirito Santo...».
Ecco. Anche noi, a cui è stato insegnato a vivere questi pensieri, possiamo dimenticarcene.
Questo ci spalanca un’altra possibilità: che il vero gesto del Papa sia racchiuso nel suo stesso significato, che ancora una volta il Santo Padre ci stia ricordando che esiste una forma diversa di ragione, e tipi differenti di ragioni, da cui ogni cosa prende forma.

Non è forse stato questo il tema costante del papato di Benedetto XVI? Non è apparso evidente in ogni suo gesto, in ogni intervento, in ogni incontro?
Il Papa non ci lascia, ma ci sta accompagnando al fondo della questione. Con questo gesto ha illuminato, in un modo nuovo, ogni cosa che lo ha preceduto, mostrando che le parole non sono semplicemente parole, ma segni di un tipo diverso di realtà. Con questo gesto, il più radicale degli uomini ci ha ricordato che la radicalità più profonda non sta in lui che la mostra, ma in un Altro, e che questa radicalità è trascendente ed eterna. Il Papa ha tenuto in serbo il vino migliore sino alla fine!
Otto anni fa, eravamo stati addolorati, ma insieme edificati, dal modo con cui il suo predecessore, Giovanni Paolo II, ci aveva lasciato. Dopo aver passato un quarto di secolo insegnandoci come si vive, il Papa ci aveva chiamato al suo capezzale per insegnarci come si muore. In questo modo, ci aveva costretto a porci davanti alla domanda che stava dietro a tutto ciò che ci aveva detto: è vero che Cristo vive in noi, con noi? E attraversando la pioggia delle nostre lacrime, il sole era sbucato ad illuminare tutto. È vero!
Oggi il suo amico e successore ci ha di nuovo riportato alla domanda, anche se potrebbe sembrare impossibile. Ma davvero è così? Come può un uomo accompagnarci più in là della sua morte? 
Benedetto ha fatto esattamente questo. Ci ha insegnato che la Presenza di cui parliamo trascende non solo la morte, ma anche la vita. È più grande e diversa rispetto a entrambi questi fenomeni. È qualcosa che è al di là non solo delle cose terrene, ma della stessa dimensione terrena.

«Più forte della pioggia». Ricordo un amico che mi raccontava i fatti straordinari accaduti all’aeroporto di Cuatro Vientos, a Madrid, nell’estate del 2011, quando Benedetto XVI celebrò la messa davanti a due milioni di ragazzi nella Giornata mondiale della Gioventù. Per tutto il giorno, malgrado la temperatura fosse intorno ai 40 gradi, la folla dei ragazzi aveva cantato e ballato aspettando il Papa. Al suo arrivo, lo aveva accolto con grandissimo entusiasmo ed affetto. Più tardi, quando il Papa cominciò la sua omelia, ci fu un improvviso cambiamento di tempo. Se durante tutto il giorno i pompieri avevano spruzzato acqua sulla folla che andava crescendo per rinfrescare la gente, in quel momento la pioggia cominciò a cadere a scrosci trasversali che non risparmiarono nessuno dall’infradiciarsi.

Per qualche minuto ci fu confusione; il Papa interruppe la sua omelia e non si capiva bene se la cerimonia avrebbe potuto continuare. Poi il Papa riprese la parola, e disse che Dio aveva mandato la pioggia come un dono. Disse ai giovani che nella vita avrebbero incontrato problemi ben più grandi di quella pioggia, ma che non dovevano avere paura perché sarebbero stati sempre accompagnati. «La vostra fede è più forte della pioggia», disse. Poi, mentre il temporale non accennava a smettere, si inginocchiò davanti al Santissimo e tra i due milioni di giovani assiepati a Cuatro Vientos cadde il silenzio.
Più tardi, dei poliziotti di lunga esperienza dichiararono di non aver mai visto nulla di simile. Erano concordi nel dire che se una tempesta simile si fosse scatenata ad un concerto rock o ad una partita di calcio avrebbe potuto essere una catastrofe. Lì c’era stato silenzio, calma, davanti a qualcosa di immenso e incommensurabilmente affascinante. Da sette anni, la Spagna viveva sotto un regime che cercava di estromettere il Mistero dalla vita civile, non semplicemente opponendosi a Dio, ma cercando di occuparne il posto nella realtà. Eppure, quello che abbiamo visto a Madrid in quel fine settimana era che i ragazzi spagnoli, e i loro coetanei di diverse parti del mondo, sapevano riconoscere qualcosa in grado di offrire più speranza di quello che i politici chiamano progresso, e più bello di ciò che i giornalisti chiamano libertà.

Attesa e desiderio. Questo è stato il marchio del tempo di Benedetto, e il tono della sua voce nel mondo. Ogni sua parola è stata come concepita in uno sforzo di condurci oltre l’apparenza immediata, a ciò che sembra ovvio, oltre le nostre impressioni e reazioni istintive, oltre noi stessi e il mondo, verso un nuovo modo di vedere e usare la ragione. Ha assunto questo ruolo con la massima serietà, ricordando sempre che il compito del Papa è di stare al culmine dell’umana realtà e di puntare lo sguardo oltre. Quindi - ci ha costantemente ricordato - la Chiesa stessa è ultimamente un segno più che una istituzione. E adesso ce lo ricorda di nuovo. Perché la Chiesa «non è una nostra istituzione, ma l’irrompere di qualcos’altro», ha scritto in La Comunione nella Chiesa, di conseguenza «non possiamo mai crearcela da noi». Al contrario, noi preghiamo in ginocchio, attendiamo e desideriamo.
Un anno fa, in occasione della 46ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni, il Papa ci chiese di considerare l’importanza del silenzio. Esiste un «rapporto tra silenzio e parola» - diceva, sottolineando come i due fenomeni non sono opposti, bensì due elementi diversi dello stesso meccanismo, «due momenti della comunicazione che devono equilibrarsi, succedersi e integrarsi per ottenere un autentico dialogo e una profonda vicinanza tra le persone». Lo definiva «il silenzio di Dio», un silenzio che diviene contemplazione, e dal quale nasce una nuova Parola, la Parola di salvezza.

Ora questo grande Papa si ritirerà nel «silenzio di Dio». Non sarà però un rifugio, ma solo un’altra fase tra le diverse modalità con cui lui ci ha parlato. Non ci abbandonerà, ma ci accompagnerà in una maniera nuova. Chiunque sostituirà Benedetto XVI sarà il Papa, naturalmente, e diventerà il nostro nuovo padre, portando una nuova ricchezza nella nostra vita. E naturalmente, continuerà ad esserci un solo Papa. Ma la sensazione che noi continueremo ad avere, della presenza del nostro amato Benedetto XVI, che prega inginocchiato da qualche parte, non lontano da noi, cambierà ogni cosa, tenendo sempre desta in noi la memoria della novità che ci è stata promessa. Non una novità fine a se stessa, certo che no, ma una novità che rende visibile, in modo inaspettato, miracoloso, il significato di tutte queste cose, di ogni cosa: che Colui che ci fa regna supremo su tutte le cose terrene, e su ogni essere terreno, e che il Padre celeste ci parla attraverso le parole e i silenzi di uomini che sono tra noi e come noi, ma che sono stati investiti della pesante responsabilità di condurci verso ciò che ci attende.









Quella volta che mi chiese: «lei è una vera poetessa?»

Ol’ga Sedakova.

BENEDETTO XVI

All’inizio non ci ho creduto. Mi sembrava inverosimile. Soprattutto perché, io come molti altri, avevamo in mente l’immagine del Pontificato precedente. Negli ultimi anni di Giovanni Paolo II alcuni avevano espresso l’opinione che in un tale stato di debolezza sarebbe stato meglio ritirarsi; ma Giovanni Paolo mostrò che il ministero vissuto nella debolezza ha un grande valore spirituale. Ad un mondo che ha paura della malattia e della vecchiaia, egli testimoniò la grande forza che «si compie nella debolezza». E il suo sacrificio mi aveva suscitato profonda venerazione.

La stessa profonda venerazione mi suscita ora la decisione di Benedetto XVI. Leggendo il testo della sua Declaratio, è impossibile non avvertire l’immenso lavoro spirituale sotteso a questa decisione, e come essa sia stata presa al cospetto di Dio che aveva affidato al Papa la Sua Chiesa, la «nave della Chiesa». Questa sensazione di uno stare di fronte al volto di Dio, di una profonda coscienza della responsabilità storica, è ciò che ho sempre percepito nelle opere teologiche di Benedetto XVI, anche di quelle firmate ancora con il nome di Joseph Ratzinger. Non c’è niente di esteriore, tutto scaturisce dal profondo di un’anima colma di fede e di un’intelligenza fulgida.

La sua sensibilità del momento storico, della drammatica crisi attraversata dalla nostra civiltà emerge tutta in un piccolo episodio. Una volta, insieme ad un gruppo di uomini di cultura venuti da Mosca, ebbi l’occasione di incontrare il cardinale Ratzinger, e gli venimmo presentati tutti, uno a uno, con il nome e la professione. Io fui presentata come «poetessa». «Una vera poetessa?», chiese Ratzinger, guardandomi con molta attenzione (il suo sguardo mi ricordava un professore durante l’esame). Io ero imbarazzata a rispondere, ma i miei compagni (tra loro c’era anche il filosofo Sergej Averincev) confermarono con entusiasmo. «Allora mi trovi le sue poesie tradotte in qualunque lingua», disse ad uno dei suoi collaboratori: «Questa è una cosa molto importante».

L’audacia. «Perché è importante?», chiesi io stupita. Che cosa mai poteva importare ad un alto personaggio della Chiesa della qualità dei versi della prima venuta, tanto più in una lingua straniera? «Finché continueranno ad esistere dei veri poeti, dei veri artisti - rispose lui - significa che il nostro mondo non è ancora abbandonato dall’ispirazione, cioè dallo Spirito». L’ispirazione artistica - quando si tratti di un «vero» artista - aveva evidentemente per lui il valore di una testimonianza.
Un Papa che si era soliti definire «conservatore» ha preso una decisione di incredibile novità. Mi hanno commosso nel profondo le parole con cui conclude il suo messaggio, dicendo che affida la Chiesa al suo Capo, Cristo. Dietro a questa frase io vedo una sorta di profondissima visione evangelica dello stato delle cose nel mondo. Lui, sommo pastore, è stato mandato a «pascere le pecore», ma queste pecore appartengono allo stesso Cristo.

Io percepisco in questo la stessa libertà e audacia spirituale con cui Joseph Ratzinger, già nel 1969, pensava al futuro della Chiesa, e sono sicura che anche ora queste sue previsioni spaventano molti, mentre per molti diventano la strada: «Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti. Allora la gente vedrà quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto».







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(Benedetto XVI distribuisce il Catechismo ai bambini in Brasile)



La vera vita

BENEDETTO XVI - IO E PAPA RATZINGER

Dalla prima omelia al momento del congedo (passando per i grandi discorsi, le encicliche, gli incontri con i giovani, l’Anno della Fede), un viaggio tra immagini e parole che ci hanno segnato in questi anni assieme al Pontefice uscente 

Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. (...) Noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con Lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo. (...)
Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla - assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! Solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a Lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo - e troverete la vera vita.
(Omelia alla Messa di imposizione 
del Pallio e consegna dell’Anello 
del Pescatore per l’inizio del Pontificato, Roma, 24 aprile 2005
)


Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’Illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è (...) volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. 
Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni - un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. (...)
Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza - è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica entra nella disputa del tempo presente. «Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio», ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori.
(Incontro con i Rappresentanti della scienza, 
Regensburg, 12 settembre 2006
)


Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio - vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l’uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No - in definitiva, dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio - affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo. 
Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l’abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall’altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza (...). 
Il Dio, nel quale noi crediamo, è un Dio della ragione - di una ragione, però, che certamente non è una neutrale matematica dell’universo, ma che è una cosa sola con l’amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell’amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell’irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio.
(Visita al lager di Auschwitz, 
28 maggio 2006
)


Il cristianesimo non presuppone un conflitto inevitabile tra la fede soprannaturale e il progresso scientifico. (...) La scienza, tuttavia, pur donando generosamente, dà solo ciò che deve donare. L’uomo non può riporre nella scienza e nella tecnologia una fiducia talmente radicale e incondizionata da credere che il progresso scientifico e tecnologico possa spiegare qualsiasi cosa e rispondere pienamente a tutti i suoi bisogni esistenziali e spirituali. La scienza non può sostituire la filosofia e la rivelazione rispondendo in mondo esaustivo alle domande più radicali dell’uomo. (...)
Il metodo scientifico stesso, nel suo raccogliere dati, nell’elaborarli e nell’utilizzarli nelle sue proiezioni, ha dei limiti insiti che necessariamente restringono la prevedibilità scientifica a contesti ed approcci specifici. La scienza, pertanto, non può pretendere di fornire una rappresentazione completa, deterministica, del nostro futuro e dello sviluppo di ogni fenomeno da essa studiato. La filosofia e la teologia potrebbero dare un importante contributo a questa questione fondamentalmente epistemologica, per esempio aiutando le scienze empiriche a riconoscere la differenza tra l’incapacità matematica di prevedere determinati eventi e la validità del principio di causalità, o tra l’indeterminismo o la contingenza (casualità) scientifici e la causalità a livello filosofico o, più radicalmente, tra l’evoluzione come origine ultima di una successione nello spazio e nel tempo e la creazione come prima origine dell’essere partecipato nell’Essere essenziale.
Al contempo, vi è un livello più alto che necessariamente trascende le previsioni scientifiche, ossia il mondo umano della libertà e della storia. Mentre il cosmo fisico può avere un proprio sviluppo spaziale-temporale, solo l’umanità, in senso stretto, ha una storia, la storia della sua libertà. La libertà, come la ragione, è una parte preziosa dell’immagine di Dio dentro di noi e non può essere ridotta a un’analisi deterministica. La sua trascendenza rispetto al mondo materiale deve essere riconosciuta e rispettata, poiché è un segno della nostra dignità umana. Negare questa trascendenza in nome di una supposta capacità assoluta del metodo scientifico di prevedere e condizionare il mondo umano comporterebbe la perdita di ciò che è umano nell’uomo e, non riconoscendo la sua unicità e la sua trascendenza, potrebbe aprire pericolosamente la porta al suo sfruttamento.
(Discorso all’Assemblea plenaria 
della Pontificia Accademia delle Scienze,
Roma, 6 novembre 2006
)



I monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto? Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. (...)
Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero». Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora, ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili.
(Incontro con il mondo della cultura 
al Collège des Bernardins, 
Parigi, 12 settembre 2008
)


La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che, secondo l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr. Mt 22,36-40). Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici. (...)
Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della «veritas in caritate» (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della «caritas in veritate». La verità va cercata, trovata ed espressa nell’“economia” della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. (...)
Nell’attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l’adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale. Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. (...)
L’amore nella verità - caritas in veritate - è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. (...) La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende «minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati». Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza.
(Dall’enciclica Caritas in veritate, 2009)


L’autentica bellezza (...) schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: «La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere» (n. 3). E più avanti aggiunge: «In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione» (n. 10). E nella conclusione afferma: «La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente» (n. 16). (...)
Cari Artisti, voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.
(Incontro con gli artisti, Cappella Sistina, Roma, 21 novembre 2009)


La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche? La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti - ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione - bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi. 
Questo ruolo “correttivo” della religione nei confronti della ragione, tuttavia, non è sempre bene accolto, in parte poiché delle forme distorte di religione, come il settarismo e il fondamentalismo, possono mostrarsi esse stesse causa di seri problemi sociali. E, a loro volta, queste distorsioni della religione emergono quando viene data una non sufficiente attenzione al ruolo purificatore e strutturante della ragione all’interno della religione. È un processo che funziona nel doppio senso. Senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall’ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana. Fu questo uso distorto della ragione, in fin dei conti, che diede origine al commercio degli schiavi e poi a molti altri mali sociali, non da ultimo le ideologie totalitarie del ventesimo secolo. Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragione ed il mondo della fede (...) hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà. La religione, in altre parole, per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione.
(Discorso alla Westminster Hall, 
Londra, 17 settembre 2010
)


Cosa significa dedicare questa chiesa? Nel cuore del mondo, di fronte allo sguardo di Dio e degli uomini, in un umile e gioioso atto di fede, abbiamo innalzato un’immensa mole di materia, frutto della natura e di un incalcolabile sforzo dell’intelligenza umana, costruttrice di quest’opera d’arte. Essa è un segno visibile del Dio invisibile, alla cui gloria svettano queste torri, frecce che indicano l’assoluto della luce e di colui che è la Luce, l’Altezza e la Bellezza medesime. 
In questo ambiente, Gaudí volle unire l’ispirazione che gli veniva dai tre grandi libri dei quali si nutriva come uomo, come credente e come architetto: il libro della natura, il libro della Sacra Scrittura e il libro della Liturgia. Così unì la realtà del mondo e la storia della salvezza, come ci è narrata nella Bibbia e resa presente nella Liturgia. Introdusse dentro l’edificio sacro pietre, alberi e vita umana, affinché tutta la creazione convergesse nella lode divina, ma, allo stesso tempo, portò fuori i retabli, per porre davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, passione, morte e Risurrezione di Gesù Cristo. In questo modo, collaborò in maniera geniale all’edificazione di una coscienza umana ancorata nel mondo, aperta a Dio, illuminata e santificata da Cristo. E realizzò ciò che oggi è uno dei compiti più importanti: superare la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza. Antoni Gaudí non realizzò tutto questo con parole, ma con pietre, linee, superfici e vertici. In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo.
(Omelia alla messa della dedicazione 
della Sagrada Família,
Barcellona, 7 novembre 2010
)


«Sì, cari amici, Dio ci ama. Questa è la grande verità della nostra vita e che dà senso a tutto il resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio. Rimanere nel suo amore significa quindi vivere radicati nella fede, perché la fede non è la semplice accettazione di alcune verità astratte, bensì una relazione intima con Cristo che ci porta ad aprire il nostro cuore a questo mistero di amore e a vivere come persone che si riconoscono amate da Dio. 
Se rimarrete nell’amore di Cristo, radicati nella fede, incontrerete, anche in mezzo a contrarietà e sofferenze, la fonte della gioia e dell’allegria. La fede non si oppone ai vostri ideali più alti, al contrario, li eleva e li perfeziona. Cari giovani, non conformatevi con qualcosa che sia meno della Verità e dell’Amore, non conformatevi con qualcuno che sia meno di Cristo».
(Omelia durante la veglia di preghiera
della Giornata mondiale della Gioventù,
Madrid, 21 agosto 2011
)



Esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana.(...)
La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma - dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico.
(Discorso al Bundestag,
Berlino, 22 settembre 2011
)


L’assenza di Dio porta al decadimento dell’uomo e dell’umanesimo. Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace? Riassumiamo anzitutto brevemente le nostre riflessioni fatte finora. Ho detto che esiste una concezione e un uso della religione attraverso il quale essa diventa fonte di violenza, mentre l’orientamento dell’uomo verso Dio, vissuto rettamente, è una forza di pace. (...) Dall’altra parte, ho affermato che la negazione di Dio corrompe l’uomo, lo priva di misure e lo conduce alla violenza.
Accanto alle due realtà di religione e anti-religione esiste, nel mondo in espansione dell’agnosticismo, anche un altro orientamento di fondo: persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Persone del genere non affermano semplicemente: «Non esiste alcun Dio». Esse soffrono a motivo della Sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso di Lui. Sono “pellegrini della verità, pellegrini della pace”. Pongono domande sia all’una che all’altra parte. Tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista e che noi possiamo e dobbiamo vivere in funzione di essa. Ma chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri.
Queste persone cercano la verità, cercano il vero Dio, la cui immagine nelle religioni, a causa del modo nel quale non di rado sono praticate, è non raramente nascosta. Che essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio - il vero Dio - diventi accessibile.
(Intervento alla Giornata di riflessione, dialogo 
e preghiera per la Pace e la Giustizia nel Mondo,
Assisi, 27 ottobre 2011
)


Il progetto di Dio sulla coppia umana trova la sua pienezza in Gesù Cristo, che ha elevato il matrimonio a Sacramento. Cari sposi, con uno speciale dono dello Spirito Santo, Cristo vi fa partecipare al suo amore sponsale, rendendovi segno del suo amore per la Chiesa: un amore fedele e totale. Se sapete accogliere questo dono, rinnovando ogni giorno, con fede, il vostro «sì», con la forza che viene dalla grazia del Sacramento, anche la vostra famiglia vivrà dell’amore di Dio, sul modello della Santa Famiglia di Nazaret. Care famiglie, chiedete spesso, nella preghiera, l’aiuto della Vergine Maria e di san Giuseppe, perché vi insegnino ad accogliere l’amore di Dio come essi lo hanno accolto. La vostra vocazione non è facile da vivere, specialmente oggi, ma quella dell’amore è una realtà meravigliosa, è l’unica forza che può veramente trasformare il cosmo, il mondo. Davanti a voi avete la testimonianza di tante famiglie, che indicano le vie per crescere nell’amore: mantenere un costante rapporto con Dio e partecipare alla vita ecclesiale, coltivare il dialogo, rispettare il punto di vista dell’altro, essere pronti al servizio, essere pazienti con i difetti altrui, saper perdonare e chiedere perdono, superare con intelligenza e umiltà gli eventuali conflitti, concordare gli orientamenti educativi, essere aperti alle altre famiglie, attenti ai poveri, responsabili nella società civile. Sono tutti elementi che costruiscono la famiglia. Viveteli con coraggio, certi che, nella misura in cui, con il sostegno della grazia divina, vivrete l’amore reciproco e verso tutti, diventerete un Vangelo vivo, una vera Chiesa domestica (cfr. Familiaris consortio, 49). Una parola vorrei dedicarla anche ai fedeli che, pur condividendo gli insegnamenti della Chiesa sulla famiglia, sono segnati da esperienze dolorose di fallimento e di separazione. Sappiate che il Papa e la Chiesa vi sostengono nella vostra fatica. 
(Omelia alla messa per l’Incontro mondiale 
delle Famiglie, Parco di Bresso, 3 giugno 2012
)


Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. 
È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è Sua e il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore.
Siamo nell’Anno della Fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre.
(Udienza in Piazza San Pietro, 
Roma, 27 febbraio 2013
)












Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Afferrato da Cristo

di Davide Perillo

 

Il Papa ci ha spiegato la fede, da maestro. Ma soprattutto «l’ha fatta accadere». L’umiltà dell’inizio e della fine indicano il vero contenuto di ogni suo passo: «La prima iniziativa è di Dio». Il teologo JAVIER PRADES ci accompagna dentro questi otto anni

L’inizio e la fine. Certo, si specchiano già a prima vista. Difficile non vedere nell’umiltà con cui ha rinunciato al Soglio pontificio lo stesso tratto con cui Benedetto XVI si era presentato al popolo di Dio, il 19 aprile di otto anni fa: «Dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore». Ma ora che il lavoro si conclude, ed è tempo di bilanci, si capisce che c’è qualcosa di più nel legame che unisce quei due gesti. «C’è una testimonianza che abbraccia tutto il resto», dice Javier Prades, 52 anni, teologo e rettore dell’Università San Dámaso di Madrid: «In come il cardinale Ratzinger aveva accettato la carica c’era già, in nuce, il cuore di quello che è venuto dopo: la prima iniziativa è di Dio, non nostra. Benedetto XVI lo ha mostrato a tutti con grande chiarezza. È un uomo libero. E lo si è visto bene, in questi anni».

Quali sono stati i tratti salienti di questo Pontificato?
Subito, addirittura a ridosso dell’elezione, nella messa Pro eligendo Pontifice, Ratzinger aveva già disegnato una comprensione profonda del mistero della vita cristiana e dei bisogni della Chiesa. È quello che ha detto dopo, nella prima omelia da Papa: non ripone la sua speranza nei programmi, ma nella volontà di rispettare l’iniziativa del Mistero. È la consapevolezza che la vera urgenza è alla radice, nel rapporto con il Mistero di Dio, appunto. È un refrain che si è mantenuto nel tempo. Ed è diventato decisivo, anche per la sensibilità con cui ha sviluppato i grandi discorsi del Pontificato. Pensiamo alla lezione tenuta ai Bernardini, con l’insistenza sul quaerere Deum: «I monaci non hanno pensato a creare una cultura cristiana, ma hanno cercato Dio». La conseguenza è stata una novità di vita che ha portato a creare una realtà inaspettata. Ecco, questa preminenza del Mistero è sicuramente uno degli assi portanti. Ma ce ne sono altri. 

Quali?
Per esempio, la strenua difesa della ragione umana. Si vede bene nell’intervento a Regensburg, dove emerge quell’affermazione paradigmatica: ciò che va contro la ragione va contro la natura di Dio. Poi, l’attenzione è stata deviata dalle polemiche sull’islam. Ma la rivendicazione dell’ampiezza della ragione è diventata una costante del Pontificato. Basta pensare anche al discorso non pronunciato alla Sapienza, quando gli impedirono di intervenire, o all’immagine del bunker usata davanti al Bundestag tedesco, nel 2011. E più a monte c’è l’affermazione dei tratti essenziali della fede cristiana, della sua specificità: la risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio nella storia è il riconoscimento di un avvenimento. In questo senso, le prime righe della Deus caritas est, la sua prima enciclica, sono decisive. 

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». È una formulazione che colpì tutti...
E che porta dritti fino all’Anno della Fede. Perché una grande caratteristica di Benedetto XVI è stata proprio la consapevolezza dell’irriducibilità del fatto cristiano. Anzi, forse il fattore dominante è questo. 

In che senso?
Per il Papa è il riconoscimento di Cristo che consente di spiegare gli altri elementi: la sovranità di Dio e la dignità dell’uomo. Questo Papa non arriva a Cristo dopo, come derivazione: è partendo da Lui che coglie questa dimensione incondizionata di Dio, non subordinata a niente, come sorgente della dignità dell’uomo. Dio è sempre prima. Può risultare molto familiare un’espressione di don Giussani: «Qualcosa che viene prima». 

Quali sono i momenti con cui è emersa con più chiarezza questa centralità? 
Il Pontificato è ricchissimo di questa consapevolezza. Se dovessimo identificare dei documenti, a parte le encicliche, direi che le sue esortazioni Sacramentum caritatis e Verbum Domini, dopo i corrispettivi Sinodi, di fatto sono un canto a Cristo, Verbo incarnato, reso presente agli uomini nell’Eucaristia e nella Parola di Dio. Fino ad arrivare alle catechesi dell’Anno della Fede. Ma questo primato, nei suoi testi, è una costante: riguardo all’interpretazione della Scrittura, alla vita del comune fedele, all’attesa umana o al dinamismo dell’amore, Cristo viene sempre prima. Non dimentichiamo che Ratzinger si è formato alla scuola di Agostino. Ma questa sensibilità si è espressa anche in certi gesti educativi; le Giornate della Gioventù, per esempio. Sono momenti rivolti al mondo intero, in cui il Papa ha orientato lo sguardo di tutti verso l’essenziale: Cristo. 

Ecco, a proposito dell’«apertura al mondo intero»: un altro tratto saliente del Pontificato è il dialogo avviato con la modernità anche in forza di questa difesa della ragione. Che caratteristiche ha avuto, secondo lei? 
Il primo dato, non scontato, è proprio questa forte volontà di dialogo. Ratzinger lo dice già nel 2005, quando propone un «sì» alla modernità. È un «sì» critico, in grado di indicare anche le riduzioni della dimensione moderna dell’uomo e della ragione. Ma per Benedetto XVI sia la modernità che la Chiesa si sono evolute, e oggi siamo in grado di approfondire il confronto su certi grandi temi: la libertà religiosa, il rapporto tra Chiesa e Stato, quello tra scienza e fede. E i problemi etici, la dignità dell’uomo... Temi cari al mondo moderno. Lui quel confronto lo ha mantenuto a più livelli: tenendo dialoghi diretti, ma anche impostando i suoi interventi sotto forma di dialogo, facendo eco alle domande dei contemporanei. Mi sembra una caratteristica dell’intelligenza di Ratzinger per la visione della Chiesa in rapporto al mondo di oggi. 

Così facendo ha letto in maniera originale anche certe categorie culturali: ha parlato di «ecologia dell’uomo», di «laicità positiva»...
Ecco, questo è un esempio interessante: la laicità positiva. Benedetto XVI in Francia, nel cuore della tradizione che sembrerebbe più ostile al cristianesimo in Europa, rivendica la laicità dello Stato e la giusta separazione tra Stato e Chiesa richiamando, però, una nuova fase in cui si vada oltre lo steccato della contrapposizione. Insomma, apre il dialogo su una delle questioni basilari della civiltà europea. Altro esempio: la scienza. Già da teologo Ratzinger ha avuto la sensibilità di guardare a quel mondo poggiando su una convinzione: il reale è intelligibile. Questo apre a uno sguardo di fiducia sulla scienza e sul lavoro degli scienziati, dà un grande credito al loro contributo di conoscenza della realtà. E permette di affrontare in modo nuovo un altro punto importante nel rapporto con la modernità. 

Man mano è diventato sempre più evidente che parte essenziale del magistero di Benedetto XVI era proprio la sua testimonianza personale. In qualche modo ha mostrato anche con la vita la verità di ciò che indicava nell’insegnamento: il momento della rinuncia, in questo senso, è stato imponente, ma ho presente anche occasioni come la Gmg di Madrid, o l’atteggiamento davanti alle vittime della pedofilia... Quanto è stato importante questo aspetto? Quanto il Papa ci ha aiutato a capire che il cristianesimo è anzitutto qualcosa che accade e si conosce per testimonianza?
È decisivo. Nei suoi confronti c’era - e per tanti versi permane - un cliché: «È un Papa teologo, un professore». È vero. È un grandissimo teologo e professore, ma lo è in forza della sua capacità testimoniale. È un testimone di Cristo. Lo è sempre stato. A leggere le sue opere teologiche, a seguire le sue interviste, si scioglie l’immagine del Panzerkardinal (non dimentichiamo cosa sono stati gli insulti contro il Ratzinger cardinale...); ci si è accorti che sia da Papa che prima è stato sempre molto libero. Nel libro su Gesù di Nazaret ci consegna una sua riflessione essenziale, quasi una sorta di testamento dottrinale. E la inizia dicendo che si sottopone alla libera discussione, perché questo libro non è un gesto magisteriale in senso proprio. Ecco, a mio parere in quel gesto forza testimoniale e contenuto coincidono. Il libro comunica in maniera molto forte il fatto che la fede in Cristo è il punto di partenza e di destinazione dell’intera esistenza, e ne presenta le ragioni per una discussione aperta. 

È stato veramente un «umile operaio nella vigna del Signore», quindi.
Sì. In Benedetto XVI le parole e i gesti si accompagnano. Anche quando ci sono state fatiche non piccole, o addirittura difficoltà molto gravi, se n’è fatto carico in prima persona: pensiamo ai casi di pedofilia, alle polemiche sui lefebvriani. Ha preso iniziativa scrivendo ai Vescovi, giudicando, riconoscendo gli errori commessi. Se da una parte corregge e giudica, offrendone le ragioni, dall’altra accetta il dialogo e le riflessioni che gli vengono proposte. 

In che cosa è cambiata la Chiesa in questi otto anni?
Di sicuro è una Chiesa che è stata aiutata a riconoscere l’essenziale della fede e a comunicarla a tutti.

E lo sta facendo? Insomma, quanto ha inciso davvero il magistero di Benedetto XVI sulla Chiesa e sul mondo?
Ha inciso profondamente, a mio parere, anche se c’è ancora molto da assimilare nella vita della Chiesa. Questo Papa si è esposto, sia ad intra che ad extra. Dovunque si è messo davanti a tutti, ha ottenuto di fatto l’allargamento della ragione: chi ascoltava e si paragonava, scopriva domande e poteva accogliere le evidenze della ragione e la certezza della fede. C’è ancora una lunga strada per far passare nel tessuto ecclesiale questo atteggiamento. Così come c’è tanto da fare per approfondire altri punti decisivi della sua riflessione. Pensiamo alla sua preoccupazione sulla vera interpretazione del Concilio Vaticano II, un aspetto magari meno immediato per la gente comune, ma che per la vita della Chiesa è di grande trascendenza. Il Papa lega l’interpretazione a questa intelligenza profonda della tradizione cristiana, che è sempre in grado di riformarsi nella continuità del soggetto-Chiesa. Anche su questo dovremo riflettere molto. 

E fuori dalla Chiesa? 
Per fare soltanto un caso, nel volume Dio salvi la ragione (Cantagalli; ndr) si vede come il Papa di fatto, grazie al suo discorso di Regensburg, ottiene da André Glucksmann, da Joseph Weiler, da Gustavo Bueno, da alcuni grandi nomi della scena occidentale una risposta che riapre delle posizioni. Incide, insomma. Ma è un piccolo esempio di una dinamica che si è vista spesso, in questi anni. Pensiamo alla visita in Inghilterra. In una società che poteva avere tutti i pregiudizi possibili verso il Papa di Roma, lui riesce a generare un atteggiamento che David Cameron, il premier, ha sintetizzato bene: «Ha sfidato l’intero Paese a sedersi e pensare». E potremmo dire qualcosa di simile anche per le visite in Francia, all’Onu, nella Repubblica ceca... O per l’impatto delle Gmg.

Lei c’era a Madrid...
Sì, e anche lì ho visto superare uno stereotipo: «È un Papa anziano, che non sa incontrare i giovani». Invece si è visto un Pontefice che ha fatto dei gesti essenziali, centrati tutti sui misteri nucleari della fede: l’Eucaristia, la Croce, l’annuncio di Gesù a tutti, la carità. E che, così facendo, non solo ha trascinato una folla come non si era mai vista a Madrid, ma ha ottenuto dai ragazzi una serietà e una profondità che a volte neanche loro riconoscono a se stessi.

Quanto è rimasto di quell’incontro dopo?
Ho visto persone che hanno riscoperto la fede o hanno scoperto la vocazione. O rapporti con autorità civili e realtà sociali che si sono aperti grazie a quei giorni e lo sono rimasti. Dopo lo tsunami della folla, ovviamente, tutto rifluisce un po’. Ma ci sono molte persone a tutti i livelli per cui quella Gmg è stata un punto di svolta.

C’è un elemento potente di quei giorni, che ritroviamo in altri momenti o nelle stesse catechesi di quest’Anno della Fede: Benedetto XVI valorizza molto l’aspetto affettivo, il desiderio, ma lo fa sottolineandone sempre il legame intrinseco con la ragione, l’unità dell’io. Quanto è stata importante questa «ricentratura»? E come aiuta a sottrarre la fede al terreno del sentimentalismo? 
È vero, il papa Ratzinger valorizza molto anche questo aspetto. Nelle encicliche, per esempio, affezione e desiderio sono un fattore portante: ragione e libertà sono tenuti come un valore, come un bene. Già nella Deus caritas est Benedetto XVI fa un percorso che parte dalla dinamica dell’eros, e quindi del desiderio affettivo, senza contrapporlo all’agape, alla carità. Sono testi di una ricchezza eccezionale. Ma anche nel messaggio indirizzato al Meeting 2012 c’è una valorizzazione della dinamica del desiderio proprio perché intimamente legato alle domande ultime della ragione. Per questo non è un impeto sentimentale: ha a che fare con la piena intelligenza del reale, e non solo con l’inclinazione o la pulsione.

Accanto al richiamo ad «uscire dal bunker» e «allargare la ragione» c’è stata pure un’insistenza continua sulla «gioia e la bellezza» dell’essere cristiani. Una «convenienza umana» totale, insomma. Anche qui, che novità ha portato il suo magistero? 
Ci sarebbe molto da dire. Penso agli incontri con gli artisti. O alle sue parole alla Scala. Ma teniamo solo un esempio che ho visto da vicino: la sua interpretazione della Sagrada Família, a Barcellona. In quell’occasione il Papa ha fatto una catechesi sulla bellezza che indica ancora una volta una sensibilità imprescindibile per il cristianesimo in Europa: nel cammino dell’uomo, Dio emerge come la fonte di questa bellezza, così come lo è del bene e della verità. Il fascino che genera un’attrattiva resta il fattore iniziale della comunicazione della fede.

E il rapporto con Cl? Joseph Ratzinger era molto amico di don Giussani, e si sa. Ma il modo in cui il suo magistero ci sta aiutando ad approfondire anche il carisma di Giussani è addirittura commovente...
Chi è educato da don Giussani trova una sintonia, un’affinità con questo Papa che glielo rende molto familiare. Grazie al carisma risulta possibile condividere e amare le sue proposte secondo una sintonia di cui lo stesso Ratzinger parlò nell’omelia del funerale di don Giussani e di cui ha riparlato proprio poche settimane fa, nell’udienza alla Fraternità San Carlo Borromeo. Questa familiarità è una grazia nella grazia. Non si può che riconoscerla con gratitudine e stupore. 

Stupisce anche come persino nel gesto della rinuncia ci sia qualcosa che ci fa capire meglio alcuni punti su cui abbiamo lavorato molto negli ultimi tempi: il richiamo che «a nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato», come diceva don Giussani; la supremazia della testimonianza e non del potere; il fatto che le circostanze sono «un fattore decisivo e non secondario» nella vocazione personale... Sono cose che abbiamo visto incarnate in maniera potentissima e al massimo livello nel Papa. 
Anche con la rinuncia, a mio parere, Benedetto XVI ha fatto un gesto di amore a Cristo e di fiducia in Dio in atto. Dio è reale, è tanto reale che può guidare la Chiesa con l’assistenza dello Spirito. È vero, ci fa vedere bene che «a nulla fuorché a Gesù» vale la pena di attaccarsi. E per via della sua testimonianza siamo costretti a prendere posizione in modo tale che possa crescere la nostra fede. Non ci ha soltanto spiegato la fede: l’ha fatta accadere. E poi l’ha anche spiegata, egregiamente.












Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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28/01/2014 18:31
 
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  Sul web l’invito a celebrare con la preghiera il primo anniversario di fine pontificato di papa Ratzinger

MICHELANGELO NASCA  da vaticaninsider

Per celebrare il primo anniversario della conclusione del pontificato di Papa Benedetto XVI (28 febbraio 2013-2014), il blog “La Vigna del Signore” ha lanciato – attraverso i canali di Facebook – una interessante iniziativa: una “Giornata di preghiera per Benedetto, con Benedetto”. E’ un modo – spiegano gli organizzatori – per ricordare e celebrare la storica rinuncia al ministero petrino di Papa Ratzinger, pregando con e per Benedetto.

Chiunque potrà prendere parte alla preghiera in qualsiasi momento della giornata (28 febbraio prossimo): offrendo una particolare intenzione per il Pontefice emerito, partecipando alla celebrazione eucaristica nella propria parrocchia, fermandosi per una breve preghiera personale, oppure scegliendo uno dei momenti in cui Benedetto XVI è solito fermarsi a pregare durante il giorno (7.00 Santa Messa / 7.30 Lodi Mattutine, Ufficio delle Letture e Ora Media / 12.00 Angelus e Ora Media / 15.00 Ora Media Rosario / 18.00-19.00 Vespri / 22.30 Compieta), per condividere interiormente – in comunione con il Papa emerito – un momento di orazione ecclesiale. Inoltre – spiegano gli organizzatori di questa iniziativa – “verrà preparato un opuscolo (scaricabile online) con i testi di tutte le preghiere del giorno, insieme a una speciale recita del Rosario, con le meditazioni sui misteri tratte dal Magistero di Benedetto XVI”.

“I signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”, aveva detto Benedetto XVI nel corso del suo primo saluto da Pontefice, il 19 aprile 2005. Otto anni dopo, dalla loggia centrale del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il 28 febbraio 2013, Papa Ratzinger si congedava dalla folla di fedeli con queste parole: “Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia”.

Il Papa teologo sceglieva così – come dimora permanente, in questa ultima tappa del suo pellegrinaggio sulla terra – la preghiera e la meditazione. “Il Signore mi chiama a «salire sul monte», a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”.

La storica data del 28 febbraio – che rendeva esecutiva la rinuncia al ministero petrino annunciata da Benedetto XVI l’11 febbraio 2013 – sembrava destinata al triste ricordo di un pontificato interrotto. Oggi, anche se è appena trascorso un anno, con un senno di poi consapevole e maturo, guardiamo a questo particolare evento con maggiore serenità e in spirito di cristiana obbedienza alla volontà di Dio.

A pochi giorni dal congedo, incontrando i parroci e il clero romano, Benedetto XVI, il 14 febbraio 2013 aveva detto: “Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto”.


    


 OTTIMA INIZIATIVA DI La Vigna del Signore per ricordare non "un evento storico" ma .....

per pregare davvero con Benedetto XVI e per lui, 

scaricate qui il pdf che contiene sia il Breviaro quanto la Messa..... 

approfittiamone!!


http://pastelink.me/dl/af1406#sthash.rQwah0al.dpuf



    






      

 

 

Fraternamente CaterinaLD

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30/01/2014 23:46
 
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[SM=g1740722] C'è l'imbarazzo della scelta nel preparare un video che possa soddisfare le migliaia di fedeli che ci terrebbero a dire a Benedetto XVI: grazie! Siamo davvero con Te, nella vigna del Signore!
Noi ci abbiamo provato con un video anche karaoke con l'Inno che i fedeli del Mexico fecero in occasione della visita del Papa nel 2012.
Un piccolo omaggio, ma fatto col cuore, per sentirci uniti al più grande Dottore della Chiesa, vivente, del nostro tempo.

it.gloria.tv/?media=563533

Cuando todo es gris y obscuro /cuando ya no encuentro el rumbo / y en mi mundo sólo hay soledad.
Apareces en mi vida / como un faro que me guía / ilumina todo mi interior.
Te vuelves el viento / bajo mis alas / eres un sendero /de luz y verdad.

Mensajero de paz / mensajero de amor / que le das esperanza a mi corazón
este pueblo te es fiel / nos devuelves la fe / que llevamos en el alma / compartimos tu luz.

Junto a ti no existe el miedo / ni tristezas ni lamentos / tu mirada llena de ilusión.
Vas a sembrando la alegría / vas tocando cada vida / con tu amor te llevas el dolor.
Te vuelves el viento / bajo mis alas / eres un sendero / de luz y verdad.

Mensajero de paz / mensajero de amor / que le das esperanza a mi corazón
este pueblo te es fiel / nos devuelves la fe / que llevamos en el alma / compartimos tu luz.

Mensajero de paz / mensajero de fe / tu palabra es el agua que calma mi sed,
un amigo que es fiel / nos devuelves la fe / que llevamos en el alma / mensajero de amor.
Queremos tu bendición / que nos inunde de amor / por un mundo mejor.
No más violencia / ni odio ni guerra, ya no / sólo amor.

Mensajero de paz / mensajero de amor / que le das esperanza a mi corazón
este pueblo te es fiel / nos devuelves la fe / que llevamos en el alma / compartimos tu luz.

Mensajero de paz / mensajero de fe / tu palabra es el agua que calma mi sed,
un amigo que es fiel / nos devuelves la fe / que llevamos en el alma / mensajero de amor.

Mensajero de amor.

***************


Quando tutto è grigio e buio / quando non trovo più la rotta / e nel mio mondo c'è solo solitudine.
Ti presenti nella mia vita / come un faro che mi guida / illumina tutto il mio interiore.
Diventi il vento / sotto le mie ali / sei un sentiero / di luce e verità.

Messaggero di pace / messaggero d'amore / che dai speranza al mio cuore
questo popolo ti è fedele /ci ridai la fede / che portiamo nella nostra anima / condividiamo la tua luce.

Con te non c'è paura / né rimpianti né dispiaceri / il tuo sguardo pieno di speranza.
Stai seminando la gioia / stai toccando ogni vita / con il tuo amore ti porti via il dolore.
Diventi il vento/ sotto le mie ali / sei un sentiero / di luce e verità.

Messaggero di pace / messaggero d'amore / che dai speranza al mio cuore
questo popolo ti è fedele / ci ridai la fede / che portiamo nella nostra anima / condividiamo la tua luce.

Messaggero di pace / messaggero di fede / la tua parola è l'acqua che calma la mia sete,
un amico che è fedele / ci ridai la fede / che portiamo nella nostra anima / messaggero d'amore.
Vogliamo la tua benedizione / che ci inondi d'amore / per un mondo migliore.
Non più violenza / né l'odio né guerra, non più / solo l'amore.

Messaggero di pace / messaggero d'amore / che dai speranza al mio cuore
questo popolo ti è fedele / ci ridai la fede / che portiamo nella nostra anima / condividiamo la tua luce.

Messaggero di pace / messaggero di fede / la tua parola è l'acqua che calma la mia sete,
un amico che è fedele / ci ridai la fede / che portiamo nella nostra anima / messaggero d'amore.

Messaggero d'amore.






[SM=g1740717]



[SM=g1740738]


[Modificato da Caterina63 31/01/2014 11:23]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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04/02/2014 10:18
 
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[SM=g1740717] [SM=g27998] Vesti Papali ha aperto un canale attraverso il quale condividere un servizio alla Bellezza non certamente intesa all'esteriorità, quanto appunto al servizio attraverso, anche, la tradizione di un vestiario liturgico (e non) papale, che possa condurci all'abbraccio del sacro e del ruolo petrino nel mondo.

"La fede cristiana non è un'idea, bensì vita; non è spirito a sè stante, bensì incarnazione, spirito nel corpo della storia e del suo "noi". Non è una mistica dell'auto-identificazione dello spirito con Dio, bensì obbedienza e servizio totalmente gratuito; autosuperamento, liberazione dell'io proprio tramite la dimensione del porsi al servizio, grazie al non fatto e non pensato da me; divenire veramente liberi attraverso la disponibilità al servizio della vera Bellezza, dell'unica Verità, a vantaggio di tutti e in questo modo amare davvero il nostro prossimo come Cristo ci ha comandato".
(J.Ratzinger - Introduzione al cristianesimo)

gloria.tv/?media=565916





[SM=g1740735] [SM=g27998]


[SM=g1740738]


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(la foto non è un fotomontaggio!! in quell'11 febbraio 2013, dopo alcune ore dal drammatico comunicato ufficiale di Benedetto XVI, un fulmine passò alla storia descrivendo, insieme all'attrattiva del fenomeno, quel senso burrascoso di molti animi, dopo aver appreso la triste notizia... e non è senza una ragione escatologica che si usa la stessa immagine per cercare di comprendere lo stato stesso in cui si trova la Chiesa al suo interno..... )


  Intervista con Giovanna Chirri, la vaticanista dell’ANSA che per prima diede la notizia delle dimissioni di Ratzinger

GIACOMO GALEAZZI CITTÀ DEL VATICANO

 

Com’è cambiata la sua vita dopo lo scoop mondiale della rinuncia di Ratzinger?

«In questo vortice inatteso di celebrità planetaria, mi riesce difficile far capire soprattutto ai colleghi di altri paesi che non c’è stato alcun briefing e che la notizia l’ho data applicando le vecchie regole della professione di vaticanista. E cioè seguendo un evento di scarsissima presa mediatica com’era il concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto. Nella lingua e con i codici della Chiesa, racchiudeva un annuncio sconvolgente. Da cronista l’ho raccontato». 

Quando se ne è accorta?

«Ratzinger disse che stava diventando vecchio: “Ingravescente aetate”. A queste parole è come se una mano mi afferrasse la gola e mi si gonfiasse un palloncino dentro la testa». La «Ingravescentem aetatem» è il documento con cui Paolo VI tolse ai cardinali ultraottantenni il diritto di eleggere i papi, sono le parole per il pensionamento. Benedetto XVI continua a parlare nel suo latino che per fortuna mi suona comprensibile. Dice di non aver più le forze per governare la barca di Pietro in un mondo sempre più veloce. Spiega che in coscienza ha deciso di lasciare, che i cardinali dovranno tenere un conclave per l’elezione del successore e stabilisce l’inizio della sede vacante alle 20 del 28 febbraio. Io sento ma è come se non sentissi, continua a mancarmi il fiato e le gambe mi tremano da seduta, la sinistra non riesco a tenerla ferma. Comincio a telefonare a raffica cercando aiuto e conferme. In Vaticano tutti avevano altro a che pensare, nessuno mi risponde». 

Cosa ha provato?

«Una sensazione di terrore. telefono al portavoce vaticano Lombardi: “Padre Federico - gli faccio - ho capito bene? Il Papa si è dimesso?”. «Hai capito bene - mi dice con tono molto sereno - va via dal 28 febbraio». Nella concitazione attacco il telefono credo senza neppure salutare, «vai, trasmettiamo», dico alla collega, e dopo pochi secondi il flash è sulla rete dell’Ansa, e la notizia viene rilanciata subito dalle grandi agenzie internazionali. A questo punto scoppio a piangere e tra un singhiozzo e l’altro scrivo qualche altro dettaglio su come è uscita la notizia». 

 




Il nostro ricordo si avvale dello scritto ( che ho tratto da due blog ) di una fedele e di un Sacerdote.
 
La fedele ha scritto :
 “Papa Benedetto ci ha detto quel che dovevamo sapere, ho sofferto per la sua decisione, ancora oggi considero che la situazione è anomala e mi rifiuto di banalizzarla, malgrado tutto il mio affetto per lui, vedere le foto con i "due Papi" non mi provoca nessuna gioia ma un vero disagio.
Non ho nessuna remore a dire che se la mia mente sa che Jorge Bergoglio è il Papa, nel mio cuore Benedetto XVI resterà il Papa, colui grazie al quale sono "rientrata"nel gregge.
Pur consapevole delle condizioni nelle quali è stato portato a prendere quella decisione, che lui stesso ha definito grave, e del fatto che anche se ci fossero stati scenari tali quelli che sono evocati, la verità non la sapremo mai, e in ogni caso mai dalla bocca di Benedetto XVI, considero vani e sterili certi logorroici tentativi di dire e non dire, di dire ma non tutto, di insinuare senza prove.
 
Che Papa Benedetto fosse sfinito, lo abbiamo visto, che abbia dovuto regnare contrastato da coloro che gli remavano contro, lo sappiamo, che sia stato tradito, pugnalato nella schiena, che abbia dovuto affrontare tutti gli scandali messi sotto il tappeto da chi c`era prima di lui e che sono, guarda caso, scoppiati con il suo Pontificato, non è un segreto, che tradimenti, opposizioni, ribellioni, lo abbiano colpito fisicamente e moralmente lo abbiamo visto, che non si sia più sentito, visto la vastità della crisi e dell`anarchia del clero, e le sfide che la società impone, di affrontarli lo abbiamo capito.
Di questo dovremmo, a mio avviso, tener conto senza avventurarci in scenari difantareligione che non ci portano serenità in questi tempi di confusione e incertezza.
 
Dicendo questo non faccio lo struzzo, tante domande me le son poste e me le pongo anch`io, le affermazioni di Romeo non le ho dimenticate, non ignoro le reazioni sideranti e giubilatorie, all`elezione di Bergoglio, di chi lo aveva contrastato, ma non solo, assisto sgomenta alla totale mancanza di rispetto nei suoi riguardi, troppi parlano, scrivono e si comportanto come se il suo solo merito sia stato quello di ritirarsi.
È un brutto spettacolo.
È abbastanza brutto senza aggiungerci elementi non verificabili e fonte di altra agitazione e inquietudine ".

 

Un Sacerdote a commento di un intervento che etichettava come un “tradimento “ l’abdicazione di Papa Benedetto XVI ha scritto :
“ Il tuo commento prende una deviazione pericolosa quando parli di tradimento.
Ipotizzando che abbia lasciato perché i suoi anni, più vicini ai 90 che agli 80, non gli consentono di essere a capo della Chiesa senza che qualcosa sfugga al suo controllo, se per l'età o per qualche malattia avesse avuto bisogno che qualcuno si sostituisse di fatto a lui, di chi sarebbe stata la responsabilità delle scelte prese a nome suo senza che lui ne fosse pienamente cosciente? 
Vogliamo ricordare i continui boicottaggi che ha comunque subito? 
Il M.P. Summorum Pontificum osteggiato, pedofilia coperta nonostante le disposizioni, per non parlare di altre decisioni non rispettate né fatte rispettare ed iniziative prese a suo nome ed alle sue spalle che non specifico meglio per non attirare i soliti troll. 
Per quanto i più si siano rallegrati di essersi liberati di quello che dal principio hanno nominato "pastore tedesco", producendosi in falsi elogi, la sua rinuncia, anche se dolorosa per chi lo ha amato, rappresenta un atto di responsabilità nei confronti della Chiesa. 
Lui si è preso tutto il marcio di cui non era responsabile e ci ha messo la sua faccia, quello che di buono ha fatto non è stato mai diffuso, i media gli hanno praticamente solo creato problemi. 
Ma cosa avresti pensato se ad un certo punto della sua vita non fosse stato più in grado di capire e se qualcun altro avesse traghettato la Chiesa a nome suo dove lui non avrebbe mai voluto? 
Io piango dall'anno scorso per questa scelta, ma restare sulla croce non significa prendersi la responsabilità di guidare la Chiesa anche se la salute e le forze ti abbandonano e sai che da un momento all'altro non potresti esserne più in grado, con la conseguenza di lasciare la guida ai collaboratori. Giovanni Paolo II comunque aveva almeno lui ( il Card. Joseph Ratzinger N.d.R) , ma lui chi avrebbe avuto?
Visto che gli sono stati tanto fedeli fino a 86 anni, certamente avvicinandosi ai 90, con le forze che vengono meno e il rischio di perdere la lucidità, sarebbe stato meglio continuare a regnare lasciando la Chiesa esposta al rischio di venire guidata dalla Curia e non dal Papa. 
Le crocifissioni del Papa, ripetute, puoi vederle nel pontificato ed il tesoro che ha lasciato per la nostra formazione puoi liberamente consultarlo online o comprarlo in libreria”.

Confidiamo sempre , anche nei tempi bui in cui stiamo vivendo, nella protezione maternamente premurosa della Madonna Santissima " ipsa conteret caput tuum ".
Quando il serpente fece peccare Adamo ed Eva, Dio maledisse il serpente e disse: " una donna (la Madonna) schiaccerà il tuo capo; essendo Madre del vero Dio darà alla luce il Redentore, il quale, con la sua morte in Croce, ridarà la grazia e la salvezza agli uomini ".








 

P. Lombardi: Benedetto XVI vive il tempo della preghiera, la sua rinuncia ha inciso nella storia della Chiesa



Ricorre domani il primo anniversario della rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI. Un gesto epocale che fu accolto con immensa sorpresa in tutto il mondo e non solo nella Chiesa. Al momento della rinuncia, del resto, molti osservatori ammisero che non si era preparati ad una decisione di tale portata. Per una riflessione sulla rinuncia di Papa Benedetto, un anno dopo, Alessandro Gisotti ha intervistato padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana e della nostra emittente: RealAudioMP3 


R. – Erano secoli che non si aveva una rinuncia da parte di un Papa e quindi per la grandissima maggioranza delle persone si trattava di un gesto inusitato e sorprendente. In realtà, per chi accompagnava più da vicino Benedetto XVI, si era capito che aveva una riflessione su questo tema, e lo aveva detto già esplicitamente nella sua conversazione con Peter Seewald, qualche tempo prima – diverso tempo prima. 
E quindi, era un tema su cui egli pregava, rifletteva valutava, faceva un suo discernimento spirituale. E’ quello di cui ci ha dato poi atto e ci ha dato come un rapporto sintetico nel giorno della sua rinuncia, in quelle parole brevi ma densissime che spiegavano in modo assolutamente adeguato e chiaro i criteri in base a cui aveva preso la sua decisione. Quello che io dico – e ho detto già allora – è che mi sembrava un grande atto di governo, cioè una decisione presa liberamente che incide veramente nella situazione e nella Storia della Chiesa. 
In questo senso è un grande atto di governo, fatto con una grande profondità spirituale, una grande preparazione dal punto di vista della riflessione e della preghiera; un grande coraggio perché, effettivamente, trattandosi di una decisione inusitata, potevano esserci tutti i problemi o i dubbi sul “che cosa” avrebbe significato, come riflessi, come conseguenze per il futuro, come ricezione da parte del popolo di Dio o del pubblico. 
La chiarezza con cui Benedetto XVI si era preparato a questo gesto e, direi, la fede con cui si era preparato, gli ha dato la serenità e la forza necessaria per attuarla, andando con coraggio e con serenità, con una visione veramente di fede e di attesa del Signore che accompagna continuamente la sua Chiesa, incontro a questa situazione nuova che egli ha vissuto in prima persona, per diverse settimane, e poi la Chiesa ha vissuto con l’avvicendamento e l’elezione del nuovo Papa, come tutti sappiamo. Ecco: quindi, si è verificato in pieno questo senso di accompagnamento della Chiesa in cammino da parte dello Spirito del Signore.

D. – Proprio riguardo a questo ultimo passaggio: in molti, un anno fa, si chiedevano come sarebbe stata l’inedita convivenza tra due Papi. Oggi si vede che tante paure – forse più degli “esperti” che del popolo di Dio – erano esagerate …

R. – Sì … da questo punto di vista, a me sembrava assolutamente chiaro che non ci fosse da avere assolutamente nessun timore. Perché? Perché la questione è quella del fatto che il papato è un servizio e non è un potere. Se si vivono i problemi in chiave di potere, allora è chiaro che due persone possono avere difficoltà a convivere perché può essere difficile il fatto di rinunciare ad un potere e convivere con il successore. Ma se si vive tutto esclusivamente come servizio, allora una persona che ha compiuto il suo servizio davanti a Dio e in piena coscienza passa il testimone di questo servizio ad un’altra persone che con atteggiamento di servizio e di piena libertà di coscienza svolge questo compito, allora il problema non si pone assolutamente! C’è una solidarietà spirituale profonda fra i Servitori di Dio che cercano il bene del popolo di Dio nel servizio del Signore.

D. – Papa Benedetto si è congedato sottolineando che avrebbe continuato a servire la Chiesa con la preghiera: questo è un contributo realmente straordinario che ha dato, e sta dando ancora, vero?

R. – Sì … un piccolissimo ricordo personale: soprattutto nei primi tempi del Pontificato, ogni volta che c’era un’udienza e io passavo a salutare il Papa, come abituale mi dava un Rosario, perché succede spesso che si dia un’immagine, un Rosario, una medaglia … E ogni volta che il Papa mi dava un Rosario diceva: “Anche i preti devono ricordarsi di pregare”. Ecco, questo non l’ho mai dimenticato, perché manifestava così, in un modo molto semplice, la sua convinzione e la sua attenzione al posto della preghiera nella nostra vita, anche e in particolare nella vita di chi ha compiti di responsabilità nel servizio del Signore. Ecco, Benedetto XVI certamente è stato sempre un uomo di preghiera, in tutta la sua vita, e desiderava – probabilmente – avere un tempo in cui vivere questa dimensione della preghiera con più spazio, totalità e profondità. E questo è adesso il suo tempo.

D. – D’altro canto, la vita di preghiera di Papa Benedetto non manca di avere momenti di incontro, anche con Papa Francesco, come sappiamo. Cosa può dire su questa dimensione di vita nascosta, ma non isolata, di Joseph Ratzinger?

R. – Credo che sia giusto rendersi conto che vive in un modo discreto, senza una dimensione pubblica; ma questo non vuol dire che viva isolato, chiuso come in una clausura stretta. Svolge un’attività normale per una persona anziana – una persona anziana religiosa: quindi, una vita di preghiera, di riflessione, di lettura, di scrittura nel senso che risponde alla corrispondenza che riceve; di colloqui, di incontri con persone che gli sono vicine, che incontra volentieri, con cui ritiene utile avere un dialogo, che gli chiedono consiglio o vicinanza spirituale. 
Ecco, quindi: la vita di una persona ricca spiritualmente, di grande esperienza, in un rapporto discreto con gli altri … Quello che non c’è è la dimensione pubblica a cui eravamo abituati, essendo il Papa, e quindi era sempre sui teleschermi, davanti all’attenzione di tutto il mondo. Questo non c’è; ma per il resto, è una vita normale di rapporti. E tra questi rapporti, c’è il rapporto con il suo successore, il rapporto con Papa Francesco che, come sappiamo, ha dei momenti anche di incontro personale, di dialogo … uno è andato a casa dell’altro e viceversa. E poi ci sono le altre forme di contatto che possono essere il telefono o i messaggi che vengono mandati: una situazione di rapporto del tutto normale, direi, e di solidarietà. Mi pare che sia molto bello per noi, quando abbiamo quelle rare immagini dei due Papi insieme e che pregano insieme – il Papa attuale e il Papa emerito: è un segno molto bello e incoraggiante, della continuità del ministero petrino nel servizio della Chiesa.

D. – Da ultimo: padre Lombardi, lei ha seguito Benedetto XVI per tutti gli anni del suo Pontificato. Cosa Papa Benedetto le sta dando ora, personalmente, spiritualmente, dall’11 febbraio scorso?

R. – Ma, io sento molto la presenza di Papa Benedetto XVI, come una presenza spirituale forte che accompagna, che rasserena … Io penso alle grandi figure degli anziani della Storia della Chiesa e della Storia sacra; in particolare, tutti pensiamo – per esempio – a Simeone, che accoglie nel Tempio Gesù e che guarda con gioia anche al suo destino eterno e anche al futuro della comunità che continua a camminare su questa terra. Ecco, tutti noi sappiamo il grandissimo valore di avere con noi gli anziani, anziani ricchi di saggezza, ricchi di fede, sereni: sono veramente un grandissimo aiuto per chi è più giovane, per andare avanti guardando con fiducia e con speranza al futuro. Questo è per me – e credo per la Chiesa – Benedetto XVI: il Grande Anziano, saggio, diciamo pure: santo, che ci invita con serenità – perché è anche bello, quando lo si vede: dà veramente un’impressione di grande serenità spirituale. Ha conservato il suo sorriso che ci era abituale, nei momenti belli in cui lo incontravamo – e che ci invita quindi ad andare avanti nel cammino, con fiducia e con speranza.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/02/10/p._lombardi:_benedetto_xvi_vive_il_tempo_della_preghiera,_la_sua/it1-771770 
del sito Radio Vaticana 







[Modificato da Caterina63 10/02/2014 11:25]
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MONSIGNOR GEORG RACCONTA: 

COSÌ BENEDETTO XVI DECISE DI RINUNCIARE AL PAPATO

10/02/2014  Per la prima volta il segretario dei due Papi racconta quei giorni drammatici. "Per me", dice, "fu come una coltellata".




L’orologio batte le cinque, nel cortile di San Damaso, in Vaticano. «Sono puntuale!», esclama ridendo monsignor Georg Gänswein. Di ritorno dalla passeggiata con papa Benedetto, borsa nera e passo spedito, il prefetto della Casa pontificia, comincia a parlare prima ancora di arrivare nelle stanze del suo ufficio.  «Il Papa emerito sta bene, l’ho lasciato proprio adesso. Abbiamo pregato insieme il rosario».

Il “segretario dei due Papi” fa la spola tra «due personalità diverse, due modi diversi di fare, ma adesso credo nel frattempo di aver trovato la bussola per fare bene quello che devo fare. La difficoltà più grande? Non poter chiedere al mio predecessore. Nessuno si è trovato prima in una situazione del genere».   

Siamo a un anno dalla rinuncia di papa Benedetto al Pontificato. Lei era stato avvertito molti mesi prima? 
«Sì, naturalmente sotto il segreto pontificio. Mi ha detto che non potevo parlarne con nessuno finché lui stesso non avrebbe comunicato la decisione. Ho mantenuto il segreto anche se non è stato facile. Per me è stata come una coltellata, ho sentito un grande dolore».   

Ha tentato di dissuaderlo? 
«Istintivamente ho detto “no, Santo Padre, non è possibile”, ma poi ho subito capito che non mi stava comunicando qualcosa di cui discutere, ma una decisione già presa. Da allora ho cercato di alleviare le pressioni esterne, di diradare i suoi impegni perché potesse concentrarsi sul magistero».   


Hanno influito sulla sua decisione i vari scandali, Vatileaks, per esempio? 
«No, per niente. Tutto ciò che è conosciuto come Vatileaks non ha per niente condizionato né tantomeno causato la rinuncia. E neppure la vicenda della pedofilia. Non dobbiamo dimenticare che la rinuncia non era una fuga. Il Papa non è fuggito da una responsabilità, ma è stato coraggioso perché si è detto: “Io non ho più le forze che sono necessarie in questo momento e allora ridò la responsabilità a Colui che me l'ha data, al Signore”».  

Però è indubbio che alcuni scandali hanno pesato sulle forze del Papa. 
«Posso dire che, per quanto riguarda per esempio la pedofilia, un giorno, quando si scriverà la storia su come i vescovi, i cardinali, la Santa Sede hanno reagito, lì si vedrà che la prima persona in Vaticano che ha risposto in modo giusto e coraggioso, e non sempre ascoltato, è stato lui. Ciò che ha cominciato da cardinale-Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ha continuato sistematicamente da Papa fino al momento della rinuncia. Chi dice che non è vero, o non sa o non vuole sapere, o non gli interessa la verità storica». 

E per quanto riguarda la vicenda del maggiordomo che trafugava le sue carte? 
«È chiaro che è stata umanamente una grande amarezza. Paolo Gabriele ha vissuto proprio nella famiglia pontificia, tutti i giorni, per anni. Quella vicenda è stata dolorosa, per il Papa, per me, ma anche per tutta la famiglia pontificia. Sappiamo che Papa Benedetto, però, alla fine del 2012, prima di Natale lo ha visitato in cella e lo ha perdonato. E con questo atto di perdono per il Papa la vicenda del maggiordomo si è chiusa». 

Guardando a ciò che sta succedendo nella Chiesa dopo l’elezione di papa Francesco, qual è lo stato d’animo di Benedetto? 
«È molto sereno e in pace con se stesso. Durante il suo Pontificato ci sono state delle sfide non facili che hanno richiesto molta forza. Adesso, da Papa emerito, segue tutto attentamente, ma non avendo più la responsabilità istituzionale, è molto più rilassato». 

Si sente con papa Francesco, gli dà dei consigli? 
«Non è un segreto che fra i due Papi c’è una buona relazione. Si parlano, si scrivono, si telefonano… Quello che si dicono faccia a faccia non posso saperlo. Ci sono state diverse visite di papa Francesco da noi, al monastero Mater Ecclesiae, e anche papa Benedetto è stato invitato a Santa Marta, da papa Francesco».   

È una sintonia che è nata subito, già la sera dell’elezione di papa Francesco? 
«La sera del 13 marzo, dopo l’elezione, anch’io ero nella cappella Sistina per salutare il nuovo Papa e per promettergli obbedienza. E, subito, papa Francesco mi ha chiesto di Papa Benedetto e detto di volergli telefonare. Io stesso ho fatto il numero di telefono e gliel’ho passato. E dieci giorni dopo l’elezione, il 23 marzo, papa Francesco è andato di persona a Castel Gandolfo per visitare il suo predecessore. C’è un rapporto molto cordiale e di affetto tra due persone che non si erano molto frequentate prima».   

Lei che lo conosce bene. Cosa ha pensato papa Benedetto dell’elezione di papa Francesco? 
«Papa Benedetto ha seguito la fumata bianca, cioè l’elezione del suo successore alla televisione a Castel Gandolfo. In quel momento io non ero lì, ma ero nel Palazzo Apostolico in Vaticano, perciò non so qual è stata la sua prima reazione. Certamente era sorpreso del fatto che il nuovo Papa, subito dopo l’elezione, volesse parlargli al telefono. In quella telefonataBenedetto gli ha fatto gli auguri e gli ha promesso la propria preghiera e il proprio appoggio».   

Come trascorre, oggi, le sue giornate di Papa emerito? 
«Con la preghiera, innanzitutto, con lo studio, la corrispondenza personale e le visite. Arrivano, giorno per giorno, molti libri in diverse lingue, vedo che lui predilige quelli di teologia, filosofia e storia. Legge molto e preferisce i testi in tedesco e in italiano. Il giorno comincia con la messa, poi c’è il breviario, poi segue la prima colazione. La mattinata, in genere, è dedicata alla preghiera allo studio, alla posta e alle visite che aumentano. All’una e trenta pranziamo tutti insieme, papa Benedetto, io e le memores. Non può mancare la siesta. Il pomeriggio sbriga la vasta corrispondenza privata, ascolta anche musica. Naturalmente il programma cambia quando, per esempio, c’è suo fratello».   

E poi ci sono le passeggiate che fate insieme. 
«Ne facciamo una dietro la casa, subito dopo pranzo e, un’altra, verso le quattro, per dire insieme il rosario  . Poi una brevissima sul terrazzo, dopo la cena delle sette e mezza e il telegionale. Dopo, il Papa si ritira, a volte suona il pianoforte».   

È lo stesso che aveva da cardinale? 
«Si, è lo stesso che aveva giá da professore. È stato un dono della sua famiglia e, in 50 anni, lo ha seguito ovunque, in ogni tappa, da Frisinga a Bonn, a Münster, a Tubinga, a Ratisbona, a Monaco e finalmente a Roma».   

Anche i gatti si sono trasferiti? 
«I gatti non sono mai stati suoi, ma è vero, ci sono gatti che girano nei giardini vaticani, vengono anche al Monastero e qualche volta si avvicinano quando hanno il desiderio della presenza umana. Certo, al Papa piacciono molto i gatti, anche se, per esempio, in Tv preferisce il commissario Rex, che ha per protagonista un bel cane di pastore tedesco».   

Cos’altro vede in Tv? 
«Gli piacciono i vecchi film di don Camillo. Gli piace anche la serie di don Matteo. Adesso ne è cominciata un’altra, no?».
 
È difficile immaginarlo, siamo abituati al Ratzinger teologo, professore. Dall’apparenza anche un po’ rigida. 
«Un’apparenza appunto, uno stereotipo. Chi lo conosce da vicino sa che non è così. Papa Benedetto, pur essendo un po’ riservato, è una persona molto affabile, per niente rigido o qualcos’altro del genere».

 Cos’hanno in comune, secondo lei i due Papi? 
«Hanno in comune l’amore per il Signore, per la Chiesa e per i fedeli, anzi per tutti gli esseri umani. Se non ci fosse questo amore sarebbe impossibile fare il Papa. Impossibile».







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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  Quell’ultimo brindisi alla sua coscienza: Benedetto XVI, un anno dopo

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Nell’anniversario della Gran Rinuncia, esame, celebrazione e rimpianto di un pontificato, e del cuore del suo protagonista: Benedetto XVI. Con un brindisi alla sua grande Coscienza. Il cui primato sempre antepose a quello Petrino. Rifiutando di essere il Pontefice Principe come fosse un delitto: “contro” la coscienza dei fedeli e dei sottoposti.

Dal primato Petrino al primato del Principe Assoluto; dal primato della Coscienza al primato dell’Obbedienza. Un saggio per PP ad opera di un ecclesiastico dei Palazzi Apostolici

 

 

di Mons. Gregorio Gotha, da papalepapale.com

Città del Vaticano

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     1. E se un bambino ti chiede “cos’è vivere?”, vai in panico?

Quotidianamente, mi capita a volte di essere testimone di situazioni che, per il mio modo di approcciare la realtà, profondamente introverso, suscitano una certa ilarità, innescando al tempo stesso una catena di pensieri che immediatamente implorano una soluzione purtroppo non così semplice da offrire, a me innanzitutto.

Una di queste circostanze si è presentata proprio l’altro giorno, quando il figlio quattrenne di un caro amico, nel bel mezzo della realizzazione di un’improbabile costruzioneLego, si è fatto scuro in volto e, rivolgendosi al padre, ha chiesto: “Papà, che cosa vuol dire vivere?”.

Dopo un attimo di panico che ha trapassato la mia e la spina dorsale dell’amico dal fondo, fino a far assumere ai nostri sguardi un’espressione di sbigottimento, tale sensazione, prolungandosi oltre l’attimo, deve aver raggiunto anche il nostro cervello, tanto che, frastornati, nessuno dei due era in grado di offrire una risposta che non solo fosse vera, ma fosse anche comprensibile ad un bambino di quell’età.

Il problema principale, infatti, consisteva nello scegliere tra il difficile tentativo di rendere accessibile qualcosa che spesso anche per le categorie mentali di un adulto non è immediatamente abbordabile, oppure giocare d’astuzia attraverso la banalizzazione della domanda – evitando tra l’altro la fatica della sfida educativa in atto – e chiudere il discorso con una frase del tipo: “Sei troppo piccolo, non capiresti”. Eppure, chiunque è concorde nel ritenere che la domanda sul significato del “vivere” non solo è opportuna, ma addirittura costitutiva e fondamentale per qualsiasi essere umano, anche per un bambino.

Si trattava, dunque, di un’alternativa stringente; ed anche se non sono “un professore di teologia tedesco, nella cui mentalità c’è solo il vero e il falso” (vedi qui), sarebbe difficile affermare che non ci trovassimo dinnanzi a due opzioni profondamente diverse: una vera – e faticosa –, l’altra falsa – ma di immediato (apparente) successo.

Ora, il fatto che Davide (questo è il nome del bimbo, ndr.) abbia sentito l’urgenza di una tale domanda, implica non tanto che lui ne comprendesse la portata, quanto piuttosto il fatto che egli, nella sua pur breve vita, deve essersi impattato – complice anche il papà filosofo – in un discorso nel quale la parola “vivere” sfuggiva alla sua fanciullesca comprensione. Quel precedente contesto era troppo “adulto” per lui per poter discernere tutti i fattori in gioco e, dunque, arrivare a capire i confini della realtà descritta con tale termine. Eppure, tale quesito si è come scolpito indelebilmente nella sua memoria rasa, al punto da farlo riemergere appena ha compreso che, visto l’elevato tenore del dialogo che anche quella sera il padre stava tenendo con il sottoscritto, le condizioni erano favorevoli affinché esso potesse finalmente trovare una soluzione accettabile, soprattutto un soggetto in grado di aiutarlo a rispondere.

2. Verità è desiderio. La tiepidezza vomito

5_DSCN3413 (1)Questa lunga premessa, in realtà, serve soprattutto per portare il lettore a riflettere sull’importanza dell’educazione, in particolare dei giovani. Si badi bene, tuttavia, che nei confronti della Chiesa è bene ricordare, fin da subito, che ciascuno di noi è “giovane”, come del resto più volte ebbe a sottolineare l’anziano Giovanni Paolo II. Tale condizione è la giovinezza di chi non si ritiene un “cristiano adulto”, di chi, cioè, comprende che la fede è un cammino che non si conclude mai, per cui essa va alimentata quotidianamente nella sequela (anche critica) di chi è stato insignito del ministero di educatore e lo compie in modo più o meno fedele.

Da una tale consapevolezza nascesempre il desiderio di capire e di comprendere, nascono le domande di significato che, se poste alla persona “vera”, non ricevono una presunta verità schiacciante, quanto piuttosto una Verità che apre all’approfondimento del cammino. Il vero maestro non è chi schiaccia con la sua verità (opinione), perché la Verità, per sua natura, apre al desiderio di conoscere sempre di più. Il vero maestro nella Chiesa non è chi sciorina il suo personalissimo pensiero che in realtà risulta essere dogmaticamente logico solo nella sua mente, ma è chi accompagna il fedele (inteso come giovane) nel domandare e nell’accogliere l’unica Verità nella sua grandezza, assolutezza e poliedricità.

Tale Verità è innanzitutto grande, in quanto supera ogni possibile tentativo di riduzione e mai potrà essere posseduta interamente da alcun essere umano. Ma essa è anche poliedrica, dal momento che, come le facce di un prisma, può essere a volte percepita in modi diversi dall’uomo, a seconda della posizione (dell’approccio) che si assume di fronte ad essa. In tal senso è vero che non è tutto “vero o falso”, ma mai uno spicchio potrà contraddirne un altro in modo radicale, perché la Verità non è l’insieme acritico di qualsivoglia posizione. Infine, la Verità è anche assoluta – con buona pace di chi pensa il contrario –, in quanto assorbe in sé tutto ciò che di vero, buono e giusto esiste, non ammettendo posizioni intermedie o di tiepidezza di fronte ad essa: i tiepidi, lo sappiamo per Verità rivelata nell’Apocalisse, sono per Dio come il vomito!

La Chiesa, per tutto questo, è madre e maestra della Verità, perché nello scorrere dei secoli ha sempre cercato di interpretare lo “Spirito di Verità” ricevuto la sera di Pentecoste, quello Spirito che rivela tutta intera la Verità a coloro che la chiedono con animo umile e paziente. La Sposa di Cristo è anche madre e maestra proprio perché dotata delle virtù della pazienza e dell’umiltà. Ogni educatore dovrebbe invero allenarsi in tali virtù, perché esse sono come le due armi necessarie per la battaglia della vita, anzitutto contro la superbia e il terrore.

3. Il magistero non è che parola d’uomo, mentre la coscienza è voce di Dio

In realtà, non bastano i buoni educatori perché si dia una vera educazione. Essa è una sfida che si gioca sempre tra due persone dai ruoli ben definiti in qui ciò che lega tali soggetti è, appunto, la Verità. Ma qual è il punto di connessione? Come potremmo descrivere il legame veritativo che concatena l’uno all’altro?

Usando un’immagine, si dirà che il discente e l’educatore sono come due alpinisti in cordata che stanno scalando una vetta molto scoscesa. La fune che li tiene ancorati alla roccia e che contemporaneamente li connette tra loro è la Verità (o la ricerca di essa), per cui un passo falso potrebbe costare loro la vita (o il senso di essa); ma a cosa dovremmo paragonare, stando all’esempio, i moschettoni che permettono tale legame?

Ora, il luogo proprio in cui la Verità si manifesta e viene (ri)conosciuta è la coscienza. Con il rischio di sembrare banale, si potrebbe dire che l’imbragatura che ci tiene saldamente sospesi a grandi altezze, attraverso il passaggio della corda, è proprio la nostra coscienza. In essa, infatti, l’uomo conosce e riconosce il suo unico Signore, può ascoltarne la voce e ne discerne la veridicità. La coscienza non produce Dio, può solo riconoscerlo. Ma è lei sola, nelle sterminate galassie dell’universo, che è preposta a tale compito. Non esiste, in fondo, altra possibilità di conoscere la Verità nel cosmo se non attraverso la coscienza individuale di una persona.

La capacità naturale della coscienza umana di riconoscere la Verità nel suo proporsi, cosa che normalmente avviene nella mediazione della realtà – cioè non nell’incontro con la Verità in sé, ma attraverso le cose che esistono e che noi comprendiamo come “vere” –, è ciò che più di ogni altra cosa terrorizza i poteri di questo mondo, anche ben oltre la c.d. libertà! Infatti, la coscienza –  intendendone anche la sua libertà – è l’unica realtà che non si può interamente costringere o soffocare, dal momento che essa è il luogo sacro dell’incontro tra Dio e l’uomo, in cui nessun altro dovrebbe entrare e che mai potrà essere totalmente sopraffatta. Il tentativo di aprire le porte della coscienza altrui – tentazione sempre presente, purtroppo, anche in molti preti – è un atto talmente abominevole da potersi considerare al pari di un sacrilegio.

Le persone vanno aiutate nel discernimento della Verità (nelle manifestazioni quotidiane della Verità), ma ci si deve astenere da qualsiasi manovra perversa che miri ad entrare nel dolce scrigno, sede del dialogo dell’anima creata con l’Essere suo creatore. Il maestro non entra nella coscienza e non la supplisce, ma aiuta l’amico affinché in essa sia possibile lasciare scorrere la fune della Verità. Guai a quei curatori d’anime che, pur non dicendoselo in modo cosciente, agiscono come se fossero infallibili nel tentativo di piegare l’altrui coscienza alla propria! Questi non sono veri “padri”, bensì superbi sacrileghi che fanno tanto male alla Chiesa!

Per la Chiesa, invece, la libertà di coscienza è sempre stata un bene da tutelare, ben prima che il Cardinal Newman cominciasse a parlarne. Essa era già per la Scolastica – e in questo senso andrebbero letti tutti i documenti successivi, compresi alcuni testi ottocenteschi che per qualche paladino dell’ortodossia sembrano dire il contrario – un valore non negoziabile, rispetto al quale non ci può essere autorità superiore, neppure fosse il Papa: “Se c’è conflitto tra la parola della Chiesa e la mia coscienza a chi debbo obbedire? Il magistero non è che parola d’uomo, mentre la coscienza è voce di Dio”. Questa citazione è di San Tommaso, il quale non può certo essere considerato un modernista ante litteram.



  continua.............








Fraternamente CaterinaLD

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4. La sfida di Benedetto XVI: il primato della coscienza

pope-benedict-portrait (1)Sotto il pontificato di Benedetto XVI, il tema della coscienza è riemerso in modo esplosivo, complice la vicinanza speculativa del Papa bavarese con il fine teologo di origine anglicana, convertito al cattolicesimo proprio a causa della coscienza, il Cardinal Newman. Celebre è la frase di quest’ultimo, ascritto nella schiera dei beati dallo stesso Ratzinger, secondo cui “Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa”.

Se si tenta di fare un bilancio sommario e mirato della breve era del pontificato che si è concluso poco meno di un anno fa, l’affinità appena descritta, però, non è ravvisabile solamente nelle parole, ma addirittura nello stile che era (ed è) proprio della persona di Benedetto XVI. Uomo mite, sincero, fine pensatore, egli si è sempre presentato al mondo come “l’umile servitore”, non come un “principe rinascimentale”. Un servo sempre pronto a lasciare il primato alla coscienza personale, aiutandola – sì – con tutta l’arte della razionalità, ma mai egli ha tentato di usare trucchetti per raggirare l’interlocutore, facendolo vagare per i sentieri previamente minati da trappole mortifere per l’anima. Lo si è visto anche di recente nella ferma ed articolata risposta che, nella sua nuova veste di Papa emerito, Ratzinger ha inviato sotto forma di lettera al matematico Odifreddi.

Dal momento che la coscienza, per il 265° successore di Pietro, è il luogo della Verità, ne consegue che offrendole ciò che è oggetto della sua conoscenza essa sarà in grado di riconoscerlo in tutta la sua dignità e portata. È come, sempre permettendomi un esempio a fine didattico, se la coscienza fosse simile a un bracco ungherese alle dipendenze di un cercatore di tartufi: una volta scovato il piccolo tesoro, sarà necessario dissotterrarlo con cura e pulirlo con dovizia!

Molte volte, come infatti si constata, tale Verità non è però riconosciuta. La coscienza ha, per questo, bisogno di essere “rettamente” formata, in modo cioè da evitare che nascano cortocircuiti e, soprattutto, perché sempre più spesso la voce del mondo tuona prepotentemente contro la flebile voce dello Spirito, il quale mai vuole imporsi. Stando all’esempio appena proposto, si potrebbe dire che la spazzatura, che ormai infesta anche le più belle montagne della penisola italica, sta distraendo il “naso” del nostro bracco con il proprio fetore e, contemporaneamente, sta sommergendo sempre di più la Verità sulle cui tracce siamo in cammino. Tutto ciò complica ulteriormente l’avventura della conoscenza.

Di fronte a questo vulnus, come si è detto, qualsiasi educatore deve operare una scelta: dirigere la cordata verso il pattume che offre il mondo – perché qualcosa, all’ora di pranzo, si dovrà pur mettere sotto i denti – o fare lo sforzo di aiutare il discepolo a rientrare in se stesso per decifrare l’afflato di Dio, con umiltà e pazienza.

In questa seconda prospettiva mi sentirei di porre il tentativo messo in campo da Papa Benedetto XVI, il quale è stato un vero e grande maestro per tutta l’umanità, non solo per la Chiesa. Egli non ha mai tuonato fulmini, non ha mai usato le armi della vendetta, non si è mai macchiato dell’atroce sacrilegio di pervertire le coscienze secondo la propria immagine. Ha, invece, giocato tutto sulla persuasione della Verità diffusivum sui, sulla certezza che un po’ di bene esiste in tutti e questo deve essere fatto ri-emergere. Si è fatto umile e paziente, si è lasciato anche umiliare, nella certezza che vi è più gioia in cielo per un vero peccatore (non importa quanti!) che si converte (ma veramente), piuttosto che per un coro di giovani che, con il sorriso stampato sulle labbra, danzano e saltellano sulle note di canti non liturgici durante la celebrazione di una Santa Eucaristia presieduta dal Successore di Pietro.

La gioia della Chiesa, infatti, non è il sorriso del “beato beota”, ma il riconoscimento – spesso anche faticoso – della Verità di Dio che, appena viene anche solo intravista, mozza il fiato e piega le ginocchia: “Mio Signore e mio Dio!”. Non servirebbe a nulla una Chiesa piena di pattume, una Chiesa in cui ognuno potesse scegliersi la sedia che a lui risulti essere più comoda – come accade già in qualche moderna aula liturgica: il pattume finisce sempre nell’inceneritore e la comodità atrofizza le coscienze!

Ciò che Benedetto XVI aveva capito è che se gli uomini hanno un diritto, tale diritto è solo quello di poter conoscere la “Verità tutta intera”, di fronte alla quale, poi, essi stessi saranno chiamati a giocare la propria libertà e decidere conseguentemente se aderirvi o no. I trucchetti con i quali i prestigiatori ecclesiastici fanno sparire e riapparire qualche dogma servono ad extra solo come specchietti per le allodole, ma ad intra corrompono la coscienza dei discepoli come quella degli educatori che hanno volutamente evitato di pronunciare per intero il nome di Gesù Cristo, impauriti dall’altezza e difficoltà della cima da scalare. Riecheggiano qui le parole della Roccia: “Signore, anche noi non capiamo, ma se andiamo via da te, da chi andremo?”. Ogniqualvolta si opta di operare una qualche riserva mentale – a meno che non ci si trovi in foro interno ed in specialissime condizioni –, si contraddice direttamente il comando di Cristo secondo cui il nostro “parlare sia sì, sì, e no, no!” e si nega all’interlocutore il diritto di conoscere la Verità.

Benedetto XVI ha avuto fiducia nell’uomo, nella coscienza, ha dato una possibilità a tutti, anche ai suoi traditori, perdonandoli perché li amava: ha amato il nemico amando la persona, non le sue azioni, fino a trasformarlo in amico con la preghiera (cfr. sant’Agostino). Egli ha compreso certamente il peso del potere che aveva ricevuto il 19 aprile del 2005 per l’elezione dei “Signori Cardinali”: il demonio gli ha fatto sicuramente pregustare la forza che il Romano Pontefice ha tra le mani, come un tempo tentò Gesù stesso. Benedetto XVI deve aver sentito il profumo del successo, possibile attraverso il compromesso con il mondo e soprattutto con l’invasione e la manipolazione della coscienza altrui.

5. La prima tentazione: rendere schiavo il Popolo di Dio

Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore”: questo è solo uno dei passaggi dell’indimenticabile Omelia d’inizio pontificato di Benedetto XVI. Quale verità è stata espressa così lucidamente da colui che in quel momento, forse più di altri, era tentato di genuflettere anche solo per un istante di fronte al Principe di questo mondo, magari persuadendosi che fosse “per il bene della Chiesa”. Si ricordi, però, che chi va a mendicare qualcosa tra le gambe di Satana, vi resta sempre invischiato!

Del resto, avrà certamente pensato al potere dei media, al fatto che, oggi più che mai, l’aggettivo “semplice” attribuito alla gente è sinonimo di “stupido”. Tra questi ultimi vi sono a volte anche i cattolici, pronti a credere a qualsiasi cosa esca dalla bocca del Pontefice – visto non in quanto tale, ma come la star di turno –, soprattutto se in linea con un certo pensiero. Sarebbe stato facile per Benedetto XVI brindare solo a se stesso (al Papa, ndr.) attentando di prendersi cura personalmente, poi, delle coscienze altrui. Una persona così intelligente come lui deve certamente aver combattuto una dura battaglia nel tentativo di non prevaricare mai il limite sacro imposto come sigillo sul cuore di ciascun uomo. Non solo egli si è sempre piegato alla volontà di un Altro e alla tradizione viva della Chiesa, ma ciò che ha tentato di cambiare, lo ha fatto quasi in punta di piedi.

Un esempio particolarmente interessante potrebbe essere quello della sua preferenza – educativa, prima che estetica – perché, nella liturgia, centrale fosse il Crocefisso e non il sacerdote. In realtà, tale esigenza non era una sua personale posizione: la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II aveva tra le proprie finalità quella di rimettere al centro della celebrazione proprio il Mistero di Dio. Purtroppo – ma questo non è colpa della riforma! –, dal momento che in tante “comunità” Dio ben presto divenne solo una parola di tre lettere, si è dovuta supplire tale mancanza con qualcosa che intrattenesse il “pubblico”; così alcuni sacerdoti – magari divenuti tali più per una mancanza di vita sociale che non per un amore a Dio – si sono ritrovati improvvisamente su di un “palcoscenico” vuoto e completamente a loro disposizione.

Benedetto XVI non ha voluto interpretare alcun monologo, né ha tentato di coinvolgere altri in una sorta di pagliacciata – perché i monologhi dopo un po’ stancano, mentre le pagliacciate, in cui a tutti è riservata una particina da interpretare, sono meno restii a raggiungere comunque la loro fine, cioè l’oblio. Egli ha semplicemente negato se stesso e rimesso al centro della “scena” il Signore Gesù. Egli ha fatto di tutto per demitizzare e relativizzare la figura del Pontefice, pur senza negarne mai le prerogative e i privilegi derivanti dall’essere Vicario, perché – fino a prova contraria – egli rimane un uomo come ciascuno di noi: “La Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura!”.

Ma facendo questo, non ha adottato la strategia del Principe Assoluto che a colpi di legge modifica a proprio piacimento il suo personalissimo regno. Nessuna circolare è mai stata emessa, se non nelle situazioni in cui era in gioco il bene dei fedeli: Benedetto XVI ha scommesso sulla capacità di discernere la Verità che è in ciascuno di noi, preferendo dare un esempio chiaro eppure flebile, “come la brezza della sera”. Ha avuto l’umiltà e la pazienza dell’educatore. Per questo non tutti sono riusciti a comprendere le sue posizioni, teologicamente molto forti. Chi non si è “adattato” lo ha fatto perché ha continuato a seguire, però, la baraonda del mondo, non il proprio cuore, ancora troppo incrostato. Chi invece lo ha fatto, ne ha guadagnato “la libertà dei figli di Dio”.

Ricordo a tal proposito, che nel periodo successivo alla sua elezione, ogni volta che ero in presenza del Papa mi sembrava che mancasse qualcosa: avevo bisogno di battiti di mano, di spontaneità, avevo bisogno di improvvisazioni e variazioni “petrine”, avevo la necessità che qualcosa accadesse di non-previsto, di appagante la mia istintività. Eppure, mai Benedetto XVI ha ceduto di una virgola e il suo esempio è stato per me profondamente educativo.

L’atteggiamento dell’“umile lavoratore della vigna del Signore” rispetto a tali bisogni – espressione di una religiosità in sé superba perché mossa dal desiderio umano di sostituirsi all’opus Dei – sono la ragione per cui il mondo ha disprezzato il Papa fin dal giorno della sua elezione. E così, paradossalmente, si spiega perché magicamente l’11 febbraio del 2013 tutto il mondo si è ritrovato ad amare colui che fino al giorno prima era tra le persone più odiate: finalmente, le dimissioni (seppur in latino) avevano dato al cuore istintivo e incrostato di tanti ciò che cercavano e, cioè, il totalmente imprevedibile.

Benedetto XVI, ancora, disse chiaramente che il cristianesimo non è una dottrina, ma un incontro personale con un uomo vivo. Eppure molti cattolici – magari proprio quelli che ogni domenica siedono tra i banchi del coro interessati più a mostrare se stessi che a lodare il Signore – continuano oggi a vivere come se la Deus caritas est non fosse mai stata scritta. Egli, per fare un altro esempio, ha cercato di incontrare tutti, mai indietreggiando su nulla: non ha mai fatto finta di essere d’accordo con qualcosa per cui oggettivamente non poteva essere d’accordo, ma allo stesso tempo ha preso sul serio le domande del cuore di chi incontrava. Ha saputo discernere e valutare, grazie innanzitutto alla sua coscienza rettamente formata, più che alle sue capacità scientifiche ovunque riconosciute – si pensi all’esempio dell’uso del preservativo nel rapporto con una prostituta.

Non ha offerto una ricetta facile al dialogo interreligioso, ma ha affermato chiaramente che Gesù è l’unico Salvatore e che se è possibile un dialogo, esso deve essere intrapreso solo a livello di valori non negoziabili. Eppure, proprio per questa sua chiarezza, è stato apprezzato da tanti, a partire da chi si trovava dall’altra parte del fiume, dimostrando che per parlare con qualcuno non si deve per forza dargli ragione (o farglielo credere). In realtà, le difficoltà le ha avute più all’interno della Chiesa, che non all’esterno.

Sarebbe bastato così poco per farsi amare dalla folla ed essere invocato come “Santo subito”, magari proprio evitando di parlare della Verità, perché a quanto pare essa è, per molti, fonte di divisione, “pietra d’inciampo”, “stoltezza e scandalo”. Forse proprio perché la Verità è Gesù Cristo e non sia mai che uno si senta giudicato da Lui!









   continua..............

 

Fraternamente CaterinaLD

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6. La seconda tentazione: terrorizzare i Collaboratori

Il desiderio che Dio si mostri più forte per la realizzazione di ciò che noi ci aspettiamo debba accadere, però, è qualcosa che a volte applichiamo anche allo stesso Vicario di Cristo, al “Dolce Cristo in terra”, perché lasci da parte il miserando titolo di “servo dei servi” e assuma piuttosto quello di “padrone dei padroni”. Se solo Benedetto XVI avesse usato un po’ di quel potere temporale che è nelle mani del Pontefice durante munere?! Chissà! Sognare ad occhi aperti è un lusso che a volte possiamo permetterci, perciò, chissà cosa sarebbe successo se, per esempio, un giorno si fosse presentato in terza Loggia senza preavvertire. La veste talare vista attraverso la porta a vetri avrebbe certamente portato gli usceri ad un gesto istintivo di cortesia – perché solo i Superiori portano abitualmente il loro abito proprio (e sempre solo ai Superiori si usano gesti di cortesia). Ritrovandosi coram Sanctissimo, i bravi addetti si sarebbero inginocchiati chiedendo la benedizione e, d’un tratto il battito cardiaco di minutanti, capi-ufficio e Superiori tutti avrebbe avuto un’impennata accelerazione, avvisati di quell’ingombrante presenza.

Ecco, continuiamo ad immaginare che, rimanendo in piedi, e ormai accalcatisi nell’atrio che accomuna la I e la II Sezione di quella che anticamente veniva chiamata la “Segreteria del Papa” (o magari sarebbe stato più comodo se ciò fosse avvenuto nella Biblioteca privata), l’Augusto avesse accennato un segno in direzione di uno dei monsignori di Curia – gli unici uomini su questa terra che ancora oggi possono sognare di fare la grande scalata che li porterà anche ad indossare una lunga gonna dalle tipiche tinte virili: il rosa. Immaginiamo, sempre ad occhi aperti, che, solo per diletto e sfizio, – magari proprio perché Benedetto XVI era tedesco, e, dunque, secondo una certa logica honduregna, era non solo un decerebrato teologo bipolare (vero-falso), ma probabilmente anche un nazista crudele – immaginiamo, dicevo, che avesse chiesto a tale malcapitato di mettersi a saltare: già, saltare come fanno le scimmie in gabbia. Volete sapere cosa penso sarebbe successo? Magicamente, diverse persone – non tutti i presenti, perché per grazia di Dio vi sono anche moltissimi santi in quelle segrete stanze! – si sarebbero mosse per comporre una fila, nella speranza di avere a propria volta la possibilità di saltare e mettersi in mostra come si fa durante l’esibizione per una audizione! “Per Dio e per il bene della Chiesa”, non per altro!

Eppure, Benedetto XVI, che è tedesco, – e proprio per questo portato alla riflessione, al rispetto e all’umiliazione di sé e non degli altri – lui che, comunque, ancora oggi ama alimentarsi con la musica classica, pur apparendo agli occhi di alcuni come un “principe rinascimentale”, perché “toccato, anzi ferito, dal desiderio della Bellezza stessa” – piuttosto che abbuffarsi con le esibizioni dei nuovi circensi offerti dai moderni imperatori –, ebbene, lui non ha mai usato di questo potere. L’ha assaporato, dicevo, certamente, perché lo si assapora dal primo momento in cui sulla porta di un ufficio viene messa la targhetta con il proprio nome, ma non si è mai materializzato per lui come una pietra d’inciampo.

Il suo segreto è consistito nel fatto che proprio perché “teologo tedesco – e non un voltagabbana salesiano (come ce ne sono tanti di questi tempi) che ha appoggiato un regime golpista forse anche grazie al contributo mensile di 100.000 Lempiras che lo stesso governo gli elargiva (in un paese in cui lo stipendio medio è di 3.000 Lempiras) – proprio per questo, Benedetto XVI ha sempre avuto rispetto della coscienza altrui, tanto da non volervi entrare, quanto, piuttosto, da volerla aiutare con un Magistero improntato sullacommunicatio della Verità. Chissà, se solo avesse osato dire: “Saltate, piccoli sottoposti, voi che dovete temermi”! Ma si sa che certe cose, a volte, non serve dirle… non vi è cosa più aperta e alla portata della comprensione di un sottoposto della volontà (soprattutto se sadica) di un Superiore.

7.Una diversa impostazione: i gesuiti e il primato dell’obbedienza

benedictoxviIn realtà, prima ancora dei Cardinali Ratzinger, Newman e D’Aquino – del quale, secondo alcune fonti, sembrava imminente l’annuncio della creazione cardinalizia (se non fosse che a volte Dio fa morire qualcuno, prima che questi riceva la berretta) –, anche il Poverello d’Assisi fece mettere nero su bianco nella sua Regola che “i frati obbediscano ai loro ministri in tutte quelle cose che hanno promesso a Dio di osservare e che non sono contrarie alla coscienza e alla regola”.

Si sa, anche a causa degli interessi non propriamente religiosi che a volte possono spingere (e magari far sopravvivere) certe Congregazioni, che fra i francescani e i gesuiti non è mai scorso buon sangue, in particolare a livello teologico. Sarà forse per questo che vi è stato un tempo in cui nella Chiesa questo sacro rispetto per la coscienza (propria e altrui) si è come offuscato, tanto che il Bellarmino, anch’egli Cardinale come i sopraccitati Ratzinger e Newman, arrivò ad affermare una cosa che alle nostre orecchie dovrebbe suonare aberrante: “Se anche il Papa errasse comandando dei vizi e proibendo delle virtù, la Chiesa è tenuta a credere che i vizi siano buoni e le virtù cattive”.

Ci tengo a sottolineare che tale affermazione dovrebbe suonare aberrante perché purtroppo oggi tante persone sarebbero disposte teoricamente ad approvarla, ma poi nei fatti a negarla. Più di una volta, infatti, la mia esperienza recente è testimone del fatto che “il Papa è il Papa, per questo ciò che Egli dice o fa, va fatto perché è sempre vero e giusto”; o ancora: “Non si può criticare il Papa, perché il Papa è scelto da Dio”.

Mi si consenta, dunque, una brevissima digressione: siccome Dio ha creato gli uomini come esseri liberi e intelligenti – e, se anche risulta che lo status di Cardinale possa offuscare talune facoltà della persona, non è provato che riesca addirittura ad eliminare la libertà –, mi piace adattare alla situazione un noto adagio del compianto Andreotti, affermando che “in Sistina sono i Cardinali che scrivono il nome sulle schede; Dio, invece, no!”.

E mi si consenta un’ulteriore divagazione, dal momento che risulta a me alquanto interessante notare come si sia sempre pronti ad abbracciare le armi dell’apologetica nei confronti di un uomo qual è il Papa (chiunque egli sia), quando invece non si è egualmente rapidi nel fare la stessa cosa per Gesù Cristo, il quale tante volte lo si può anche contraddire, lui che è uomo-Dio! Ma basterebbe che le persone che sono d’accordo con le frasi poc’anzi riprodotte si facessero un bell’esame di coscienza per scoprirsi nel dire: “Gesù è Gesù, perciò ciò che Egli dice o fa, va fatto… solo quando fa comodo” – si pensi per esempio ai temi relativi alla sessualità.

Perché, dunque a volte, noi uomini siamo così docili nel compiere ciò che ci viene comandato, piuttosto che nell’usare la nostra coscienza? La risposta è presto detta: è più semplice far prendere le decisioni difficili a qualcun altro. Inoltre, se poi si sbaglia, vi è pure già pronto un capro espiatorio contro il quale rivolgere ogni colpa. Far lavorare la nostra coscienza, magari perché un po’ “arrugginita”, richiede sforzo, costanza, un’operazione virtuosa su noi stessi che non tutti sembrano disposti a compiere. Peccato, però, che l’ultima decisione spetti sempre e comunque alla nostra coscienza, che sia rettamente formata o meno. Perciò le colpe dei nostri errori le paghiamo ancora noi (coloro che hanno dissacrato il luogo della manifestazione di Dio in noi, però, pagheranno le loro).

In realtà, questa riflessione non vuole essere un’accusa contro nessuno, perché nessuno, d’altronde, è in grado di “scagliare la prima pietra”, ci mancherebbe! Almeno, però, si sia chiari nel chiamare “peccato” ciò che è “peccato”, “Verità” ciò che è “Verità” e, soprattutto, si dica che la Verità e il peccato, ultimamente, sono inconciliabili. Questo è qualcosa che non solamente un bravo teologo tedesco direbbe, dal momento che si è di fronte a ciò che è “o vero, o falso”: tertium non datur!

Siccome, ad ogni buon rendere, la quaestio ad oggetto risulta essere sempre attuale, bisognerebbe chiedersi se, con l’esempio e la parola, Papa Francesco vorrà seguire il suo predecessore Benedetto XVI, Newman, Tommaso e pure uno dei più grandi santi della storia dal quale egli ha ricavato il proprio nome, o, piuttosto, preferisca la tesi esposta dal Bellarmino. Ogni tentativo volto ad offrire una risposta a tale domanda sembrerebbe ancora troppo immaturo e imprudente, dal momento che – pur avendo già compiuto molti gesti importanti e significativi – questo Pontefice è ancora tutto da scoprire. Un sano distacco daimedia – particolarmente quelli italiani – sarà a tal proposito di giovamento.

Ora, però, occorre notare che il Bellarmino è stato educato nella Compagnia di Gesù! Pertanto è logico che da tale carisma egli in qualche modo sia stato condizionato nel modo di pensare e giudicare. Non sarebbe più che normale? La domanda corretta, dunque, potrebbe suonare così: “Cosa pensava a riguardo della coscienza il Generale, il Fondatore, il Padre di tutti i gesuiti, sant’Ignazio di Loyola?”. A tale proposito, bastino alcune frasi molto chiare – e molto più conosciute di quanto si possa credere – che ritroviamo al paragrafo 547 delle Costituzioni della Compagnia di Gesù: “Facciamo quanto ci sarà comandato con molta prontezza, gaudio spirituale e perseveranza, persuadendoci che tutto ciò è giusto, e rinnegando con cieca obbedienza ogni parere e giudizio personale in contrario, in tutte le cose che il superiore ordina… Persuasi come siamo che chiunque vive sotto l’obbedienza si deve lasciar portare e reggere dalla Provvidenza, per mezzo del superiore, come se fosse un corpo morto (perinde ac cadaver), che si fa portare dovunque e trattare come più piace”.

Volendo offrire una sintesi che tenga conto del percorso fin qui fatto, si potrebbe dire in questo modo: “Eseguiamo gli ordini dei Superiori piegando ad essi la nostra coscienza in cieca obbedienza, perché essi sono emanazione diretta della Provvidenza”; o ancora: “La Verità la conoscono innanzitutto i Superiori, non la coscienza”.

A scanso di equivoci, è chiaro che queste considerazioni nulla tolgono alla santità approvata e celebrata di coloro che fino ad ora sono stati qui considerati. Le virtù eroiche e la testimonianza di fede sono ben altra cosa rispetto alla capacità speculativa di questi santi (tra l’altro, molto più complessa di come qui è stata presentata), i quali, inoltre, personalmente prego ed ammiro.

Il fatto è che la storia magistra vitae ha dimostrato che i Superiori non sempre sono stati la longa manus della Provvidenza: anzi, Essa (come anche la Santa Sede) ha dovuto più di una volta mettervi una pezza. Inoltre, è certo che un’impostazione del genere (non la singola posizione di Ignazio!) è la causa principale di tanti problemi che la Chiesa nel tempo ha dovuto affrontare: si pensi ad un esempio d’impatto mediatico come lo “scandalo pedofilia”. Non è stato forse incubato in ambiti nei quali, a causa di una scorretta comprensione di cosa fossero la coscienza personale e il rapporto con i Superiori (parroco, rettore del seminario, ecc.), si riteneva che fosse meglio il tacere e il nascondere il male in nome di un presunto “bene della Chiesa”? Alla base di molti problemi per la Sposa di Cristo vi è, dunque, un modo di pensare foriero di utili conseguenze nel breve periodo – è comunque più facile mandare la polvere sotto il letto –, ma nel lungo termine tossina molto simile all’amianto, così nociva e al tempo stesso così difficile da smaltire.




   continua.......



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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8. L’esercizio della primazia del Pontefice Principe

Pope Benedict XVICosa, dunque, spinge una persona ad arrivare ad auspicare una così massiccia invasione nella coscienza altrui? In realtà, la risposta si è già ampiamente offerta nelle righe precedenti, ma vale la pena, ora, riproporla ancora una volta, magari corredandola di qualche esempio di fantasia.

Innanzitutto, ognuno di noi è conscio del fatto che è più facile imporre una propria opinione che praticare l’arte del discernimento. Si badi bene, però, che quest’arte è cosa ben diversa dal tentativo di aiutare l’altro a capire ciò che si vuole dire. Per meglio comprendere queste distinzioni, è utile sviscerare un pratico esempio.

Un Consiglio Pastorale Parrocchiale, dunque, è spesso il luogo in cui il Parroco tenta di “indottrinare” i propri parrocchiani, facendo approvare da loro le decisioni che da solo egli ha già preso in precedenza. Qualcuno potrà dire: “Che bravo, il nostro Parroco, condivide ogni cosa con il Consiglio”. Peccato che in realtà lui non condivida, ma semplicemente “usi” di tale Istituto, anche se “in nome della Chiesa”. Qualcuno potrebbe apprezzare questo modo di fare, soprattutto qualora i Signori Membri del suddetto Consiglio non fossero poi così “cattolici” come a volte può accadere. Ma, una pesante obiezione, a questo punto, sarebbe l’affermazione che il Consiglio Pastorale Parrocchiale non è anzitutto un luogo di evangelizzazione, ma di discussione e di, appunto, consiglio: le decisioni vanno prese dopo aver ascoltato il Consiglio, non prima! L’evangelizzazione, invece, andrebbe fatta prima ancora di costituire un tale Consiglio, dal momento che non si possono utilizzare le strutture che hanno uno statuto specifico per finalità eterogenee. Non è corretto eticamente. È unmaquillage che paga nell’immediato, ma sforma le coscienze.

Questo esempio, però, aiuta a riflettere e capire anche un ulteriore dato e cioè che la “diffusione di corresponsabilità”, magari attraverso l’istituzione di nuovi organi collegiali come il Consiglio Pastorale, non è sempre sinonimo di “discernimento” e “comunione”: più si ha il potere e più si può determinare l’andamento degli stessi, soprattutto quando i membri del Consiglio fossero persone di “fiducia” di colui in capo al quale tale potere dipende. Così, è più facile far passare la propria opinione e farla accettare da tutti attraverso l’utilizzo di un Consiglio, piuttosto che imporre la stessa direttamente: è, per evitare altri esempi certamente inappropriati, quello che si potrebbe definire come l’effetto di “indorare la pillola”.

Dunque, se una persona fosse così ubriaca – nel senso greco della ubris – da ritenere d’avere la scienza infusa e, dunque, di essere depositaria di ogni idea perfetta – magari ritenendosi la longa manus di Dio – sarebbe più semplice e di immediata fattibilità per lei imporre la propria opinione lasciando che siano gli altri a proporla. Ma ritengo che il pensare al modo in cui alcuni Eccellentissimi Vescovi esercitano la propria potestà permetta a coloro che hanno fin qui avuto la bontà di leggere queste righe di capire bene a cosa mi stia riferendo.

Ancora, si può entrare nella coscienza delle persone con il terrorizzarle attraverso cambi rapidi di umore, instabilità personale, ira e dolcezza, sguardo ottenebrato seguito da smagliante sorriso a bocca spalancata. È più facile governare con il terrore e l’intimidazione piuttosto che faticare per dar vita ad un gruppo di amici e di collaboratori. Sono più efficaci gli esecutori di ordini, i quali temono di essere cacciati, piuttosto che gli amici, poiché –mysterium iniquitatis – c’è il rischio si prendano qualche libertà di troppo. È più comodo intimare un comando, piuttosto che persuadere coloro che sono alle proprie dipendenze con l’esempio e la parola: si tratta, in definitiva, di una scommessa sulla libertà e, dunque, sulla coscienza dell’altro; il che è cosa che un Dux, un Führer, un Caudillo non vorrebbero certo mai affrontare per paura di perdere, ma soprattutto perché ciò implica una fatica e uno sforzo che spesso non vedono alcun frutto in tempi brevi: “Una cosa è chi semina, una cosa è chi raccoglie”.

Magari, per raggiungere i propri scopi, un Papa Principe – o coloro che volessero un tale personaggio sul soglio di Pietro – potrebbe costituire organismi d’inchiesta affidati a semplici sacerdoti di fiducia perché fungano da controllori di Signori Cardinali e Arcivescovi, creando così un clima incline alla delazione in vista di una gratifica pontificia. Lo zelo di tali sottoposti sarebbe tale da vedere il marcio anche nella trasparenza dell’Ostia durante la celebrazione della Santa Eucarestia (soprattutto se celebrata secondo alcune forme di certi riti), pur di poter scodinzolare intorno a Sua Santità con in bocca non già il quotidiano del giorno, quanto piuttosto denunce anonime o foto particolarmente compromettenti.

Oppure si potrebbe operare, secondo l’antica saggezza sovietica, con la totale estromissione da certi posti di persone appena nominate, dimostrando con un atto di forza chi ha in mano il timone della barca; o mandare in prepensionamento uomini – non si parla solo di nomi senza volto da Bollettino quotidiano, ma di persone in carne ed ossa – che hanno sensibilità diverse, facendo piazza pulita di tutte le voci dissonanti rispetto al tonorectus, tanto amato dal Principe. Egli, infatti, deterrebbe financo il potere di vita o di morte, creando Vescovi e poi facendoli dimettere prima della loro consacrazione.

Certo, l’entourage di un Pontefice Principe Assoluto dovrebbe poi cercare di avere dalla propria parte la stampa, magari chiedendo alla stessa di compiere cernite approfondite nei confronti dei colleghi non allineati attraverso una sorta di metal detector e soprattutto tornelli molto stretti e – perché no? – anche dando qualche consiglio non richiesto al fine di ben conformarsi al nuovo ordine degli eventi, perché “del Papa non si può parlar male”.

Ma si tratta solo di esempi inventati, il cui riferimento a fatti e persone, qualora ci fosse, sarebbe puramente casuale e non voluto da chi qui si firma.

9. I frutti velenosi dell’esercizio della primazia del Pontefice Principe

Quali sarebbero le conseguenze se un Papa si comportasse in questo modo?

Anzitutto, le coscienze dei semplici comincerebbero a fare fatica nel discernere la Verità, assuefacendosi sempre di più alla menzogna.

Mettiamo il caso che un Papa Principe decidesse che a lui fosse lecito improvvisare qualsivoglia cosa la sua mente partorisse durante la celebrazione di una liturgia. Mi si dirà che, in quanto Legislatore – e Liturgo – Supremo, egli avrebbe la possibilità di dispensare se stesso dalle norme approvate. Il fatto è che l’istituto della “Dispensa” è cosa più seria, tanto da non essere prevista in alcun ordinamento una sorta di c.d. “auto-dispensa” (se non in limiti ben precisi). È altresì vero che il Papa, di per sé, non avrebbe bisogno di dispense perché egli potrebbe abolire una norma precedente e crearne una nuova, magari anche ad personam, quando volesse. Ma, a questo punto, bisognerebbe riflettere sul fatto che la norma è tale in quanto possiede una sua stabilità – non si possono continuamente creare e abolire norme – e, soprattutto, perché è in qualche forma emanata. Dunque, se un Pontefice volesse creare una nuova legge, potrebbe farlo anche seduta stante. Ma che lo facesse!

Se, per ipotesi assurda, un giorno durante la celebrazione dell’Eucaristia, un Papa ritenesse che gli abiti sacerdotali suoi propri non fossero più quelli stabiliti dalla Riforma conciliare, bensì altri, nessuno potrebbe obiettare, ma che almeno lo stabilisse come norma specifica. Perché il rischio, come cercavo di dimostrare, è che poi i Parroci in primis si sentirebbero troppo stretti nelle briglie delle leggi liturgiche, dal momento che chi ha laplenitudo potestatis sarebbe il primo a non rispettarle.

Questa sarebbe davvero un’eventualità funesta! Con tale esempio è più facile capire ora cosa significhi rovinare le coscienze, magari dando il colpo di grazia ad alcune già ridotte male.

Non si tratta di questioni di lana caprina, del resto, e non sarebbe lecito appellarsi all’antica diatriba legata al difficile rapporto tra ciò che è pastorale e ciò che è normativo per giustificare ogni cosa: “Che cosa è più importante, la norma o non piuttosto il bene dei fedeli?”. Non si potrebbe invocare la pastoralità, la missionarietà o una presunta nuova ecclesiologia a discapito degli elementi formali che costitutivamente fanno parte della Chiesa di Cristo secondo la reale ecclesiologia del Concilio Vaticano II. Lo ha ricordato proprio alcuni giorni or sono il Papa nell’Udienza concessa al Tribunale della Rota Romana: “La dimensione giuridica e la dimensione pastorale del ministero ecclesiale non sono in contrapposizione”.

Ma continuiamo negli esempi e ipotizziamo, ancora per un attimo, che un Romano Pontefice durante i riti introduttivi di una Prima Comunione chiedesse, come “fulmine a ciel sereno”, di interrompere l’azione liturgica ed andare davanti a ciascun bambino per dar loro un ceffone. Tale gesto non avrebbe alcun significato in nessuno dei settori che la mente umana possa immaginare (antropologico?, liturgico?, sociologico?, pastorale?, psicologico?, sacramentale?, educativo?, teologico?, ecc.). Perché, dunque, farlo? Perché aggiungere a proprio uso e piacimento qualcosa a quella che dovrebbe essere partecipazione all’opera che è e rimane “azione di Cristo e della Chiesa”? Perché il principioperinde ac cadaver dovrebbe valere per tutto l’Orbe cattolico, tranne che per il Pontefice, infallibile – tra l’altro e se la memoria non m’inganna – solo nelle cose che egli stabilisce con specifica formula?

Eppure anche la Rivoluzione Francese ha dimostrato che il terrore non porta nulla di buono, se non al taglio delle teste, l’ultima delle quali, normalmente, è proprio quella del Sovrano. Con il terrore e l’elevarsi al di sopra della legge, infatti, si permette la costituzione di una classe dirigente che soffre gravemente e costitutivamente di clericalismo, immune a qualsiasi medicina contro di esso. Per tali persone, il desiderio di potere, infatti, cresce così a dismisura da costituire una vera e propria dipendenza al pari di una qualsiasi altra droga. I preti lo sanno molto bene che è facile dire: “Lo faccio per Dio”; ma in realtà sarebbe più giusto scrivere: “Lo faccio per l’io”. Inoltre, chi vive e soffre nel terrore tende ad assumere nei confronti dei propri sottoposti quello stesso tipo di atteggiamento. Il terrore genera solo terrore. L’elevarsi al di sopra della legge, invece, genera il caos, che del terrore è il migliore amico.

10. L’“obiezione di coscienza” contro la primazia del Pontefice Principe

papa_benedetto_XVIQualcuno potrebbe ritenere che il metodo Ratzinger abbia fallito, valutandolo come ingenuo ed inefficace. E le sue dimissioni sarebbero per essi la riprova di ciò: amando la libertà dell’altro, amandone la coscienza, essendo naturalmente portato ad avere fiducia dell’umana fragilità, “avendo amato i suoi fino alla fine”, non si sarebbe accorto del tradimento che ai suoi danni si stava tramando ormai da tempo e per il quale egli stesso, in qualche modo, ha offerto ai sicari il pugnale mortifero. In tal senso, si dovrebbe dire che il primato della coscienza sarebbe stato per Benedetto XVI come un “cavallo di Troia”, carico al suo interno di “rapina e omicidi”.

Tale affermazione è, però in realtà, valida solo per coloro che giudicano la storia nell’immediato e si dedicano alla cronaca da rotocalco piuttosto che alla lettura di Erodoto. Anche perché la morte in Croce di nostro Signore ci ha dimostrato che le circostanze in cui viviamo vanno giudicate con gli occhi di Dio e non con le categorie umane. Il popolo di Dio, pertanto, ha imparato ad apprezzare le virtù che ha visto in atto con l’atteggiamento mite e mansueto dell’Agnello e, allo stesso tempo, ha capito che era necessario evitare i vizi di cui erano così intrisi i cuori dei presunti vincitori.

Forse che la musica stia cambiando proprio ora? O forse che, magari, sia proprio finita? Forse che la Chiesa si stia adeguando agli standard della televisione di stato, la quale trasmette sempre meno programmi educativi – troppo noiosi, pare – e più d’intrattenimento?

La Chiesa non ha bisogno d’intrattenimento! La Chiesa deve predicare Cristo Crocefisso e Risorto: senza paura di avere le chiese vuote. Il riempirle con facili astuzie e raggiri della coscienza sarebbe solo un modo per tenere in vita qualcosa che in sé – questo sì, come un vero “cavallo di Troia” – avrebbe già il seme della propria morte.

Non servirebbe a nessuno un Papa saltimbanco, dal momento che la Chiesa ha sempre bisogno di un Papa che “à da fà er Papa”, come ha bisogno di laici, madri e padri, insegnanti e impiegati, preti e suore, giovani e adulti impegnati unicamente nel raggiungimento della santità attraverso il compimento della propria specifica vocazione. Diversamente, Dio ce ne scampi! Abbiamo sempre bisogno di un Papa che sulle spalle si carichi null’altro se non la Croce di Cristo che è venuto non per essere osannato dal mondo, ma per farsi ammazzare, pur di risvegliare negli uomini la coscienza retta, unica possibilità perché Egli sia riconosciuto come il Signore del tempo e della storia.

Io, se mai esistesse un Papa del terrore e dell’astuzia penserei che è eccentrico, un uomo che, già ubriaco, continua a brindare a se stesso e mai alla coscienza. Un uomo che, magari pur mostrandosi come umile, in realtà si comporta come un vero Principe Assoluto. Se mai esistesse, sarei chiamato proprio dalla mia coscienza a dire a lui e al mondo che bisogna fare attenzione, che è necessario educare gli uomini alla libertà, a cominciare dagli infimi e i più piccoli – senza peraltro aver pietà dei collaboratori dalla facile genuflessione, i quali non hanno scuse alla connivenza.

In realtà, proprio l’affermazione del primato della coscienza dovrebbe far comprendere che nella Chiesa tutti siamo chiamati a vivere con radicalità la nostra fede, al di là del fatto che il Papa sia un vero Vicario o, piuttosto, un despota superbo, testimone di se stesso. Il Signore non ci giudicherà sul fatto che il Vescovo di Roma del nostro tempo sia più o meno santo, ma a ciascuno di noi chiederà conto di quanto abbiamo amato Lui e di come Lo abbiamo testimoniato.

Il primato della coscienza implica un lavoro che nessuno può derogare o subappaltare ad altri: ognuno deve faticare nel portare un pezzo della Croce di Cristo, quel pezzo che Egli stesso ci ha affidato. Tale primato si compie ogniqualvolta ci rendiamo conto che non possiamo giudicare la Chiesa con sguardo clericale e che – seppure con compiti diversi assegnati dallo Spirito – ogni persona ha davanti a Dio la stessa dignità: il Papa come l’ultimo dei battezzati! La primazia della coscienza rispetto al Papa è l’antidoto ad ogni forma di  clericalismo, di schiavitù e di menzogna, l’unica possibilità che abbiamo per amare davvero, con cuore sincero e puro, il Papa, la Chiesa e noi stessi.

Perciò, se mai esistesse un Papa anti-cristico, non dovremmo aver paura. Piuttosto, dovremmo sentire ancor di più il peso della responsabilità nell’essere sentinelle della Verità con l’esempio e la parola. Probabilmente inascoltati e, forsanche, derisi ed isolati, ma pur sempre liberi di poter offrire un brindisi “alla coscienza”, sperando davvero che mai si arrivi a perdere totalmente il senno della ragione – negando così anche la dignità della natura umana – per brindare “alla primazia del Pontefice Principe”!

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740717] Vi riproponiamo il video intervista

traendo da questo le due immagini bellissime di Benedetto con i gatti

www.youtube.com/watch?v=LbME_fdU5B4



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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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24/02/2014 09:53
 
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 FANTASTICA RIFLESSIONE DI SOCCI SULLA PRESENZA DEI "DUE PAPI" 
ecco un passo imponente ed umile al tempo stesso:

Veniamo ora alle immagini viste ieri in San Pietro. Un vaticanista, ha scritto, in rete, che “Benedetto XVI, vestito di bianco, con il soprabito, era seduto in prima fila, come primo tra i cardinali”.

Solo che egli non è affatto un cardinale e neanche “il primo fra i cardinali”. Quello che è lo ha detto il Segretario di Stato Parolin, dopo aver salutato papa Francesco: “Salutiamo, con uguale affetto e venerazione, il Papa emerito, Sua Santità Benedetto XVI, lieti per la sua presenza in mezzo a noi…”.

Del resto lo stesso Francesco, l’11 febbraio scorso, lo ha chiamato “Sua Santità Benedetto XVI”. Molti sembra che non si accorgano dell’eccezionalità di questa situazione, della sua unicità, in tutta la storia della Chiesa. Evidentemente è dovuta ai tempi che la Chiesa si trova a vivere.

Ieri è stato lo stesso Francesco a renderla evidente al mondo intero. Vedendo quelle immagini infatti tornavano in mente (con tutte le domande del caso) le parole di Benedetto XVI, pronunciate il 27 febbraio 2013, quelle parole che sembra siano state rimosse da molti: “Il ‘sempre’ è anche un ‘per sempre’ - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo”.

Ieri era evidente che “l’esercizio attivo del ministero” petrino è svolto da papa Francesco, ma pure che quel ministero, per quanto riguarda Benedetto XVI, non è “revocato” ed è “per sempre”.

Cosa significhi dal punto di vista ecclesiale non so dirlo. Ma il dovere dei giornalisti è quello di descrivere la realtà dei fatti così come sono, e, nel caso, di fare domande e chiedere spiegazioni e cercare di capire.

Ecco il testo integrale di Socci   


        

DUE PAPI IN SAN PIETRO. I PERCHE’ DI UN EVENTO MAI VISTO IN DUEMILA ANNI

23 FEBBRAIO 2014 / IN NEWS

Nella storia bimillenaria della Chiesa nessuno prima di ieri aveva mai visto in San Pietro due papi insieme e che si abbracciano come fratelli. E’ accaduto al Concistoro dove Francesco ha invitato a partecipare il papa emerito Benedetto XVI.

Francesco ha deviato la solenne processione d’ingresso per andare a salutarlo (poi, uscendo dalla basilica, ha deviato di nuovo per tornare da lui e scambiare alcune parole).

E’ la terza volta che i media immortalano il loro abbraccio. Nel marzo scorso a Castelgandolfo, poi nei giardini vaticani per la benedizione di una statua di San Michele Arcangelo.

Altre volte si sono incontrati e si incontrano privatamente a colazione, lontano dai giornalisti.

Ma quello di ieri è un caso particolare perché era una cerimonia pubblica solenne nella Basilica di San Pietro. Era un avvenimento ecclesiale molto importante, perché si trattava della creazione di 19 nuovi cardinali.

Per questo la partecipazione di papa Ratzinger ha avuto un rilievo particolare: è stata la prima volta, dal giorno del suo ritiro, che ha partecipato a una cerimonia pubblica. Doppiamente significativa questa sua presenza perché ieri, per la Chiesa, era la festa della Cattedra di San Pietro, quindi la festa del Papato.

 

IL MISTERO DELLA RINUNCIA

 

Prima di chiedersi cosa può significare questo “Concistoro dei due papi” (come è stato subito definito), bisogna constatare che Benedetto XVI è apparso in una buona forma fisica.

Sul suo vigore intellettuale non ci sono dubbi e chi ne avesse avuti li ha visti dissolvere, a settembre scorso, leggendo la formidabile risposta che Ratzinger ha fatto a un libro di Piergiorgio Odifreddi.

Una risposta pubblica in cui – pur con la sua consueta cortesia – gli ha impartito una vera e propria lezione. Scorrendo quelle pagine si può constatare che Ratzinger non è solo l’intelligenza più lucida (e ortodossa) della Chiesa, ma anche una delle menti più illuminate della nostra epoca.

Però la constatazione della sua buona forma fisica e della sua perfetta lucidità intellettuale, ripropone mille domande sui motivi della sua “rinuncia”.

Tutti i papi infatti, nel corso dei secoli, hanno vissuto i loro ultimi anni di pontificato disponendo di forze molto ridotte per l’avanzata età (basti ricordare il grande Giovanni Paolo II che ha fatto dell’ultimo suo periodo di ministero una testimonianza dalla croce).

E’ obiettivamente inspiegabile dunque il “ritiro” di un papa come Benedetto XVI che è tuttora in salute e perfettamente efficiente. Considerata la guerra spietata che gli è stata fatta, anche dentro alla Curia e alla Chiesa, fin dalla sua elezione, nel 2005, è del tutto legittimo sospettare che vi siano state pressioni indebite per indurlo al “ritiro”. O comunque che siano state create le condizioni per spingerlo a quel passo.

 

PAPA PER SEMPRE

 

Veniamo ora alle immagini viste ieri in San Pietro. Un vaticanista, ha scritto, in rete, che “Benedetto XVI, vestito di bianco, con il soprabito, era seduto in prima fila, come primo tra i cardinali”.

Solo che egli non è affatto un cardinale e neanche “il primo fra i cardinali”. Quello che è lo ha detto il Segretario di Stato Parolin, dopo aver salutato papa Francesco: “Salutiamo, con uguale affetto e venerazione, il Papa emerito, Sua Santità Benedetto XVI, lieti per la sua presenza in mezzo a noi…”.

Del resto lo stesso Francesco, l’11 febbraio scorso, lo ha chiamato “Sua Santità Benedetto XVI”. Molti sembra che non si accorgano dell’eccezionalità di questa situazione, della sua unicità, in tutta la storia della Chiesa. Evidentemente è dovuta ai tempi che la Chiesa si trova a vivere.

Ieri è stato lo stesso Francesco a renderla evidente al mondo intero. Vedendo quelle immagini infatti tornavano in mente (con tutte le domande del caso) le parole di Benedetto XVI, pronunciate il 27 febbraio 2013, quelle parole che sembra siano state rimosse da molti: “Il ‘sempre’ è anche un ‘per sempre’ - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo”.

Ieri era evidente che “l’esercizio attivo del ministero” petrino è svolto da papa Francesco, ma pure che quel ministero, per quanto riguarda Benedetto XVI, non è “revocato” ed è “per sempre”.

Cosa significhi dal punto di vista ecclesiale non so dirlo. Ma il dovere dei giornalisti è quello di descrivere la realtà dei fatti così come sono, e, nel caso, di fare domande e chiedere spiegazioni e cercare di capire.

 

PERCHE’ E’ TORNATO

 

Eccoci dunque alla domanda sul significato della scelta di papa Francesco. Perché ha voluto Benedetto ieri in San Pietro al solenne Concistoro?

Forse è stato un gesto di cortesia. E’ la risposta più immediata. Ma forse anche la più banale e, a ben vedere, del tutto insoddisfacente.

Perché questo evento accade dopo un anno dal loro avvicendamento, un anno durante il quale ce ne sono state molte altre di cerimonie a cui Benedetto XVI avrebbe potuto partecipare. A cominciare dalla messa d’insediamento di Francesco.

Se dopo un anno si verifica un fatto del genere, che interrompe – per comune volontà di Bergoglio e di Ratzinger – l’“assenza” di Benedetto XVI dal mondo (che era stata annunciata come totale e definitiva), il motivo probabilmente è diverso. Più profondo e importante.

Nessuno è nella mente dei due papi, quindi è inutile fare illazioni. C’è però una coincidenza che fa riflettere. Proprio l’altroieri il Concistoro era stato aperto dalla relazione del cardinale Kasper sui temi caldissimi del prossimo Sinodo (relativi alle questioni della famiglia e dell’accesso ai sacramenti).

Kasper rappresenta le fazioni progressiste-moderniste della Chiesa, quelle che vogliono andare verso un sostanziale annacquamento della dottrina, ovvero – a mio avviso – verso l’autodemolizione della Chiesa, resa subalterna alle ideologie mondane.

Ratzinger – prima da cardinale, braccio destro di Giovanni Paolo II – e poi da Papa, è sempre stato considerato da queste fazioni come il grande avversario.

Egli ha rappresentato e rappresenta infatti non solo l’ortodossia, la fedeltà alla tradizione della Chiesa, ma anche una straordinaria intelligenza cattolica, capace di dialogare col mondo senza sottomettersi ad esso e – anzi – affascinando e attraendo le migliori intelligenze laiche.

 

CHIESA SOTTO ATTACCO

 

Nelle scorse settimane si sono fatte sentire molto le fazioni ecclesiastiche che vorrebbero fare del Sinodo una sorta di Vaticano III.

Del resto dall’esterno sono arrivate pressioni gravissime per un “rovesciamento” della dottrina cattolica: basti ricordare il recente fazioso attacco dell’Onu alla Chiesa.

Ma la presenza ieri in San Pietro, al Concistoro, di “Sua Santità Benedetto XVI”, chiesta da Francesco, è uno di quei fatti che parlano da soli.

Che fanno fare memoria della retta via e della retta dottrina. Dal momento che il dovere principale del Papa è proprio la custodia del “depositum fidei”.

Del resto la stessa omelia di Francesco, ieri, è stata – per così dire – di sapore ratzingeriano. Il Papa ha detto infatti ai nuovi cardinali: “La Chiesa ha bisogno del vostro coraggio, per annunciare il Vangelo in ogni occasione opportuna e non opportuna, e per dare testimonianza alla verità”.

Ha aggiunto che “la strada che Gesù sceglie è la via della croce… Diversamente dai discepoli di allora”, ha osservato il Papa “noi sappiamo che Gesù ha vinto, e non dovremmo avere paura della croce, anzi, nella croce abbiamo la nostra speranza. Eppure, siamo anche noi pur sempre umani, peccatori, e siamo esposti alla tentazione di pensare alla maniera degli uomini e non di Dio”.

Questo modo mondano di pensare produce poi “le rivalità, le invidie, le fazioni”. Il Papa ha chiesto dunque ai cardinali di respingere la mentalità del mondo.

Infine ha ricordato ai pastori che il gregge di Cristo è perseguitato in molte parti del pianeta, invitando a “lottare contro ogni discriminazione”, a pregare per questi fedeli e a confortarli nella prova in tutti i modi. Francesco ha parlato come Benedetto.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 23 febbraio 2014

Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

 

Papa Ratzinger: assurdo speculare sulla mia rinuncia al ministero petrino



“Non c'è il minimo dubbio sulla validità della rinuncia al ministero petrino, è assurdo speculare su tale decisione”.

Così il Papa emerito Benedetto XVI risponde con una lettera pubblicata in prima pagina ad alcune domande postegli dal quotidiano La Stampa, dopo alcuni commenti e interpretazioni del suo gesto su media italiani e internazionali. Massimiliano Menichetti:RealAudioMP3 

Il Papa emerito torna a parlare della sua rinuncia al ministero petrino avvenuta l’11 febbraio di un anno fa. Sceglie brevi ma intense risposte, scritte con carta e penna. Dopo le speculazioni, degli ultimi giorni, della stampa italiana ed internazionale ribadisce che “non c’è il minimo dubbio circa la validità della” “rinuncia”. E precisa: “unica condizione della validità è la piena libertà della decisione”.

Papa Ratzinger sottolinea poi che le “speculazioni circa la invalidità della rinuncia sono semplicemente assurde”. Rispondendo poi a domande relative al significato del “mantenimento dell’abito bianco” e del nome di Benedetto risponde che “è una cosa semplicemente pratica”. Nel momento della rinuncia – spiega - non c’erano a disposizione altri vestiti”. “Del resto – afferma - porto l’abito bianco in modo chiaramente distinto da quello del Papa”. Anche qui – ha concluso - si tratta di speculazioni senza il minimo fondamento.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/02/26/papa_ratzinger:_assurdo_speculare_sulla_mia_rinuncia_al_ministero/it1-776538 
del sito Radio Vaticana 




Dopo la risposta ironica data alla Stampa di mercoledì (secondo cui Ratzinger sarebbe rimasto papa emerito solo perché ormai aveva il vestito bianco nell’armadio e non si trovava una tonaca nera in tutto il Vaticano), risposta surreale che solo chi crede all’esistenza dei Puffi poteva prendere sul serio, due giorni dopo - il 28 febbraio - è arrivata la risposta vera, tramite il segretario particolare di Benedetto XVI, monsignor Georg Gaenswein.

Interpellato da Avvenire, infatti, alla domanda se Ratzinger si è mai pentito di aver assunto il titolo di papa emerito, don Georg ha risposto di no e ha spiegato perché ha deciso così: «Ritiene che questo titolo corrisponda alla realtà».

Ecco la risposta seria. Prova che invece era una battuta scherzosa quella con cui è stata liquidata La Stampa, che era andata a disturbare chi non poteva parlare (Benedetto si è impegnato solennemente a stare «nascosto al mondo»).

Qualcuno dirà che poteva non rispondere alla fastidiosa interpellanza. Ma se non rispondeva il suo silenzio poteva essere letto come troppo sospetto e sedizioso.
Le parole del segretario spiegano che il titolo di «papa emerito» non è certo dato dall’abito, perché l’abito non fa il monaco (anche il bimbo salutato mercoledì da Francesco in piazza San Pietro era vestito da papa). Gaenswein afferma che nel caso di Ratzinger quella qualifica «corrisponde alla realtà».

Chi ha orecchie, intenda. È una risposta molto importante ed è esattamente in linea con le parole pronunciate da Benedetto XVI nel suo ultimo discorso, il 27 febbraio 2013, in cui, parlando del suo ministero petrino, disse: «Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo».

Cosa teologicamente significhi tutto ciò, che crea una situazione nuova nella storia della Chiesa, per ora non è stato spiegato. Ma verrà il tempo in cui tutto si chiarirà.
Dopo l’unica spiegazione pubblica del suo status, del 27 febbraio 2013, Benedetto XVI si è impegnato solennemente a non parlare più. Parlano però i suoi gesti, i suoi segni e le sue decisioni e corrispondono esattamente a quanto venerdì ha dichiarato monsignor Gaenswein.

Frasi da rileggere
In una precedente intervista al Messaggero, il 22 ottobre scorso, il segretario particolare di Ratzinger, che è pure Prefetto della Casa Pontificia con Francesco, aveva detto altre cose molto importanti, da rileggere attentamente, frase per frase.

La domanda era stata questa: «In Vaticano non c’è il rischio di avere un Papa e un antipapa?». Ecco la sua significativa risposta: «Per nulla. C’è un Papa regnante e un Papa emerito. Chi conosce Benedetto XVI sa che questo pericolo non sussiste. Non si è mai intromesso e non si intromette nel governo della Chiesa, non fa parte del suo stile. Il teologo Ratzinger, inoltre, sa che ogni sua parola pubblica potrebbe attirare l’attenzione, e qualsiasi cosa dicesse verrebbe letta pro o contro il suo successore. Quindi pubblicamente non interverrà. Per fortuna fra lui e Francesco c’è un rapporto di sincera stima e affetto fraterno».

Lascio ai lettori il commento. Io mi limito a osservare che appare del tutto fuori strada sia chi oggi usa Benedetto contro Francesco, sia chi - e sono i più - usa Francesco contro Benedetto. Non si può né delegittimare e cancellare Benedetto in nome di Francesco, né delegittimare e cancellare Francesco in nome di Benedetto. Senza con ciò ritenere «normale» la situazione (bisogna guardare al Terzo segreto di Fatima).

Anche se fuori trapela poco e pare che d’improvviso sia stato messo uno strano silenziatore agli scandali, il momento è drammatico. La barca di Pietro è sotto attacco, dall’esterno e dall’interno, come mai lo è stata prima.

I due pastori sanno di vivere una situazione inedita nella storia bimillenaria della Chiesa (anche se i vaticanisti si fanno in quattro per dire che è tutto normale). Loro due sono ben consapevoli della delicatezza dei loro ruoli e della drammaticità loro compiti.

Molte cose, oggi, non possono dire e non possono spiegare. E i segnali e i messaggi che escono dai Sacri Palazzi sono sottili, vanno colti e decifrati con perspicacia, passione per la

Chiesa e libertà interiore (con una certa consapevolezza di quella lingua cifrata che è il «curialese»).

Qua e là si possono rinvenire le briciole di notizie disseminate «distrattamente» sulla via. Per far capire la situazione e la strada.

Per esempio, da un’altra recente intervista di monsignor Gaenswein - che poi è l’uomo di collegamento fra Benedetto e Francesco - si apprendono cose interessanti.

Mi riferisco a ciò che ha dichiarato al Washington Post. Don Georg dice che Benedetto ha «una grande stima» di Francesco e che essa «è cresciuta per il coraggio del nuovo Papa, settimana dopo settimana. All’inizio non si conoscevano molto bene, ma poi Papa Francesco gli ha telefonato, gli ha scritto, gli ha fatto visita, gli ha telefonato di nuovo e lo ha invitato (a riunioni private), e allora i loro contatti sono divenuti molto personali e confidenziali».

Dov’è qui la «briciolina»? Nella frase: «lo ha invitato a riunioni private». Una notizia apparentemente piccola, ma che in realtà può avere un enorme significato.

Poi Gaenswein ha detto ciò che ha potuto osservare lavorando con i due uomini di Chiesa: «lo stile di Papa Francesco è molto diverso, anche se questo non vuol dire che il contenuto sia migliore», ma «il suo stile ha creato molto interesse tra i fedeli e anche al di fuori della Chiesa».

Ha aggiunto: «Il successo non è l’angolo giusto da cui giudicare un papato». E ha concluso sottolineando che Benedetto XVI «ha piantato molti semi e i risultati non si possono vedere subito».

È alla luce di questo quadro molto complesso che va considerato anche l’episodio della Stampa (che, curiosamente, ha reso note, su nostra richiesta, solo le risposte, ma non ancora le domande).

Fra l’altro Andrea Tornielli iniziava il suo articolo, giovedì scorso, annunciando che Benedetto XVI smentiva chi aveva parlato di «diarchia». Pure su Vatican Insider ha scritto: «Benedetto dice chiaramente che non partecipa a una diarchia».

Ma, a rigore, nella lettera di Benedetto questa smentita non c’è (di «diarchia» non parla affatto). Ciò non significa che la legittimi, ma la negazione esplicita non si legge.

Tornielli dice pure che «Benedetto rifiuta decisamente qualsiasi speculazione su motivazioni segrete per la sua rinuncia» e anche questo non è vero: non dice nulla sulle motivazioni (dunque le ipotesi che sono state fatte non sono state smentite).

Egli ripete solo che la sua è stata una scelta libera, cosa che già aveva dichiarato solennemente e che nessuno ha mai contestato.

Quella lettera contiene poi altre stranezze. Al primo punto vi si legge: «unica condizione della validità (della rinuncia) è la piena libertà della decisione». Unica? Possibile che Benedetto XVI ignori che nel Codice di diritto canonico le condizioni per la validità sono due?

Per quanto riguarda il vestito vi si legge che il suo «abito bianco» è «distinto da quello del Papa». Ma in realtà lui, anche quando era papa regnante, nella vita privata vestiva esattamente come ora (e ci sono le foto che lo provano). Quindi continua a vestire da papa.

Gli auguri natalizi
Infine la firma. Ho un biglietto di auguri natalizi del papa emerito del dicembre scorso, due mesi fa. È possibile notare che la grafia è molto diversa e che si firma «Benedictus», come sempre ha fatto, mentre nel biglietto a Tornielli si legge «Benedetto». 

Infine nel biglietto di auguri, fra il nome e il numerale, c’è la sigla papale «PP», mentre non c’è nel biglietto di Tornielli, in cui invece c’è un improprio punto dopo «XVI».

Ovviamente il biglietto è autentico. Ma scritto in modo tale da non chiarire nulla e - anche con la battuta sull’abito bianco - da autoinvalidarsi e - sostanzialmente - burlarsi finemente degli interroganti.

Benedetto fa pensare alle parole di Gesù nel Vangelo: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque astuti come i serpenti e puri come le colombe» (Mt 10, 16).

di Antonio Socci





[Modificato da Caterina63 02/03/2014 22:46]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  E ancora...........



FRANCESCO CHIAMA BENEDETTO ACCANTO A SE’. LE TEMPESTE SI AVVICINANO

6 MARZO 2014 / IN NEWS

Nell’intervista a papa Bergoglio, pubblicata ieri da Ferruccio De Bortoli sul “Corriere della sera”, ci sono notizie sorprendenti su quello che sta accadendo nella Chiesa e sul bivio davanti al quale si trova questo pontificato. Che si annuncia drammatico.

 

I DUE PAPI

Anzitutto constatiamo che addirittura papa Francesco scende in campo sulla questione relativa a Benedetto XVI e al suo “papato emerito” e questo fatto, da solo, zittisce i tanti pierini clericali i quali sostenevano, nelle scorse settimane, che i nostri articoli ponevano una questione inesistente e perfino dannosa.

Dalle parole di Francesco scopriamo la durezza della battaglia che viene combattuta, su Benedetto XVI, oltretevere (“qualcuno avrebbe voluto che si ritirasse in una abbazia benedettina lontano dal Vaticano”).

E c’è poi una notizia: Benedetto e Francesco hanno deciso che il papa emerito non sia più “nascosto al mondo” come aveva annunciato inizialmente: “ne abbiamo parlato e abbiamo deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa”.

Notizia di grande portata. Coloro che hanno voluto per anni affondare il papato di Benedetto (cominciando dai cardinali spergiuri del 2005) e che hanno cantato vittoria quando Benedetto ha rinunciato, adesso si ritrovano Ratzinger che è rimasto “papa emerito” e che – per volontà di Francesco – addirittura esce dalla clausura e parteciperà alla vita della Chiesa, perché – dice Francesco – “la sua saggezza è un dono di Dio”.

Cosa questo significherà ancora non si sa, ma si può pensare che il desiderio di Bergoglio di avere accanto Ratzinger preannunci l’arrivo di tempi molto drammatici.

 

IL FUTURO CHIARIRA’

Francesco, forse per far digerire la pillola ai tanti nemici di papa Benedetto, ha cercato di motivare questa decisione ricorrendo a una consuetudine già introdotta dopo il Vaticano II, ovvero “l’istituzione” del vescovo emerito. Così da mettere fine alle obiezioni.

Ma lui stesso, verosimilmente, sa che un simile paragone non regge e che la questione, prima o poi, andrà davvero inquadrata e motivata nella sua novità.

Perché l’istituzione del vescovo emerito è dovuta alla regola sul limite di età per i vescovi, regola che non c’è per il papa. E soprattutto perché il papato non può essere ridotto a un qualsiasi episcopato, pena il venir meno del pilastro della Chiesa Cattolica Apostolica Romana (oltretutto la consacrazione episcopale è un sacramento mentre il papato è qualcosa di diverso e superiore, tanto che ha giurisdizione immediata e  universale su tutti i vescovi della Terra).

Non a caso, un anno fa, il canonista Ghirlanda, sulla “Civiltà Cattolica”, riflettendo l’orientamento generale dei canonisti, prospettò, per Benedetto, il titolo di “vescovo emerito di Roma”, ma il papa bocciò l’idea ritenendo che il titolo che corrispondeva alla realtà fosse invece quello di “Papa emerito”.

Il fatto che lo stesso Benedetto XVI abbia definito la sua rinuncia come un atto “grave” mostra che non è affatto una decisione “normale”, men che meno riconducibile a una sua presunta volontà di “normalizzazione episcopale” del papato.

E il mistero riguarda anche la scelta – unica nella storia della Chiesa – di restare “papa emerito”.

L’invito al Concistoro pubblico fatto da Francesco sembra inaugurare il “ritorno” di Benedetto nella vita pubblica della Chiesa, ma non è affatto un “ritorno alla normalità”, come qualche “pompiere” dei giornali si è affrettato ad affermare, ma – al contrario – l’inizio di una situazione del tutto nuova, come papa Francesco fa ben capire.

Inoltre, nel caso specifico, quell’abbraccio pubblico in San Pietro è servito a calmare un po’ le acque giacché l’avvio del Sinodo sulla famiglia è stato incandescente a causa della relazione del cardinale Kasper che è stata apertamente contestata, per i suoi contenuti fuori dai binari cattolici, da diversi autorevoli porporati.

 

CERCHIOBOTTISMO?

Del resto il papa Francesco che ha chiesto a Kasper quella relazione sui divorziati risposati e che l’ha elogiata (si tratta forse di pedaggi del Conclave), è lo stesso papa Francesco che ha avallato (e probabilmente chiesto) i ripetuti interventi, in senso opposto, del cardinale Muller, prefetto dell’ex S. Uffizio.

Nell’intervista il papa spiega che sui temi del Sinodo non ha affatto timore del dibattito, ma anzi che “cerca” il confronto più vivace e libero. Però fa anche sapere che alla fine, “quando si tratta di decidere, di mettere una firma… (il Papa) è solo con il suo senso di responsabilità”.

Il Sinodo sarà il momento della verità. Ci sono molti, dentro e fuori della Chiesa, che si attendono da Francesco una rivoluzione e magari pure che autodemolisca la Chiesa (la potente pressione dei media e dei poteri di questo mondo va in questa direzione). Altri, all’interno della Chiesa (e senza potere nel mondo), temono fortemente che si verifichi questa tragedia e sperano che il papa non ceda, che difenda la fede cattolica nella sua integralità, in continuità con il magistero di sempre.

Da questa intervista si capisce cosa accadrà?

Alcuni ritengono che  Francesco dia un colpo al cerchio e uno alla botte. Faccio alcuni esempi.

E’ evidente che il Papa non vuole lanciare crociate, come lui dice, né ricordare al mondo la legge naturale.

Tuttavia raccoglie l’appello lanciato da Giuliano Ferrara e altri intellettuali sul Foglio, che si mettevano a disposizione dopo l’attacco alla Chiesa venuto dal recente documento dell’Onu.

Qualcuno ha preteso di liquidare l’appello di Ferrara come se volesse insegnare al Papa, invece Francesco ha fatto sua la preoccupazione del Foglio. Sempre qualche superficiale ha liquidato l’appello come se riguardasse i “valori non negoziabili”, mentre concerne la dignità della Chiesa e la sua libertà.

Il Papa lo fa capire bene, dicendo che sulla difesa dell’infanzia “Benedetto XVI è stato molto coraggioso…nessuno ha fatto più della Chiesa. Eppure la Chiesa è la sola ad essere attaccata”.

Un altro problema. Nell’intervista è praticamente spazzata via la priorità dei “valori non negoziabili”, che ha caratterizzato gli ultimi due pontificati. Ma non perché Francesco neghi quei valori, semmai perché li identifica con la morale cattolica che oggi deve essere subordinata all’evangelizzazione.

Il primato dell’annuncio evangelico è sacrosanto e condiviso anche dai predecessori. Ma forse papa Bergoglio non ha approfondito la grande “questione antropologica” denunciata da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI: essa mostra un’autentica emergenza che minaccia la stessa sopravvivenza dell’umanità. E questa è tutt’altra cosa rispetto alla priorità della fede sulla morale.

In ogni caso a questa posizione, che verrà usata dai progressisti, si accompagna una difesa a spada tratta dell’Humanae vitae di Paolo VI che è la “bestia nera” del progressismo.

Francesco dice che “la sua genialità fu profetica, ebbe il coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale, di esercitare un freno culturale, di opporsi al neo-malthusianesimo presente e futuro”.

Una simile difesa dell’Humanae vitae è sorprendente e colloca Francesco nel solco dei predecessori. Importante anche l’accenno al “coraggio” di Paolo VI di “schierarsi contro la maggioranza”.

Potrebbe prefigurare la prova che attende Francesco.

 

FRANCESCOMANIA

 

Forse per questo egli oggi dice che la “francescomania” non durerà a lungo. Ed ha aggiunto una decisa sconfessione dei tanti suoi sedicenti “interpreti”, specie di chi lo mitizza per strattonarlo verso la rivoluzione della Chiesa: “non mi piacciono le interpretazioni ideologiche, una certa mitologia di papa Francesco…Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione”.

Con ciò sembra già prefigurare quello che gli toccherà subire. Di recente monsignor Georg Gaenswein ha detto: “Papa Benedetto dovette affrontare difficili problemi, per papa Francesco le vere prove devono ancora venire”.

Antonio Socci

Da “Libero”, 6 marzo 2014

Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”




 

  Carpi: avviati progetti imprenditoriali grazie a donazione di Benedetto XVI



Sono diversi i progetti finanziati attraverso “Fides et Labor”, il piano di finanza sociale della diocesi di Carpi per sostenere le idee imprenditoriali di giovani che non possono accedere al finanziamento delle banche. Il fondo è nato da una donazione, effettuata nel 2012, da Benedetto XVI. Su questa iniziativa si sofferma, al microfono di Amedeo Lomonaco, il vescovo di Carpi, mons. Francesco Cavina:RealAudioMP3 

R. – Lunedì scorso, 10 marzo 2014, abbiamo finanziato i primi otto progetti per un totale di 80 mila euro. C’è un grande spettro di attività: si passa da progetti legati ad Internet, allo sviluppo di radio, ad una pasticceria, al recupero di un ristorante, etc… Questi ragazzi veramente ci hanno dimostrato, con grande sorpresa, proprio la loro grande voglia di lottare e di credere che per loro c’è un futuro. Quindi mi verrebbe da dire, se mi è concesso, che se altre diocesi potessero seguire questo esempio, riusciremmo a realizzare quasi 9 mila progetti di lavoro per altrettanti giovani. Quello che mi ha colpito è stato proprio il senso di gratitudine di questi ragazzi, perché hanno trovato qualcuno che dà loro fiducia. Molti di questi non sono praticanti, ma hanno riconosciuto questa grande attenzione della Chiesa nei loro confronti, un’attenzione che non si aspettavano.

D. – Quali sono le modalità con cui i ragazzi hanno accesso a questo credito?

R. – Una volta che si è accertato che vivono in diocesi, si valuta il progetto che loro presentano. C’è una Commissione, costituita da un professore universitario, da un esponente della diocesi, da due imprenditori, da un notaio, da un avvocato e da un commercialista. Valutano la fattibilità del loro progetto. Poi, dopo, viene valutato il tipo di finanziamento che è necessario per dare corso al progetto. Anche il finanziamento, che viene concesso loro, è diverso a seconda della tipologia del progetto. Quello che vorrei sottolineare è che questo finanziamento viene dato senza interessi e con un aspetto puramente fiduciario. Noi attendiamo, cioè, che questi ragazzi, una volta raggiunti i risultati, restituiscano il finanziamento che è stato loro dato per dare la possibilità ad altri giovani di potere accedere a questo tipo di aiuto e di sostegno.

D. – Ricordiamo che il Fondo, di circa 300 mila euro, è nato dalla donazione effettuata nel 2012 da Benedetto XVI in visita nelle zone terremotate. Come ha accolto questa iniziativa il Papa emerito?

R. – Sono andato ad incontrarlo il giorno prima della concessione dei finanziamenti. Il Papa emerito è rimasto molto sorpreso di questa iniziativa. E ha commentato: “Ma come? I miei poveri 100 mila euro - volendo dire che erano pochi per le necessità di una diocesi terremotata - hanno ottenuto tanto valore e sono stati così valorizzati?”. Questa è una cosa che l’ha sorpreso molto, ma piacevolmente. Poi ha commentato: “Questo è il modo in cui la fede deve tradursi in opere, perché questo è veramente il modo per dimostrare la vicinanza della Chiesa alle persone ed anche per la Chiesa – ha proprio fatto questo commento – per credere nella Provvidenza”.
E’ rimasto davvero piacevolmente sorpreso. Gli avevo portato poi tutte le schede dei ragazzi che avevano ricevuto il finanziamento, il tipo di progetto e la motivazione per cui era stato dato il finanziamento. Li ha letti veramente con un’attenzione che mi ha colpito, commentando anche, addirittura, quando ha visto che c’era un pasticcere ... e proprio con un sorriso ha detto: “Beh, mi piacerebbe ricevere i pasticcini di questo pasticcere”. Allora gli abbiamo promesso che i primi pasticcini saranno mandati a lui, come segno di gratitudine.

D. – Anche Papa Francesco è a conoscenza dell’esistenza di questo Fondo?

R. – A Papa Francesco lo presenterò il 24 marzo, quando lo incontrerò. Gli presenterò proprio questo tipo di progetto, proponendolo anche – se vuole proporlo – alle diocesi italiane. Potrebbe essere, infatti, veramente un aiuto molto concreto. E’ vero che tante iniziative di aiuto sono presenti nelle diocesi, però questo tipo di progetto - a noi almeno risulta - è unico in Italia. Una diocesi che si fa promotrice di finanziamenti – e ribadisco – senza interessi o anche, eventualmente, a fondo perduto. Non è detto, infatti, che necessariamente questi soldi ci siano restituiti. Ma è proprio qui, però, che subentra il discorso secondo il quale noi dobbiamo credere veramente nella Provvidenza. Noi speriamo che qualcun altro sia disponibile ad aumentare e ad accrescere il nostro Fondo per poter venire veramente in soccorso a tutte le richieste che stanno arrivando. 

D. - Sostenere i giovani, dunque, ed educarli alla speranza, nonostante la crisi significa anche dare coraggio attraverso iniziative concrete come questa...

R. – Esatto. Vorrei solo leggere un commento che mi è arrivato da uno di questi ragazzi che ha ricevuto il finanziamento. Dice che questo finanziamento ci dà una mano non solo da un punto di vista economico, ma ci aiuta – questa realtà di “Fides et Labor” – a conoscere il mondo, anche quello della burocrazia, che non riusciremmo mai a superare senza l’aiuto di esperti. Credo che anche questo sia un aspetto che valga la pena sottolineare: non solo un aiuto economico, ma proprio l’accompagnamento per districarsi nel mondo della burocrazia che i giovani purtroppo non conoscono, perché non hanno mai avuto modo di doverlo affrontare. E tante volte, di fronte alla burocrazia, si sentono scoraggiati trovandosi in un magma che sembra non avere nessun tipo di solidità o possibilità di uscita. Il fatto che vengano accompagnati anche in questo ha dato loro un senso profondo di speranza. Non si sono sentiti semplicemente dire: “Va bene, ti diamo i soldi, arrangiati”. Ma sentono che insieme a loro ci sono un accompagnamento e un’amicizia che continua e che va oltre il finanziamento. E permette, poi, di costruire delle relazioni umane, fondate sulla fiducia, sull’amicizia. Delle relazioni umane che interagiscono tra di loro.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/03/14/carpi:_avviati_progetti_imprenditoriali_grazie_a_donazione_di/it1-781232 
del sito Radio Vaticana 



 

[Modificato da Caterina63 15/03/2014 10:33]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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14/04/2014 09:40
 
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  "voce di uno che grida nel deserto"....
ma noi vogliamo farci autentici testimoni del Risorto, 

ringraziando Papa Benedetto per il suo immenso insegnamento,
è il nostro modo di ricordare
il suo 87° compleanno (il 16 aprile)
e l'Anniversario della sua elezione a Sommo Pontefice
(il 19 aprile) 

 

















 






[Modificato da Caterina63 28/04/2014 23:55]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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05/06/2014 14:21
 
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  Lo sbarco in Normandia e il ricordo del Card. Ratzinger

dday
 

6 giugno 1944, ore 6.30. Una pioggia di fuoco si abbatteva furiosa dal mare sulle spiagge della Normandia. Il D-Day era scattata, l’operazione Overlord iniziata. Le forze Alleate davano così inizio, con un pesantissimo bombardamento navale, alla più grande operazione militare di tutti i tempi per liberare definitivamente l’Europa dal giogo nazista.

Domani il mondo commemorerà quel terribile evento a 70 anni esatti dal suo svolgimento. I grandi della Terra renderanno omaggio alle vittime sulle spiagge insanguinate della Normandia. La commemorazione del D-Day avviene ogni anno, ma in forma più solenne negli anniversari decennali.

Ed esattamente 10 anni fa, il 6 giugno 2004 a celebrare quella ricorrenza in rappresentanza di Papa Giovanni Paolo II fu inviato il Cardinale tedesco Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e Decano del Collegio Cardinalizio. Vale la pena – a 70 anni dallo sbarco in Normandia – ricordare alcuni passaggi del discorso pronunciato da quello che poco meno di un anno dopo sarebbe diventato Papa Benedetto XVI.

Il discorso di Joseph Ratzinger iniziava con un attacco frontale ad Adolf Hitler e al nazismo, una condanna che il futuro Papa avrebbe ripetuto più volte nel corso del pontificato. ‘Un criminale con i suoi accoliti – disse in Normandia – era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa’.

‘Se mai si è verificato nella storia un bellum justum – aggiungeva con coraggio il futuro Papa – è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti. Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa’.

Ma la pace mondiale – notava ancora il Cardinale Ratzinger – era (ed è) ben lontana dall’essere assicurata. Sia per le guerre locali e regionali che si sono scatenate dal 1945 sia per il fenomeno del terrorismo internazionale, ‘una guerra senza un fronte fisso, che può colpire ovunque e non conosce distinzione tra combattenti e popolazione civile, tra colpevoli e innocenti’.

‘La difesa del diritto può e deve – proseguiva ancora il porporato bavarese – in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti. Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza. Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’occhio per occhio, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo. E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata. Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche’.

Per sconfiggere il terrorismo così come è stato battuto il nazismo è necessario – era l’analisi del futuro successore di Giovanni Paolo II – ‘abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione’. Tuttavia non esiste solo il fanatismo religioso, era il monito di Ratzinger. ‘Nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono. Esistono le patologie della religione – sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera’.



Pubblichiamo - da Zenit - di seguito il discorso pronunciato in Normandia dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 4 giugno 2004 in occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario dello sbarco alleato.



* * *


Quando, il 5 giugno 1944, iniziò lo sbarco delle truppe alleate nella Francia occupata dalla Wermacht, l’evento rappresentò per il mondo intero, compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza: la speranza che in Europa presto sarebbero arrivate la pace e la libertà. 

Che cos’era accaduto? Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa. Questo perché un regime diretto da un criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti, così che aveva facoltà, in un certo senso, di esigere di diritto l’obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti dell’autorità dello Stato (Rm 12, 1 e seg.) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come mezzi per i suoi scopi criminali. 

Lo stesso Stato di diritto, che in parte continuava a funzionare nelle sue forme abituali all’interno della vita quotidiana, era diventato una potenza che distruggeva il diritto: la perversione degli ordinamenti, che dovevano servire la giustizia e contemporaneamente consolidavano e rendevano impenetrabile il dominio dell’iniquità, si traduceva in un dominio esteso e profondo della menzogna, tale da oscurare le coscienze. 

Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva fidarsi dell’altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi sotto la maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse a spezzare il cerchio dell’azione criminale, perché fossero ristabiliti la libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser grati non sono soltanto i Paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo grati perché, con l’aiuto di quell’impegno, abbiamo recuperato la libertà e il diritto. 

Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti. 

Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa.

Ex Jugoslavia e Ruanda: l’arsenale dell’inimicizia 

In Europa, a partire dalla fine delle ostilità, nel maggio 1945, ci è stato dato di vivere un periodo di pace lungo come non mai in tutto il corso della storia del continente. Questo in gran parte per merito della prima generazione di politici che hanno operato nel dopoguerra Churchill, Adenauer, Schumann, De Gasperi. 

A loro dobbiamo ancor oggi gratitudine, e dobbiamo essere grati che a guidare in maniera determinante la loro politica non fu un’idea di rivalsa, o di vendetta, o di umiliazione dei vinti ma il dovere di garantire a tutti un diritto; che in luogo della concorrenza fu introdotta la collaborazione, lo scambio di doni offerti e accettati, la mutua conoscenza e l’amicizia nel cuore di una diversità nella quale ciascuna nazione conserva la sua identità e la conserva nella comune responsabilità nei confronti del diritto, in luogo della precedente perversione del diritto. 

Il centro motore di quella politica di pace fu il legame fra l’agire politico e la morale. Il discrimine interno a qualsiasi politica è costituito dai valori morali che noi non inventiamo: essi esistono e sono gli stessi per tutti gli uomini. Diciamolo apertamente: quegli uomini politici hanno fondato la loro idea morale dello Stato, della pace e della responsabilità sulla loro fede cristiana, che aveva superato la prova dell’illuminismo e si era ampiamente purificata nel confronto con la distorsione del diritto e della morale operata dal Partito. 

Essi non volevano costruire uno Stato confessionale bensì uno Stato che prendesse forma attraverso l’etica. A ciò si aggiunge in verità il fatto che l’Europa era divisa da una frontiera che non attraversava soltanto il nostro continente bensì il mondo intero. Una grande parte dell’Europa centrale e dell’Europa orientale si trovava sotto il dominio di un’ideologia che passava attraverso il Partito e sottometteva lo Stato al Partito, trasformandolo esso stesso in partito. 

Anche qui ne derivava un dominio della menzogna. Dopo il crollo di queste dittature, sono emersi con chiarezza i disastri economici, ideologici e spirituali da esse generati. Nei Balcani si è arrivati a conflitti armati nei quali senza alcun dubbio tutto il peso storico del passato produceva per parte sua ulteriori esplosioni di violenza. Ma sottolineare il carattere criminale di quei regimi ed essere felici che siano stati rovesciati non ci esime dal chiederci perché, alla maggior parte dei popoli africani e asiatici, a quei Paesi che erano detti “non allineati”, il regime dell’Est appariva più morale e più realizzabile come modello rispetto all’ordinamento politico e giuridico dell’Occidente. E’ un sintomo, questo, di alcune deficienze nella nostra struttura, deficienze sulle quali dobbiamo riflettere.

Se è vero che l’Europa ha conosciuto dopo il 1945 un periodo di pace, a parte l’eccezione costituita dai conflitti nei Balcani, tuttavia la situazione del mondo nel suo insieme è stata tutt’altro che pacifica. Dalla Corea al Vietnam, all’India, al Pakistan, dal Bangladesh all’Algeria, al Congo, al Biafra e alla Nigeria fino agli antagonismi del Sudan, del Ruanda e del Burundi, dell’Etiopia, della Somalia, del Mozambico, dell’Angola, della Liberia, fino all’Afghanistan e alla Cecenia, sotto i nostri occhi si dispiega un arco ampio e sanguinoso di conflitti bellici ai quali vanno aggiunti i combattimenti in Terra santa e in Iraq. 

Non c’è modo qui di precisare più in profondità la natura di ciascuna di queste guerre le cui ferite continuano a sanguinare. Ma vorrei chiarire un po’ meglio due fenomeni in qualche modo nuovi, nei quali prende evidenza la minaccia specifica del nostro tempo, e dunque anche i compiti specifici di una ricerca della pace. 

Il primo fenomeno consiste nel fatto che l’ordine giuridico sembra esplodere, e con esso la capacità di coabitazione tra comunità differenti. Un esempio tipico di tracollo della forza del diritto e di conseguente trionfo del caos e dell’anarchia mi sembra essere evidente in Somalia, ma anche la Liberia offre un esempio di come una società si disgreghi dall’interno quando l’autorità dello Stato non è in grado di presentarsi come istanza credibile di pace e di libertà e ciascuno è indotto a difendere il suo diritto da sé e con la forza. 

Abbiamo assistito a qualcosa di simile anche in Europa, in seguito alla deflagrazione dello Stato jugoslavo unitario. Popolazioni che, nonostante le forti tensioni interne, per generazioni hanno vissuto insieme pacificamente si sono improvvisamente levate le une contro le altre con una crudeltà inaudita. Si è trattato di un crollo spirituale: le barriere protettive preesistenti non hanno retto al crearsi di una nuova situazione e l’arsenale di inimicizia e di violenza che era annidato nel profondo delle anime, trattenuto fino a quel momento dalla forza del diritto e dalla storia comune, è esploso senza freni. Come è stato possibile? E come è stato possibile che, improvvisamente, in Ruanda, la coabitazione tra hutu e tutsi precipitasse in un’ostilità sanguinosa da ambo le parti?

Le cause di questo crollo del diritto e della capacità di riconciliazione sono certamente molteplici. Possiamo evocarne diverse: il cinismo dell’ideologia aveva oscurato le coscienze, le promesse di quell’ideologia giustificavano ogni mezzo apparentemente idoneo a realizzarle e così avevano abolito la nozione stessa del diritto, quando non la distinzione tra bene e male. 

Accanto al cinismo delle ideologie, e spesso in stretta connessione, opera poi il cinismo degli interessi e dei grandi mercati, lo sfruttamento senza limiti delle risorse della terra. Anche così, in nome del profitto, il bene viene messo da parte e il potere sostituisce il diritto. Anche così la forza dell’ethos si dissolve dall’interno, con la conseguenza finale che lo stesso profitto ne risulta distrutto.

E’ a questo punto che un grande compito si impone ai cristiani della nostra epoca: noi dobbiamo per primi imparare a volerci riconciliare gli uni con gli altri e a fare di tutto perché sia la coscienza a dominare, invece di lasciarsi schiacciare dall’ideologia e dall’interesse. 

Nei Balcani soprattutto (ma lo stesso vale per l’Irlanda) il compito dell’autentico ecumenismo dovrebbe consistere nel ricercare insieme la pace di Cristo, nell’offrirla gli uni agli altri e anche nel considerare la capacità di fare la pace come un autentico criterio di verità.

La nuova guerra mondiale: il terrorismo 

L’altro fenomeno che oggi sommamente ci opprime è il terrorismo. E’ diventato col tempo una sorta di nuova guerra mondiale: una guerra senza un fronte fisso, che può colpire ovunque e non conosce distinzione tra combattenti e popolazione civile, tra colpevoli e innocenti. 

Dato che il terrorismo, ma anche la criminalità organizzata ordinaria - la cui rete si rafforza e si estende ogni giorno di più - possono trovare l’accesso alle armi nucleari e a quelle biologiche, il pericolo che ci minaccia è smisurato: finché questo potenziale distruttivo era sotto il controllo esclusivo delle grandi potenze si poteva sempre sperare che la ragione e la consapevolezza della minaccia che il loro uso rappresentava per la popolazione e per lo Stato ne escludessero l’utilizzo. In effetti, nonostante tutte le tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra l’Est e l’Ovest, una guerra su larga scala grazie a Dio ci è stata risparmiata. 

Ma le organizzazioni terroriste e quelle criminali non hanno niente a che vedere con quel tipo di ragione, dato che uno dei pilastri del terrore poggia sulla disponibilità all’autodistruzione, un’autodistruzione trasfigurata in martirio e tradotta in promessa.

Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza. 

Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti. 

Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza. 

Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’ “occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo. 

E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata. 

Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche.

Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam. 

E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione. 

Il fanatismo non è solo quello religioso 

E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono. 

Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera. 

Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell’assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l’immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l’assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce. 

La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un’ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un’espressione di disperazione di fronte all’ingiustizia del mondo. 

Del resto anche fra noi, nelle sette presenti nel mondo occidentale, troviamo esempi di un irrazionalismo e di una deviazione della dimensione religiosa che mostrano come possa diventare pericolosa una religione quando perde il suo centro d’orientamento.

Ma esiste anche la patologia della ragione interamente separata da Dio. L’abbiamo vista nelle ideologie totalitarie che avevano negato ogni legame con Dio e intendevano così costruire l’uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler merita indubbiamente la qualifica di irrazionalista. I grandi profeti e i realizzatori del marxismo non sono meno segnati dalla pretesa di costruire il mondo animati unicamente dalla ragione. Forse l’espressione più drammatica di questa patologia della ragione si incarna in Pol Pot: è in lui che si è manifestata con un’evidenza totale la crudeltà di una simile “ricostruzione” del mondo. 

Ma è lo stesso sviluppo spirituale dell’Occidente a tendere sempre di più verso patologie distruttive della ragione. In fondo la bomba atomica - con la quale la ragione, invece di essere forza costruttiva, intendeva rafforzarsi attraverso la capacità di distruzione - non era già un superamento dei limiti? 

E quando, attraverso la ricerca del codice genetico, la ragione si impossessa delle radici della vita, essa tende sempre più a non vedere nell’uomo un dono del Creatore (o della “natura”) e a trasformarlo in un prodotto. L’uomo viene “fatto”, e ciò che si può fare si può anche disfare. La dignità umana scompare. E dove mai troveranno più un fondamento i diritti dell’uomo? Come potrà ancora sussistere il rispetto per l’uomo anche quando è vinto, debole, sofferente, handicappato? In questo quadro la nozione di ragione si appiattisce sempre di più. E’ ovvio che, se la realtà è unicamente il prodotto di processi meccanici, come tale non comporta nessuna morale. 
Il bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. In ogni modo la loro dignità assoluta non esiste più. 

Sull’etica un invito ai non credenti 

La ragione malata e la religione manipolata finiscono con l’incontrarsi nel medesimo esito. Ogni riconoscimento di valori ultimativi, ogni asserzione di verità da parte della ragione finisce con l’apparire alla ragione malata come fondamentalismo. E non resta altro che la dissoluzione, la decostruzione, come da tempo ci insegna Jacques Derrida, che ha “decostruito” l’ospitalità, la democrazia, lo Stato e infine anche la nozione di terrorismo, per ritrovarsi poi atterrito dagli avvenimenti dell’11 settembre. Una ragione che sappia riconoscere solo se stessa e ciò che è empiricamente certo si paralizza e si autodistrugge.

Se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi noi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, partendo dall’esperienza di una società agnostica atea, ha mostrato in maniera convincente che, in assenza di un punto di riferimento assoluto, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza ed è ineluttabilmente in balia delle forze del male. 

Come cristiani siamo oggi chiamati non certo a porre limiti alla ragione o ad opporci ad essa, ma a rifiutarci di ridurla a una ragione del fare e a lottare a sostegno della sua capacità di cogliere il bene e il buono, il sacro e il santo. Solo una ragione che si mantenga aperta a Dio una ragione che non esilia la morale nella sfera soggettiva e non la riduce a puro calcolo - può evitare la manipolazione della nozione di Dio e le malattie della religione, e può offrire qualche terapia.

E’ qui che si evidenzia la grande sfida che i cristiani d’oggi dovrebbero accettare. Il loro compito, il nostro compito consiste nel condurre la ragione a funzionare integralmente, non solo nel campo della tecnica e dello sviluppo materiale del mondo ma anche e prima di tutto in quanto facoltà di verità, promovendone la capacità di riconoscere il bene, il quale è condizione del diritto e con ciò anche presupposto della pace nel mondo. 

E’ specifico compito nostro, di cristiani del tempo presente, quello di inserire la nozione di Dio nella lotta per la difesa dell’uomo. Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica. 

Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia. 

La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini. 

In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza quell’equilibrio tra ragione e religione che ho cercato di illustrare in precedenza. 

Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici. 

Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.

Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società. 

Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.

[La traduzione dal francese, non rivista dall’autore, è stata pubblicata su “Vita e Pensiero” n. 5 (settembre-ottobre) 2004]
(14 Luglio 2005)






[Modificato da Caterina63 07/06/2014 11:04]
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La paura della verità



Benedetto XVI ha dovuto rinunciare a recarsi all'università «La sapienza»

La paura della verità Quello che era inimmaginabile è accaduto: la visita di Benedetto XVI alla Sapienza in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico non si terrà. La notizia ha scosso l'Italia e ha poi cominciato a fare il giro del mondo, mentre cresce la marea delle reazioni, sincere o strumentali: incredule, addolorate, indignate, enfatiche, in alcuni casi persino più o meno soddisfatte. L'ondata decrescerà, naturalmente, ma resta il fatto grave che il Papa ha dovuto rinunciare a recarsi nella prima università di Roma, la città di cui è vescovo, nell'ateneo più grande del Paese del quale è primate. Perché si è arrivati a tanto? La risposta è semplice: a causa dell'intolleranza, radicalmente antidemocratica, di pochi, anzi di pochissimi. 
E ora, come nella favola dell'apprendista stregone, tra quanti, a diversi livelli, hanno lasciato, in modo irresponsabile, che montasse questa opposizione preconcetta e ottusa - che va distinta da possibili dissensi, ovviamente legittimi quando siano espressi in modi civili e con metodi democratici - alla visita papale, vi è addirittura chi si preoccupa e rammarica. Dopo aver osservato nei giorni precedenti un silenzio pressoché totale. E la gravità del fatto, senza precedenti nella storia della Repubblica italiana, è confermata dalla lettera al Papa del capo dello Stato, un gesto sincero e nobile che attenua in parte l'incidente. 
L'intenzione di Benedetto XVI era evidente: dimostrare interesse e simpatia nei confronti della più vasta comunità accademica italiana, da decenni afflitta da molteplici problemi e che vive in questi ultimi tempi la crisi più ampia delle istituzioni universitarie, in Italia e più in generale nel contesto europeo. Per dire la sua sul ruolo dell'università, certo, ma con una chiarezza ragionevole e desiderosa di confronto che si accompagna a una mitezza fuori del comune. Da teologo e pastore quale è sempre stato. Senza dimenticare la statura intellettuale e accademica, di respiro davvero internazionale, in genere riconosciutagli anche dai suoi avversari. 
Per di più in una istituzione laica e autonoma la cui storia secolare è profondamente intrecciata a quella del papato - sin dalla fondazione nel 1303 da parte di Bonifacio VIII, e con benemerenze culturali indubbie - e dove i successori di Pietro si sono di conseguenza sentiti quasi come a casa propria, come sottolineò il 15 marzo 1964 durante la sua visita Paolo VI, antico studente nell'ateneo romano, e come mostrò il 19 aprile 1991 Giovanni Paolo II, quel giorno ospite dell'antico studium urbis. 
In continuità con i suoi predecessori, Benedetto XVI avrebbe voluto tornare in un luogo dov'era già stato da cardinale il 15 febbraio 1990 per sostenere la necessità di una dialettica positiva tra fede e ragione, ma ha dovuto rinunciare. Già Paolo VI, avvertendo l'atteggiamento oppositorio fondato su luoghi comuni e toni polemici di quanti mantengono occhi chiusi e animo ostile, volle rassicurarli: il Papa - disse - non forzerà il loro raziocinio chiuso, non scardinerà alcuna porta e starà fuori a bussare, come il «testimone» descritto dall'Apocalisse (3, 20), dicendo a chi non apre: studia, capisci te stesso, leggi nella tua anima, guarda l'esperienza autentica che il nostro tempo sta vivendo proprio nella negazione dei valori religiosi e delle verità trascendenti, e troverai, in così diffuso tormento, un numero ingente di paurose rovine; a cominciare dalla più ampia e desolata: la disperazione, l'assurdo, l'arido nulla. 
Ora anche Benedetto XVI bussa senza stancarsi alla porta di ogni essere umano, fiducioso che la ragione non vorrà chiudersi alla fede, all'incontro con Cristo. Davvero c'è qualcuno che onestamente può considerare questo atteggiamento oscurantista, prevaricatore, nemico della scienza? Chi può davvero temere quest'uomo mite e ragionevole, questo pastore che appena eletto alla sede di Roma ha dichiarato di avere assunto il suo ministero nella consapevolezza di non essere solo? E il Papa non è solo: tutta la Chiesa oggi prega per lui, come pregava per Pietro a Gerusalemme, e sono moltissimi anche i non cattolici e i non cristiani che gli sono vicini. Senza paura di confrontarsi con la verità.

g.m.v.



(©L'Osservatore Romano 17 gennaio 2008)



Cuore e ragione


L'Angelus del 20 gennaio

La preghiera domenicale dell'Angelus con Benedetto XVI sarà come sempre? Sì e no. Sì, perché come ogni settimana in piazza San Pietro donne, uomini, fedeli o no, romani o pellegrini, si riuniranno numerosi per ascoltare le parole del Papa e per pregare con lui. Ma anche no, perché questa volta all'appuntamento si aggiunge un significato speciale dopo le vicende che hanno portato alla mancata visita del vescovo di Roma alla Sapienza, la più antica università della città, fondata da un suo predecessore e per oltre mezzo millennio università papale. 
All'ascolto di quanto dirà Benedetto XVI, e all'antichissima preghiera rivolta a Maria che segna lo scorrere del giorno nella tradizione cristiana, parteciperà per questo motivo - non è difficile prevederlo - un numero molto più grande di persone: per esprimere in questo modo «un gesto di affetto e di serenità» che vuole bilanciare la tristezza seguita a quanto è accaduto. Per questo il cardinale vicario Camillo Ruini ha invitato a essere a San Pietro, spiegando al nostro giornale che l'incontro sarà soltanto una partecipazione alla preghiera dell'Angelus.
Ben al di sopra quindi di ogni lettura dell'avvenimento che non rispetti, strumentalizzando, il suo senso religioso e di vicinanza a Benedetto XVI: per mostrargli che non è solo, ma che con lui c'è un popolo i cui confini sono conosciuti solo da Dio. 

Questo Angelus insieme al Papa sarà espressione di un moto del cuore e insieme della ragione.
In questo senso, un gesto laico e di libertà - come ha accennato in un'intervista anche il ministro degli Esteri italiano - in quanto mosso da quel principio che può e deve unire credenti e non credenti: la ragione, diversa ma non opposta al cuore. 

La relazione tra cuore e ragione non a caso è al centro del discorso che Benedetto XVI avrebbe tenuto alla Sapienza. Un discorso inevitabilmente oscurato dalle sconcertanti vicende che lo hanno accompagnato ma che merita, eccome, di essere letto, meditato e discusso. Un discorso, ancora una volta, profondamente laico, sul rapporto tra autorità religiosa e mondo profano, che fa appello alla ragionevolezza. Rifacendosi a sant'Agostino che ragiona sul profeta Isaia e a san Tommaso sull'autonomia della filosofia e sulla responsabilità della ragione; cioè a grandi figure della tradizione cristiana, certo, ma anche a pensatori laici, come John Rawls e Jürgen Habermas. 
E non vuole imporre la fede Benedetto XVI, ma proporla, con mite fermezza, come sta facendo sin dal primo giorno del suo servizio come vescovo di Roma. E come avevano fatto Paolo VI - chiudendo il Vaticano II e durante tutto il suo pontificato - e poi Giovanni Paolo II nella sua incessante predicazione planetaria, ripetendo senza stancarsi: uomini del nostro tempo, ascoltateci, dateci fiducia, non chiudetevi, non abbiate paura di Cristo. Quasi a dire: anche noi siamo ragionevoli e liberi, e dunque, non chiudete la vostra laicità, la vostra ragione a Dio, al Logos - principio razionale che ha creato e regge l'universo - che bussa alla porta di ogni donna e di ogni uomo. E dunque al cuore, che tuttavia non è lontano dalla ragione.

g.m.v.



(©L'Osservatore Romano 20 gennaio 2008)




Per l'onomastico del Papa

Sin dal 1861 per la ricorrenza dell'onomastico del Papa «L'Osservatore Romano» è solito esprimere in forma pubblica l'augurio di tutto il giornale, sicuro di interpretare in questo modo i sentimenti dei suoi lettori e di moltissime altre persone nel mondo. 
Le forme esteriori possono cambiare, ma il senso e il contenuto di questi voti sono nascosti nell'intimo di chi sente un legame con il vescovo di Roma e riconosce l'unicità del suo servizio alla Chiesa e all'intera famiglia umana, ben al di là dei visibili confini cattolici. Senso e contenuto che talvolta si ha il pudore di manifestare, quando invece è profondamente umano farlo, perché se è importante volere bene a qualcuno, non è meno importante dirglielo. 
Nella tradizione cristiana la ricorrenza del santo patrono - per Benedetto XVI la solennità di san Giuseppe - prevale su quella del compleanno, e questo è confermato dall'uso vaticano di festeggiare pubblicamente l'onomastico del Romano Pontefice piuttosto che il giorno del suo genetliaco.
Riflettendo, secondo un uso antichissimo, appunto sul nome. Nel caso di Papa Benedetto (nome anch'esso carico di significati), quello ebraico di colui che la devozione cristiana almeno dal medioevo venera come il custode del piccolo Gesù e della Madre di Dio, proclamato da Pio IX patrono universale della Chiesa. 

In questo senso nel nome (nomen) di battesimo del Papa è in qualche modo misteriosamente prefigurato e racchiuso il destino (omen) della sua vita e della sua funzione di custode della tradizione cristiana, che è una tradizione viva e rivolta con fiducia al futuro. Per questo, rivolgendo a Benedetto XVI gli auguri per il suo onomastico, assume un significato più affettuoso e partecipe l'altro uso che vige quotidianamente a «L'Osservatore Romano»: quello di concludere a mezzogiorno la recita dell'Angelus con l'antichissimo Oremus pro pontifice nostro.

g.m.v.



(©L'Osservatore Romano 19 marzo 2008)





La speranza di Cristo 
e una regola d'oro


Benedetto XVI negli Stati Uniti

Un viaggio importante per rendere testimonianza a Cristo nel cuore del mondo moderno. Sotto il segno di una «regola d'oro» radicata nella tradizione ebraica e cristiana ma iscritta nel cuore di ogni essere umano: «Fate agli altri ciò che volete facciano a voi, non fate ciò che non volete che essi vi facciano». È questo il senso della missione di Benedetto XVI - proprio il Papa l'ha definita così, «speciale esperienza missionaria» - negli Stati Uniti d'America e nella sede delle Nazioni Unite, sulle orme dei suoi predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II. 
Un viaggio simbolico, dunque, che richiama l'arrivo di Paolo a Roma e la sua predicazione senza impedimenti, la scena con la quale si chiude la grande narrazione degliAtti degli apostoli quasi a sottolineare che in quel modo, nel cuore del mondo romano, il messaggio evangelico era come se fosse giunto ai confini della terra, secondo la promessa della Scrittura. E questo anche volle sottolineare nel 1965 il primo Papa giunto davanti a un'assemblea delle Nazioni Unite: «Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata». 
La visita del vescovo di Roma toccherà solo due città, ma per abbracciare tutti i cattolici statunitensi, esprimere la fraternità per ogni comunità ecclesiale, in un Paese - lo ha voluto sottolineare Benedetto XVI - dove il Vangelo di Cristo è profondamente radicato, e testimoniare amicizia «verso tutti i credenti e gli uomini e le donne di buona volontà». Nel segno della speranza di Cristo, la sola nella quale ogni essere umano, tutti gli esseri umani siamo salvati. 
Ecco l'intento profondo del viaggio papale: condividere e offrire con ragionevolezza e fiducia la speranza di Cristo. Nell'amicizia verso un grande Paese - nato all'insegna della libertà e della democrazia - che proprio per questo motivo ha grandi responsabilità nei confronti di tutto il mondo. Come mostra anche il fatto che questo stesso Paese ospita la sede delle Nazioni Unite, l'assemblea davanti alla quale Benedetto XVI parlerà, rivolgendosi idealmente a tutti i popoli. 
Mai un Papa aveva parlato - come ora avverrà - a un numero così grande di rappresentanti del mondo, ed è tanto significativo quanto impegnativo che questo coincida con il sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti umani. Oggi ribaditi, ma anche tragicamente violati. Mentre è possibile riprenderli, riaffermarli, condividerli, promuoverli. Guardando alla ragione e a quella «regola d'oro» scritta nella coscienza umana nella quale tutti - anche i non credenti - possono ritrovarsi per far sì che «l'incontro delle differenze» auspicato da Benedetto XVI sia costruttivo per l'intera famiglia umana. «Io vengo» - dice il Papa - «inviato da Gesù Cristo». Per ripetere con umiltà il messaggio di sempre, nella fiducia che venga almeno ascoltato: è Dio a salvare il mondo e la storia.

g.m.v.



(©L'Osservatore Romano 14-15 aprile 2008)



La testimonianza
di Papa Benedetto


A tre anni dall'elezione

Da tre anni Joseph Ratzinger è vescovo di Roma. L'anniversario della sua elezione - una delle più rapide nella storia, in un conclave che mai era stato così numeroso - ricorre mentre il Papa è negli Stati Uniti d'America, e il significato di questa coincidenza può essere ritrovato in una frase raccolta da "Usa today". Giovedì, il quotidiano più diffuso nel Paese s'interrogava infatti sul fenomeno, fino a poche settimane fa del tutto inaspettato, dell'interesse che ha suscitato la visita papale, muovendo per l'occasione diverse decine di migliaia di persone da ogni parte dell'Unione. 
Un fenomeno spiegato da CeAnne Laramee con semplicità: "Il mondo - ha dichiarato al giornale la donna, venuta appunto a Washington dalla Florida con due figlie - ha bisogno di vedere l'amore che Gesù vuole donare a noi tutti". Ecco, è proprio questo il significato essenziale del servizio che, come successore di Pietro, Benedetto XVI sta svolgendo con gentile mitezza: testimoniare l'amore di Cristo per renderlo visibile e mostrarne la credibilità nel mondo di oggi. 
Come ora il Papa sta facendo nel suo percorso americano, vero e proprio viaggio missionario che è finalizzato ad annunciare, a un grande Paese e davanti all'Organizzazione delle Nazioni Unite, Cristo nostra speranza. A questa speranza, nella quale siamo salvati, Benedetto XVI ha dedicato lo scorso autunno la sua seconda enciclica, per richiamare ciò che davvero importa nel frastuono di tante voci: non un'ideologia e nemmeno una morale che si aggiungerebbero a tante altre, ma l'incontro unico con una persona che è in grado di cambiare la vita di ogni essere umano, secondo l'affermazione iniziale dell'enciclica programmatica del pontificato, dedicata a Dio che è amore. 
Ed è un annuncio quello del Papa intenzionato a mostrare come sia possibile superare l'individualismo, il relativismo e il materialismo che segnano le nostre società e favoriscono l'ingiustizia, offuscando la speranza più profonda del cuore umano e mettendo a tacere la stessa legge iscritta nelle coscienze: quella ragione che permetterebbe invece a credenti e non credenti di procedere insieme. Da tre anni la predicazione di Benedetto XVI è così rivolta senza stancarsi ad annunciare a donne e uomini del nostro tempo, e con il loro linguaggio, la verità di Cristo. In continuità con la tradizione cattolica, che è dinamica e vitale proprio perché rivolta al futuro, alla venuta definitiva dell'unico Signore.

g.m.v.



(©L'Osservatore Romano 19 aprile 2008)

Il nome di Dio 
e la storia dell'uomo


Il Papa a Savona e a Genova

È stata esemplare la visita di Benedetto XVI alla Chiesa della Liguria. Esemplare perché, nella concentrazione sull'essenziale che è caratteristica del vescovo di Roma, ha mostrato il volto di pastore del successore di Pietro. In un viaggio breve ma che ha saputo fortemente esprimere e mostrare, nella festa della Trinità, l'"essenza del cristianesimo". Questa, ha detto il Papa a Savona, si riassume nel nome di Dio: "Misericordia, che è sinonimo di amore, di grazia".
E questo nome, "così antico e sempre nuovo", non è una lontana astrazione; al contrario - ha ripetuto Benedetto XVI a Genova - "dal nome di Dio dipende la nostra storia". 


Non sono state parole disperse al vento, ma un insegnamento - tratto da quello di Gesù che, appunto, "non fa giri di parole"; e questo insegnamento il Papa ha voluto seminare con fiducia e amicizia nel cuore di quanti lo hanno voluto ascoltare. Come è avvenuto soprattutto nell'incontro con i giovani, vera e propria meditazione sul significato del futuro e sull'importanza di Dio, riflessione che non è stata impedita nel suo svolgimento da una pioggia insistente, figura anzi di quella che bagna la "terra secca delle nostre anime".
 

In questo nuovo viaggio nel Paese di cui è primate, Benedetto XVI ha voluto recarsi in due città legate in modo speciale a Roma e ai suoi vescovi, entrambe radicate nella devozione a Maria, che "non parla mai di sé, ma sempre di Dio". E in questo intrecciarsi di simboli il Romano Pontefice ha voluto mostrare l'esempio di due suoi grandi predecessori - Benedetto XV e Pio VII - che in modo diverso seppero affrontare i poteri del mondo: il primo, "Papa della pace" durante la prima guerra mondiale, e il secondo che con il coraggio dimostrato di fronte alla bufera napoleonica, "pagina oscura della storia dell'Europa", ci insegna ad "affrontare le sfide del mondo: materialismo, relativismo, laicismo, senza mai cedere a compromessi". 

Il guardare alla trasmissione vitale e aperta della fede cristiana, cioè alla tradizione, ha permesso al Papa di unire le vicende passate della Chiesa ligure - con figure rilevanti nella storia come i due pontefici della Rovere, Sisto IV e Giulio II, ed esemplari nella testimonianza quali sono stati le sante e i santi ricordati nella cattedrale genovese - a quelle attuali, sintetizzate da tre cardinali arcivescovi metropoliti genovesi che Benedetto XVI ha voluto espressamente ricordare per il servizio alla loro comunità ma anche alla Chiesa universale: da Giuseppe Siri a Tarcisio Bertone, oggi suo segretario di Stato, fino ad Angelo Bagnasco, che presiede la Conferenza episcopale italiana. 

Nella continuità ininterrotta tra passato e presente il cammino della Chiesa guarda al futuro, sicura delle promesse di Gesù: "Chi ha scelto Dio ha ancora nella vecchiaia un futuro senza fine e senza minacce davanti a sé". E scegliere Dio significa per i cristiani prendere le decisioni quotidiane di sempre: la preghiera, soprattutto "uno stile semplice di preghiera domestica", la riscoperta della radice cristiana della domenica, la confessione, le opere di carità che ritrovano il volto di Cristo nelle persone sofferenti ed escluse, la testimonianza dei sacerdoti che devono andare "in cerca della gente" come faceva il Signore, una vita spirituale da coltivare, "una formazione "sostanziosa" più che mai necessaria" per maturare "una fede pensata capace di dialogare in profondità con tutti": non cattolici, non cristiani e non credenti. 

Queste scelte di ogni giorno comportano sempre "il coraggio di andare controcorrente". Sicuri che Dio, anche nelle difficoltà e nel dolore, "non ci abbandona mai". Nella fiducia che risplende davanti al mondo la testimonianza del primato di Dio e della presenza del suo nome nella storia degli uomini.

g.m.v.



(©L'Osservatore Romano 19-20 maggio 2008)



Il Papa va all'essenziale

Benedetto XVI non ama divagare. Nei suoi interventi mira all'essenziale e sa andare al cuore delle questioni che veramente contano. Con una chiarezza pari alla semplicità. Come sta dimostrando anche nei discorsi di Sydney, sin dal primo giorno.

E se subito il Papa ha saputo delineare il senso della sua visita a un'Australia impegnata in uno sforzo per purificare la propria storia e il presente, ripetendo poi ai giovani che Gesù è vicino a ogni essere umano e che la Chiesa è una casa accogliente, nella seconda giornata di questa visita - avvenimento che il rabbino Jeremy Lawrence ha definito storico - è tornato a rivolgere lo sguardo all'unico Signore, incontrando i rappresentanti delle confessioni cristiane, poi quelli di altre religioni e infine i giovani di una comunità di recupero. Non a caso nel giorno in cui una suggestiva Via crucis ha percorso le vie della città. 

Al centro dei tre discorsi Benedetto XVI ha posto Cristo e il suo significato. Per i rapporti tra le diverse Chiese e confessioni cristiane, innanzi tutto. Usando la cordiale franchezza amata dagli australiani, il vescovo di Roma ha sottolineato l'importanza di questa onestà per il progresso del movimento ecumenico che gli sta a cuore e che deve avanzare:  riconoscendo il fondamento del battesimo comune ma mirando alla comune celebrazione eucaristica. Ben sapendo che siamo a un "punto critico" e che si deve vincere la tentazione di considerare la dottrina un ostacolo nel progresso ecumenico rispetto alle opere. Le idee che cercano la verità e i doni che esprimono l'amore sono infatti entrambi "essenziali al dialogo". 

La centralità di Cristo è stata apertamente evocata dal Papa anche nell'incontro, molto cordiale, con i rappresentanti delle diverse religioni presenti in Australia. Nel quadro della libertà religiosa, ovviamente, e in una "armoniosa correlazione tra religione e vita pubblica", tanto più importante quanto più si tende a presentare - come avviene polemicamente in molte società - la religione come causa di divisione. Nei rapporti tra le religioni la possibilità di procedere insieme è larga, soprattutto nel campo dell'educazione:  insegnando la sobrietà e l'attenzione alla dimensione spirituale. Per riconoscere che la religione offre la pace, ma ancor più suscita "la sete della verità". 

E ancora Gesù è tornato nel discorso ai giovani che stanno ritrovando la vita in una comunità di Sydney:  è infatti Cristo - all'origine di ogni realtà, da lui creata e dunque buona - a volere per ogni essere umano la vita, e una vita piena. Che non si può ottenere adorando "altri dei", identificati da Benedetto XVI nei beni materiali, nell'amore possessivo e nel potere. Queste realtà sono buone, purché se ne riconosca la vera origine in Dio e non vengano adorate come idoli. Come ha saputo spiegare benissimo, mostrando l'essenziale.

g.m.v.



(©L'Osservatore Romano 18 luglio 2008)






[Modificato da Caterina63 08/12/2014 20:22]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740717] Benedetto XVI: «Mi sento ancora più in comunione con Dio»
Kai Diekmann, direttore di Bild Zeitung, racconta la sua visita a papa Ratzinger: «Occhi vivaci, volto sorridente, senza traccia di fatica»


di Maria Teresa Pontara Pederiva - 21 ottobre 2015

Una piccola sala da ricevimento, una scala di legno che conduce al primo piano. Il soggiorno è accogliente, luminoso, un divano in pelle bianca, una semplice sedia. Una libreria che arriva fino al soffitto, una TV a schermo piatto con lettore DVD, sulle pareti alcune sacre icone. E ancora un tavolino e il pianoforte con sopra una foto in bianco e nero del fratello Georg.

E’ un racconto molto familiare quello che il direttore di Bild Zeitung, Kai Diekmann, intende condividere con i suoi lettori: «A due anni dalle dimissioni: un incontro con il nostro papa Benedetto XVI». Non passa inosservato quell’aggettivo «nostro», quasi un distintivo di orgoglio che rinvia a quel titolo di dieci anni fa, quando il 20 aprile 2005 all’indomani dell’elezione del card. Ratzinger al soglio di Pietro, il maggior quotidiano tedesco usciva con la foto di Benedetto XVI affacciato al balcone e la scritta «Wir sind Papst» (Noi siamo il Papa), un papa tedesco dopo più di 500 anni.

E il 15 ottobre l’incontro con Benedetto XVI (88 anni) ormai dopo oltre due anni dal ritiro: «Lui sta lì sulla soglia, il nostro Papa. Occhi vivaci, volto sorridente, appoggiato a un girello. Indossa una talare bianca e ai piedi un semplice paio di sandali marroni».

«E’ bello essere qui!». Papa Ratzinger è di buon umore, sveglio e senza traccia di affaticamento, si siede sul divano: sembra lontana la fatica che l’aveva visto pronunciare le dimissioni davanti ai cardinali riuniti (le foto di Daniel Biskup che accompagnano il servizio non lasciano dubbi).

Da Berlino giunge un piccolo dono: su una struttura di legno di betulla l’artista tedesco Albrecht Klink ha inciso quel titolo che è già una leggenda: «Noi siamo il Papa». Benedetto lo prende tra le mani, lo accarezza più volte e sorride confidando che quell’opera gli fa sentire tutta la vicinanza e l’affetto dei suoi compatrioti.

Nella primavera scorsa, nel decimo anniversario dell’elezione, il quotidiano – che ha sede a Berlino e redazioni in tutta la Germania, oltre 2 milioni le sole copie tedesche – aveva pubblicato una lunga intervista con il segretario privato di Joseph Ratzinger, mons. Georg Gänswein, che raccontava delle giornate «molto tranquille» del papa emerito e delle frequenti telefonate col fratello Georg (91 anni).

«Ogni sera si reca a pregare presso la Grotta di Lourdes (con la statua proveniente dalla Francia) nei Giardini vaticani con un deambulatore per muoversi» diceva il vescovo Gänswein e «anche dopo la nostra conversazione si è recato là» (con un piccolo veicolo mobile stile golf).

«In questi momenti mi sento ancora più in comunione con Dio» dice papa Benedetto e saluta Diekmann con «una calda stretta di mano, con entrambe le mani». Proprio come ha sempre fatto da papa, conclude il direttore che sembra emozionato.

www.youtube.com/watch?v=npsUGOgJ0DM&feature=youtu.be





[SM=g1740738]





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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  CONFERENZA STAMPA




Partecipano: Sua Em. Card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Robi Ronza, giornalista e scrittore.

Trascrizione dell'evento

Personaggi intervenuti


Documenti

Trascrizione dell'evento

ROBI RONZA
Buon pomeriggio Vi presento il Cardinale RatzÌnger e do subito voce a voi per porgli le domande che desiderate.

L. VANNUCCHI, “TG1”
Eminenza, come mai è così difficile oggi redarre un catechismo universale che formuli idee per ciascuno e per tutto il mondo?

SUA EM. CARD. J. RATZINGER
A causa della mancanza di un linguaggi o comune fìlosofìco e umano, di una comune visione del mondo e delle cose della vita. Da una parte, abbiamo un uniformismo intellettuale, dall'altra una frantumazione delle visioni fondamentali del mondo: così non c'è più la possibilità di riferirsi a una visione globale, comune, del mondo, ad un linguaggio, per interpretare le cose essenziali. Dobbiamo anche ricostruire, in questa situazione, un linguaggio della fede, dopo la rottura filosofìca che abbiamo vissuto in questo secolo in cui la neoscolastica non ci da più i mezzi di una visione comune e profonda nel pensare, dove anche i problemi dell'esegesi hanno reso più difficile l'accesso alla Scrittura. In questo contesto, parlare un linguaggio accessibile a tutti e a tutte le culture del nostro tempo, è necessariamente un cosa difficile, ma tanto più necessaria una comunicazione reale e per rendere possibile una vera e profonda comunione di fede nella Chiesa.

G. DA ROLD, "Corriere della Sera”
Eminenza, in questi anni il Meeting ha dato origine a numerose polemiche politiche e credo abbia creato anche contrasti, discussioni all'interno della Chiesa. Mi viene spontaneo chiederle cosa pensa di una manifestazione come questa, cosa pensa del movimento di Comunione e Liberazione che fa questo tipo di Meeting.

SUA EM. CARD. J. RATZINGER:
Naturalmente non posso, qui, addentrarmi in una esposizione completa della mia visione, sia del Movimento, sia della storia di questo Meeting, anche perché non conosco sufficientemente i precedenti. Vorrei solamente, con poche parole, dire l’essenziale: per quanto riguarda i contrasti penso che, dove nasce un dibattito reale e serio in cui si affrontano i problemi reali del nostro mondo e della Chiesa di oggi, è inevitabile che nascano contraddizioni, difficoltà e anche errori. Questa è una cosa umana, normale, dove nessuno si sente offeso, dove non c'è contraddizione, dove realmente si lavora e si sperimenta la vita della Chiesa e si rende visibile anche il problema della Chiesa di oggi. Sarebbe pericoloso spegnere, nascondere, queste cose come se i problemi non fossero reali. Il punto essenziale mi sembra la disponibilità a cercare insieme la verità, la fiducia nella sincerità dell'altro, la disponibilità a correggersi in caso di errore. Proprio questo mi sembra l’elemento positivo del Meeting per come lo conosco: che si parli e si discuta, con realismo, della nostra situazione, senza nascondere i problemi; che ci sia questa disponibilità a cercare, col necessario realismo, le risposte cristiane adeguate alla nostra situazione, con la disponibilità ad imparare realmente. Per quanto riguarda il Movimento, per me è un'espressione della vitalità della Chiesa: non è una cosa organizzata dall'alto, ma una Chiesa nata dalla fede e realizzata nella Chiesa. Mi sembra che abbiamo bisogno proprio di queste cose, che non sono una configurazione astratta dove, a posteriori, si cerca di immettere un po' di vita, ma il contrario: è la vita che poi si cerca anche la forma, vitalità vissuta della fede, traduzione di una fede profonda in profonda sintonia con la fede della Chiesa di tutti i tempi, nella vita e nella cultura di oggi. 
Questo è sempre un esperimento difficile ma tanto più necessario: per quanto posso vedere, nelle realtà di CL e sempre questa profonda fede, questa volontà profonda dì credere insieme alla Chiesa reale, di incarnare e realizzare questa fede nel contesto di oggi. Ci possono forse capitare anche degli errori, ma nessuno di noi è infallibile: l'essenziale è cercare, imparare a vivere nella comunione della fede e andare avanti con la Chiesa.

E. CASTELLI, “GRl”
Uno degli slogan di questa edizione del Meeting, è stato che "la carità diventi opera": vorrei sapere cosa pensa di una affermazione di questo tipo.

SUA EM. CARD J. RATZINGER
Mi sembra sostanzialmente la posizione di San Paolo quando parla della fede che opera tramite la carità. È proprio una intuizione della Scrittura, che la fede non sia una posizione ideologica, un avere qualche idea sul mondo e su Dio, ma un atteggiamento integrale dell’uomo nella sua totalità. E implichi, quindi, partecipazione all'atteggiamento fondamentale di Cristo, l'amore, che si traduce necessariamente in attività dell'amore della Chiesa e per il mondo.

L. BRUNELLI, “Il Sabato”
Volevo chiedere a Sua Eminenza se poteva spiegare, magari con qualche esempio, la sua frase a proposito dell’errore di Pelagio: che la riduzione del Cristianesimo a un moralismo di tipo-illuminista, astratto; ha molti più seguaci oggi di quanto non sembri a prima vista.

SUA EM. CARD. J. RATZINGER
Ci sarebbe molto da dire e non vorrei entrare adesso in una discussione di filosofi, ed ideologia contemporanea. Voi avete scritto cose valide sul "Sabato" e io mi sono riferito anche a queste. Da una parte, come ho detto, abbiamo questo fatto positivo di una rivalorizzazione della morale come fattore della società umana. Ma se rimane puro moralismo, allora diventa anche una autocostruzione umana e ricade in errori che alla fine non creano una vera morale, perché sono esposti all’arbitrarietà. Anche nella Chiesa oggi assistiamo, mi sembra,a questa tentazione, naturalmente comprensibile umanamente, di farsi capire anche dove non c'è fede. Si vede che il ponte tra la fede della Chiesa e la mentalità odierna potrebbe essere la morale, perché tutti, più o meno, riconoscono che ce n'è bisogno, e così offrono la Chiesa come garanzia, istituzione di moralità, senza il coraggio di presentare il mistero. Perché, pensano, il mistero non è accessibile: omettiamo queste cose oscure e Parliamo di cose comprensibili, della morale. Così si riduce il cristianesimo e anche la morale, allora, non viene ricostruita. In questo senso volevo soprattutto accennare a una tentazione cristiana, cattolica, di ridurre - con una riflessione comprensibile ma sbagliata –l’annuncio cristiano alla morale. Così si estenua anche la morale stessa.

A. PAWLOWICZ, “Televisione polacca”
La Polonia e gli altri paesi dell’Europa orientale si sono aperti di fronte all’Occidente, ma nel contempo si sono trovati di fronte ai nuovi pericoli che scaturiscono dal materialismo pratico che domina i Paesi occidentali. Come si può, secondo Vostra Eminenza, lottare contro la dilagante secolarizzazione e il consumismo che tentano dì distruggere i valori protetti, con sovrumano sforzo, ai tempi della prepotenza del comunismo, fondato sul materialismo teorico?

SUA EM. CARD. J. RATZINGER
È una questione molto importante e mi sembra che il Santo Padre abbia deciso di convocare il Sinodo europeo anche per affrontare questo problema profondo. Da una parte l'Est europeo ha tanto da darci con le sue esperienze di questi ultimi quarant'anni, la lotta contro il materialismo ideologico del marxismo, la sua esperienza spirituale sviluppata attraverso questa contrapposizione. Dall'altra si trova, oggi, esposto alla tentazione nuova di un materialismo consumistico e di una arbitrarietà morale che, in un certo senso, possono diventare anche più pericolosi. Come rendere feconda l'esperienza di questi quarant'anni per affrontare il nuovo problema e per trovare insieme, Est e Ovest europei, le risposte alla sfida di oggi? C'è bisogno di una collaborazione più profonda tra cristiani dell'Est e dell'Ovest europeo, una collaborazione a tutti i livelli, nella formazione universitaria ma anche in tutti i settori della vita privata, per non perdere il frutto della lotta di questi quarant' anni e per rinnovare lo slancio cristiano, sia all'Est che alI'Ovest. Non oso adesso, in poche parole, dare risposte sul come fare: mi sembra che il primo passo debba essere questa collaborazione, soprattutto nella Chiesa ma anche nella società civile: i movimenti possono essere uno strumento di questa collaborazione per trovare le risposte adatte e un modo di vivere.

G. BOSSA, “ll Giorno”
Eminenza, lei ha detto oggi al Meeting che la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno per poter parlare ed operare in ogni epoca storica, ma che queste strutture fatalmente possono invecchiare e possono ostacolare la trasmissione del messaggio evangelico. Siccome in altre edizioni del Meeting ci sono state polemiche - e anche al di fuori del Meeting, naturalmente - nei confronti di strutture di sostegno adottate storicamente dalla Chiesa italiana, come l'Azione Cattolica o altre ad essa collegate, le volevo chiedere se è a queste che lei si riferisce per quanto riguarda la situazione italiana; oppure quali possono essere le strutture (forse della Curia romana) che lei ritiene necessitare di una riforma.

SUA EM. CARD. J. RATZINGER
Io volevo essere abbastanza aperto nelle mie indicazioni perché non conosco a fondo tutte le realtà della Chiesa italiana. Sono da otto anni a Roma, ma Roma è un mondo molto particolare, soprattutto la Curia, cosicché non posso pretendere di conoscere la Chiesa italiana. Perciò non volevo e non potrei polemizzare con la Chiesa in Italia, semplicemente perché la mia conoscenza è insufficiente. Volevo dire che da una parte sono necessarie strutture (come lei ha accennato, negli anni '20 si è creato questo strumento dell'Azione Cattolica e dopo il Concilio abbiamo creato tante nuove strutture, e se ne creano ancora, a diversi livelli) - e riconosco l'utilità di tali strutture; ma nello stesso tempo dobbiamo essere consapevoli che queste strutture rimangono elementi secondari di aiuto per lo scopo primario e devono essere quindi capaci di non sostituirsi alla Chiesa, eventualmente, anche di scomparire. In questo senso ho sollecitato un esame di coscienza che potrebbe bene estendersi alla Curia romana, nel senso di rivedere sempre fino a che punto tutti i dicasteri sono necessari o corrispondono ancora allo scopo voluto. Dopo il Concilio abbiamo già avuto due riforme della Curia, quindi non è da escluderne anche una terza, se necessaria; ma il problema non è solo la Curia, sarebbe troppo comodo. Dobbiamo anche pensare se tutti i consigli creati dopo il Concilio sono ancora utili: so, per esempio, di alcune diocesi tedesche che hanno ridotto alcuni consigli per facilitare questo lavoro, per ridurre questo scheletro di amministrazione, di burocrazia. Vedo realmente, come ho detto, questo pericolo: che alla fine ci si dimentichi che la realizzazione della carità nel mondo è lo scopo della Chiesa, auto-occupati come siamo dalle nostre strutture (...).

R. DE BENEDETTI, "Radio Popolare”
Ho letto nelle sue parole che occorre ripensare anche, in qualche misura, il ruolo dei movimenti ecclesiali. In che senso andrebbe un'eventuale riformabilità dei movimenti?

SUA EM. CARD. J. RATZINGER:
Non ho accennato direttamente ai movimenti, come non ho accennato all' Azione Cattolica: ho accennato invece a strutture che sono più giuridiche che vitali. Posso parlare meglio delle cose tedesche che di quelle italiane. Per la mia esperienza di Arcivescovo di Monaco, spesso esistono alcune cose solo perché ci sono i soldi per pagarle: strutture create come realtà giuridica, alle quali poi si cerca anche di dar vita. Si tratta di una perversione dei fattori umani che crea una auto-occupazione della Chiesa con se stessa, che le impedisce poi di essere disponibile alla testimonianza. Al contrario, penso che i movimenti siano nati dalla vita e si cerchino poi, anche con difficoltà, una configurazione giuridica. In questo senso io ho - e lo sanno anche i giornalisti - una grande simpatia per i movimenti, proprio a causa di questa priorità della vita sulla struttura. Ci sono anche, a volte, problemi per inserire questo impulso vitale nella vita della Chiesa, ma penso che queste siano le difficoltà della vita: quindi, difficoltà sane, buone. Con un po' di buona volontà possiamo trovare le soluzioni, perché dove c'è vita, si trova anche la formula giuridica, ma dove c'è struttura, non si trova necessariamente la vita.

M. TRAVAGLIO, “Il Giornale":
Eminenza, la mia domanda riguarda l'Italia. Si nota un certo disorientamento del mondo cattolico nell'approccio alla politica: molti dicono, anche all’interno del mondo cattolico, che il partito che ha sempre rappresentato i cattolici in realtà si sta sbiadendo, sta perdendo la sua immagine, si sta scristianizzando. Dall’ altra parte si è aperto un dibattito che, a quel che vedo, riguarda anche la Conferenza Episcopale, proprio in questi ultimi giorni, a proposito dei cambiamenti che sono avvenuti nel maggiore partito che rappresentava il marxismo e che adesso si sta lentamente trasformando. In questo momento di polverizzazione, di disorientamento, che cosa ha da dire ai cattolici a questo proposito, come vede il dibattito che si sta svolgendo e che poi non è soltanto italiano? Piccola postilla: è vero che lei, come è stato scritto, intenderebbe lasciare il suo mandato nel giro dei prossimi due anni? La ringrazio.

SUA EM. CARD. J. RATZINGER:
Alla prima domanda io posso rispondere solo in un quadro europeo, perché - come lei comprende - per uno straniero è sempre difficile e pericoloso entrare nel dibattito di un Paese: tale interferenza non sarebbe gradita e neppure giusta. Ma a livello europeo abbiamo questo problema di come devono esprimersi i cattolici nel mondo politico: due aspetti sono per me importanti. Da una parte, la Chiesa non deve mai identificarsi con il partito: deve essere sempre scopo e intenzione della Chiesa vedersi in un contesto politico nel quale si possono scegliere diversi partiti. La Chiesa rimane aperta a diverse opzioni politiche perché non è partito, non fa politica: anche se ha il compito di difendere la coscienza umana e quindi ha qualcosa da dire alla politica, che ha un aspetto morale e deve avere un fondamento morale. Questo è il primo punto: (...) lavorare per un consenso fondamentalmente umano, e cristiano nel senso più largo del termine, nella società. Secondo punto: il partito cristiano ha naturalmente una responsabilità particolare nel lavoro per questo consenso. Alla Chiesa più che la politica particolareggiata di un partito cristiano, interessa proprio il contributo di questo partito alla formazione di un consenso umano- cristiano nella società. Un partito cristiano, oltre all’intenzione di rendere presente la visione cristiana nel mondo politico tramite la sua opzione, ha questa missione di lavorare per un consenso oltre il proprio partito, di non appropriarsi come di una proprietà esclusiva dell'inflessione della fede , ma di far capire nel mondo politico le scelte fondamentali. La tutela della vita della persona non ancora nata, ad esempio, non dovrebbe essere una proprietà solo cristiana ma dovrebbero i politici cristiani, e penso che lo facciano, lavorare per far capire anche agli altri che si tratta di un problema umano e non partitico. I cattolici dovrebbero impegnarsi in questo senso, trovare gli strumenti più adatti per garantire che la società non sia paganizzata ma, nella diversità delle scelte politiche, non perda i fondamenti essenziali scoperti e insegnati dalla fede cattolica.

ROBI RONZA
La seconda domanda... la sua permanenza nella carica...

SUA EM. CARD. J. RATZINGER:
Questo lo lascio decidere al Santo Padre.

C.DI CICCIO, “Asca”
In questi uItimi tempi i teologi sono un po' sotto un fuoco di fila da parte di diversi vescovi, si dice anche da parte della sua Congregazione: siccome a metà di questo mese si terrà un grosso congresso internazionale di teologia per i 25 anni di "Concilium", lei vorrebbe mandare a questo congresso un messaggio amichevole o un nuovo rimprovero?

SUA EM. CARD. J. RATZINGER
Vorrei prima dire che noi non facciamo rimproveri collettivi contro i teologi perché, come dice la nostra Istruzione, si siamo convinti che la teologia è una funzione vitale della Chiesa e quindi i teologi i sono realmente portatori di una vocazione ecclesiale di grande importanza. Io penso che tutti i collettivismi- dire “i teologi pensano cosi”, ecc., siano errati: perché un teologo, cioè un pensatore di livello accademico, è sempre una personalità e non fa parte semplicemente di un collettivo. Dobbiamo anche, mi sembra, incoraggiare questo coraggio di essere un pensatore con un profilo personale. Significato della nostra Istituzione era quindi un incoraggiamento alla teologia: se uno legge senza pregiudizi questo testo, vede anche come viene presentata la teo1ogia, non solo come braccio intellettuale del magistero ma come una funzione originaria che scaturisce dalla stessa natura della fede. D’altra parte, alla natura della fede appartiene che non si realizza in un individuo isolato, ma nella comunione della Chiesa: e, quindi, 
inserendosi nella comunione, ascolta anche la parola del magistero. Quanto a questo congresso, non hanno chiesto un mio messaggio: aspettiamo il loro lavoro e vedremo poi come valutarlo.

M. BLONDET, “Avvenire”
Lei ha appena fatto un’affermazione, se ho ben capito, sul fatto che il cattolico non è obbligato a votare per un partito preciso. Ha citato per esempio il caso dell’aborto, la difesa della vita umana, indicando come sforzo per il cattolico quello di cercare di creare un consenso comune, anche aldilà delle convinzioni religiose, attorno a questa difesa che, lei ha detto, nasce da considerazioni umane prima ancora che religiose. Io le chiedo: ma è cosciente che adesso, in questa società italiana, il consenso comune c'è praticamente al contrario e solo i cattolici difendono la vita umana? Cosa ci consiglia di fare?

SUA EM. CARD. J. RATZINGER:
Conosco questa situazione, non è solo italiana, ma anche europea ed americana: rivela una perdita di visione fondamentale delle realtà umane, mi sembra, quindi una crisi dell'umanità e della coscienza umana nella quale, penso, noi cattolici abbiamo la missione molto importante di testimoniare la nostra convinzione, ma facendo di tutto per rendere comprensibile anche agli altri che non si tratta di un dogma misterioso, ma di un'evidenza umana. Perché una persona è persona, anche se fìsicamente dipende da un'altra persona, e della persona ha tutti i diritti. Dobbiamo risvegliare le coscienze un po' assopite (...).

M. ANSELMO, "La Stampa"
Mi hanno incuriosito molto le cose che lei ha detto su Pelagio e le chiedo questo: com'è possibile oggi che anche nella Chiesa si possa correre il rischio del pelagianesimo, cioè di un appiattimento sui valori comuni?

SUA EM. CARD. J. RATZINGER:
A me sembra molto comprensibile, perché anche nel V° secolo il pelagianesimo non sarebbe nato se non avesse avuto una certa facile evidenza, naturalmente sbagliata, se non avesse avuto una piccola parte di verità. Sarebbe adesso troppo lungo entrare nei dettagli benché molto interessante, e vedere come Pelagio nella sua vita monastica, e poi Giuliano di Eclano, nella vita vescovo diocesano dell’Italia meridionale, avessero difficoltà con la posizione di Sant'Agostino. Essi difendevano anche elementi difendibili, ma alla fìne avevano dimenticato che l'uomo non si costruisce da solo, con una moralità completa in se stessa; al contrario, perde il senso del mistero, perde così il perdono e perde altresì il realismo della propria vita. Era un dibattito molto accanito, molto difficile nel secolo di Sant'Agostino, ma in un certo senso paragonabile con la situazione contemporanea: noi viviamo oggi in un mondo paganizzante, razionalista, dove il mistero è difficilmente accessibile. 
È un mondo, il nostro, che può accettare, perché evidente, la necessità di leggi morali, di norme morali, ma non può capire che c'è un'espiazione, che c'è uno che può perdonare e può così ricostruire la completezza della nostra vita. In una parola: rendere accessibile questo fattore nuovo che entra con il perdono nella nostra vita è difficile, mentre è abbastanza facile dire una parola morale all'umanità di oggi. Mentre aprire l’orizzonte del mistero significa anche ricostruire le evidenze umane perdute, come abbiamo visto nella discussione sull'aborto. Questa è la grande missione della Chiesa di oggi, ma non è realizzabile senza una testimonianza'vissuta, dove, tramite la vita realizzata, diventi anche un po' visibile la realtà della dimensione del mistero, del perdono, della cristologia. Se rimaniamo su un livello puramente intellettuale, come è la nostra grande tentazione in un mondo intellettualizzato in cui mancano le esperienze di fede, allora diventa normale essere pelagiano. Quindi, solo se ritorna la dimensione vitale, potrà realizzarsi una comunione come questa di Comunione e Liberazione. La teologia altrimenti si perde in un intellettualismo e ha difficoltà ad articolarsi sul mondo del mistero.

P. GIGANTE, "GRl"
Cardinale Ratzinger, prima di venire a questa conferenza stampa ho avuto una piccola discussione con un collega sul significato del suo discorso, riporto i termini del dibattito. Sosteneva questo collega che alla fin fine tutto il suo discorso poteva ricondursi al principio di autorità e quindi all'obbedienza papale. A me era sembrato invece che il suo discorso si fondasse sul concetto di teologia negativa, un concetto però che non ha avuto molta cittadinanza nella Chiesa secolarizzata degli ultimi secoli. La pregherei di dire la sua su questo argomento.

SUA EM. CARD. J. RATZINGER
Sì, grazie a Dio, lei ha avuto ragione: non si tratta solo di rinnovare di nuovo il principio papale. Mi sembra che, se uno legge bene la mia conferenza dove parlo di un esame di coscienza a tutti i livelli, capisce anche bene che non voglio semplicemente affermare la posizione dell'autorità, ma far ripensare a noi tutti le fondamenta della vita cristiana, far capire che un attivismo che crea soprattutto realtà amministrative, che si realizza soprattutto in costruzioni nostre, non rinnova la Chiesa. Solo aprendoci a questo toglimento, a questa ablatio divina, cominceremo anche a diventare attivi nel senso giusto. Potrei quindi solo confermare la sua interpretazione: ed è vero che la teologia negativa era abbastanza assente dalla teologia occidentale negli ultimi secoli, mentre dovremmo riguadagnare questa dimensione anche nel dialogo con le Chiese orientali.

ROBI RONZA
Grazie. Si conclude così la conferenza stampa del Cardinale, che ringraziamo di essere stato fra di noi e si conclude anche il Meeting ‘90: arrivederci a1 Meeting ‘91L Vorrei chiedervi ancora un attimo, semplicemente, di ringraziare insieme a me Emma Neri e tutti i volontari dell'uffìcio stampa che vi hanno aiutato, mi hanno aiutato, nel lavoro di questi giorni. Grazie.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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sabato 19 marzo 2016





Il testo integrale della bellissima intervista di Jacques Servais a Benedetto XVI


 



La fede non è un’idea ma la vita

Intervista al Papa emerito Benedetto XVI

di Jacques Servais

Pubblichiamo il testo integrale dell’intervista a Benedetto XVI contenuta nel libro Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa e negli Esercizi Spirituali a cura del gesuita Daniele Libanori (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2016, pagine 208, euro 20) in cui il Papa emerito parla della centralità della misericordia nella fede cristiana. Il volume raccoglie gli atti di un convegno che si è svolto nell’ottobre scorso a Roma. Come scrive Filippo Rizzi su «Avvenire» del 16 marzo, che ne pubblica uno stralcio, l’autore dell’intervista (il cui nome non è presente nel libro) è il gesuita  Jacques Servais, allievo di Hans Urs von Balthasar e studioso della sua opera.

Santità, la questione posta quest’anno nel quadro delle giornate di studio promosse dalla rettoria del Gesù è quella della giustificazione per la fede. L’ultimo volume della sua opera omnia (gs IV) mette in evidenza la sua affermazione risoluta: «La fede cristiana non è un’idea, ma una vita». Commentando la celebre affermazione paolina (Romani 3, 28), lei ha parlato, a questo proposito, di una duplice trascendenza: «La fede è un dono ai credenti comunicato attraverso la comunità, la quale da parte sua è frutto del dono di Dio» («Glaube ist Gabe durch die Gemeinschaft; die sich selbst gegeben wird», gs IV, 512). Potrebbe spiegare che cosa ha inteso con quell’affermazione, tenendo conto naturalmente del fatto che l’obiettivo di queste giornate è chiarire la teologia pastorale e vivificare l’esperienza spirituale dei fedeli?

Suor Francis, «Il padre misericordioso» (2010)

Si tratta della questione: cosa sia la fede e come si arriva a credere. Per un verso la fede è un contatto profondamente personale con Dio, che mi tocca nel mio tessuto più intimo e mi mette di fronte al Dio vivente in assoluta immediatezza in modo cioè che io possa parlargli, amarlo ed entrare in comunione con lui. Ma al tempo stesso questa realtà massimamente personale ha inseparabilmente a che fare con la comunità: fa parte dell’essenza della fede il fatto di introdurmi nel noi dei figli di Dio, nella comunità peregrinante dei fratelli e delle sorelle. L’incontro con Dio significa anche, al contempo, che io stesso vengo aperto, strappato dalla mia chiusa solitudine e accolto nella vivente comunità della Chiesa. Essa è anche mediatrice del mio incontro con Dio, che tuttavia arriva al mio cuore in modo del tutto personale.

La fede deriva dall’ascolto (fides ex auditu), ci insegna san Paolo. L’ascolto a sua volta implica sempre un partner. La fede non è un prodotto della riflessione e neppure un cercare di penetrare nelle profondità del mio essere. Entrambe le cose possono essere presenti, ma esse restano insufficienti senza l’ascolto mediante il quale Dio dal di fuori, a partire da una storia da Lui stesso creata, mi interpella. Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che hanno incontrato Dio e me lo rendono accessibile.

Nel mio articolo sul battesimo ho parlato della doppia trascendenza della comunità, facendo così emergere una volta ancora un importante elemento: la comunità di fede non si crea da sola. Essa non è un’assemblea di uomini che hanno delle idee in comune e che decidono di operare per la diffusione di tali idee. Allora tutto sarebbe basato su una propria decisione e in ultima analisi sul principio di maggioranza, cioè alla fin fine sarebbe opinione umana. Una Chiesa così costruita non può essere per me garante della vita eterna né esigere da me decisioni che mi fanno soffrire e che sono in contrasto con i miei desideri. No, la Chiesa non si è fatta da sé, essa è stata creata da Dio e viene continuamente formata da Lui. Ciò trova la sua espressione nei sacramenti, innanzitutto in quello del battesimo: io entro nella Chiesa non già con un atto burocratico, ma mediante il sacramento. E ciò equivale a dire che io vengo accolto in una comunità che non si è originata da sé e che si proietta al di là di se stessa.

La pastorale che intende formare l’esperienza spirituale dei fedeli deve procedere da questi dati fondamentali. È necessario che essa abbandoni l’idea di una Chiesa che produce se stessa e far risaltare che la Chiesa diventa comunità nella comunione del corpo di Cristo. Essa deve introdurre all’incontro con Gesù Cristo e portare alla Sua presenza nel sacramento.

Quando lei era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, commentando la Dichiarazione congiunta della Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale sulla dottrina della giustificazione del 31 ottobre 1999, ha messo in evidenza una differenza di mentalità in rapporto a Lutero e alla questione della salvezza e della beatitudine così come egli la poneva. L’esperienza religiosa di Lutero era dominata dal terrore davanti alla collera di Dio, sentimento piuttosto estraneo all’uomo moderno, marcato piuttosto dall’assenza di Dio (su veda il suo articolo in «Communio», 2000, 430). Per questi il problema non è tanto come assicurarsi la vita eterna, quanto piuttosto garantirsi, nelle precarie condizioni del nostro mondo, un certo equilibrio di vita pienamente umana. La dottrina di Paolo della giustificazione per la fede, in questo nuovo contesto, può raggiungere l’esperienza «religiosa» o almeno l’esperienza «elementare» dei nostri contemporanei?

Innanzitutto tengo a sottolineare ancora una volta quello che scrivevo su «Communio» (2000) in merito alla problematica della giustificazione. Per l’uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte, ovvero non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui. A questo proposito trovo indicativo il fatto che un teologo cattolico assuma in modo addirittura diretto e formale tale capovolgimento: Cristo non avrebbe patito per i peccati degli uomini, ma anzi avrebbe per così dire cancellato le colpe di Dio. Anche per ora la maggior parte dei cristiani non condivide un così drastico capovolgimento della nostra fede, si può dire che tutto ciò fa emergere una tendenza di fondo del nostro tempo. Quando Johann Baptist Metz sostiene che la teologia di oggi deve essere «sensibile alla teodicea» (theodizeeempfindlich), ciò mette in risalto lo stesso problema in modo positivo. Anche a prescindere da una tanto radicale contestazione della visione ecclesiale del rapporto tra Dio e l’uomo, l’uomo di oggi ha in modo del tutto generale la sensazione che Dio non possa lasciar andare in perdizione la maggior parte dell’umanità. In questo senso la preoccupazione per la salvezza tipica di un tempo è per lo più scomparsa.

Tuttavia, a mio parere, continua ad esistere, in altro modo, la percezione che noi abbiamo bisogno della grazia e del perdono. Per me è un «segno dei tempi» il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante — a partire da suor Faustina, le cui visioni in vario modo riflettono in profondità l’immagine di Dio propria dell’uomo di oggi e il suo desiderio della bontà divina. Papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è fortemente sottolineata la componente sociale dell’esistenza cristiana, né solo perché in essa il samaritano, l’uomo non religioso, nei confronti dei rappresentanti della religione appare, per così dire, come colui che agisce in modo veramente conforme a Dio, mentre i rappresentanti ufficiali della religione si sono resi, per così dire, immuni nei confronti di Dio. È chiaro che ciò piace all’uomo moderno. Ma mi sembra altrettanto importante tuttavia che gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta però l’attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza.

Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno (cfr. gs iv 215.ss). Esprimendosi in questo modo, si rischia di proiettare [in] su Dio un’immagine di un Dio di collera, afferrato, dinanzi al peccato dell’uomo, da [uno stato affettivo] sentimenti di violenza e di aggressività paragonabile/i a quello che noi stessi possiamo sperimentare. Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai assodata presso i fedeli, che [il Dio] quello dei cristiani è un Dio «ricco di misericordia» (Efesini 2, 4)?

La concettualità di sant’Anselmo è diventata oggi per noi di certo incomprensibile. È nostro compito tentare di capire in modo nuovo la verità che si cela dietro tale modo di esprimersi. Per parte mia formulo tre punti di vista su questo punto:

a) La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola e quindi la loro volontà è ab intrinseco una sola. Quando il Figlio nel giardino degli ulivi lotta con la volontà del Padre non si tratta del fatto che egli debba accettare per sé una crudele disposizione di Dio, bensì del fatto di attirare l’umanità al di dentro della volontà di Dio. Dovremo tornare ancora, in seguito, sul rapporto delle due volontà del Padre e del Figlio.

b) Ma allora perché mai la croce e l’espiazione? In qualche modo oggi, nei contorcimenti del pensiero moderno di cui abbiamo parlato sopra, la risposta a tali domande è formulabile in modo nuovo. Mettiamoci di fronte all’incredibile sporca quantità di male, di violenza, di menzogna, di odio, di crudeltà e di superbia che infettano e rovinano il mondo intero. Questa massa di male non può essere semplicemente dichiarata inesistente, neanche da parte di Dio. Essa deve essere depurata, rielaborata e superata. L’antico Israele era convinto che il quotidiano sacrificio per i peccati e soprattutto la grande liturgia del giorno di espiazione (yom-kippur) fossero necessari come contrappeso alla massa di male presente nel mondo e che solo mediante tale riequilibrio il mondo poteva, per così dire, rimanere sopportabile. Una volta scomparsi i sacrifici nel tempio, ci si dovette chiedere cosa potesse essere contrapposto alle superiori potenze del male, come trovare in qualche modo un contrappeso. I cristiani sapevano che il tempio distrutto era stato sostituito dal corpo risuscitato del Signore crocifisso e che nel suo amore radicale e incommensurabile era stato creato un contrappeso all’incommensurabile presenza del male. Anzi essi sapevano che le offerte presentate finora potevano essere concepite solo come gesto di desiderio di un reale contrappeso. Essi sapevano anche che di fronte alla strapotenza del male solo un amore infinito poteva bastare, solo un’espiazione infinita. Essi sapevano che il Cristo crocifisso e risorto è un potere che può contrastare quello del male e che salva il mondo. E su queste basi poterono anche capire il senso delle proprie sofferenze come inserite nell’amore sofferente di Cristo e come parte della potenza redentrice di tale amore. Sopra citavo quel teologo per il quale Dio ha dovuto soffrire per le sue colpe nei confronti del mondo; ora, dato questo capovolgimento della prospettiva, emerge la seguente verità: Dio semplicemente non può lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può redimere il mondo.

c) Su queste basi diventa più perspicuo il rapporto tra il Padre e il Figlio. Riproduco sull’argomento un passo tratto dal libro di de Lubac su Origene che mi pare molto chiaro: «Il Redentore è entrato nel mondo per compassione verso il genere umano. Ha preso su di sé le nostre passiones prima ancora di essere crocefisso, anzi addirittura prima di abbassarsi ad assumere la nostra carne: se non le avesse provate prima non sarebbe venuto a prender parte alla nostra vita umana. Ma quale fu questa sofferenza che egli sopportò in anticipo per noi? Fu la passione dell’amore. Ma il Padre stesso, il Dio dell’universo, lui che è sovrabbondante di longanimità, pazienza, misericordia e compassione, non soffre anch’egli in un certo senso? “Il Signore tuo Dio, infatti, ha preso su di sé i tuoi costumi come colui che prende su di sé suo figlio” (Deuteronomio 1, 31). Dio prende dunque su di sé i nostri costumi come il Figlio di Dio prende su di sé le nostre sofferenze. Il Padre stesso non è senza passioni! Se lo si invoca, allora Egli conosce misericordia e compassione. Egli percepisce una sofferenza d’amore (Omelie su Ezechiele 6, 6)».

In alcune zone della Germania ci fu una devozione molto commovente che contemplava die Not Gottes (“l’indigenza di Dio”). Per conto mio ciò mi fa passare davanti agli occhi un’impressionante immagine che rappresenta il Padre sofferente, che come Padre condivide interiormente le sofferenze del Figlio. E anche l’immagine del “trono di grazia” fa parte di questa devozione: il Padre sostiene la croce e il crocifisso, si china amorevolmente su di lui e d’altra parte per così dire è insieme sulla croce. Così in modo grandioso e puro si percepisce lì cosa significano la misericordia di Dio e la partecipazione di Dio alla sofferenza dell’uomo. Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero intimo superamento del male che in ultima analisi può realizzarsi solo nella sofferenza dell’amore.

Negli «Esercizi Spirituali», Ignazio di Loyola non utilizza le immagini veterotestamentarie di vendetta, al contrario di Paolo (cfr. 2 Tessalonicesi 1, 5-9); ciò non di meno egli invita a contemplare come gli uomini, fino alla Incarnazione, «discendevano all’inferno» (Esercizi Spirituali n. 102; cfr. ds IV, 376) e a considerare l’esempio dagli «innumerevoli altri che vi sono finiti per molti meno peccati di quelli che ho commesso io» (Esercizi Spirituali n. 52). È in questo spirito che san Francesco Saverio ha vissuto la propria attività pastorale, convinto di dover tentare di salvare dal terribile destino della perdizione eterna quanti più «infedeli» possibile. L’insegnamento, formalizzato nel concilio di Trento, nella sentenza riguardo al giudizio sui buoni e sui cattivi, in seguito radicalizzato dai giansenisti, è stato ripreso ín modo molto più contenuto nel Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. §5 633, 1037). Si può dire che su questo punto, negli ultimi decenni, c’è stato una sorta di «sviluppo del dogma» di cui il Catechismo deve assolutamente tenere conto?

Non c’è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Mentre i padri e i teologi del medioevo potevano ancora essere del parere che nella sostanza tutto il genere umano era diventato cattolico e che il paganesimo esistesse ormai soltanto ai margini, la scoperta del nuovo mondo all’inizio dell’era moderna ha cambiato in maniera radicale le prospettive. Nella seconda metà del secolo scorso si è completamente affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale per essi non rappresenta una reale risposta alla questione dell’esistenza umana. Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto — e ciò spiega il loro impegno missionario — nella Chiesa cattolica dopo il concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata. Da ciò derivò una doppia profonda crisi. Per un verso ciò sembra togliere ogni motivazione a un futuro impegno missionario. Perché mai si dovrebbe cercare di convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa? Ma pure per i cristiani emerse una questione: diventò incerta e problematica l’obbligatorietà della fede e della sua forma di vita. Se c’è chi si può salvare anche in altre maniere non è più evidente, alla fin fine, perché il cristiano stesso sia legato alle esigenze dalla fede cristiana e alla sua morale. Ma se fede e salvezza non sono più interdipendenti, anche la fede diventa immotivata.

Negli ultimi tempi sono stati formulati diversi tentativi allo scopo di conciliare la necessità universale della fede cristiana con la possibilità di salvarsi senza di essa. Ne ricordo qui due: innanzitutto la ben nota tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. In essa si sostiene che l’atto-base essenziale dell’esistenza cristiana, che risulta decisivo in ordine alla salvezza, nella struttura trascendentale della nostra coscienza consiste nell’apertura al tutt’altro, verso l’unità con Dio. La fede cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell’uomo in quanto tale. Perciò quando l’uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l’essenziale dell’essere cristiano pur senza conoscerlo in modo concettuale. Il cristiano coincide dunque con l’umano e in questo senso è cristiano ogni uomo che accetta se stesso anche se egli non lo sa. È vero che questa teoria è affascinante, ma riduce il cristianesimo stesso a una pura conscia presentazione di ciò che l’essere umano è in sé e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel cristianesimo.

Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti devono essere considerate equivalenti. La critica della religione del tipo di quella esercitata dall’Antico Testamento, dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa primitiva è essenzialmente più realistica, più concreta e più vera nella sua disamina delle varie religioni. Una ricezione così semplicistica non è proporzionata alla grandezza della questione.

Ricordiamo da ultimo soprattutto Henri de Lubac e con lui alcuni altri teologhi che hanno fatto forza sul concetto di sostituzione vicaria. Per essi la proesistenza di Cristo sarebbe espressione della figura fondamentale dell’esistenza cristiana e della Chiesa in quanto tale. È vero che così il problema non è del tutto risolto, ma a me pare che questa sia in realtà l’intuizione essenziale che così tocca l’esistenza del singolo cristiano. Cristo, in quanto unico, era ed è per tutti e i cristiani, che nella grandiosa immagine di Paolo costituiscono il suo corpo in questo mondo, partecipano di tale “essere per”. Cristiani, per così dire, non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non significa una specie di biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, bensì la vocazione a costruire l’insieme, il tutto. Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo.

È possibile spiegare questo “essere per” anche in modo un po’ più astratto. È importante per l’umanità che in essa ci sia verità, che questa sia creduta e praticata. Che si soffra per essa. Che si ami. Queste realtà penetrano con la loro luce all’interno del mondo in quanto tale e lo sostengono. Io penso che nella presente situazione diventi per noi sempre più chiaro e comprensibile quello che il Signore dice ad Abramo, che cioè dieci giusti sarebbero stati sufficienti a far sopravvivere una città, ma che essa distrugge se stessa se tale piccolo numero non viene raggiunto. È chiaro che dobbiamo ulteriormente riflettere sull’intera questione.

Agli occhi di molti “laici”, segnati dall’ateismo del XIX e XX secolo, Lei ha fatto notare, è piuttosto Dio — se esiste — che non l’uomo che dovrebbe rispondere delle ingiustizie, della sofferenza degli innocenti, del cinismo del potere al quale si assiste, impotenti, nel mondo e nella storia universale (cfr. «Spe salvi», n. 42)... Nel suo libro «Gesù di Nazaret», lei fa eco a ciò che per essi — e per noi — è uno scandalo: «La realtà dell’ingiustizia, del male, non può essere semplicemente ignorata, semplicemente messa da parte. Essa deve assolutamente essere superata e vinta. Solamente così c’è veramente misericordia» («Gesù di Nazaret», III 153, citando 2 Timoteo 2, 13). Il sacramento della confessione è, e in quale senso, uno dei luoghi nei quali può avvenire una «riparazione» del male commesso?

Ho già cercato di esporre nel loro complesso i punti fondamentali relativi a questo problema rispondendo alla terza domanda. Il contrappeso al dominio del male può consistere in primo luogo solo nell’amore divino-umano di Gesù Cristo che è sempre più grande di ogni possibile potenza del male. Ma è necessario che noi ci inseriamo in questa risposta che Dio ci dà mediante Gesù Cristo. Anche se il singolo è responsabile per un frammento di male, e quindi è complice del suo potere, insieme a Cristo egli può tuttavia «completare ciò che ancora manca alle sue sofferenze» (cfr. Colossesi 1, 24).

Il sacramento della penitenza ha di certo in questo campo un ruolo importante. Esso significa che noi ci lasciamo sempre plasmare e trasformare da Cristo e che passiamo continuamente dalla parte di chi distrugge a quella che salva.
 
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2016)



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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