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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Gli interventi del cardinale Muller

Ultimo Aggiornamento: 19/03/2018 20:16
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Alcuni discorsi e interventi
di S.Em. Card. Gerhard Ludwig Müller 
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede

 

 

Biografia del Cardinale Gerhard Ludwig Müller 
[FranceseIngleseItalianoPolaccoRussoSpagnoloTedescoUngherese]

 

 

 

 

  • Omelia nella Cattedrale di Ávila nella Solennità dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria (8 dicembre 2014) 
    [Spagnolo]

 

 

 

  • Seminario Internazionale “The Church in Dialogue. Vaticanum II Today” - Conferenza d'apertura (Bruxelles, 26 ottobre 2014)
    [IngleseTedesco]

 

  • Omelia nel Santuario di San Giovanni d'Ávila, sacerdote e Dottore della Chiesa (Montilla, 29 settembre 2014)
    [Spagnolo]

 

  • La presencia y la misión de la Iglesia en una sociedad pluralista - Conferenza (Córdoba, 29 settembre 2014)
    [Spagnolo]

 

  • Omelia nella Cattedrale di Córdoba, Spagna (28 settembre 2014) 
    [Spagnolo]

 

 

 

  • Discorso all'Episcopato messicano in occasione della Visita "ad Limina Apostolorum" (28 maggio 2014)
    [Spagnolo]

 

  • L'Ecclesialità del Catechismo - Conferenza (St. Patrick’s College di Maynooth, Irlanda - 17 maggio 2014)
    [Inglese]

 

  • Incontro dei Superiori della Congregazione della Dottrina della Fede con la Presidenza della Leadership Conference of Women Religious (LCWR) (30 aprile 2014)
    [Inglese]

 

 

  • Al Dios cristiano desde el ateísmo moderno - Conferenza (Università Pontificia di Comillas - Madrid, 2 ottobre 2013)
    [Spagnolo]

  • Fondamenti teologici per la valutazione delle questioni bioetiche - Lezione  (Cadenabbia di Griante - Lago di Como, 7 settembre 2013)
    [Tedesco]
  • Testimonianza del potere della grazia - Articolo pubblicato su "Die Tagespost" (15 giugno 2013)
    [Tedesco]
  • Omelia (Cattedrale di Radom, 4 giugno 2013)
    [Polacco]
  • Omelia in occasione della Festa del Ringraziamento (Tempio della Divina Provvidenza,Varsavia - 2 giugno 2013)
    [Polacco]
  • Omelia durante la Messa in onore di San Stanislao (Cracovia, 12 maggio 2013)
    [Polacco]

  • Discorso in occasione della presentazione di un ritratto di Benedetto XVI (Ambasciata della Repubblica Federale di Germania presso la Santa Sede, 16 aprile 2013)
    [Tedesco]
  • Omelia (Cappella della Congregazione per la Dottrina della Fede, 11 aprile 2013)
    [Polacco]
  • Omelia (Moreau Seminary, South Bend, IN - 7 febbraio 2013) 
    [Inglese]
  • Omelia (Co-Cattedrale del Sacro Cuore di Houston, Texas - 3 febbraio 2013) 
    [Inglese]
  • The Call to Communion: Anglicanorum coetibus and Ecclesial Unity - Intervento al Simposio sull'Ordinariato della Cattedra di San Pietro (St. Mary’s Seminary, Houston, Texas - 2 febbraio 2013)
    [Inglese]
  • “Λογική λατρεία – Un culto conforme al Logos divino. La Liturgia en el pensamiento teológico de Joseph Ratzinger / Benedicto XVI” (Madrid, 28 gennaio 2013) 
    [Spagnolo]
  • Omelia nella Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo (Malta, 25 novembre 2012) 
    [Inglese]
  • Ratzinger’s Theology and Some Themes of the Second Vatican Council - Intervista di Inside the Vatican a S.E. Mons. Gerhard Ludwig Müller (Novembre 2012) 
    [Inglese]
  • Omelia (Regensburg, 23 settembre 2012)
    [Tedesco]
  • Discorso all'Ambasciata della Repubblica Federale di Germania presso la Santa Sede (19 settembre 2012)
    [Inglese]
  • Intervista del National Catholic Register / The Catholic Herald a S.E. Mons. Gerhard Ludwig Müller (13 settembre 2012)
    [Inglese]
  • Presentazione dell’edizione polacca del vol. 12 dell’Opera omnia di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI (22 agosto 2012)
    [Polacco]
  • Intervista del Süddeutsche Zeitung al Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’Arcivescovo Mons. Gerhard Ludwig Müller (12 luglio 2012)
    [Tedesco]

 

 








[Modificato da Caterina63 12/05/2015 09:24]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Sessione Plenaria della 
Pontificia Accademia di S. Tommaso d’Aquino
 

21 giugno 2013


 

«CREDERE IN DIO CHE SI È INCARNATO»

di

 

S. Ecc.za Mons. Gerhard Ludwig Müller

Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

 

1) “Sono solo un uomo, / ho bisogno quindi di segni visibili, / il costruire scale di astrazioni mi stanca presto […] / Capisco però che i segni possono essere soltanto umani / Desta dunque un uomo, in un posto qualsiasi della terra […] / E permetti che guardandolo io possa ammirare Te”. Così scriveva Czeslaw Milosz - Premio Nobel per la letteratura nel 1980 - esprimendo una preghiera che ogni uomo, più o meno consapevolmente, può formulare nel segreto del suo cuore, in attesa di una rivelazione del Dio invisibile, del Mistero che in tutto opera ed a tutto soggiace.

Ho voluto citare questo passo del noto poeta polacco per entrare direttamente in medias res: nulla come il fatto che Dio si renda così presente da essere “ammirato” è più desiderato ed atteso dalla ragione umana. Ciò significa che la ragione stessa è costitutivamente protesa alla rivelazione del Mistero. Tutta l’esistenza dell’uomo si raccoglie e si concentra in quest’attesa di rivelazione, che si documenta nelle domande più acute della sua ragione.

Siamo “uomini”, cioè esseri bisognosi di “segni visibili”, e nello stesso tempo siamo vibranti didesiderium videndi Deum. Siamo esseri che si nutrono di cose visibili e tangibili e, nello stesso tempo, siamo sospinti dalla nostra stessa natura razionale in relazione con l’invisibile e inattingibile Mistero.

Chiuso fra cose mortali / anche il cielo stellato finirà / perché bramo Dio?”. Questo incisivo verso del poeta italiano Giuseppe Ungaretti ricorda che, benché confinati nel mondo del limite, ci troviamo, spesso nostro malgrado, proiettati dalla nostra stessa natura razionale oltre il confine di ogni limite.

2) La nostra ragione è inquieta ed in cerca di una dimora al di là di ogni termine. Perciò i Padri della Chiesa affermavano che pur collocata nel mondo, l’anima umana trova il suo “luogo” solo in Dio:locus animae Deus est (cf. GREGORIO MAGNO, Moralium Libri, IV, 33, 67). Affermazione che Tommaso d’Aquino riprende letteralmente nel suo trattato De duobus praeceptis caritatis (a. 5, de tertio) per spiegare che Dio è “luogo” per l’anima nel senso che Egli, come “praetiosamargarita”, è “riposo” (requies) e “gioia” (delectatio)  per l’uomo.

Per questo, lo stesso Tommaso non teme di argomentare che per l’uomo - il cui scopo ultimo è individuato nella perfecta beatitudo, cioè nella felicità - la Rivelazione di Dio è sommamente “conveniente”. Solo nella fruitio Dei, infatti, l’uomo può sperimentare quel bene che sostanzia di riposo e gioia il suo cuore. E affinché questa beatitudine non rimanesse confinata solo nell’aldilà, Dio stesso si è fatto uomo, perché l’uomo potesse gustare già in questa vita, grazie alla fede, unaquadam praelibatio dei beni eterni.

Tale è la somma convenienza dell’Incarnazione di Dio - del Verbum caro - evento con cui, ab ipso Deo homine facto, il Mistero invisibile rivela se stesso all’uomo. Nell’Incarnazione, Dio si fa uomo affinché secundum modum humanum l’uomo stesso possa rapportarsi, nella fede, con Lui.

Desta dun­que un uomo, in un posto qualsiasi della terra […] / E permetti che guardandolo io possa ammirare Te”. Questo desiderio  inscritto indelebilmente nel cuore dell’uomo, quindi presente nell’uomo di ogni luogo e tempo, trova risposta nell’evento del Verbum caro, evento di cui si fanno eco tanto la sensibilità esistenzialista contemporanea del poeta polacco Milosz, quanto il rigoroso realismo intellettuale del medievale Aquinate.

Nella Summa contra Gentiles - un testo in cui è attento ad illustrare le admirabiles rationes della fede cristiana - confutando con ben ventisette solutiones le obiezioni formulabili al Verbum caro factum est, Tommaso asserisce che proprio perché l’uomo “ex sensibilibus et signa quaedam colligit veritatem”,  Dio stesso si è reso a noi percepibile: “dum visibiliter Deum cognoscimus, in invisibilium amorem rapiamur” (IV, 54). Tale è la suprema “convenienza” della gratia Incarnationis, la quale è perciò definita da Tommaso come necessaria per la beatitudo dell’uomo (ibid.).

Interessante è rilevare che in quest’opera, Tommaso considera l’evento del Verbum caro, anche non in diretto rapporto col peccato d’origine, bensì in funzione della humana beatitudo.Nell’Incarnazione, la veritas carnis di Gesù Cristo si offre all’attesa di ogni uomo, per natura indigente di felicità, affinché “unusquisque regenerari per Christum” (ibid.).

Qui l’iniziativa caritatevole di Dio, grazie al fieri homo di Dio, si avvicina alla libertas arbitriiumana e sana l’inefficacia ad beatitudinem da cui il desiderio umano è ferito, aprendogli gratuitamente e già in questa vita, le vie verso la piena realizzazione di sé, alla qual cosa osta il peccato.

La pienezza di vita per l’uomo, vale a dire la sua felicità, può dunque essere considerata la grande meta verso cui è orientata l’Incarnazione, meta che incontra libertà umana, da sempre protesa - consapevolmente o meno - ad essa.

3) Tommaso è ben consapevole che tale indigenza umana appartiene ad ogni generazione e ad ogni tempo, è cioè universale. Perciò il Verbum caro, benché situato ed avente inizio in un preciso luogo spazio-temporale, per rispondere efficacemente ad essa ed aprire universalmente la fruitio divinae bonitatis, necessitava di un “permanente” effectus.

A partire da qui Tommaso, nella Summa contra Gentiles,  sviluppa il suo pensiero sui sacramenta salutis. I sacramenti sono infatti il permanente effluxus con cui l’Incarnazione dispiega i suoi effetti: essi, come effectus Incarnationis, donano per fidem quella gratia Christi che rende l’uomo, di ogni tempo e luogo, “contemporaneo” all’evento del Verbum caro. Tale è l’interessante prospettiva che può essere individuata nella cristologia elaborata ivi dall’Aquinate.

“Contemporaneità” è dunque la seconda parola con cui l’evento dell’Incarnazione ci invita a confrontarci, dopo la parola “beatitudine”. Se Dio si fa uomo in un momento preciso del tempo e dello spazio  - che dona significato e sostanza di salvezza al tempo di ogni uomo - allora ogni uomo deve poter accedere in qualche modo a tale decisivo evento.

Vi è un lemma greco nel Nuovo Testamento che ci introduce immediatamente in argomento: è la parola ephapax. Essa è stata tradotta in latino con il termine semel, il quale tuttavia non rende sempre la ricchezza del suo significato greco. Ephapax - presente in Rm 6, 10; 1 Cor 15, 6, e tre volte nella lettera agli Ebrei (7, 27; 9, 12; 10, 10) - viene utilizzato  dal lessico neotestamentario per far riferimento, sostanzialmente, al sacrificio pasquale di Cristo. Esso significa letteralmente, nei passi in cui è impiegato, “una volta per tutte” ed esprime l’unicità irripetibile di quel sacrificio.  

Nel suo commento alla Lettera agli Ebrei, Tommaso in riferimento ad esso, scrive: “una oblatione consummavit, id est, perfecit, quod fecit reconciliando et coniungendo nos Deo tamquam principio, sanctificatos in sempiternum, quia hostia Christi, qui Deus est et homo, habet virtutem aeternam sanctificandi” (Ad Hebraeos 9, lectio 3). Il sacrificio di Cristo, pur essendo irripetibile, ha una aeterna virtus sanctificandi e può dunque dispiegare permanentemente i suoi effetti (virtutem aeternam).

Infatti, attraverso di esso, Cristo, come Sacerdote eterno, offre permanentemente la sua vita (carnem), come occasione di salvezza per l’uomo, alla quale l’uomo può accedere mediante i sacramenti ed, in particolare, attraverso il sacramento dell’eucarestia, nel cui velamen quel sacrificio trova una particolare concentrazione ed efficacia: “Sicut enim sacerdos per velum intrabat in sancta sanctorum, ita si volumus intrare sancta gloriae, oportet intrare per carnem Christi, qui fuit velamen deitatis…Vel per velamen, id est, per carnem suam datam nobis sub velamento speciei panis in sacramento” (Ad Hebraeos 10, lectio 2).

In questo sacramento, mediante l’attualizzazione del suo sacrificio pasquale, compiuto una sola volta (semel), Gesù Cristo risorto si rende presente all’uomo in modo permanente, tutte le volte che esso viene celebrato. Quindi si può affermare che l’Eucarestia, “prae ceteris sacramentis…totum mysterium nostrae salutis comprehenditur” (Summa Theologiae III, 83, 4).

Nella Summa Theologiae, Tommaso sostanzia questo rendersi presente di Dio, in Cristo, attraverso il sacramento eucaristico, all’uomo di ogni tempo, con l’espressione verbale “repraesentatur” (Summa Theologiae III, 79, 7 et passim). È lo stesso verbo che verrà poi utilizzato dal Concilio di Trento per far riferimento al sacrificio di Cristo, compiutosi “una volta per tutte” (semel) sulla croce e poi affidato alla sua Chiesa, tramite il sacramento eucaristico, come memoriale (memoria) permanente della salvezza: “ut dilectae sponsae suae ecclesiae visibile…relinqueret sacrificium quo cruentum illud semel in cruce peragendum repraesentaretur eiusque memoria in finem usque saeculi permaneret” (Mansi XXIII, 128 D).

Mediante l’Eucarestia, la presenza salvifica di Dio, si fa dunque vicina all’uomo, si rende ad esso “contemporanea” e, già in questa vita terrena, si offre come gratuito incontro all’attesa della ragione umana.

La qual cosa fra l’altro, con semplicità ed efficacia, ci richiama anche la logica dei primi due capitoli del Catechismo della Chiesa Cattolica, i quali recitano che “L’uomo è «capace» di Dio” e che “Dio viene incontro all’uomo”. La libertà umana - ragione e volontà - è indigente di Dio e la libertà di Dio, da parte sua, con iniziativa gratuita “non cessa di attirare a sé l’uomo” (CCC 27) “inviando il suo Figlio prediletto, nostro Signore Gesù Cristo, e lo Spirito Santo” (CCC 50).

Così Dio risponde in modo permanente a quel grido da Lui stesso inscritto permanentemente nel cuore umano: “Desta dunque un uomo, in un posto qualsiasi della terra / E permetti che guardandolo io possa ammirare Te”.

Come ci ha richiamato Benedetto XVI nella sua Lettera di indizione dell’Anno della fede: “Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro. Proprio a questo incontro la fede ci invita e ci apre in pienezza” (Lett. ap. Porta fidei, 10).

4) Un ultimo punto vorrei sviluppare in questa mia breve e schematica relazione. Se Dio si fa uomo in Gesù Cristo per rendersi permanentemente contemporaneo a ogni uomo, i luoghi e i modi di questa Rivelazione acquistano una particolare autorevolezza per la libertà umana.

Laddove Dio si rende presente, tale evento si carica di un particolare interesse e di una esigenza di sequela per la stessa intelligenza umana, la quale - come abbiamo visto sopra - porta insita in sé l’esigenza di tale rivelazione. Possiamo allora affermare che, quando ciò accade, il donarsi di Dio all’uomo, proprio per la sua significatività e rilevanza, diviene “normativo” per la ragione.

Tuttavia comprendiamo anche che, affinché questa affermazione non sia avvertita come una intollerabile pretesa della ragione o come un pericoloso attentato per la libertà del pensiero umano occorre porre chiaramente in luce, e la natura di Dio e la natura del pensiero umano.

Nel dono di Gesù Cristo e del suo Spirito, Dio si auto-rivela come dono di Verità per l’uomo  e come Via per giungere ad essa (cf. “Io sono la Via, la Verità e la Vita”, Gv 14, 6). Tale dono certifica dunque la ragione umana sia sull’esistenza della Verità, sia sulla possibilità stessa di giungervi. Gesù Cristo ed il Suo Spirito, che è “Spirito di Verità” (Gv 14, 16), offrono all’uomo la Verità e lo guidano verso la sua pienezza, che è integrale realizzazione della vita umana e accesso alla conoscenza dei significati ultimi dell’uomo stesso e del mondo.

In questo senso, nulla come la verità rivelata nell’evento Gesù Cristo è in grado di avvincere la ragione umana e di rilanciarla in un inesausto cammino di conoscenza. Si tratta infatti di una verità che ci viene offerta non come una semplice idea o dottrina, bensì come dono Vivente e Personale, che interpella tutta la nostra libertà.

Perciò, come ci ha ricordato Benedetto XVI: “Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità”. In Cristo “è la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei. Solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi” (Omelia nella S. Messa a conclusione del Ratzinger Schülerkreis 2012).

Nella Rivelazione di Dio, per gratia gratis data in Gesù Cristo e nel suo Spirito, la Verità si porge all’uomo non come sistema ideologico ma come luogo che interloquisce permanentemente con la libertà dell’uomo e come spazio capiente all’infinito.

Essa è dono in cui inoltrarsi senza fine - come “pellegrini della Verità” - conquista dopo conquista, non solo con il pensiero ma con il coinvolgimento di tutta la vita. Infatti, il rapporto con la verità non può rimanere confinato in un gioco intellettuale che non coinvolge e che non compenetra e forma tutta l’esistenza. La verità, per sua natura, è performativa e, mentre ci introduce in sé, opera altresì per cambiarci e donarci una nuova forma.

Ecco perché, nella vita cristiana, la parola “verità” viene spesso associata alla parola “novità”: essa è infatti in grado di attirare a sé l’uomo come “amore [che] introduce l’uomo ad una nuova vita” (Benedetto XVI, Lett. ap. Porta fidei, 6). Sempre la verità, quando è autentica, urge e invita ad un progresso, ad rinnovamento, cioè ad un cambiamento decisivo della vita umana, e ciò tanto più quando si tratta della Verità rivelata da Dio.

Ed ecco in quale modo e con quali ragioni la Rivelazione di Dio diviene “normativa” - sempre interpellandola e mai imponendosi ad essa - per la libertà umana. Libertà che, a sua volta, è per natura orientata alla verità e resa inquieta dalla sua ricerca: “quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?”, scriveva il grande pensatore Agostino d’Ippona (In Ioann., 26, 5).

Per sua natura, l’uomo è sospinto alla ricerca della verità ed è inquieto finché non la trova. Così, per sua natura, la Verità che Dio ci rivela in Cristo invita permanentemente l’uomo a scoprirla e a non smettere mai di cercarla anche dopo averla trovata.

Anzi, rivelandosi, Dio ci mostra che Lui stesso è la fonte di ogni autentica verità e che perciò ogni verità, da qualunque parte provenga, proviene da Dio (cf. Ambrosiaster, Ad Corinthios prima, XII, 3) e perciò possiede una speciale ed intrinseca autorità. Perciò si può affermare che “la verità non si impone che in forza della stessa verità” (Concilio Vaticano II, Dich. Dignitatis humanae, 1)

Questa è la dinamica con cui la verità rivelata da Dio si porge alla libertà dell’uomo caricandosi di attrattiva e di cogenza, laddove la certezza che essa viene da Dio rafforza il movimento con cui la verità stessa “mette in gioco la libertà umana, sollecitandola ad un'adesione tale da coinvolgere gli aspetti fondamentali della vita” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione, 4).

Comprendiamo allora perché nella fede cristiana è indelebilmente iscritta l’esigenza della “sequela”. Laddove si manifesta la verità, ogni verità e in modo particolare la Verità rivelata da Dio, la libertà umana viene provocata ad una adesione che tende a coinvolgerla totalmente ed in modo decisivo. Tale è la “normatività” con cui il farsi uomo di Dio interpella l’uomo.

Perciò nulla come l’evento dell’Incarnazione è in grado di porsi come avvenimento talmente significativo da essere foriero di novità e di orientamento per la vita umana. Esso è “incontro…con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 1).  È avvenimento che rinnova tutta l’esistenza umana coinvolgendola in un cammino nella Verità e verso la Verità, la quale ci attira a sé come realtà che è sempre più grande di noi, che ci precede e ci eccede.

Accade così che nella familiarità con Dio, che ci viene dischiusa attraverso la sua auto-Rivelazione, la vita dell’uomo ritrovi, insieme al sapore della Verità e della novità, anche il significato compiuto del suo stesso esistere nel mondo, senza la cui conoscenza, l’esistenza dell’uomo può dirsi ancora difettosa e incompleta.

Dio non ci lascia soli, non ci abbandona a noi stessi. Egli stesso ci viene incontro e ci soccorre come il Buon Samaritano della parabola evangelica. Il Figlio di Dio non tollera che l’uomo rimanga abbandonato nel deserto della sua condizione umana: “Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella smarrita e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, [e la] porta…fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso…Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza” (Benedetto XVI, Omelia d’inizio pontificato).

In tal modo, la desiderata ammirazione per il farsi carne di Dio in mezzo a noi - l’invocazione del poeta Milosz, da cui siamo partiti - diviene sorpresa grata e commossa del suo Amore per noi, diviene scoperta che “non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi…da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui” (ibidem). Tale è il guadagno umano - la “convenienza” direbbe Tommaso d’Aquino - che, già in questa vita, proviene dalla fede nell’Incarnazione di Dio, dal dono del suo “farsi uomo” per noi.

 









Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Sua Eccellenza 
Mons. Dr. Gerhard Ludwig Müller 
Vescovo em. di Regensburg 
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

Il ministero del vescovo nella comunione dei credenti

 

Essere cristiano come amicizia con Dio

Tommaso d’Aquino individua l’essenza dell’essere cristiano nell’amicizia con Dio. Il compito fondamentale della Chiesa, fondata sulla fede e sui sacramenti, consiste nel servizio alla comunione degli uomini con Dio. L’annuncio del messaggio evangelico, i sacramenti e gli uffici ecclesiastici sono mezzi e strumenti di una vita cristiana in e con Dio. Attraverso i sacramenti si realizza nell’azione dello Spirito Santo la comunione con Dio. L’eucaristia è il massimo sacramento e pertanto centro e culmine della vita religiosa. Ad essa fanno capo tutti gli altri sacramenti. Dalla prospettiva eucaristica va inteso anche l’ufficio episcopale.

Tommaso d’Aquino riconduce l’ufficio episcopale al mandato conferito dal Signore a Pietro: "Abbi cura delle mie pecore!" (Gv. 21, 17). Ed insiste ripetutamente sulla figura del buon pastore, pronto a dare la vita per le sue pecore (Gv. 10, 11). Essere pastore del gregge affidatogli, è questo il compito principale e l’obiettivo dell’ufficio episcopale. L’incarico del vescovo consiste nel mettersi al servizio per la salvezza dei credenti. In questo senso egli segue le orme di Gesù Cristo,  il quale è venuto per servire e dare la propria vita per la redenzione degli uomini (Mc. 10, 45). L’incarico di guida conferito al vescovo è un servizio pastorale mirante all’edificazione della Chiesa. A livello umano e cristiano, il vescovo può svolgere il suo logorante ministero solo preservando la serenità necessaria. Il  peso della cura pastorale, pertanto, non deve indurre il vescovo a trascurare il piacere della verità, che scaturisce dalla preghiera e dalla meditazione.  Il modello di vescovo caro a Tommaso d’Aquino non è quello dell’indaffarato manager pastorale. Ai pastori di anime egli chiede piuttosto di trovare, malgrado l’impegno legato alla cura pastorale, anzi proprio in vista di quest’impegno, tempo sufficiente da dedicare allo studio ed alla vita contemplativa. Solo in tal modo essi potranno adempiere correttamente al ministero di evangelizzazione loro affidato ed essere per gli uomini quelli che, con le parole di San Paolo, vogliono "lavorare con voi per la vostra gioia" (2 Cor 1, 24).

"Cercate di avere sale in voi stessi, e vivete in pace tra voi!"

La vigilanza del pastore, la sua sollecitudine per il gregge, che il Nuovo Testamento tiene a mettere in evidenza, è prima di tutto premura per la fede – in senso positivo, affinché essa emerga in tutto il suo splendore, in senso negativo, per preservarla da ogni falsificazione. Questo compito di vigilanza e di cura rappresenta l’essenza dell’ufficio pastorale e del magistero dei vescovi.

La ragione più profonda dell’esistenza della Chiesa risiede nel fatto che nella fede è presente la rivelazione divina. Nella sua regola pastorale, San Gregorio Magno ricordava ai pastori della Chiesa il complesso monito del Signore: "Cercate di avere sale in voi stessi, e vivete in pace tra voi" (Mc. 9, 50). Il sale sembra contrapporsi alla pace, provoca irritazione e dolore. Ma è necessario l’incontro di  entrambi: la pace, che tollera l’altro, ma anche il sale, che mette a nudo e combatte gli elementi distruttivi. Gregorio Magno prosegue: "Chi bada troppo alla pace puramente umana, senza più redarguire i malvagi e dando in tal modo ragione ai perversi, si stacca dalla pace divina ... È colpa grave insistere nel far pace con i corruttori.". Il vescovo dev’essere un uomo di pace, ma al contempo deve avere in sé il sale; quando è in gioco il vero e proprio bene della fede, egli deve esser pronto ad affrontare il conflitto, affinché il sale non divenga insipido e noi Cristiani a ragione disprezzati e calpestati a livello sociale.

L’eucaristia della Chiesa e l’ufficio del vescovo

La Chiesa trova il proprio compimento nella celebrazione dell’eucaristia, in cui al contempo si rende presente il messaggio  evangelico. Ciò include innanzitutto l’aspetto locale. L’eucaristia viene celebrata in un luogo concreto con le persone che abitano in esso. Qui ha inizio il processo di raccolta del popolo di Dio. La Chiesa non è un club di amici, in cui si radunano persone con le stesse inclinazioni. La chiamata di Dio è rivolta all’intera umanità. La Chiesa dei primi secoli, in quanto nuovo popolo di Dio di cui tutti sono chiamati a far parte, voleva fin dall’inizio essere pubblica, al pari dello Stato stesso. Perciò tutti i credenti che risiedono in un determinato luogo appartengono alla medesima eucaristia: ricchi e poveri, colti ed ignoranti, ebrei e pagani, donne e uomini. Dove risuona la chiamata di Cristo, simili differenze non contano più (Gal 3, 28).

Solo da questa visuale si comprende perchè il vescovo-martire Ignazio d’Antiochia (morto intorno al 110) abbia vincolato con tanta insistenza l’appartenenza ecclesiale alla comunione con il vescovo. Il vescovo difende l’unità della fede da ogni tentazione di raggruppamento, di separazione per razza o classe sociale. Il vescovo di una diocesi si fa garante che la Chiesa è una per tutti, perché Dio è uno per tutta l’umanità. In questo senso la Chiesa deve sempre svolgere una straordinaria missione di riconciliazione. Una riconciliazione che può scaturire solo dall’amore di colui che è morto per la salvezza di tutti. La lettera agli Efesini (2, 14) individua il significato più intimo del sacrificio di Cristo nell’aver egli demolito "quel muro che li separava e li rendeva nemici".

Non è possibile bere nell’eucaristia il sangue di Cristo "versato per i molti", restringendosi nella cerchia dei "pochi". L’eucaristia è eucaristia di tutto il Cristo e di tutta la Chiesa. Nessuno può scegliersi la "sua" particolare eucaristia. La riconciliazione con Dio, che tramite essa ci viene offerta, presuppone sempre la riconciliazione con il nostro prossimo (Mt 5, 23 seg).

L’esistenza eucaristica della Chiesa ci rimanda innanzitutto al raduno locale del popolo di Dio. L’ufficio episcopale è parte essenziale dell’eucaristia – come servizio a vantaggio dell’unità che risulta necessariamente dal carattere sacrificale e conciliatorio dell’eucaristia. Una Chiesa intesa in senso eucaristico è – secondo Ignazio d’Antiochia – una chiesa organizzata su base episcopale.

L’ufficio episcopale nella Chiesa cattolica, universale 

Osservando la pratica di vita della Chiesa dei primi secoli, si constaterà che essa non fu mai caratterizzata da una pura e semplice coesistenza di chiese locali. Fin dagli inizi ne costituivano parte essenziale svariate forme di cattolicità realizzata. In epoca apostolica sono soprattutto gli apostoli stessi che trascendono il principio della competenza locale. L’apostolo non è vescovo di una comunità, bensì missionario  per la Chiesa intera. Nella sua persona egli dà espressione alla Chiesa universale. E nessuna chiesa locale può rivendicarne l’esclusività. Paolo adempì al proprio mandato di propugnatore dell’unità attraverso le sue lettere e mediante una rete di nunzi. Queste lettere rappresentano il praticato esercizio del ministero cattolico dell’unità, di per sé riconducibile all’autorità ecclesiale universale dell’apostolo.

Al tempo degli apostoli l’elemento cattolico nella struttura ecclesiastica è manifesto. L’ufficio ad orientamento universale ha la priorità sugli uffici locali. Solo comprendendo ciò si potrà afferrare in tutta la sua portata l’asserzione che i vescovi sono i successori degli apostoli.

Nella prima fase ecclesiale i vescovi, in quanto responsabili delle chiese locali, sottostavano chiaramente all’autorità globale degli apostoli. Che nel processo di configurazione della Chiesa post-apostolica venisse riconosciuta loro anche la posizione degli apostoli, significa che ora essi assumono una responsabilità che va  oltre le contingenze locali. Anche nella nuova situazione lo zelo missionario non deve venir meno. La Chiesa non può ridursi ad una pura convivenza di chiese locali che fondamentalmente bastano a se stesse. Essa deve conservarsi apostolica e missionaria. La dinamica dell’unità modella la sua struttura complessiva.

Nel secondo secolo Ireneo di Lione sottolineava:

"Ricevuto … questo messaggio e questa fede, la Chiesa, benché disseminata in tutto il mondo, lo custodisce con cura come se abitasse una sola casa; allo stesso modo crede in queste verità, come se avesse una sola anima e uno stesso cuore; in pieno accordo queste verità proclama, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca. Le lingue del mondo sono diverse, ma la potenza della Tradizione è unica e la stessa. Né le Chiese fondate nelle Germanie hanno ricevuto o trasmettono una fede diversa; né quelle fondate nelle Spagne o tra i Celti o nelle regioni orientali o in Egitto o in Libia o nel centro del mondo. Ma come il sole, la creatura di Dio, è in tutto il mondo uno solo e il medesimo, così la luce spirituale, il messaggio della verità, dappertutto risplende e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità" (Adv. haer. I, 10,2).

Il vescovo è l’anello di congiunzione della cattolicità (cattolico significa letteralmente: riferito al tutto). Egli mantiene il collegamento con le altre chiese locali ed incarna in tal modo l’elemento apostolico e cattolico nella Chiesa. Un tratto che trova espressione già nell’atto dell’ordinazione episcopale. Il vescovo viene ordinato da un gruppo di almeno tre vescovi contigui. Nessuna comunità può semplicemente darsi in autonomia il proprio vescovo. Non siamo stati noi a produrre da soli la fede, bensì l’abbiamo ricevuta dal di fuori. La fede presuppone sempre un superamento di confine – l’andare verso gli altri ed il venire degli altri, che rimanda poi alla provenienza dell’altro, Gesù Cristo.

Riguardo al rapporto tra la Chiesa globale e le parti ecclesiali che la compongono, al vescovo spetta una posizione centrale. Nel quadro unitario di sacramento e verbo egli incarna l’unità della chiesa locale (= diocesi). Al contempo il vescovo è l’anello di congiunzione con le altre chiese locali: egli provvede all’unità della chiesa nella propria diocesi ed ha contemporaneamente il compito di stimolare attivamente l’unità della propria chiesa locale con la Chiesa globale, unica Chiesa di Gesù Cristo.

Il vescovo – come ha detto una volta l’allora teologo Joseph Ratzinger – è responsabile della dimensione cattolica e della dimensione apostolica della sua chiesa locale. Queste due componenti essenziali della Chiesa caratterizzano in modo particolare il suo ufficio, ma sono anche immediatamente connesse agli altri due tratti distintivi della Chiesa: apostolicità e cattolicità stanno al servizio dell’unità. E senza unità non esiste neppure la santità. Quest’ultima infatti si realizza essenzialmente nell’integrazione dei singoli nell’amore rappacificante del corpo unico di Gesù Cristo. La purificazione della propria esistenza attraverso la sua fusione nell’universale amore di Cristo ha per effetto la santità dell’uomo, che è la santità della divina Trinità stessa.

La comunione con Cristo come presupposto fondamentale del ministero episcopale

In linea di massima, la missione del vescovo è tratteggiata in ciò che le Sacre Scritture presentano come il volere di Gesù nei confronti degli apostoli: essi furono chiamati da Cristo, per "averli con sé", "per mandarli a predicare" e "perché avessero il potere" (Mc 3, 14 seg.).

Il presupposto fondamentale del ministero episcopale è l’intima comunione con Gesù Cristo, la coesione con Lui. Il vescovo deve essere testimone della resurrezione. Dev’essere in contatto con il Cristo risorto. Senza quest’intima coesione con Cristo, egli si riduce ad un semplice funzionario ecclesiastico. E non sarebbe più testimone e successore degli apostoli. La coesione  con Gesù Cristo,  che presuppone l’interiorizzazione della fede,  fa sì che al contempo egli partecipi alla missione di Gesù. Con l’intera sua esistenza Cristo è infatti l’inviato che ha fatto della propria coesione con il Padre una coesione con gli uomini. La missione del vescovo consiste innanzitutto nel portare la coesione con Dio tra gli uomini, e nel chiamare gli stessi a raccolta in questa coesione.

Considerando da una tale prospettiva il potere conferito agli apostoli di scacciare i demoni, si chiarisce anche il significato di questo mandato: L’arrivo del messaggio di Gesù guarisce e purifica gli uomini dal di dentro. Purifica l’atmosfera spirituale in cui essi vivono, attraverso l’intervento dello Spirito Santo. Realizzare attraverso Cristo la coesione con Dio e portare Dio tra gli uomini: ecco il mandato del vescovo. "Chi non raccoglie insieme con me spreca il raccolto", dice Gesù (Mt 12, 30). Il vescovo è incaricato di raccogliere insieme a Gesù.

Da ciò risulta, in secondo luogo, che ogni vescovo è compreso nella successione degli apostoli. Soltanto il vescovo di Roma è successore di un determinato apostolo, San Pietro. A lui è affidata la responsabilità dell’intera Chiesa. Tutti gli altri vescovi sono successori degli apostoli, non di uno in particolare. Essi appartengono al collegio episcopale. La "collegialità" è conseguenza necessaria della dimensione cattolica ed apostolica dell’ufficio del vescovo. Si tratta innanzitutto dei particolari legami fra i vescovi di una determinata regione (Conferenza episcopale), che cercano, all’interno di un comune contesto politico e culturale, una via comune per l’esercizio del loro ministero episcopale.

A tal fine è necessaria sia la responsabilità personale di ogni singolo vescovo che la ricerca della comune  testimonianza.

La Chiesa, una comunione che si perpetua nei tempi

Parlando della comunione dei vescovi, si deve tener conto di un’ulteriore dimensione: il collegio dei vescovi non esiste soltanto sincronicamente, vale a dire nel presente, bensì anche in senso diacronico, cioè perpetuamente. In questo senso, nella Chiesa nessuna generazione è isolata.

Il vescovo non proclama idee da lui stesso escogitate. Egli è piuttosto il messo e nunzio di Gesù Cristo. La guida per cogliere il messaggio è costituita per lui dalla comunione della Chiesa di tutti i tempi. Una qualunque maggioranza eventualmente formatasi in opposizione alla fede della Chiesa di tutti i secoli, non sarebbe una maggioranza nel senso della fede. La vera maggioranza nella Chiesa è diacronica, cioè si perpetua nei tempi. Solo chi presta ascolto a questa globale maggioranza rimane nella comunione degli apostoli.

La fede trascende la tendenza che, di volta in volta, induce il presente di turno a  porre se stesso in termini assoluti. Garantendogli un’apertura sulla fede di tutti i tempi, essa lo libera dall’illusione ideologica  ed al contempo lascia aperto il futuro. Un compito importante del vescovo, derivante dal carattere comunitario del suo ufficio, è quello di farsi portavoce di questa perpetua maggioranza dei credenti, di essere cioè la voce della chiesa che riunifica i secoli.

I vescovi al servizio dell’unità 

Il vescovo rappresenta la Chiesa globale nei confronti della propria chiesa locale e viceversa. In tal modo egli si mette al servizio dell’unità. Egli non può permettere che la chiesa locale si rinchiuda in se stessa. Deve anzi far sì che essa si apra su tutto l’insieme, affinché le energie stimolanti dei carismi possano circolare liberamente. Il vescovo che pratica l’apertura della chiesa locale nei confronti della Chiesa universale, introduce nella Chiesa globale la voce particolare della propria diocesi, i suoi speciali carismi, i suoi meriti ed i suoi mali.Tutto appartiene a tutti. Il contributo di ciascuna chiesa locale è importante per il bene della Chiesa globale. 

Il Papa come successore di San Pietro, esercitando il proprio ufficio incoraggia i doni particolari delle singole chiese locali. Egli deve far sì che i diversi carismi delle chiese locali operino efficacemente nello scambio vitale del tutto. Allo stesso modo devono procedere il vescovo e le conferenze episcopali nei loro rispettivi ambiti. Essi devono perciò guardarsi da qualsiasi uniformazione pastorale. Anche per loro vale la regola di San Paolo: "Non ostacolate l’azione dello Spirito Santo!  ... Esaminate ogni cosa e tenete ciò che è buono!" (1 Tess 5, 19.21). Non può esserci uniformismo nelle progettazioni pastorali della Chiesa. È anzi necessario che  - mantenendo come metro l’unità della fede - si lasci spazio sufficiente alla varietà dei doni divini.

La responsabilità dei vescovi riguardo alla vita pubblica

Il mandato degli apostoli è sempre esteso "fino ai limiti della terra". Perciò l’incarico del vescovo non potrà mai esaurirsi nell’ambito strettamente ecclesiastico. Il Vangelo vale per tutta l’umanità. I successori degli apostoli hanno la responsabilità di diffonderlo nel mondo. È necessario continuare senza sosta ad annunciare la fede a coloro che ancora non riconoscono Cristo come loro salvatore. Oltre a ciò i vescovi devono assumersi una responsabilità anche relativamente a questioni che riguardano la vita pubblica.

È incontestato che allo Stato spetti un’autonomia nei confronti della Chiesa. Il vescovo è tenuto a riconoscere il diritto proprio dello Stato, sotto la condizione che lo Stato rispetti i diritti fondamentali dell’uomo (lex naturalis). Egli evita di mescolare la fede con la politica e rende un servigio alla libertà collettiva non permettendo che si identifichi la fede con una determinata forma di politica. Il Vangelo indica alla politica delle verità e dei valori, ma non fornisce risposte a singole questioni concrete in campo politico o economico. Dell’"autonomia delle cose terrene", di cui ha parlato il Concilio Vaticano II, devono tener conto tutti i credenti. Solo così la Chiesa può continuare ad essere uno spazio aperto alla riconciliazione fra i partiti. Solo così non diventa essa stessa di parte. A questo riguardo, anche il rispetto dell’emancipazione dei laici costituisce un aspetto importante del ministero episcopale.

L’autonomia delle questioni mondane tuttavia non è assoluta. Rifacendosi alle esperienze dell’epoca imperiale nell’antica Roma, Agostino faceva presente che, abbassando la soglia etica al di sotto di un certo minimo, i confini tra lo Stato e una banda di briganti diventano labili. Lo Stato non produce semplicemente il diritto. Se qualcosa è una colpa in sè, ad esempio l’uccisione di innocenti, nessuna legge dello Stato può proclamarla un diritto.

I Cristiani sono tenuti ad impegnarsi sollecitamente perché si  conservi, nell’ambito della vita politica, la capacità di intendere la voce del creato. Il vescovo deve provvedere a che gli uomini non diventino sordi per le fondamentali verità della coscienza che Dio ha iscritto nel cuore di ciascuno di loro. San Gregorio Magno disse una volta che il vescovo deve avere "buon naso", cioè una sensibilità che gli permetta di distinguere tra giusto e sbagliato. Ciò vale tanto in campo ecclesiastico quanto nell’ambito della vita sociale e politica. Proprio il rispetto per la peculiarità della vita pubblica richiede che la Chiesa si presenti anche come avvocato del creato, laddove nella confusione del fai da te la sua voce viene sommersa dagli schiamazzi.  Fra i compiti preminenti dei vescovi c’è quello di risvegliare le coscienze degli uomini e di sensibilizzarle per le esigenze dell’epoca, di condurli alla serena verità che si è rivelata in Gesù Cristo, accogliendoli in tal modo in quell’unità che può provenire solamente da Dio: "Uno solo è il corpo, uno solo è lo Spirito, come una sola è la speranza alla quale Dio vi ha chiamati. Uno solo è il Signore, una sola è la fede, uno solo è il battesimo. Uno solo è Dio, Padre di tutti, al di sopra di tutti, che in tutti è presente e agisce." (Efes 4,4).

 


Bibeltexte nach:

PAROLA DEL SIGNORE – IL NUOVO TESTAMENTO, Traduzione interconfessionale dal testo greco in lingua corrente. Editrice ELLE DI CI, 10096 LEUMANN (Torino) ALLEANZA BIBLICA UNIVERSALE, Roma, 1989.







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/04/2015 00:37
 
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  FOCUSdi Claudia Di Lorenzi



 

«La via verso il futuro non è la secolarizzazione della Chiesa, ma la cristianizzazione del mondo! Questo è il nucleo del messaggio della Passione, l’essenza della Buona Novella e la via della Chiesa. Lo dice il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, in questa intervista alla Bussola. Il cardinale ha appena pubblicato il suo ultimo libro:La Croce è Vita. Meditazioni sulla Passione.



«La via verso il futuro non è la secolarizzazione della Chiesa, ma la cristianizzazione del mondo! Questo è il nucleo del messaggio della passione, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, l’essenza della Buona Novella e la via della Chiesa: sulle tracce di Gesù percorriamo la via della sequela, che ci porta dalla passione, attraverso la Croce, alla risurrezione e alla vita eterna».

È uno dei passaggi centrali dell’ultimo libro del cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, intitolato La Croce è Vita. Meditazioni sulla Passione e sulla Pasqua di Gesù (edizioni Ares), pubblicato in preparazione alla Santa Pasqua. Una raccolta di riflessioni che tracciano un itinerario ideale che va dal Mercoledì delle Ceneri alla Domenica delle Palme, e poi il Giovedì Santo, il Venerdì della passione e morte di Cristo, fino alla gloria della Pasqua, al congedo terreno dell’Ascensione e al mandato apostolico di Pentecoste. Un percorso che offre al porporato l’occasione per rimarcare il ruolo e la missione della Chiesa, in tempi in cui la secolarizzazione avanza e le sfide si moltiplicano, nel dialogo con una società in continua evoluzione e dentro le “sacre mura”. Siamo andati a trovare il cardinale, ecco cosa ci ha detto.  

Eminenza, il messaggio che emerge dal volume, che raccoglie Sue meditazioni sulla Pasqua, può essere riassunto in questa Sua frase: «Soltanto nella Croce c’è Salvezza, nella Croce c’è Vita, nella Croce c’è Speranza». Ci aiuta a comprendere meglio il significato del sacrificio di Cristo sulla Croce?

    «Senza il sacrificio di Cristo sulla Croce, la morte sarebbe rimasta l’ultima parola sulla vita di ogni singolo uomo e sulla storia dell’intera umanità. Tragicamente. E poiché, come dice sant’Agostino, il Verbo del Dio eterno, “non aveva nulla in se stesso per cui potesse morire per noi, se non avesse preso da noi una carne mortale”, la assunse realmente e divenne uomo. Per poter realmente morire. Nacque e morì pro nobis, al nostro posto e a nostro favore. Adottò la via ignominiosa della Croce, da dove conquistò la vittoria. Nella Croce di Cristo c’è Speranza certa, perché su di essa e attraverso di essa Egli restituì la vita oltre la morte, la salvezza, la salus, la salute permanente, oltre l’ostacolo insormontabile».

In questa prospettiva Lei ricorda che la Chiesa è chiamata a «seguire sempre la via della sequela di Cristo, suo umile e umiliato Signore». Cosa significa questo nel concreto? Quale atteggiamento e quali scelte derivano da questo compito per la Chiesa?

«Insegna il Concilio Vaticano II, al n. 8 della Lumen gentium: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza… Anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione”. E mentre Cristo “non conobbe il peccato (cfr. 2Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento”. Il paradigma evangelico è il costante vivo riferimento della Chiesa: non ne sarà dato altro per il suo pellegrinaggio. Attingervi in modo continuo, perché tutti i suoi membri ne siano pervasi nell’intimo, è la sua perenne saggezza».

Quali rischi comporta invece la scelta di quella che Lei chiama la «strada larga»?

«Gli stessi che ha paventato Gesù, vale a dire, condensati in un termine terribile, “la perdizione” (Mt 7,13). “Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?” (Mc 8,36-37). L’uomo occidentale contemporaneo può disporre di molto, qualcuno perfino di tutto quanto ritenga necessario per procacciarsi un potere, ma appare smarrito. Perde sé, perde la coscienza della propria origine e del proprio destino, della consistenza delle cose, del senso della Provvidenza che tutto sostiene: si smarrisce, l’uomo, se imbuca un’altra strada rispetto a quella evangelica. Gli esempi ciascuno li può individuare da sé senza particolare difficoltà».

Il messaggio della Croce è un dono per i singoli cristiani e per gli uomini tutti: la via per avere accesso alla felicità piena. A questo proposito Lei scrive: «Una via da percorrere con la gioia della fede, nella certezza che il Venerdì Santo è temporaneo – la Pasqua invece è eterna». Ma è un messaggio non facilmente accessibile: come tradurlo nella vita quotidiana?

«Seguire Cristo comporta la vita eterna e il centuplo quaggiù (cfr. Mc 10,30). Dove il centuplo quaggiù è l’anticipazione quaggiù della vita eterna. È come nella parabola degli operai dell’undicesima ora (cfr. Mt 20,1-16): il premio è per tutti identico, ma chi ha incontrato prima Cristo ne ha goduto quaggiù anticipatamente».

Il sacrificio di Cristo sulla Croce si rinnova ogni volta nell’Eucaristia. In più occasioni nel volume Lei ribadisce il primato di tutti i Sacramenti…

«I Sacramenti esprimono realmente la misericordia di Dio. Non si limitano a indicare altro da sé quale ragione propria del loro esserci, come è nella natura di qualsiasi altro segno, ma contengono, rendono davvero presente, ciò che (meglio: Colui che) significano. L’Eucaristia – il pane e il vino che diventano il Corpo e il Sangue di Cristo – rinnova il sacrificio della Croce, lo ri-presenta, qui e ora, fino alla fine del mondo, fino al ritorno glorioso del Signore. La Chiesa Sacramento celebra i Sacramenti perché chi incontra Cristo sia costantemente alimentato dalla Sua grazia».

Nel volume alcuni passaggi sono dedicati al rapporto fra la Chiesa e “le folle” e i “leader d’opinione onnipotenti”. Dove sta il punto di equilibrio fra la difesa delle Verità di fede e della dottrina, e la necessità di andare incontro a una società in evoluzione con la quale conservare e rinnovare un proficuo dialogo?

«Le Verità di fede e della dottrina che ne deriva ci consentono di guardare a tutta la realtà della Chiesa, ovunque essa viva, con qualunque tipo di sfida essa sia confrontata. Situazioni di povertà estrema e di profonda ingiustizia intaccano ancora intere popolazioni in molteplici luoghi del pianeta. Nel mondo globalizzato contemporaneo, gli squilibri sociali sono diventati ulteriormente acuti. La Chiesa non cessa di invitare anche i “leader d’opinione” che si pretendono “onnipotenti” a misurarsi con i problemi reali, senza assolutizzare questioni che, nell’insieme, occupano uno spazio geograficamente e culturalmente limitato».

Lei è un profondo conoscitore delle Opere pubblicate da Papa Benedetto XVI. Quali sono gli aspetti di maggiore continuità con il Pontificato di Papa Francesco?

«Con le evidenti specificità temperamentali e legate per ciascuno alla propria formazione (e la medesima cosa vale per qualunque persona umana considerata in rapporto a qualunque altro suo simile), gli aspetti di maggior continuità sono quelli riguardanti l’essenziale: il rapporto insopprimibile con Cristo, la vita della Chiesa alimentata dalla grazia, l’educazione alla fede. Nella recente intervista che il Santo Padre ha concesso a giovani di una bidonville di Buenos Aires, alla domanda: ”Qual è la cosa più importante che dobbiamo dare ai nostri figli?”, Egli, dopo aver fatto subito riferimento all’”appartenenza a un focolare”, ha aggiunto: “Ma la cosa ancora più importante è la fede. Mi addolora molto incontrare un bambino che non sa fare il segno della croce. Vuol dire che al piccolo non è stata data la cosa più importante che un padre e una madre possono dargli: la fede”. Famiglia e fede, Benedetto e Francesco».

   



 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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  FOCUSdi Lorenzo Bertocchi




 

«Il matrimonio è stato instaurato da Dio ed è stato trasformato da Gesù Cristo in sacramento. Noi non possiamo, né vogliamo cambiare questo. Noi vogliamo aiutare le persone in difficoltà, ma dobbiamo farlo in una maniera che sia conforme alla nostra fede». Lo ha detto il cardinale Ludwig Muller in una intervista alla tv francese KTO.

«Tutta la Chiesa è una rivoluzione, nel senso che Nostro Signore ha riposizionato tutto a un altro livello». Lo ha detto il cardinale Ludwig Muller, prefetto della congregazione della Dottrina della Fede, in una lunga intervista concessa al canale televisivo francese KTO (clicca qui per il video dell'intervista). Tra i vari argomenti sembra che il cardinale abbia voluto sottolineare sopratutto la necessità di non interpretare la Chiesa secondo categorie di stampo politico. «Dio ha fondato la Chiesa, e la Chiesa ha il grande dovere di riunire gli uomini. Dobbiamo superare le polarizzazioni».

Infatti, rispondendo a una domanda sulla presunta “rivoluzione” di Papa Francesco, ha tenuto a specificare che quella della Chiesa «non è una rivoluzione nel senso di un combattimento di una classe contro l'altra. La divisione della società in destra e sinistra, conservatori e progressisti, tutto questo deve essere superato. Papa Francesco ripete che bisogna ogni giorno ricominciare a livello della persona di Cristo».

Anche il tema della Chiesa povera per i poveri, secondo Muller, deve essere affrontato facendo attenzione a non cadere in trabocchetti ideologici. Il Papa pone attenzione ai poveri perchè lo ha “sperimentato”, viene da un contesto geografico che ha vissuto, e vive, una situazione di diffusa povertà e difficoltà sociale. «Naturalmente - ha detto Muller - noi abbiamo bisogno dei beni della Chiesa per compiere la missione, ma il Papa invita a domandarci qual è la nostra profonda attitudine. Noi non siamo soltanto dei principi della Chiesa, dei cardinali, dei vescovi, dei preti, non siamo qui per diventare noi stessi ricchi, ma per aiutare e servire. Questa è la ragione per cui la Chiesa deve essere povera con Cristo».

Dopo circa 15 minuti di domande e risposte l'argomento è scivolato inevitabilmente sui temi del Sinodo della famiglia. Anche in questo caso il cardinale ha fatto notare che «in un mondo fortemente politicizzato c'è il pericolo che le questioni teologiche e pastorali siano presentate solo a livello politico, invece, di luoghi dell'amore di Dio per gli uomini. L'amore di Dio non divide, ma unisce sempre».

Le risposte sui temi del Sinodo non hanno mancato di essere molto chiare, però, come ha più volte sottolineato, non dobbiamo catalogarle come prese di posizione di parte, o, peggio, come chiusure per evitare un dibattito. Al contrario «non è possibile opporre la teologia alla pastorale. La pastorale è il cammino della relazione, tutti i giorni più profonda, con Cristo Gesù. E Gesù, così come noi crediamo, è una persona, la Verità e la Vita. Così c'è la dottrina e la pastorale, allo stesso tempo».

Per quanto riguarda la famiglia e il matrimonio, ha detto, «noi ci troviamo a vivere dopo 200 anni di secolarizzazione generale». L'amore, la sessualità e la famiglia vengono ormai interpretati in maniera esclusivamente “funzionale”. «Noi diciamo, invece, che il matrimonio è un sacramento, un modo per vivere nella grazia di Dio e nella relazione con Dio». «Per gli effetti del sacramento del matrimonio noi partecipiamo alla vita di grazia dell'unità intima e intensa tra Cristo e la Chiesa. (…) Noi non possiamo, né vogliamo, cambiare tutto questo, semplicemente perché il matrimonio è stato instaurato da Dio ed è stato trasformato da Gesù Cristo in sacramento». 

Gli interventi del prefetto della Dottrina della Fede, che negli ultimi tempi si stanno intensificando, ribadiscono alcuni concetti molto precisi. «Molte persone, ha detto, incontrano delle difficoltà nel contesto del loro matrimonio e nella loro famiglia. Come Chiesa di Cristo noi vogliamo aiutare queste persone, ma dobbiamo farlo in una maniera che sia conforme alla nostra fede. Non possiamo fare sconti sui contenuti della nostra fede, quello che possiamo fare è soltanto considerare queste situazioni da un punto di vista umano. Noi vogliamo aiutarli, ma dobbiamo dire chiaramente che il matrimonio, se è concluso tra due cristiani, non è più un soggetto da dibattere, ma come ha detto Gesù dura per sempre, fino alla morte. È dono totale».

Incalzato dall'intervistatore sul tema dei divorziati risposati e l'accesso all'eucaristia, Muller dice che «la Chiesa e il magistero hanno già dato una risposta, non si tratta di una convinzione personale, ma dell'oggettività e della natura propria di un sacramento donato e ricevuto. Se qualcuno si è risposato civilmente non si tratta evidentemente di un matrimonio sacramentale, così il matrimonio sacramentalmente ricevuto continua a perdurare. È questo il punto».  In questo caso, quindi l'accesso all'Eucaristia, attraverso il sacramento della riconciliazione, presuppone che «il matrimonio sacramentalmente concluso sia recuperato molto concretamente nella vita quotidiana, oppure che la seconda relazione non sia vissuta in maniera coniugale nell'esercizio della sessualità».

Certo, aggiunge, vi sono alcune prassi della Chiesa che possono essere approfondite e rivalutate, come ad esempio quella di «accelerare le procedure di dichiarazione di nullità del matrimonio». Un problema che papa Benedetto XVI aveva già sollevato, insieme a quello più delicato riferito a quale «tipo di fede, nel senso di confessione della fede, è richiesta perché un matrimonio possa considerarsi valido nel senso della sacramentalità di questo atto». Su questi argomenti il cardinale prefetto non ha soluzioni facili, ma dice che «occorre ben riflettere» per far fronte a questo frutto della secolarizzazione e trovare risposte.

A proposito del ruolo della Congregazione della Dottrina della Fede ha voluto ricordare che «la nostra missione principale è sostenere i vescovi» nella promozione e difesa della fede cattolica, ma anche quella di «riformulare la fede in modo che il mondo di oggi possa accoglierla e percepirla come un indicatore nel cammino della vita. Nel nostro mondo secolarizzato, ha concluso, la verità resta la verità. Come qualcosa di intoccabile, dono di Dio per aiutare tutti gli uomini. (…) Gesù Cristo è il senso profondo della nostra vita».

 





CARDINAL MÜLLER: CI SARÀ SEMPRE UNA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE.


A seguito delle recenti informazioni, sempre attraverso stampa [qui], c'era da aspettarsi un seguito.
Traduciamo ora le dichiarazioni rese dal Cardinale Gerhard Ludwig Müller al Welt am Sonntag riprese by Benoit et moi.


Berlino (kath.net/KNA). Il Cardinale di curia Gerhard Ludwig Müller non ha, secondo lui, alcuna grossa divergenza con Papa Francesco. «Il papa naturalmente conosce anche lui le leggende mediatiche che non cessano di pretendere che non siamo d'accordo», ha detto il prefetto della Congregazione vaticana per la dottrina della fede al Welt am Sonntag
«Questa immagine che ci presenta come avversari naturalmente fornisce ai giornalisti materiale inesauribile», dice il Vescovo Müller. «Ma il papa non le prende sul serio e, di conseguenza, nemmeno io».
 
«Che Francesco ignori sistematicamente le indicazioni della CDF per continuare la sua strada, è inesatto», sottolinea il cardinale Müller. «L'ho personalmente interrogato sull'argomento». La CDF ha «nel quadro delle competenze che le sono conferite dal magistero pontificio», ha detto il cardinale. «Non ha alcun senso voler mettere il papa contro la Curia romana».
 
Il prefetto della CDF non ha alcuna preoccupazione sulla sopravvivenza del servizio curiale che dirige. «In un modo o nell'altro», ci sarà sempre in Vaticano, nonostante tutte le possibili riforme, Congregazione per la Dottrina della Fede, «perché il Magistero del Papa rappresenta la sua missione, la più importante per la Chiesa universale», ha detto il cardinale Müller al Welt am Sonntag
 
Il cardinale afferma di non aver alcun timore che un giorno uno dei suoi successori possa vedere le cose diversamente. «Anche fra 500 anni si dirà ancora che il mondo deve la sua esistenza alla volontà creatrice di Dio. Ed è l'espressione del suo amore e bontà ». Sulla «via della salvezza», la Chiesa non può sbagliarsi, in quanto ha l'assistenza dello Spirito Santo e la promessa della sua grazia. «Chi non riconosce questo è portato sempre a sospettare dietro l'azione della Chiesa, una nascosta volontà di potere o una mancanza di lungimiranza».
 
Allo stesso tempo, il cardinale Müller ammette che molti eventi nella Chiesa rivelano ogni sorta di «dialettica umana». A ciò si aggiunge che «la nostra congregazione non è istituita da Dio». Questo vale solo per i vescovi e il papa. «Ma il papa esercita il primato, chiedendo la collaborazione Collegio Cardinalizio, in particolare anche sotto la forma delle congregazioni cardinalizie della curia romana». 
 
La CDF è la più antica e, per le questioni dogmatiche, la più alta autorità vaticana. Fondata nel 1542 sotto il pontificato di Paolo III come «Congregazione dell'Inquisizione romana e universale», dopo la Riforma, ha dovuto salvaguardare l'integrità della fede cattolica, indagare sugli errori dottrinali e, se necessario, sanzionarli. Nel 1908, la Congregazione dell'Inquisizione è diventata il «Sant'Uffizio». 


Il Papa del Concilio, Paolo VI, le ha dato il nome attuale nel 1965 e ha precisato che la Congregazione non deve solo difendere la dottrina e la morale della Chiesa contro gli errori, ma anche promuoverla, approfondirla e stimolarla attraverso studi positivi. Nel suo centro è la sezione per le questioni dottrinali, che esamina le pubblicazioni teologiche in termini di compatibilità con la dottrina cattolica. Il Cardinale Müller è capo della congregazione dal 2012. 
 
Accanto a molte lettere positive, il capo della più antica congregazione vaticana riceve anche comunicazioni cariche di odio, soprattutto dalla Germania. Da ciò che egli dichiara su Welt am Sonntag, uno dei messaggi dice: «Siete ancora nel Medioevo». Oppure: «Siete peggiori di Hitler» e cose del genere. 
 
In simili casi, il cardinale non invia una risposta. Questo è inutile. «L'odio rende incapaci di dialogo». Alla domanda di sapere se avesse due facce, dal momento che alcuni lo considerano un uomo caloroso e altri per un «Grande Inquisitore arrogante e glaciale», il cardinale Müller risponde: «Io non so se ho due facce. Ci sono persone che hanno imparato a conoscermi personalmente che dicono una cosa e altri un'altra».



 

[Modificato da Caterina63 15/04/2015 19:44]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Cardinale Gerhard Müller: "L'insegnamento della Chiesa non è una teoria, si basa sulla fedeltà alla parola di Dio"


 



Cardinale Gerhard Müller su La Vie del  29 aprile: "L'insegnamento della Chiesa non è una teoria".

Nominato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede da Papa Benedetto XVI il 2 luglio 2012, il card. Gerhard Ludwig Müller è stato creato cardinale da Papa Francesco. Risponde alle domande La Vie, in particolare sui divorziati risposati.
(...)
Lei ha contribuito a un libro che prendeva in contro piede le tesi a favore dell'apertura ai divorziati risposati riguardo all'accesso ai sacramenti; il che ha alimentato l'impressione che ci fossero forti tensioni tra i cardinali durante il Sinodo.
Il cardinale Kasper ha presentato una ipotesi per aiutare le persone a vivere un legame che, secondo la Chiesa, non è sacramentale. Siamo tutti unanimi sul fatto di voler aiutare i nostri fratelli e sorelle che si trovano in questa situazione. Ma come? La dottrina della Chiesa non è una teoria, si basa sulla fedeltà alla parola di Dio. Il matrimonio tra due persone battezzate è un sacramento efficace, realtà oggettiva. Sciogliere un matrimonio sacramentale con tutti i suoi attributi costitutivi di libertà, indissolubilità, fedeltà e fecondità è impossibile. Come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, devo presentare la dottrina della Chiesa. La Chiesa non può cambiare la sacramentalità del matrimonio: si promette di esser fedeli fino alla morte.

Ma uno degli obiettivi del Sinodo non è quello di trovare una soluzione al problema dei divorziati risposati, questione che ha occupato una gran parte del dibattito?
Lo scopo principale del Sinodo non è discutere il problema dei divorziati risposati, ma riaffermare il matrimonio come fondamento della società civile e della comunità delle Chiese [in questa espressione c'è tutta la rinuncia della Chiesa attuale alla sua Autorità centralizzata e  universale (cattolica, appunto) sostituita dalla comunità delle Chiesa locali: un aspetto della collegialità], di rivitalizzare la sua dimensione fondamentale. È grande il rischio di concentrarsi su questo problema particolare, dimenticando l'essenziale. Ciò non significa dire  quel che vorremmo, ognuno nella nostra situazione particolare. Se il Sinodo deve provocare un cambiamento, è quello di rafforzare il ruolo profetico della Chiesa. Scendere a compromessi sarebbe per noi più facile, ma il giusto rimedio sta in chi permette di vedere la situazione con verità e superare la circostanza che ha reso possibile l'incidente. Non è possibile adattare la dottrina della Chiesa ai nostri paesi secolarizzati, a meno che non si accetti un cristianesimo superficiale.

Che cosa è un cristianesimo superficiale?
In molti paesi europei, i cristiani sono battezzati non credenti e non praticanti. Non accettano la sostanza del cristianesimo, il cui effetto è quello di produrre un cambiamento di pensiero e di comportamento: una conversione. Io non giudico le persone dicendo questo, ma nei nostri paesi, basta guardare la percentuale di cristiani battezzati non cresimati o la moltiplicazione degli aborti per vedere che l'esistenza di un cristianesimo superficiale è una realtà.
 
Si tira spesso in ballo la soluzione della Chiesa ortodossa, che permette una seconda unione non sacramentale, dopo un tempo di penitenza.
Questa non è una soluzione ...
_____________________________________
[Traduzione a cura di Chiesa  e post-concilio]




 

Omelia di Sua Em. il Card. Gerhard L. Müller 
agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione

Rimini 25 aprile 2015

 

Carissimi Amici,

anzitutto lasciatemi dire la gioia di poter essere qui con voi! Anzi - vorrei dire - la letizia di stare qui con voi - come forse preciserebbe il Vostro fondatore, Don Giussani. Perché la gioia, quella piena, è soltanto nella vittoria definitiva, nel cielo. Mentre qui in terra ci è dato un anticipo, di quella gioia, nella letizia. La letizia che il Signore concede sempre al cuore di coloro che Lo seguono. La letizia di stare qui con voi, cari Amici di Comunione e Liberazione, che volete essere - che siete! - autentici Amici di Gesù.

Seguire Gesù. Ecco tutto il nostro programma. “La sua presenza nello sguardo”, recita il programma dei vostri Esercizi. La Sua Persona, presente in mezzo noi, viva. Così viva da attirare il nostro sguardo, con i segni del Suo agire. Così amabile da raggiungere come nessun’altro il nostro cuore.

Il nostro povero cuore, così indigente, così sempre alla ricerca di qualcosa, di Qualcuno che lo prenda tutto. Perché il nostro cuore vuole tutto, esige tutto, non può fare a meno di chiedere tutto. È la sua natura, è fatto per la Totalità: è fatto per Dio! Il nostro cuore cerca sempre Qualcuno che lo prenda, che lo afferri totalmente. Siamo fatti così!

Noi seguiamo Dio, seguiamo Gesù, perché solo Lui sa prendere tutto il nostro cuore, come nessun’altro. Nessuno come Lui - a volte con discrezione, a volte con forza - sa attirare a sé il nostro cuore. Nessuno come Te, Gesù, sa prendere il mio cuore! Nessuno mi guarda e mi ama come Te, Gesù!

Questo vuole dirci San Pietro, nella sua prima lettera - che abbiamo appena ascoltato - quando scrive che “Dio dà grazia agli umili”. Dio dona i tesori del Suo cuore a coloro che attendono di essere presi totalmente. Dio dona tutto se stesso a coloro che hanno fame e sete di Qualcuno che sappia afferrare tutto il loro cuore. Dio si concede solo a chi è disposto a lasciarsi prendere tutto.

Disposti a lasciarsi prendere totalmente. Questa è la prima umiltà. Questa è l’umiltà che Dio cerca in ogni uomo. Questo è il cuore che Dio cerca, quando ci guarda. Questo cuore Egli vuole rinnovare in noi, in ognuno di noi.

“Egli ha cura di noi”, continua San Pietro nella sua lettera. Tutta la cura che Dio pone verso la nostra vita, mira a generare un cuore così. Dio cerca cuori che attendono di essere presi totalmente. E opera perché, in noi, si generi sempre più un cuore così. Non è mai finita la generazione di un cuore che attende di essere preso tutto. Un cuore così è un cantiere senza fine. E Dio stesso, ama lavorare in cantieri così.

Il cuore stesso di Dio vive come un cantiere senza fine, in cui ogni Persona Divina si dona, è presa, e si riceve totalmente dall’Altro. Il cuore stesso di Gesù è generato da un Amore così: un amore che dona, che attende, che è aperto a ricevere senza fine. Il cuore di Gesù opera per generare cuori così. Il Cuore di Gesù dona, attende e spera così da ciascuno di noi.

“Pietro, mi ami tu?”. Conosciamo bene questa domanda che Gesù rivolge a Pietro, trafiggendolo. Ognuno di noi, desidera essere trafitto da domande così. E nessuno, come Gesù, sa trafiggere il nostro cuore. Perché, mentre le Sue labbra pronunciano quelle parole, il Suo sguardo ci rivela quanto sia grande l’Amore che Lui ha per noi. Un Amore così grande da sapersi prendere tutto quell’abisso che è il nostro cuore!

Possiamo immaginarci la vita di Pietro: Pietro stesso che scrive ai primi cristiani, che guida le prime comunità, dapprima a Gerusalemme, poi ad Antiochia e infine a Roma.  “Pietro mi ami tu?”. Possiamo immaginarci Pietro che, giorno dopo giorno, si lascia sempre più sospingere dal fuoco di questa domanda e di quello sguardo, lo sguardo di Gesù, ormai presente per sempre nella sua vita. Presente più che mai, ineliminabile dalla sua storia. Tutto quello che Pietro viveva, lo viveva sospinto dalla Persona di Gesù, presente e vivo come prima, e più di prima.

Così Pietro, diviene sempre più Apostolo, sempre più inviato dal Signore, sempre più sospinto dallo sguardo e dalle parole di Gesù: “Pietro mi ami tu?”. Così Pietro scopre che la missione è un evento che si rinnova ogni giorno, seguendo quotidianamente Gesù. Così Pietro scopre che tutta la sua missione nasce dallo sguardo misericordioso di Gesù.

Pietro: che vede Gesù salire al cielo sotto i suoi occhi, e poi lo ritrova presente lungo i passi del suo cammino. Pietro: che da giovane andava dove voleva e, ormai anziano, ha imparato cosa significa tendere le braccia e lasciarsi portare per vie da lui non pensate e non volute. Pietro: che, giunto a Roma, ha ormai compreso come la strada che occorre percorrere ogni giorno - perché il cuore sia preso tutto - è una strada che non ha immaginato lui. Pietro: nel cui sguardo è ormai impressa indelebilmente la presenza di Gesù e nel cui cuore, incancellabile, c’è il desiderio di lasciarsi prendere totalmente da Lui.

È questo lasciarsi prendere totalmente, che rende il cuore capace di adorazione autentica, che spezza ogni forma viziata di potere, che rinnova la nostra affettività, che taglia le gambe alla tentazione di mercanteggiare tutto ciò che ci è dato da vivere, che libera in noi ondate di gratuità, che ci ridona un gusto intero per tutto ciò che è Bello, Vero, Giusto e Buono.

È Gesù che ci rende uomini finalmente liberi, uomini liberi perché hanno il cuore liberato, il cuore tutto preso da Lui, che è Amore e Verità senza fine!

Cari Amici, oggi la Chiesa ci invita a celebrare la festa di San Marco Evangelista. Marco - secondo la tradizione - ha scritto a Roma il suo vangelo, sotto dettatura di Pietro, di cui era il fidato segretario. Leggendo il vangelo di Marco, traspare l’essenzialità e la concretezza del carattere di Pietro. Questo vangelo è un vangelo dei fatti, che ci mette di fronte la fattualità della vita. La vita scorre con una serie di avvenimenti e, attraverso quegli avvenimenti, il Signore della storia scrive la sua storia, intreccia - con la sua libertà - una storia con ciascuno di noi, con la libertà di ognuno di noi.

Perciò nulla di ciò che accade è banale. Tutto porta inscritto in sé il Disegno misterioso con cui Dio conduce la storia. Ogni piccolo fatto, evento e circostanza partecipa di una misteriosa grandezza. Una grandezza che Gesù, Risorto ed Asceso al Cielo, divenuto Signore della storia, conferisce ad ogni avvenimento, pur piccolo o insignificante che possa sembrare. Grazie alla Pasqua di Gesù, ogni particolare della vita umana e del mondo, porta in sé la Sua presenza, discreta e potente nello stesso tempo.

Nel mistero dell’Ascensione di Gesù al Cielo si attua e rivela tutto ciò. Anche il vangelo che abbiamo appena letto vi allude: allude a questo “sedersi di Gesù alla destra di Dio”, a questo insediarsi di Gesù nel grembo di ogni circostanza, nel grembo della creazione, la quale “geme e soffre” per le doglie di un parto: il parto di un mondo rinnovato. Voi sapete bene, quanto Don Giussani avesse a cuore e ben chiaro tutto ciò.

Gesù, costituito dal Padre come Signore della storia, proprio attraverso gli avvenimenti della vita diventa, in questo modo, il grande interlocutore della nostra libertà. Ciò significa che la nostra libertà, per attuarsi - per essere rinnovata e tratta al bene - non può mai saltare gli eventi e le situazioni nelle quali ci troviamo a vivere. Ciò significa che la strada che il nostro cuore deve percorrere, per ritrovare sé stesso - per essere preso tutto - è la strada dell’obbedienza alla concretezza della vita, alla rudezza dei fatti, che spesso non corrispondono a ciò che noi avremmo voluto o immaginato.

È questa la via della Croce, una via già tracciata davanti a noi, dentro le situazioni quotidiane, è la via dell’obbedienza quotidiana ad una strada che Dio scolpisce a suon di fatti. Una via che ci è chiesto di percorrere accettando di rimanere in ciò che accade, per quanto avverso o favorevole possa sembrarci. Perché per arrivare ad essere preso tutto da Gesù, il cuore deve accettare di lasciarsi prendere tutto proprio attraverso ciò che la vita ci chiede.

È questa anche la via della Santità. Una santità finalmente ritrovata nella sua essenziale aderenza alla vita, grazie alla capacità che la fede ha di appassionarci alla vita e di inserirci, profondamente e saldamente, dentro tutto ciò che accade. Che ci insedia - quasi come Gesù - nel cuore della realtà. È questo anche il tratto più bello e affascinante della vita cristiana autentica. Un tratto che nessuno oggi sa testimoniarci come Papa Francesco, il quale è come una lampada di Amore e di Speranza posta di fronte a tutti.

Proprio questo tenace attaccamento alla realtà sottrae la santità alle caricature con cui il potere di questo mondo cerca di sempre deformarla. E la rende finalmente desiderabile, finalmente attraente, come può esserlo una vita davvero fortunata e colma di doni. È questa l’esperienza che hanno già fatto tanti dei vostri amici e compagni di strada. È questa l’esperienza che stanno già facendo tanti di voi - ne sono certo - magari alcuni nascosti ai più.

Perciò la Chiesa vi è grata. Perciò Gesù stesso vi è grato. Perciò vi siamo grati, grati per il quotidiano “sì”, per l’assenso di cuore che ogni giorno date a Gesù, nascosto o evidente che sia questo assenso. Non preoccupatevi di raccogliere subito. Preoccupatevi invece di seminare bene, perché a suo tempo sarà il Signore a raccogliere, e mostrare a tutti, i beni che avete accumulato nel vostro cuore.

Preoccupiamoci di seminare bene, insieme a Colui che - in continuazione - semina Bene e Verità nei cuori degli uomini e che, secondo i tempi dei Suoi Disegni, sa raccogliere e portare frutto!

Per questo, Egli ci pota, ci purifica e ci corregge, secondo la misura della Sua misericordia. Per questo Egli ci cambia e ci invita a lasciarci cambiare. Secondo la misura sempre più grande a cui ci invita, a cui invita il nostro cuore, perché sia sempre più preso tutto. Perché il cuore desidera essere sempre più afferrato, sempre più abbracciato, secondo una misura senza fine. Secondo una misura che, in noi, non ha mai finito di realizzarsi.

So che Don Giussani definiva la misericordia di Dio come “una giustizia che ricrea” l’uomo. È così! Il Signore ci prende così come siamo, ma non ci lascia come ci trova e ci cambia, secondo la misura esigente del Suo Amore. Perché la sua grazia non ci giustifica dall’alto, lasciandoci come siamo, ma è un dono che entra in noi e ci trasforma, ci rinnova secondo le dimensioni sempre più ampie a cui il Suo Spirito ci conduce.

È questo anche il mio augurio per tutti voi. L’augurio e la preghiera che il vostro cuore e la vostra umanità abbiano a crescere e dilatarsi sempre più: secondo le misure senza fine che la nostra stessa natura desidera, secondo gli orizzonti grandi che la Chiesa ci spalanca, secondo i Disegni buoni e misteriosi che Gesù stesso va realizzando per noi.

Lavorate per questo, pregate per questo, siate disposti a offrirvi per questo. Avrete Dio come premio. Amen!   

   


[Modificato da Caterina63 12/05/2015 09:27]
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Criteri teologici per una riforma della Chiesa e della Curia romana


Gerhard Müller


 


Alla Chiesa stanno a cuore il Vangelo, la verità, la salvezza. La storia ci ha insegnato che ogni volta che la Chiesa si è liberata dalla mentalità mondana e da modelli terreni di esercizio del potere, si è aperta la strada per il suo rinnovamento spirituale in Gesù Cristo, suo capo e fonte della vita. Il punto di riferimento dell’insegnamento, della vita e della costituzione della Chiesa non è il dominium dei re, ma il ministerium degli apostoli: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Corinzi, 1, 24).


Questo emerge in tutti i tentativi di riforma, in capite et in membris, come ad esempio nel rinnovamento gregoriano del secolo XI, nella riforma tridentina del XVI secolo, o nella nuova primavera della Chiesa con il concilio Vaticano II, in cui sono confluiti i movimenti di rinnovamento biblico, patristico, liturgico ed ecclesiologico dei secoli XIX e XX.
Il potere temporale del Papa e dei vescovi principi si è talvolta sovrapposto alla missione spirituale della Chiesa. Nella liaison tra potere politico e servizio spirituale non di rado è emerso l’influsso corruttore di criteri improntati al potere e al prestigio. Ancora più devastanti furono i sistemi in epoca moderna delle Chiese di Stato, presenti ad esempio nel gallicanesimo, nel febronianesimo e nel giuseppinismo, nonché la sottomissione della Chiesa alla ragione di Stato attraverso il patronato reale negli imperi spagnolo e portoghese. La Chiesa però riceve il suo vero significato non da un consenso sociale, dalla funzione del cristianesimo come religione civile o da contatti con i rappresentanti del potere politico, ma dalla stessa Parola di salvezza rivolta agli uomini, specialmente ai poveri nelle periferie della vita.

Il Signore ha istituito la Chiesa come sacramento universale di salvezza per il mondo, affinché “tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità” (1 Timoteo 2, 4). La Chiesa non potrà capire se stessa e non potrà giustificarsi davanti al mondo secondo standard di potere, di ricchezza e di prestigio: la riflessione sulla natura e sulla missione della Chiesa di Dio è, quindi, la base e il presupposto di ogni vera riforma.

Di fronte alla fragilità degli uomini c’è sempre la tentazione di spiritualizzare la Chiesa, cioè di relegarla in un ambito di meri ideali e sogni – al di là dell’abisso della tentazione, del peccato, della morte e del diavolo, come se noi, per giungere alla gloria della risurrezione, non dovessimo attraversare la valle della sofferenza e del dolore. Secondo una certa analogia che è possibile stabilire con l’incarnazione del Verbo di Dio, la Chiesa forma un’unità interiore di comunità spirituale e assemblea visibile servendo così allo Spirito di Dio come segno e strumento di salvezza, allo scopo di continuare l’opera di Cristo tra gli uomini. La Chiesa, pertanto, è santa e santificante perché santificata da Dio; per quanto riguarda gli uomini nel loro pellegrinaggio di fede, essa, “sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento” (Lumen gentium, 8).

In questo senso, Benedetto XVI ha parlato della necessità di una Ent-Weltlichung della Chiesa, cioè di una sua liberazione da forme di mondanità. Papa Francesco ha decisamente continuato questo pensiero parlando della Chiesa povera e per i poveri: la Chiesa non deve mai cedere alla tentazione di una auto-secolarizzazione, adattandosi alla società secolare e a una vita senza Dio.

Nel discorso alla Curia per gli auguri di Natale del 2014 il Santo Padre ha sottolineato l’assoluta prevalenza della finalità spirituale della Chiesa su ogni mezzo terreno, che non deve mai diventare fine a se stesso. Questo discorso rappresenta un’esortazione spirituale e un esame di coscienza per tutta la Chiesa. Non sono la grandezza dei beni della Chiesa o il numero di dipendenti nelle nostre strutture amministrative la bussola di orientamento del rinnovamento della Chiesa; lo è, invece, lo spirito di amore nella cui forza la Chiesa serve gli uomini attraverso la predicazione, i sacramenti e la carità. La riforma della Curia romana, già discussa nelle congregazioni precedenti il conclave del 2013, deve essere esemplare per il rinnovamento spirituale di tutta la Chiesa.

La Curia non è una mera struttura amministrativa, ma essenzialmente un’istituzione spirituale radicata nella missione specifica della Chiesa di Roma, santificata dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo: “Nell’esercizio della sua suprema, piena e immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il Romano Pontefice si avvale dei dicasteri della Curia romana, che perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori” (Christus dominus, 9). Partendo da questa descrizione teologica, il concilio Vaticano II stesso ha stimolato una riorganizzazione della Curia conforme al tempo odierno.

La struttura organizzativa e il funzionamento della Curia dipendono dalla missione specifica del vescovo di Roma. Successore di Pietro, egli è il “perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” (Lumen gentium, 23), istituito da Cristo per la sua Chiesa. Poiché soltanto alla luce della fede rivelata siamo in grado di distinguere la Chiesa da una qualsiasi comunità religiosa di indole meramente umana, così solo nella fede riusciamo a capire che il Papa e i vescovi godono di una potestà sacramentale e mediatrice della salvezza che ci collega con Dio. È proprio questa la qualità che distingue i pastori della Chiesa dalle altre forme di autorità che ogni comunità religiosa si dà per motivi sociologici e organizzativi.

Nella Chiesa locale, il vescovo, costituito dallo Spirito santo, non è un delegato o un rappresentante del Papa, ma è vicario e legato di Cristo, principio e fondamento di unità nella Chiesa a lui affidata. La dottrina del primato del Papa e della collegialità dei vescovi è da intendersi come espressione della comune sollecitudine per tutta la Chiesa, intesa nella sua qualità di communio ecclesiarum.

Pertanto, il rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari non si può paragonare a quello che intercorre tra organizzazioni profane. La Chiesa universale non nasce come somma delle Chiese particolari, né le Chiese particolari sono mere succursali della Chiesa universale: esiste invece una mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiese particolari. La Chiesa è il corpo di Cristo, è guidata e rappresentata dal collegio dei vescovi cum et sub Petro.

Il Papa, rendendo visibile l’unità e l’indivisibilità dell’episcopato e della Chiesa intera, presiede nel contempo alla Chiesa locale di Roma. A motivo dell’operato di Pietro come vescovo di Roma e, soprattutto, grazie al suo martirio, il primato è legato per sempre alla Chiesa di Roma. Come “il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa nel vescovo” (Cipriano,Epistulae, 66, 8), così anche il vescovo di Roma non è mai pastore della Chiesa universale senza il suo legame con la Chiesa di Roma. Come il capo non può essere separato dal corpo, così il legame del vescovo di Roma con la Chiesa di Roma è indissolubile. Perciò, la Tradizione parla del primato “della Chiesa di Roma”. Il Papa non esercita il primato se non insieme alla Chiesa romana.

Capo visibile della Chiesa di Roma, il Papa è, nello stesso tempo, capo visibile di tutta la Chiesa. Per la speciale autorità (propter potentiorem principalitatem, Ireneo, Adversus haereses, III, 3, 3, 2) della fondazione da parte di Pietro e Paolo, ogni Chiesa deve concordare con quella di Roma nella fede apostolica.
Così, le note essenziali della Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica, a fortiori si trovano realizzate nella Chiesa romana. Sin dai tempi antichi, essa si chiama “santa romana Chiesa” – non tanto per la santità soggettiva del suo capo e delle sue membra, ma per la santità della sua missione specifica, che consiste nel preservare fedelmente e nel trasmettere integralmente la tradizione apostolica, il depositum fidei. Il primato della Chiesa di Roma non ha nulla a che fare con un qualsiasi dominio sulle altre Chiese; la sua natura interiore è, invece, quella di “presiedere nella carità” (Ignazio di Antiochia, Lettera ai romani, prologo), un servizio all’unità della fede e alla comunione di tutte le Chiese, per il bene dell’umanità intera.

Il ministero pastorale universale viene esercitato personalmente e direttamente, poiché il Papa nella sua persona è il successore di Pietro, sul quale il Signore ha voluto edificare la sua Chiesa. Il Papa, però, attua questo suo ministero con l’assistenza che la Chiesa romana gli presta. Nel corso della storia, a partire dai vescovi delle diocesi suburbicarie e dai presbiteri e diaconi più importanti della Chiesa di Roma, si è sviluppato il collegio cardinalizio. Così come il presbiterio, rappresentato dal consiglio presbiterale, aiuta il vescovo diocesano, il collegio cardinalizio è similmente il consilium presbiterale del Papa nel suo servizio pastorale universale. Secondo una disposizione di Giovanni XXIII, i cardinali, compresi i responsabili della Curia, devono ricevere la consacrazione episcopale; così essi fanno parte del collegio dei vescovi – fatto che è di non poca rilevanza, ad esempio, per le visite ad limina.

Pur con tutti i cambiamenti storici, è rimasta salda l’idea che la Chiesa romana collabora all’universale compito pastorale e dottrinale del Papa tramite il collegio cardinalizio. Gruppi consistenti di cardinali e vescovi nominati dal Pontefice formano gli organismi della Curia romana, ai quali viene assegnato un proprio ambito di competenza. Non si tratta di un’istanza intermediaria tra il Papa e i vescovi, in quanto la relazione tra Pontefice e vescovi, basata sulla collegialità episcopale, è immediata. I cardinali e i vescovi della Curia romana, infatti, sostengono il Papa nel suo servizio per l’unità cattolica, e mettono a sua disposizione tutti i mezzi adeguati, necessari per l’esercizio del suo ufficio pastorale e dottrinale. Il Sommo Pontefice, d’altra parte, non è limitato in nessun modo dall’azione della Curia, anzi viene da essa sostenuto nell’esercizio del primato affidato a lui come successore di Pietro in favore della Chiesa universale.

La modalità del lavoro nella Curia romana è collegiale – in analogia alla collegialità del presbiterio sotto la direzione del vescovo diocesano. Ogni responsabile degli organismi curiali è solo colui che presiede e rappresenta il suo dicastero, mentre tutti i padri delle riunioni ordinarie del dicastero stesso si assumono uguale responsabilità per il bene della Chiesa universale. È fondamentale, per la riforma della Curia, che essa sia intesa come una famiglia spirituale: tale carattere e il suo necessario orientamento pastorale sono garantiti dalla mutua cooperazione e dalla carità, dalla preghiera e dall’eucaristia, da ritiri e da impegni di pastorale e di predicazione.

In questo contesto, è importante che la Curia romana venga distinta dalle istituzioni civili dello Stato vaticano, le cui strutture sono soggette piuttosto alle leggi della pubblica amministrazione e garantiscono l’indipendenza politica della Chiesa. Anche il Sinodo dei vescovi non appartiene in senso stretto alla Curia romana: esso è l’espressione della collegialità dei vescovi in comunione con il Papa e sotto la sua direzione. La Curia romana invece aiuta il Papa nell’esercizio del suo primato per tutte le Chiese. Pertanto, la Curia e il Sinodo si distinguono già formalmente in quanto la Curia romana sostiene il Papa nel suo servizio per l’unità, mentre il Sinodo dei vescovi è espressione della cattolicità della Chiesa. Tutti i vescovi, infatti, partecipano della cura di tutte le Chiese. In concreto queste due missioni sono connesse l’una con l’altra.

Il Sinodo dei vescovi, le conferenze episcopali e le varie aggregazioni di Chiese particolari appartengono a una categoria teologica diversa dalla Curia romana. Solo chi pensa secondo schemi di potere, di influsso e di prestigio interpreta il rapporto organico di primato e episcopato come una lotta di competenze. Lo Spirito santo, invece, verso cui noi non dobbiamo mai chiudere le nostre menti, crea armonia tra i poli dell’unità e della molteplicità, tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, come pure all’interno delle singole Chiese particolari. Lo spirito del mondo, tuttavia, semina conflitti e sfiducia. Favorire una giusta decentralizzazione non significa che alle conferenze episcopali viene attribuito più potere, ma solo che esse esercitano la genuina responsabilità loro spettante in base alla potestà episcopale di magistero e di governo dei loro membri, sempre naturalmente in unione con il primato del Papa e della Chiesa romana.

Una vera riforma della Curia romana e della Chiesa ha l’obiettivo di render più luminosa la missione del Papa e della Chiesa nel mondo di oggi e di domani. La Chiesa si vede sfidata dal secolarismo globale, che, con un radicalismo finora sconosciuto, tende a definire l’uomo senza Dio, chiudendo la porta alla trascendenza e distruggendo i fondamenti comuni dell’umano. Nella “dittatura del relativismo” e nella “globalizzazione dell’indifferenza”, per riprendere le espressioni di Benedetto XVI e di Francesco, i confini tra verità e menzogna, tra bene e male, si confondono. La sfida per la gerarchia e per tutti i membri della Chiesa consiste nel resistere a queste infezioni mondane e nella cura delle malattie spirituali del nostro tempo. Papa Francesco sta perseguendo una spirituale purificazione del tempio, nello stesso tempo dolorosa e liberatrice, allo scopo di far risplendere nella Chiesa la gloria di Dio, luce di tutti gli uomini. Ricordando, come i discepoli del Signore, la parola della Scrittura “lo zelo per la tua casa mi divora” (Giovanni, 2, 17) comprenderemo l’obiettivo della riforma della Curia e della Chiesa.








Fraternamente CaterinaLD

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La natura teologica delle Commissioni Dottrinali
e il compito dei Vescovi come maestri della fede
Relazione
del Card. Gerhard L. Müller

 (Esztergom, 13 gennaio 2015)


 

Carissimi confratelli nell’episcopato!

Sono lieto di incontrarvi in questa terra così ricca di storia e di vita! Come non pensare al bel fiume Danubio che l’attraversa dividendola idealmente in due parti. Proprio nel mezzo troviamo la capitale, Budapest, a sua volta frazionata in due dal Danubio: da una parte vi èPest, la città bassa, commerciale, frenetica di attività; dall’altra Buda, la città alta, residenziale, elegante ed affascinante, nella quale la presenza della Cattedrale di Santo Stefano ci richiama l’anima cattolica di questa terra.

Sempre sulle rive del Danubio troviamo Esztergom, il cuore storico dell’Ungheria, città nella quale oggi ci troviamo, adagiata sulle colline che spalleggiano il fiume, e nella quale risalta subito l’imponenza della Co-cattedrale, dedicata a Nostra Signora e Sant’Adalberto. Entrambe queste belle Chiese cattedrali costituiscono un ideale e permanente slancio verso l’alto di questi territori, che la presenza del Danubio ricollega a tanta parte della nostra Europa.

In fondo, questi luoghi sono la metafora della vita di noi tutti, una vita spesso divisa in due parti, l’una sbilanciata verso la terra e l’altra proiettata verso il cielo. Noi vorremmo che questa parte, quella che ci sospinge verso l’alto, sia l’orizzonte e la direzione di tutto ciò che succede nella nostra esistenza più legata alla terra. È un po’ quello che accade anche a noi Vescovi, spesso indaffarati in mezzo a mille incombenze e questioni pratiche, eppure chiamati a sospingere tutto ciò che facciamo verso l’alto e, così facendo, a trascinare verso l’alto anche tutto il popolo di Dio affidato alle nostre povere forze. Considero perciò provvidenziale l’esserci ritrovati proprio qui per incontrare le Commissioni Dottrinali delle Conferenze Episcopali Europee. Vorrei sin d’ora ringraziare il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest e Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), per la sua generosa ospitalità.

La dottrina della fede, lungi dall’essere un sistema astratto e cristallizzato di idee e di norme, è anzitutto al servizio della vita, della vita buona che viene da Dio, della vita pienamente umana, al servizio della vita della Chiesa e di una vita più degna per l’uomo. Essa ci è data per sospingere tutto ciò che è legato alla terra verso l’alto.

Vogliamo così ritrovarci per lasciare che di nuovo, e con più slancio, siamo innalzati verso quelle altezze che la dottrina ci indica con certezza, e che ritroviamo vive e fresche nell’esistenza quotidiana del Popolo di Dio, chiamato ad essere nello stesso tempo fedele a Dio ed a questa terra che ha ricevuto in dono, per costruire la città di Dio nella città dell’uomo. È questo il grande compito affidato al nostro munus episcopale e di cui le Commissioni Dottrinali si rendono interpreti con un servizio del tutto particolare.

Per cominciare il nostro incontro, vorremmo in primo luogo fare memoria del cammino già percorso fino ad oggi con l’istituzione delle Commissioni Dottrinali in seno alle varie Conferenze Episcopali. Con l’Istruzione del 23 febbraio 1967 la Congregazione per la Dottrina della Fede chiedeva alle Conferenze Episcopali di costituire al loro interno una Commissione Dottrinale che “vigilerà sugli scritti che vengono editi, favorirà l’autentica scienza religiosa [e] darà la sua collaborazione ai Vescovi nel giudicare i libri”. Successivamente, con la lettera circolare del 10 luglio 1968 proponeva alcune ulteriori indicazioni per una migliore attività delle stesse Commissioni Dottrinali. Infine, nella sua lettera del 23 novembre 1990 ai Presidenti delle Conferenze Episcopali, la Congregazione è tornata sull’argomento per richiamare e precisare alcuni aspetti al riguardo. Sulla scia di questi documenti ufficiali, vi propongo ora alcune considerazioni circa la natura teologica delle Commissioni Dottrinali e il compito dei Vescovi come maestri della fede. Per rispondere alla problematica contenuta in questa tematica, cercherò di riflettere in primo luogo sul senso teologico del Magistero in relazione alla verità e alla salvezza (I), al compito dei Vescovi circa il munus docendi (II) e, infine, alla natura specifica delle Commissioni Dottrinali (III).

I. Il senso teologico della funzione dottrinale nella Chiesa

A fondamento del Magistero sta un servizio, che è riflesso e partecipazione specifica al ministero salvifico di Gesù Cristo, Servitore e Redentore (cf. Lc 22, 27). Nel quarto Vangelo Gesù riassume la sua missione con queste parole: “Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18, 37). Tale testimonianza è inscindibilmente una attestazione irrefragabile della verità rivelata come Parola veramente divina (cf. 1 Ts 2, 13; Eb 1, 1-2) e l’evento salvifico definitivo. Il nesso intimo fra verità e salvezza è affermato dall’apostolo Paolo quando scrive che Dio “vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4). Altrove l’Apostolo rende grazie a Dio per i credenti, perché Dio li “ha scelti fin da principio per la salvezza nella santificazione dello Spirito e nella fede della verità” (2 Ts 2, 13). Nel contempo, l’Autore sacro non esita a parlare nel versetto precedente della condanna di “tutti quelli che non hanno creduto alla verità” (2 Ts 2, 12). Possiamo dire in tal senso che la rivelazione della verità divina in Gesù Cristo sollecita da parte dell’uomo una opzione spirituale decisiva, dalla quale dipende la sua sorte eterna.

Dopo aver evidenziato, almeno schematicamente, il nesso fra la salvezza e la conoscenza della verità rivelata, nonché l’adesione personale ad essa, appare più chiaramente la necessaria funzione del Magistero. Proprio perché Dio vuole che gli uomini siano salvati mediante l’adesione intima alla verità rivelata, e quindi al Figlio di Dio stesso (cf. Gv 14, 6), il Signore Gesù ha dotato la sua Chiesa di un organo specifico in grado di garantire la sua permanenza nella fede salvifica trasmessa dagli Apostoli e destinata a tutti i popoli di tutti i tempi. Per questo, Cristo, che è la Verità, ha voluto rendere la sua Chiesa partecipe della propria infallibilità. L’infallibilità partecipata della Chiesa in materia di fede e di costumi consegue dal fatto che il suo capo invisibile è Cristo stesso, unico Maestro di tutti (cf. Mt 23, 8). Bisogna ribadire qui che la teologia, poiché vive della fede, non deve considerare “il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi, in quanto il Magistero assicura il contatto con la fonte originaria, e offre dunque la certezza di attingere alla Parola di Cristo nella sua integrità”[1].

In questo contesto pare evidente la dimensione eminentemente pastorale della custodia della retta fede. Una cura pastorale che vuole veramente essere al servizio della salvezza eterna delle persone suppone una vigilanza costante circa la purezza della fede. Altrimenti, non sarebbe più un’autentica cura animarum, ma una pastorale del “wellness” o del comfort, con qualche supplemento in termini di “senso” o di “valori”, ma senza un reale impegno cristiano. Se i fedeli hanno diritto di ricevere un kerigma ortodosso da parte dei loro pastori, è perché da questo dipende la loro salvezza. Un Vangelo adulterato non salva nessuno. Al riguardo, è interessante osservare che, parlando del suo insegnamento a Corinto, San Paolo dice ai Corinzi che ricevono la salvezza dal Vangelo solo “se lo ritenete nei termini con cui ve l’ho annunziato; altrimenti avreste creduto invano” (1 Cor 15, 2).

II. La funzione dottrinale dei Vescovi

L’infallibilità partecipata della Chiesa si traduce concretamente nell’esistenza di una funzione specifica in essa, ovvero quella del Magistero, che la rende capace di attingere con certezza alle divine Scritture e alla Sacra Tradizione, le quali formano insieme la “regola suprema della propria fede”[2]. Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna al riguardo: “La missione del Magistero è legata al carattere definitivo dell’Alleanza che Dio in Cristo ha stretto con il suo popolo; deve salvaguardarlo dalle deviazioni e dai cedimenti, e garantirgli la possibilità oggettiva di professare senza errore l’autentica fede. Il compito pastorale del Magistero è quindi ordinato a vigilare affinché il popolo di Dio rimanga nella verità che libera. Per compiere questo servizio, Cristo ha dotato i Pastori del carisma dell’infallibilità in materia di fede e di costumi”[3]. L’esercizio di questo carisma tuttavia è diversificato per quanto riguarda sia le modalità, sia le persone che lo esercitano.

A livello della Chiesa universale, occorre menzionare innanzitutto la missione specifica del Successore di Pietro di confermare i suoi fratelli nella fede (cf. Lc 22, 32). Non è qui il luogo di trattare della dottrina dell’infallibilità pontificia, ma di sottolineare la responsabilità peculiare e suprema del Romano Pontefice circa la custodia della sana dottrina. Nelle sue “Considerazioni” del 1998 sul primato del Successore di Pietro, la Congregazione per la Dottrina della Fede afferma che “il Romano Pontefice è — come tutti i fedeli — sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell'obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all'uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall'inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione.  Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l’arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato”[4]. Con queste parole viene espressa nuovamente la dimensione ministeriale del Magistero. Esso, si legge nella Dei Verbum, “non è superiore alla Parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio”[5].

Per tali motivi, se da una parte è vero che “per il carattere supremo della potestà del Primato, non v'è alcuna istanza cui il Romano Pontefice debba rispondere giuridicamente dell'esercizio del dono ricevuto: «prima sedes a nemine iudicatur»”, dall’altra,  tuttavia, ciò non significa che il Papa abbia un potere assoluto[6]. In tal senso è corretto parlare del Magistero come di un’ancilla Verbi Dei, un servizio parimenti reso alla verità della divina Rivelazione, cioè il deposito della fede, che il Magistero ha per compito di custodire gelosamente e di esporre fedelmente[7], con vigile opera e mediante mezzi convenienti[8]. In effetti, “non abbiamo alcun potere contro la verità, ma per la verità”, come afferma lo stesso apostolo Paolo (2 Cor 13, 8).

Il Dicastero che ho l’onore e l’onere di dirigere fornisce un aiuto speciale alla missione petrina per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla morale. “Ne consegue che i documenti di questa Congregazione approvati espressamente dal Papa partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro”[9]. Ma il compito della Congregazione, sancito istituzionalmente, non è soltanto di assistere il Vescovo di Roma nel suo compito di Supremo Pastore della Chiesa universale. La Congregazione, si legge nella Costituzione apostolicaPastor bonus, “è di aiuto ai Vescovi, sia singoli che riuniti nei loro organismi, nell’esercizio del compito per cui sono costituiti come autentici maestri e dottori della fede e per cui sono tenuti a custodire e a promuovere l’integrità della medesima fede”[10]. In realtà, né il ministero petrino né il ruolo specifico svolto dalla Congregazione per la Dottrina della fede devono essere isolati dal munus docendi affidato sia a ogni singolo Vescovo, sia al Collegio episcopale nel suo insieme. “Tutti i Vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa […], e promuovere ogni attività comune a tutta la Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità”, così la Costituzione dogmatica Lumen gentium[11]. Il motivo di fondo è che “la cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo un comune dovere”[12]. Nessuno come l’apostolo Paolo ha parlato e vissuto con intensità tale “preoccupazione per tutte le Chiese”, che deve animare ogni successore degli apostoli (cf. 2 Cor 11, 28).

Se è vero che “tutti i Vescovi sono partecipi, in gerarchica comunione, della sollecitudine della Chiesa universale”[13], tale affermazione vale in particolare nell’ambito dell’insegnamento, il primo compito affidato ai Pastori. Si potrebbero citare numerosi testi circa la responsabilità dei Vescovi in materia dottrinale[14]. La vigilanza per la fede e la morale dei fedeli è una fondamentale preoccupazione pastorale ed essa concerne tutti i Pastori della Chiesa. In effetti, “nelle Chiese particolari spetta al vescovo custodire ed interpretare la Parola di Dio e giudicare con autorità ciò che le è conforme o meno. L’insegnamento di ogni vescovo, preso singolarmente, si esercita in comunione con quello del Pontefice Romano, Pastore della Chiesa universale, e con gli altri vescovi dispersi per il mondo o riuniti in Concilio ecumenico. Questa comunione è condizione della sua autenticità”[15]. Nelle sue lettere, sant’Ignazio di Antiochia offre a tal proposito un magnifico esempio della episkopè del buon Pastore che sa anche mettere in guardia il suo gregge davanti alle piante velenose, cioè le eresie, che egli chiama anche “l’erba del diavolo”[16]. Sembra ovvio del resto che parlare di un diritto del Popolo di Dio a ricevere il messaggio del Vangelo nella sua purezza e nella sua integralità ha senso soltanto se esiste un corrispondente dovere da parte dei Pastori. Al riguardo, afferma Papa Francesco, è tramite il dono della successione apostolica che “risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito. Per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone”[17].

III. La natura specifica delle Commissioni Dottrinali

Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto l’opportunità e la fecondità di raggruppamenti, organicamente congiunti, fra i Vescovi di una stessa nazione o regione[18]. Nel 1966, Papa Paolo VI, con il Motu proprio Ecclesiae Sanctae, impose successivamente la costituzione delle Conferenze Episcopali laddove non esistevano ancora. Essendo le Commissioni Dottrinali delle commissioni appartenenti alle Conferenze dei Vescovi, bisogna partire da queste ultime per inquadrare correttamente le Commissioni Dottrinali dal punto di vista teologico ed ecclesiologico. La Costituzione Lumen gentium ha visto nelle Conferenze Episcopali una concreta applicazione dell’“affetto collegiale” (collegialis affectus) che deve segnare la collaborazione nel seno del Collegio Episcopale[19].

In questo contesto va tematizzato l’auspicio espresso dal Santo Padre nell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, cioè che sia esplicitato maggiormente “uno statuto delle Conferenze Episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”[20]. Per essere compreso correttamente, tale auspicio deve essere considerato e approfondito alla luce dell’ecclesiologia cattolica, ed in particolare dei documenti del Magistero nei quali la tematica delle Conferenze Episcopali è stata trattata in modo specifico. Fra questi, si pensa specialmente al Motu proprio Apostolos suos di Papa Giovanni Paolo II, al quale rinvia d’altronde lo stesso testo appena citato dellaEvangelii gaudium (cf. nota 37).

Nel Motu proprio Apostolos suos Papa Giovanni Paolo II ha voluto chiarire la natura teologica e giuridica delle Conferenze dei Vescovi. Questo testo distingue in particolare l’azione collegiale del corpo dei Vescovi nel suo insieme, quale espressione dell’unità dell’Episcopato e della sua sollecitudine per tutta la Chiesa, e l’azione a livello di singole Chiese particolari e dei loro raggruppamenti. Sebbene l’esercizio congiunto di certe funzioni pastorali a livello regionale, nazionale ed internazionale sia animato da uno spirito collegiale, “tuttavia esso non assume mai la natura collegiale caratteristica degli atti dell’ordine dei Vescovi in quanto soggetto della suprema potestà su tutta la Chiesa. È ben diverso, infatti, il rapporto dei singoli Vescovi rispetto al Collegio episcopale dal loro rapporto rispetto agli organismi formati per il suddetto esercizio congiunto di alcune funzioni pastorali”[21]. Tenendo conto del fatto che il Collegio esiste per volontà del Signore[22], mentre i raggruppamenti di Chiese particolari sono di istituzione ecclesiastica, soltanto la relazione di ogni Vescovo col Collegio episcopale è di diritto divino. Tutto questo implica che, mentre le Conferenze Episcopali e le commissioni che ne fanno parte possiedono una natura giuridica e organizzativa propria, la loro rilevanza teologica ed ecclesiologica, e quindi anche la loro autorità, provengono non da queste stesse strutture, ma dal fatto che sono costituite da Vescovi, membri dell’unico Collegio episcopale.

Tali precisazioni e distinzioni non impediscono di riconoscere l’utilità di un esercizio congiunto del ministero episcopale a livello delle Conferenze dei Vescovi, in particolare nell’ambito dottrinale. In effetti, “la voce concorde dei Vescovi di un determinato territorio, quando, in comunione col Romano Pontefice, proclamano congiuntamente la verità cattolica in materia di fede e di morale, può giungere al loro popolo con maggiore efficacia e rendere più agevole l’adesione dei loro fedeli col religioso ossequio dello spirito a tale magistero”[23].

Per raggiungere meglio questo scopo, a livello di raggruppamento di Chiese locali, occorrono strumenti adeguati. A quel punto si intravede senza difficoltà la natura delle Commissioni Dottrinali e la loro importanza. Esse “agiscono su incarico e per mandato delle Conferenze Episcopali, e costituiscono un organo consultivo istituzionalizzato di aiuto alle medesime Conferenze Episcopali ed ai singoli Vescovi, nella loro sollecitudine per la dottrina della fede”[24]. Il legame stretto delle Commissioni Dottrinali con il magistero ordinario dei Vescovi in quanto maestri della fede spiega perché la Congregazione per la Dottrina della Fede ha sempre chiesto, dal 1967 in poi, che i membri veri e propri delle Commissioni Dottrinali siano dei Vescovi. Nella lettera del 23 novembre 1990 si è precisato al proposito: “Sono membri della Commissione Dottrinale i Vescovi eletti dalla Conferenza Episcopale. Esperti possono essere consultati di volta in volta, ma il loro ruolo deve essere distinto da quello dei Vescovi, che sono i soli responsabili di eventuali pronunciamenti della Commissione, poiché si tratta di una Commissione Episcopale”[25].

L’articolazione fra il compito delle Commissioni Dottrinali e quello della Congregazione per la Dottrina della Fede è basato sul principio di una sana sussidiarietà. San Paolo paragona la Chiesa con il corpo umano nel quale ogni membro, invece di sostituirsi agli altri, agisce secondo la sua natura e collabora armoniosamente con le altre membra in vista del bene vicendevole (cf. 1 Cor 12, 12-30). È più consono alla natura comunionale della Chiesa che le questioni dottrinali sorte in qualche regione, ed in particolare il problema del dissenso, vengano affrontate – nella misura del possibile – a livello locale o regionale, ovviamente sempre in accordo con l’insegnamento magisteriale della Chiesa universale. A tale proposito le Commissioni Dottrinali possono offrire un prezioso aiuto agli Episcopati. Non sarebbe onesto rimproverare ai Dicasteri della Curia Romana un loro eccessivo centralismo e al contempo non intraprendere iniziative opportune a livello delle Conferenze Episcopali. Esiste qui l’opportunità per una giusta decentralizzazione, come auspicata dal Santo Padre[26]. Di fatto, “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria” [27].

Non è indifferente che, per rafforzare la collaborazione fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni Dottrinali, l’allora Cardinale Ratzinger abbia preso l’iniziativa di riunire regolarmente i Presidenti di dette Commissioni a livello continentale, ormai più di trent’anni fa. Il primo incontro si svolse a Bogotá nel 1984; seguirono gli incontri a Kinshasha (1987), a Vienna (1989), a Hong-Kong (1993), a Guadalajara (1996), a San Francisco (1999) e a Dar es Salaam (2009). Il Cardinale Ratzinger e poi il Cardinale Levada hanno presieduto personalmente tali incontri, offrendovi interventi lungimiranti sulle sfide contemporanee in campo dottrinale. Questi incontri manifestano la volontà da parte della Congregazione di sostenere gli Episcopati locali nel loro impegno per la diffusione e la tutela della sana dottrina. Una delle caratteristiche originali di questi incontri consiste nel fatto che sono i Superiori della Congregazione a spostarsi nei vari Continenti. Si vuol sottolineare in questo modo l’importanza delle istanze locali e regionali e la loro responsabilità nell’affrontare le questioni dottrinali.

Esiste innegabilmente una certa connaturalità fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni Dottrinali, per quanto riguarda la loro finalità. Anche se operano in modo e su scale diversi, ambedue sono strumenti di cui la Chiesa si è dotata lungo i secoli per svolgere con maggiore efficacia la missione di annunciare il Vangelo a tutti. È vero tuttavia che l’autorità specifica di cui gode la Congregazione e la dimensione universale del suo magistero partecipato la distinguono essenzialmente dalle Commissioni Dottrinali. Queste ultime “non hanno l’autorità di porre atti di magistero autentico né a nome proprio né a nome della Conferenza neppure per incarico di questa”[28]. Inoltre, “la Commissione Dottrinale non può pronunciarsi pubblicamente a nome di tutta la Conferenza, se non ne ha avuto l’autorizzazione esplicita”[29]. In effetti, “la natura stessa della funzione dottrinale dei Vescovi richiede che, se la esercitano congiuntamente riuniti nella Conferenza Episcopale, ciò avvenga nella riunione plenaria”[30]. Infine, “perché le dichiarazioni dottrinali della Conferenza dei Vescovi […] costituiscano un magistero autentico e possano essere pubblicate a nome della Conferenza stessa, è necessario che siano approvate all’unanimità dai membri Vescovi oppure che, approvate nella riunione plenaria almeno dai due terzi dei Presuli che appartengono alla Conferenza con voto deliberativo, ottengano la revisione (recognitio) della Sede Apostolica”[31]. Detto questo, bisogna comunque sottolineare le similitudini che devono segnare il rapporto fra la Congregazione e le Commissioni Dottrinali. Ad esempio, una delle funzioni della Congregazione è quella di verificare i documenti pubblicati dagli altri Dicasteri della Curia Romana per quanto riguarda la fede e i costumi[32]. In modo analogo, “le Commissioni Dottrinali […] collaborano con le altre Commissioni delle Conferenze Episcopali, specialmente con quelle investite di responsabilità nel settore educativo (seminari, università e scuole), catechistico, liturgico ed ecumenico, esprimendo il proprio competente parere su tutto ciò che ha rilevanza dottrinale. Le altre Commissioni, di norma, non dovrebbero pubblicare documenti importanti senza aver ricevuto anche il parere della Commissione Dottrinale, per quanto è di sua competenza”[33].

Concludendo, vorrei richiamare due aspetti fondamentali per il nostro essere ecclesiale: il nostro essere “comunione” ed insieme “Popolo di Dio”. Nulla come la communio, che identifica la Chiesa fin nelle sue radici, aiuta a comprendere la natura di questo Popolo che tutti noi siamo. Anzi, il concetto di “comunione”, lungi dall’oscurare quello di Popolo di Dio, mostra il volto autentico di questo Popolo, che raccoglie in unità la legittima diversità. La parola “comunione” dice che la nostra unità non può fare a meno della ricchezza plurale, come ci richiama ormai da tempo Papa Francesco, a cui è cara la figura del “poliedro”, nel quale le tante facce si compongono in armoniosa unità. È per questo che un’azione ecclesiale fedele alla comunione, rispettosa della natura profonda del Popolo di Dio, non può che esprimersi in termini di “sinergia”. Sinergia significa forza di un’opera comune, un’opera che vive della ricchezza di tutti i doni che ciascuno apporta, una ricchezza convergente nell’unità. Questa mi sembra infatti l’icona che meglio descrive ogni rapporto nella Chiesa ed anche i rapporti fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni di cui siete i Presidenti o i Rappresentanti. I compiti propositivi assegnati alle Commissioni Dottrinali aprono un vasto campo per molteplici iniziative, che, se messe in atto, gioveranno all’intera Chiesa. Si può pensare alla divulgazione e al commento dei documenti del Magistero, alla preparazione di testi di valore scientifico e dottrinalmente sicuri, alla compilazione di una lista di libri approvati per l’insegnamento, alla stimolazione del lavoro teologico scientifico, coltivando a questo scopo mutue relazioni con i teologi e gli insegnanti delle Università e dei Seminari, o all’aiuto offerto ai singoli Vescovi nel compito di seguire e discernere la produzione teologica del proprio territorio, indicando loro una lista di esperti per l’esame dei libri. Tutto ciò ha l’unico scopo di aiutare ciascun Vescovo ad esercitare, con maggiore efficacia, l’affascinante ed oneroso compito di essere maestro della fede. Lasciamoci condurre sempre da Colui che è il nostro vero Maestro, Gesù Cristo, il “Testimone fedele e verace” (Ap 3, 14), Colui che suscita continuamente la nostra fede e la porta a compimento (cf. Eb 12, 2), per il bene del gregge a noi affidato da Cristo, buon Pastore.


[1] Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei (29 giugno 2013), n. 36.
[2] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 21.
[3] Catechismo della Chiesa cattolica, n. 890.
[4] Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa (31 ottobre 1998), n. 7.
[5] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 10.
[6] Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa (31 ottobre 1998), n. 10.
[7] Cf. Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor aeternus, cap. 4: DH 3070.
[8] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25.
[9] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum veritatis (24 maggio 1990), n. 18.
[10] Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Pastor bonus (28 giugno 1988), Art. 50.
[11] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[12] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[13] Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 5.
[14] Cf. ad esempio Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25;ibid., Decreto Christus Dominus, nn. 12-14; Giovanni Paolo II, Esortazione ApostolicaPastores gregis (16 ottobre 2003), n. 29.
[15] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum veritatis, n. 19.
[16] Cf. Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, 10, 3; Lettera ai Tralliani, 6, 1; 11, 1;Lettera ai Filadelfiesi, 3, 1.
[17] Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei, n. 49.
[18] Cf. Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 37.
[19] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[20] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 32.
[21] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos (21 maggio 1998), n. 12.
[22] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 22.
[23] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 21.
[24] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 3.
[25] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 5.
[26] Cf. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 16.
[27] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 32.
[28] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 23.
[29] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 6; cf. Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, Norme complementari, Art. 3.
[30] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 23; cf. ibid., Norme complementari, Art. 2.
[31] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, Norme complementari, Art. 1.
[32] Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica Pastor bonus, Art. 54.
[33] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 11.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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IL CARDINALE MULLER
Il cardinale Gerhard Müller
 

Il Sinodo dovrà affrontare «la sfida di trovare vie pastorali per una più forte integrazione nella comunità» dei divorziati «senza riduzioni della parola di Gesù e del conseguente insegnamento della Chiesa». Lo dice il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. E su Medjugorie...

di Lorenzo Bertocchi


Mentre il cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, manda un messaggio ai giovani che si riuniscono a Medjugorie per il Festival 2015, il cardinale Ludwig Müller conferma che la decisione vaticana sulle presunte apparizioni balcaniche dovrà attendere la «sessione ordinaria di autunno». Dopo quella riunione della congregazione della Dottrina della Fede la palla passerà direttamente a papa Francesco che avrà l'ultima parola. Intanto il cardinale Schönborn dice ai giovani riuniti a Medjugorie che è «con loro con il cuore e con la preghiera intensa».

Nell'intervista concessa a katholische.de, pubblicata il 3 agosto scorso, il prefetto dell'ex Santo Ufficio, a proposito di Medjugorie, ha ricordato il lavoro svolto dalla Commissione diretta dal cardinale Ruini, un istruttoria che costituirà la base dell'approfondimento che farà la sessione autunnale della congregazione presieduta dal card. Müller. Come la Nuova Bussola Quotidiana ha più volte ricordato le conclusioni del lavoro della Commissione Ruini non sono negative, ma sono corredate da una serie di dubbi e incertezze sulle presunte apparizioni mariane di Medjugorie.

Alcune voci dicono che dal lavoro della Congregazione della Dottrina della Fede dovrebbe scaturire innanzitutto una maggior cautela pastorale nell'approccio dei fedeli alle presunte apparizioni. Il cardinale Schönborn ha chiesto ai giovani riuniti per il Festival medjugoriano di «pregare per il Sinodo della famiglia», un appuntamento per cui il card. Müller si augura che non venga «compromessa la Parola di Gesù e l'insegnamento della Chiesa sulla base di esso». Perché, ha dichiarato Müller, «per il futuro della Chiesa e della società la famiglia è di importanza insostituibile» Quelle sfide che per molti sembrano essere di importanza assoluta (divorziati risposati, persone omosessuali e convivenze), per il cardinale Müller sono importanti, ma sono la preparazione al matrimonio e l'accompagnamento degli sposi che innanzitutto «richiedono rinnovamento e approfondimento».

La preoccupazione del corretto rapporto tra dottrina e pastorale è uno dei temi su cui più volte è intervenuto il cardinale Müller fin dall'inizio del dibattito sinodale. Le due non possono essere in contraddizione e, pertanto, la Congregazione della Dottrina della Fede svolge un compito di promozione e vigilanza in stretto rapporto con il Santo Padre.
Qualcuno aveva maliziosamente strumentalizzato le parole del cardinale a proposito del ruolo della Congregazione da lui presieduta. In un'intervista, infatti, il cardinale aveva parlato di un compito della Congregazione di «strutturare teologicamente» il pontificato, e così qualche media che si occupa di cose vaticane si era sentito in dovere di tirare le orecchie a Müller, probabilmente ritenuto reo di lesa maestà. Oggi lo stesso chiarisce. «La mia preoccupazione», ha detto a katholische.de, «era quella di richiamare l'attenzione sul compito specifico della Congregazione per la Dottrina della Fede: deve promuovere e difendere la fede e la morale in tutta la Chiesa cattolica, a nome del Papa. (…) Personalmente la fedeltà al Papa lungo tutta la mia vita è sempre stato il desiderio del mio cuore».

Tra l'altro il prefetto condivide con il Santo Padre anche una certa sensibilità verso la teologia della liberazione. A proposito del recente viaggio di Francesco in Sud America, che pure non ha mancato di sollevare qualche perplessità, il cardinale Müller dice che «questo viaggio dimostra che la Chiesa deve usare un'autentica teologia della liberazione», cioè quella che non è in contrasto con quanto stigmatizzato proprio da due celebri documenti della Congregazione dell'ex Sant'Uffizio quando a dirigerlo era l'allora cardinale Ratzinger. «Il libretto», dice Muller, «che ho pubblicato di recente con Gustavo Gutierrez e di cui papa Francesco ha scritto la prefazione, è un segno» che va in tale direzione.

In un'intervista che affronta molti temi, non è mancata anche la domanda sui rapporti tra il Vaticano e la Fraternità S. Pio X, il gruppo sacerdotale fondato da monsignor Marcel Lefevbre che da tempo è impegnato in un confronto con la Santa Sede quanto alla piena comunione con Roma. Il cardinale Müller ha risposto dicendo che «non ci sono novità sostanziali» e il Papa vuole che si prosegua con «tenacia e pazienza» (in italiano nel testo in tedesco a indicare le parole precise del pontefice).
Negli ultimi mesi, ha specificato Müller, «ci sono stati incontri di vario genere, volte a migliorare la fiducia reciproca».  
In questo ambito negli ultimi tempi vi sono stati effettivamente alcuni fatti interessanti tra cui la nomina di monsignor Fellay, superiore generale della Fratermità, a giudice di prima istanza nel procedimento contro un prete lefebvriano macchiatosi di un grave delitto. Tale nomina è stata formalmente ratificata proprio dalla Congregazione della Dottrina della Fede e, al di là della questione specifica, mostra comunque di essere un «segno di benevolenza e magnanimità», come ha dichiarato al proposito monsignor Pozzo, segretario della Pontificia CommissioneEcclesia Dei

Un altro fatto interessante arriva dalla diocesi di Buenos Aires da cui proviene papa Francesco. In questo caso l'attuale arcivescovo, Aurelio Poli, che ha sostituito il cardinale Bergoglio dopo l'elezione al soglio di Pietro, ha dato il via libera perché i lefebvriani venissero registrati dal governo dell'Argentina come “associazione diocesana”. Nel caso della Fraternità S.Pio X «l'esigenza di una completa riconciliazione”, ha specificato Müller a katolische.de, «è la firma di un preambolo dottrinale, per garantire la piena conformità alle questioni essenziali della fede». Ma i segni di “benevolenza”, con papa Francesco regnante, non mancano affatto.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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08/09/2015 09:34
 
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Sinodo, Müller: rischio scisma

 
Marco Tosatti su La stampa di ieri.

ma anche  la Nuova Bussola QUI.... hanno pubblicato un'allarme davvero inquietante del Prefetto della CdF.

Per completezza, dobbiamo ricordare quanto, su Müller e la sua posizione sinodale in ordine al cosiddetto “divorzio cattolico”, avevamo pubblicato qui. Ciò dimostra come la formazione modernista da un lato possa portare ad affermazioni corrette; ma, voltando pagina, emerge il 'baco'...


Il Prefetto della Congregazione della Fede, il card. Gerhard Müller, parlando a Ratisbona ha messo in guardia dalla possibilità reale di una seria divisione all’interno della Chiesa sui temi che toccano il matrimonio e la sessualità. Ha fatto riferimento in particolare a vescovi della sua nativa Germania, e ha detto che la loro pretesa di assumere un ruolo leader nella definizione della politica della Chiesa universale dovrebbe essere esaminata criticamente, anche alla luce dell’esodo di massa dalla Chiesa cattolica tedesca. 
 
Müller ha aggiunto che la Chiesa non dovrebbe accettare la secolarizzazione evidente in Europa occidentale, perché “non è un processo naturale inevitabile”. Anche se la tendenza è forte, un’evangelizzazione energica può contrastarla, “perché la fede muove le montagne”. 
Müller ha criticato il modo in cui si tenta di decostruire la dottrina cattolica del matrimonio: esegetico, storico, con la storia del dogma, psicologia e sociologia, una dottrina che nasce dell’insegnamento di Gesù ma che si vorrebbe rendere compatibile con la società attuale. Ha anche detto che chi è fedele agli insegnamenti della Chiesa viene diffamato come “avversario del Papa” come se il Papa e tutti i vescovi in comunione con lui non fossero testimoni della verità rivelata. 
 
Enfaticamente, ha evocato il rischio di una scissione, per quanto riguarda la separazione fra la dottrina e la pratica religiosa: “bisogna essere molto vigili e non dimenticare la lezione della storia della Chiesa”, facendo riferimento allo scisma protestante del 1517. Sul matrimonio, ha detto: "Non dobbiamo farci ingannare quando si tratta della natura sacramentale del matrimonio, la sua indissolubilità, la sua apertura ai figli e la complementarietà fondamentale dei due sessi. L’assistenza pastorale deve avere in vista la salvezza eterna. E ha concluso: “Non si tratta di adattare la rivelazione del mondo, ma di vincere il mondo a Dio".
 
(Traduzione dell’autore: link originale in tedesco, QUI )









 

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17/11/2015 08:57
 
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Il cardinale Muller
 

Il relativismo etico che domina nella società è entrato con forza anche nella Chiesa, spingendola verso una concezione che appartiene al protestantesimo liberale. Ne è un esempio la tendenza a dare poteri sempre più ampi alle Conferenze episcopali, a scapito del ruolo dei vescovi, fino a concepirle come Chiese nazionali. Così pure è preoccupante la tolleranza verso il dissenso teologico, soprattutto in morale, che invece deve essere chiaramente corretto dai pastori.

di Gerhard Ludwig Müller*

Pubblichiamo il testo integrale del discorso che il cardinale Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha rivolto nei giorni scorsi ai vescovi del Cile. È un documento di grande importanza in questo momento di forte confusione e disorientamento, perché giudica in modo lucido gli aspetti critici di alcune tendenze presenti nella Chiesa cattolica.

Stimati fratelli nell’episcopato:

1. questa è l’occasione adeguata perché come collaboratore diretto di Papa Francesco, in un settore particolarmente difficile dell’attività della Chiesa, possa trasmettervi alcune riflessioni che ritengo di particolare importanza per il momento che sta vivendo la Chiesa nel mondo ed anche in Cile.

Omnes cum Petro

2. Nelle nostre orecchie, come in quelle degli apostoli, dei quali siamo successori, risuona la chiara affermazione del Signore: «Tu sei Simone, figlio di Giona; sarai chiamato Cefa, che significa Pietro» (Gv. 1, 40-42). Ed anche quella testimonianza di Pietro, alla domanda di Gesù ai suoi discepoli: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?». Risposero: «Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Voi chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 13-19). Con particolare forza oggi dobbiamo meditare gli avvertimenti e le certezze che Gesù ha trasmesso a Pietro: «Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22, 31-32). E lo inviò a pascolare le pecore, che Pietro ricevette, dopo aver proclamato il proprio amore a Gesù (Gv. 21, 15-17).

3. In un tempo in cui in alcuni ambienti della Chiesa l’unità con il Capo sembra perdere quella vitalità necessaria della nostra fede, ritengo, cari fratelli nell’episcopato, che sia necessaria una riaffermazione personale della nostra unione al Papa, seguendo il saggio consiglio di San Pietro Crisólogo nella lettera a Eutiche: «Ti esortiamo, venerabile fratello, ad accettare con obbedienza tutto quello che ha scritto il santissimo Papa di Roma; perché il beato Pietro, che vive e presiede nella propria sede, aiuta quelli che cercano la verità della fede. Poiché noi, per la pace e per la fede, non possiamo affrontare questioni che riguardano la fede se non in comunione con il vescovo di Roma» (San Pietro Crisologo, Lettera a Eutiche, 2).

Suaviter in modo, fortiter in re

4. Stare con Pietro nella confessione della vera fede cattolica è particolarmente importante per coloro che, nel nome del Signore, uniti al Capo, reggono le Chiese particolari sparse nel mondo intero, nelle quali e a partire dalle quali esiste l’unica santa Chiesa Cattolica. Molte sono le sfide che oggi riguardano la fede, anche in America e in questa terra cilena. Dobbiamo chiedere al Signore il coraggio di affrontarle con saggezza e fortezza.

5. Alcune di queste sfide provengono dall’ignoranza e ci inducono a lavorare con maggior forza nel campo dell’evangelizzazione e della missione, nel quale è impegnata la Chiesa in America Latina e nei Caraibi, frutto della Conferenza di Aparecida. Altre provengono da ambienti teologici e pastorali nei quali sono stati introdotti errori e deformazioni, che noi come pastori dobbiamo scoprire, giudicare e correggere. È un ambito difficile, però necessario e sempre presente nel nostro impegno di pastori per il popolo di Dio. San Tommaso è particolarmente esigente con noi: «Se il sale perdesse il sapore… Se coloro che sono a capo di altri falliscono, non sono adatti ad altro che ad essere allontanati dall’ufficio di insegnare» (San Tommaso, Catena Aurea, vol. 1, p. 262).

6. In tal senso, oltre al personale lavoro di ciascun Vescovo nella propria diocesi, che è insostituibile, necessario e non può essere delegato ad altri organismi, è necessario che la Commissione Dottrinale della Conferenza episcopale sia un organismo vivo e operante, che con l’aiuto di esperti veramente fedeli alla fede, sia presente nei dibattiti dottrinali e dia con autorità la prospettiva cattolica, essendo un vero e proprio strumento di collaborazione per la Conferenza e i Vescovi che lo richiedono.

La Conferenza episcopale, limiti e contributi

7. Come ben sappiamo, dalla creazione delle Conferenze episcopali, frutto dei lavori del Concilio Vaticano II, si continua un discernimento costante riguardo alla loro missione, alla natura ed al modo di ben operare delle Chiese particolari che esse riuniscono. Il Papa San Giovanni Paolo II, dopo un tempo di ampia riflessione e in risposta ad una richiesta dei Vescovi nel Sinodo del 1985, ha fatto pubblicare la Lettera Apostolica Apostolos suos nel 1998. Oggi rimane motivo di preoccupazione e di studio il fatto reale che in alcuni casi l’azione delle Conferenze episcopali hanno colpito, con maggiore o minore forza a seconda delle zone, la responsabilità «iure divino» del Vescovo diocesano, cosicché resta valido ciò che il Papa Giovanni Paolo ha affermato in merito al fatto che le Conferenze esistono per «aiutare i Vescovi e non per sostituirli» (n.18). Come sappiamo, questo documento è venuto a chiarire alcune idee che stavano circolando in alcuni ambienti teologici, riguardo al carattere delle stesse, affermando che esse esistono per «l’esercizio congiunto di alcuni atti del ministero episcopale» (n. 3) e non in quanto forma di esercizio di un’attività episcopale collegiale, che per sua natura corrisponde a tutto il collegio dei Vescovi, sempre con il suo capo e mai senza di esso. Inoltre, ha voluto spiegare che i documenti magistrali possono esistere soltanto, o possono rappresentare in qualche modo i Vescovi, con il consenso unanime di tutti e ciascuno di essi (cf. 20).

8 - Le conseguenze pastorali di una adeguata concezione e attuazione delle Conferenze episcopali sono evidenti. Papa Francesco ha voluto dare un segno in tal senso promulgando le norme sul procedimento per la dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale, attribuendo, come è per loro natura, ai Vescovi diocesani un ruolo chiave nelle decisioni di queste delicate questioni, facendosi così più vicino a quelli che soffrono in questo ambito.

Pericoli attuali del relativismo etico

9 - Risulta molto evidente che oggi in alcuni ambienti dell’insegnamento della fede si sono introdotti elementi propri del protestantestimo liberale. Questo è particolarmente evidente nelle nazioni europee però non manca di essere presente nella realtà dell’America Latina. Una scarsa comprensione della natura teologica delle Conferenze Episcopali ha una immediata deriva nel pericolo di assumere lo stile organizzativo delle comunità riformate. Anche se non si tratta di un approccio teologico in sé, si traduce nell’esistenza di uno “stile pastorale” uniforme, simile ad una “Chiesa nazionale”, che si può costatare in certe accentuazioni di contenuto e procedimento, e nel necessario adattamento dei programmi pastorali diocesani a questi accenti e contenuti.

È necessario evitare che il servizio pastorale dei Vescovi nei diversi ordini della Conferenza episcopale si trasformi di fatto in una specie di governo centrale della Chiesa in un paese o regione, che senza essere obbligatorio, diventa presente nell’ambito delle Chiese particolari, a tal punto che non seguirlo viene considerato come una mancanza di comunione ecclesiale. L’unità nella diversità è uno dei doni che il Signore ha donato alla sua Chiesa ed è necessario che ciascun pastore senta che ha la piena libertà di organizzare e condurre il proprio gregge secondo le ispirazioni dello Spirito Santo, in sintonia e comunione con i suoi immediati collaboratori.

10 - Come ebbero già modo di richiamare il Papa Giovanni Paolo, e poi con molta forza Benedetto XVI e ora il Papa Francesco, la tendenza al relativismo si è presentata nel mondo in un modo violento e poiché noi siamo immersi in essa, è presente anche nella Chiesa. Ci sono molte manifestazioni di ciò. Ricordiamo il rifiuto che provocò in alcuni ambienti teologici la dichiarazione Dominus Iesus, del 6 agosto dell’anno 2000. Questi ambienti non hanno ceduto e sono ancora presenti e hanno nuove manifestazioni che, come pastori, dobbiamo essere capaci di controllare, analizzare e illuminare. Una di queste [nuove manifestazioni] è un certo sincretismo religioso che ha preteso di equiparare gli insegnamenti di diverse dottrine religiose con la fede cristiana, relativizzando la Rivelazione cristiana.

11 - In modo analogo, questo relativismo ha influito anche nelle relazioni con le altre confessioni cristiane, attraverso un ecumenismo che in alcune circostanze ci fa abbandonare l’autentico messaggio cristiano, per annunciare semplicemente verità religiose meramente naturali. Come conseguenza di questo relativismo, si sono diluite le verità antropologiche fondamentali sulla persona umana e l’espressione più evidente è il primato delle teorie del genere, che implicano un cambiamento antropologico completo nella concezione cristiana della persona, del matrimonio, della vita, etc.

12 - So che anche in Cile negli ultimi anni questo relativismo è giunto con forza e so che la teoria del genere si è fatta strada negli ambienti e nelle leggi sulla famiglia e la difesa della vita dal concepimento fino alla morte naturale. In alcuni ambiti di sviluppo più sistematico degli studi teologici, in continuità con alcune versioni della teologia della liberazione, si continua a coltivare nuove “teologie” di carattere indigenista, femminista ed ecologista; queste sono forme radicali di adattamento della fede alle condizioni di vita dei popoli.

13 - Penso che questo sia un motivo di profonda riflessione per i pastori; non si tratta solamente di opporsi ad esso ma anche di proporre dei cammini per recuperare gli ambienti perduti. Sant’Agostino nel sermone sui pastori dice che il Signore «voleva rafforzare in anticipo le nostre orecchie contro coloro che, come Egli stesso mise in guardia, nel corso della storia si sarebbero sollevati dicendo “il Cristo è qui, è là”. E ci ha comandato di non prestare loro ascolto. Non abbiamo nessuna scusa se non ascoltiamo la voce del Pastore, così chiara, così aperta, così evidente che nemmeno il più miope e tardo d’intelletto può dire: non ho capito» (Sull’unità della Chiesa, 11, 28).

Il dissenso teologico

14 - Come in molti paesi, anche in Cile i Vescovi hanno dovuto affrontare la dissidenza teologica, soprattutto in materie relative alla morale cattolica, come anche in altre aree accademiche di vitale importanza. È un fenomeno che è sempre stato oggetto di studio da parte della Congregazione, che tuttavia negli ultimi decenni è stato particolarmente presente. In questa materia si impone ai pastori una vigilanza e un azione prudente, ma chiarificatrice, specialmente quando ciò che è interessato è l'insegnamento della fede. Come successori degli Apostoli, i Pastori della Chiesa «ricevono dal Signore... la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini... ottengano la salvezza». Ad essi è quindi affidato il compito di conservare, esporre e diffondere la Parola di Dio, della quale sono servitori (Istr. Donum veritatis, 14)

15 - A questo proposito non è sufficiente la denuncia e la comunicazione al livello superiore, ma è necessario rettificare gli errori con coraggio e audacia, e usare i mass media perché risulti chiara a tutti la verità, che deve sempre risplendere. "In ogni epoca la teologia è importante perché la Chiesa possa rispondere al disegno di Dio, il quale vuole «che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tim 2, 4). In tempi di grandi mutamenti spirituali e culturali essa è ancora più importante, ma è anche esposta a rischi, dovendosi sforzare di «rimanere» nella verità (cf. Gv 8, 31) e tener conto nel medesimo tempo dei nuovi problemi che si pongono allo spirito umano. Nel nostro secolo, in particolare durante la preparazione e la realizzazione del Concilio Vaticano II, la teologia ha contribuito molto ad una più profonda «comprensione delle realtà e delle parole trasmesse»[1], ma ha anche conosciuto e conosce ancora dei momenti di crisi e di tensione". (Istr. Donum Veritatis, 1)

16 - Il dissenso può rivestire diversi aspetti. Nella sua forma più radicale, esso ha di mira il cambiamento della Chiesa secondo un modello di contestazione ispirato da ciò che si fa nella società politica. Più frequentemente si ritiene che il teologo sarebbe obbligato ad aderire all’insegnamento infallibile del Magistero, mentre invece, adottando la prospettiva di una specie di positivismo teologico le dottrine proposte senza che intervenga il carisma dell’infallibilità non avrebbero nessun carattere obbligatorio, lasciando al singolo piena libertà di aderirvi o meno. (cfr. Instr. Donum Veritatis, 33)  È importante sottolineare che quelli che si mantengono in questo dissenso, sappiano che in questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai «mass-media» invece di rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità. (cfr. Instr. Donum Veritatis, 30)

17 - Per uno spirito leale ed animato dall’amore per la Chiesa, una tale situazione può certamente rappresentare una prova difficile. Può essere un invito a soffrire nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la verità è veramente in causa, essa finirà necessariamente per imporsi. (Cfr. Instr. Donum Veritatis)

L'influsso delle scienze umane nella teologia

18 - Un aspetto che oggi è sorto come elemento nuovo è la prevalenza degli apporti delle scienze umane per le analisi teologiche. In particolare quelle che consistono nel mostrare il sentire del popolo di Dio su certe questioni e tentare di presentare quelle precedenti come parte di quello che sarebbe un nuovo sentire dei fedeli, diverso rispetto a quello esistito per decenni, secoli o millenni. «Il dissenso fa appello anche talvolta ad una argomentazione sociologica, secondo la quale l’opinione di un gran numero di cristiani sarebbe un’espressione diretta ed adeguata del «senso soprannaturale della fede». (Cfr. Istr. Donum Veritatis, 35) 

19 - In realtà le opinioni dei fedeli non possono essere puramente e semplicemente identificate con il «sensus fidei». Quest’ultimo è una proprietà della fede teologale la quale, essendo un dono di Dio che fa aderire personalmente alla Verità, non può ingannarsi. Questa fede personale è anche fede della Chiesa, poiché Dio ha affidato alla Chiesa la custodia della Parola e, di conseguenza, ciò che il fedele crede è ciò che crede la Chiesa. Il «sensus fidei» implica pertanto, di sua natura, l'accordo profondo dello spirito e del cuore con la Chiesa, il «sentire cum Ecclesia».(Cfr. Istr. Donum Veritatis, 35)

20 - A volte è evidente la mancanza di distinzione e confusione tra la vita spirituale e la dimensione psicologica della persona, analizzata con metodologie moderne. Questo aspetto influenza i processi formativi delle persone, tanto al sacerdozio, come alla vita consacrata, come anche degli agenti pastorali laici. Le diverse correnti psicologiche presentano una fonte di conoscenza delle persone umane che parrebbe infallibile; e le sue metodologie come il cammino sicuro per ottenere risultati di stabilità, normalità e sviluppo personale; così le si assume come cammino principale di discernimento vocazionale, formazione e crescita interiore. Da qui deriva la sparizione o scarsa valorizzazione dell'importanza della grazia divina nelle vita spirituale, che finisce per essere ridotta a un livello meramente naturale; e si produce una deturpamento della finalità dei sacramenti, della preghiera e dell'insegnamento tradizionale della Chiesa sulla vita cristiana e vocazionale.

Partire dal dato di fede

21 - In questo scrutare la realtà, come parte del compito teologico, si considerano come “segni dei tempi” tutte le classi di evento, modo di pensare e di agire dei contemporanei, a partire da quelli su cui si riflette e decide quale linea deve prendere la Chiesa nella sua azione pastorale. Si dice con una certa facilità che questi segni costituiscono un “parlare” di Dio alla sua Chiesa. In questo modo la Rivelazione divina (comune, oggettiva e universale) viene relativizzata; e la Sacra Scrittura si utilizza al servizio di questi contenuti per “illuminarli”. In questo modo la “pastorale” può venire ridotta a un insieme di interventi umani, tanto per l'individuo, come per la collettività, centrata in assunti temporali. Per tanto, diventa chiara l'assenza delle dimensioni trascendenti, salvifiche e soprannaturali nella missione pastorale della Chiesa. È necessario insistere che la nostra riflessione teologica e le sue conseguenze pastorali devono partire dal dato rivelato, da qui l'importanza di un insegnamento adeguato dei contenuti del Catechismo della Chiesa Cattolica, che S. Giovanni Paolo II donò alla Chiesa segnalandolo «come uno strumento valido e legittimo al servizio della comunione ecclesiale e come una norma sicura per l'insegnamento della fede». (Costituzione apostolica Fidei Depositum, 4)

22 - Il testo fondamentale in questo senso è il Decreto Optatam totius numero 16, dove si pensa all'insegnamento delle discipline teologiche alla luce della fede e sotto la guida del Magistero della Chiesa. In esso si riconosce chiaramente la dimensione non solo scientifica, nel senso aristotelico e moderno della parola, ma anche speculativo-ontologico della teologia; ma ancor di più, la teologia stessa si considera in funzione della vita totale concreta della Chiesa, dei fedeli e del teologo. Questo modo di procedere suppone che tutto il lavoro teologico deve essere animato e sostenuto dalla Sacra Scrittura. Le diverse tappe prevedono lo studio del tema biblico, la illustrazione della apporto riflessivo offerto dalla tradizione pastristica e per la storia del dogma nel contesto della storia della Chiesa, l'approfondimento speculativo, la esposizione diretta a mostrare il nesso mysteriorum inter e la sua integrazione nelle diverse forme della vita della Chiesa (soprattutto liturgica e spirituale), la responsabilità teologica di fronte ai problemi dell'uomo contemporaneo. Il punto di partenza della investigazione teologica, a differenza della filosofia, è “dogamtico” nel senso che si identifica con la Parola di Dio, intesa globalmente, che la riflessione teologica non potrà metere in discussione per nulla senza fallire il proprio statuto epistemologico, la sua stessa costituzione dell'intelligenza delle fede.

Questa Parola di Dio esige di essere conosciuta e compresa ogni volta meglio. In questa intelligenza della fede la teologia procede con i suoi propri metodi (fidens quarens intellectum). I due momenti principali della sua attuazione sono il momento positivo dell'auditus fidei (presa di coscienza della fede della Chiesa attraverso il suo sviluppo storico a partire dal tema biblico) e il momento riflessivo dell'intellectus fidei nel suo livello esplicativo, speculativo e attualizzante. Così poi, l'oggetto del lavoro teologico è la fede della Chiesa nel suo riferimento alla divina rivelazione, rispetto alla quale la teologia si domanda: cosa significa?, come può interpretarsi e diventare intelligibile per l'uomo? Come sottolineare l'importanza interiore per lui?

Il lavoro della Chiesa per ambienti sani che evitino gli abusi

23 - So bene che la Chiesa in Cile ha sofferto come poche nazioni per gli abusi di alcuni chierici. È un tema doloroso e complesso che è stato affrontato da molte Conferenze episcopali, ma in cui quella cilena è avanti, con la recente approvazione e promulgazione, come legge per ogni giurisdizione ecclesiastica, delle Linee Guida, Cura e Speranza, che già stanno in applicazione in tutto il paese.

24 - Da quando il Papa Giovanni Paolo e poi Benedetto XVI hanno assunto politiche chiare e sostenute, la Congregazione è stata chiamata a risolvere questi problemi. Papa Francesco, come sappiamo ha continuato con maggior spinta e decisione questo lavoro. Però è completamente necessaria una azione decisa dei Vescovi nelle proprie diocesi, tendente a creare ambienti pastorali sani, dove l'abuso di potere, che è sempre l'antecedente degli abusi sessuali, sia completamente sradicato.

25 - Insieme a questo, come si fa nelle altre nazioni, devono essere decise delle azioni di prevenzione e debbono attuarsi politiche efficaci di protezione dei minori che sono stati abusati, mediante metodi sociologici, medici e pastorali efficaci, che includano come elemento essenziale la riparazione del male provocato. Mi pare specialmente degno di nota in questo documento dell'episcopato cileno, i principi fondamentali stabiliti, sintetizzati nelle protezione dei minori, l'integrità del ministero sacerdotale, insieme alla trasparenza e responsabilità e collaborazione con la società e le autorità. Questi principi debitamente congiunti daranno come risultato che sparisca dalla vita della Chiesa questo flagello che tanto male ha fatto a persone innocenti e ha tolto prestigio alla Chiesa.

26 - Stimati fratelli Vescovi, rendiamo grazia al Signore per tutti i doni che ha fatto alla Chiesa e tutto il bene che Ella ha realizzato per il bene degli abitanti di questa terra benedetta. Il Signore dà a noi molti motivi di allegria, però come tutti sappiamo, questa allegria ha sempre le sue radici in forma di croce. Chiediamo alla nostra Madre del Cielo, nell'invocazione del Carmen, Regina e Patrona del Cile, che ci faccia sempre fedeli a suo Figlio e alla Chiesa che Egli ci ha dato come sacramento di salvezza.

* Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

(traduzione di Luisella Scrosati e Lorenzo Bertocchi)










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  Divina Rivelazione


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La Pontificia Università Gregoriana ha organizzato in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede tre giornate di studio dedicate alle Dei Verbum che si sono aperte con la conferenza “Ascoltare la Parola di Dio – vedere il mondo alla luce della fede” del cardinale Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione.


di Angela Ambrogetti (23-11-2015)


Il 2015 è un anno molto appropriato per la riflessione sui documenti del Concilio Vaticano II. Molti infatti furono promulgati esattamente 50 anni fa, nelle ultime sessioni conciliari e gli studiosi in questo anno che sta per concludersi stanno approfittando del giubileo conciliare per riflettere sui testi più significativi.



La scorsa settimana la Pontificia Università Gregoriana ha organizzato in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede tre giornate di studio dedicate alle Dei Verbum che si sono aperte con la conferenza “Ascoltare la Parola di Dio – vedere il mondo alla luce della fede” del Card. Gerhard Ludwig Müller, il Prefetto della Congregazione.


Una riflessione che parte dalla interpretazione del Concilio e di un supposto “spirito del Concilio” fon troppo malinteso. “Negli ultimi cinquantʼanni- spiega il cardinale- tante cose, che non avevano niente a che fare con il Concilio, vennero confuse con esso, lette in chiave selettiva e interpretate, mentre per lʼermeneutica si scelsero criteri non inerenti al Concilio stesso. Alcuni brani e documenti isolati furono favoriti e citati, altri invece silenziosamente ignorati.


Avvenne tra lʼaltro, che lʼideale teorico-scientifico di un testo stilisticamente e intellettualmente uniforme di un singolo autore, fu più considerato rispetto al risultato di un lungo, spesso faticoso, ma comune sforzo del Concilio, il quale non deve cercare soltanto una comunicazione sincronica, ma vuole collocarsi anche diacronicamente allʼinterno della corrente della tradizione. Testi conciliari che portano sempre anche lʼimpronta di questo sforzo, esito di vari correnti e sviluppi, vennero diffamati da alcuni teologi come “compromessi della disonestà reciproca”, nati – così si sostenne – da una sorta di “commercio” tra le forze conservatrici e progressiste, che avrebbero tradito lo “spirito” di ciò che era invece voluto dai Padri conciliari. Questo verdetto venne emesso soprattutto in merito alla Costituzione sulla divina Rivelazione, che oggi si colloca al centro della nostra riflessione. E in verdetti del genere dilagava unʼermeneutica sbagliata e fatale.”


Ma negli ultimi anni in cui sono stati ricordati tanti “giubilei” di documenti conciliari molte cose sono state chiarite. Ed ora è il momento della Dei Verbum. Per il porporato sono cinque i momenti di impatto della Costituzione conciliare nella storia.


Si inizia con il tema della Rivelazione come “illuminazione” tramite Dio, la fede come luce, recuperando la parola “illuminismo” e sottraendola al razionalismo. Cristo è il Verbo eterno che illumina tutti gli uomini.


E la Rivelazione che si attua tramite la dottrina ma tramite la liturgia: “La liturgia non è un lusso che la Chiesa si permette, finalizzato alla sua autorappresentazione, in modo da poterla plasmare a nostro piacimento, secondo le sole leggi della plausibilità e dellʼattrattiva. Anzi, la liturgia è un locus theologicus, in cui il popolo rende presente la dimensione indescrivibile della fedeltà e della presenza di Dio, al di là di quanto possa essere contenuto in una dottrina”.


C’è poi la unità della Rivelazione nella Creazione e nella storia: “la più recente risonanza di questa visione si trova nellʼenciclica Laudato si‘ di Papa Francesco, dove egli insiste sul legame intrinseco che esiste tra natura e Rivelazione, tra Creazione e redenzione” spiega Müller.


La Scrittura è poi “anima della teologia”, e inoltre “la Dei Verbum ha messo nuovamente in evidenza la consapevolezza dellʼunità intrinseca della Sacra Scrittura composta da Antico e Nuovo Testamento.”


Interessante la relazione tra Rivelazione e misericordia. Spiega il cardinale: “la divina misericordia non è soltanto un qualche isolato atto di perdono dei nostri peccati (lo è anche), ma si colloca nel più intimo della comunicazione di Dio stesso. La Rivelazione è fondamentalmente misericordia divina proprio perché non è unʼinteressante rivelazione di verità soprannaturali, ma lʼavvenimento della comunicazione tra Dio e il suo popolo”.


Ma la De Verbum deve anche affrontare delle sfide oggi. Lo sfondo è quello della teologia pluralista delle religioni. E oggi “la critica che la Rivelazione biblica rivolge alle religioni e ai loro dei, è ritenuta responsabile per lʼindisturbato assorbimento tecnologico della natura; la chiara professione dellʼunico vero Dio, propria del monoteismo, viene accusata di intolleranza e violenza intrinseca”.


Una sfida che arriva soprattutto dal mondo occidentale che “parte dal presupposto che Dio rimanga un mistero e che non esista religione in grado di nominarlo e mostrarlo in toto. Il giudaismo e il cristianesimo – e cioè le forme istituzionalizzate della fede biblica sin dai tempi di Abramo – vengono poi sussunti come due forme delle tante “religioni” esistenti. In questo modo, si tralasciano soprattutto le affermazioni della teologia della Rivelazione, che la Dei Verbum riporta in modo sistematico”.


Altra sfida è la questione della “realtà della vita” come locus theologicus. Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede spiega che “il cristianesimo non è una religione del Libro, come si ama definirlo, ma Rivelazione divina nella storia del popolo che Egli ha scelto a questo scopo. Per questa ragione, il principio della sola scriptura non è mai stato sufficiente per trovare una misura per una vita di fede. La teologia cattolica invece ha coniato la formula “Scrittura e tradizione”, che, essendo fondamentalmente niente di nuovo, significava soltanto lʼapplicazione di quel principio che fece parlare già nel giudaismo di una tradizione scritta e di una tradizione orale”.


Una delle questioni aperte è che “oggi la tradizione della Chiesa – anche quella che ha conosciuto un vivido progresso – viene spesso e volentieri compresa come “principio generale” e “dottrina astratta”, oppure caratterizzata come “ideale” irraggiungibile, che non avrebbe alcuna “capacità di connessione con le odierne costellazioni mondane“ e perciò nessuna rilevanza per lʼuomo nella sua situazione concreta”. Ma “la visione che contrappone la dottrina della Chiesa, la sua tradizione e la verità vissuta dagli uomini del nostro tempo, quasi fossero delle alternative reciproche, è errata. La Dei Verbum ci indica unʼaltra direzione”. E aggiunge: “Le indicazioni ci dicono che la “realtà della vita” per noi rilevante non è una qualsiasi realtà che ha a che fare con la vita; non è compito della statistica o dell’opinione riportata dalla stampa, ma si tratta della realtà della vita in obbedienza alla fede pienamente realizzata e vissuta (cfr. Rm 1,5), oppure – cristologicamente parlando – della sequela di Cristo. È vero: bisogna prendere sul serio le biografie degli uomini con i loro progressi, le loro crepe. Poiché anche noi cristiani non dobbiamo farci un’immagine illusoria della nostra vita. Dobbiamo affrontare la nostra realtà. E non lo facciamo fabbricando di essa una norma su come Dio dovrebbe vedere noi e il mondo, ma confrontando la nostra debole, fragile vita con il disegno divino, collocandola allʼinterno della “luce della fede” che nonostante non sappia tutto, sa illuminare tutto”.


In conclusione la Dei Verbum è un invito all’ascolto della Parola per la Chiesa e per gli uomini con con quel desiderio che i Padri espressero 50 anni fa: “che il tesoro della Rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre di più il cuore degli uomini”.




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Il “Rapporto sulla speranza” del card. Muller

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muller crocifissoCome avevamo già preannunciato in questi giorni (vedi QUI) è uscito in Spagna un libro-intervista al cardinale Gherard L. Muller, prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede. In attesa della pubblicazione dell’esortazione post-sinodale, presumibilmente tra il 4 e il 15 aprile, indichiamo di seguito alcuni passaggi rilevanti del libro di Muller così come sono stati pubblicati dal noto vaticanista Sandro Magister nel suo seguitissimo spazio web.

CHI PUO’ ACCEDERE ALL’EUCARISTIA?

Ci sono solo due sacramenti che costituiscono lo stato di grazia: il battesimo e il sacramento della riconciliazione. Quando uno ha perso la grazia santificante, necessita del sacramento della riconciliazione per ricuperare questo stato, non come merito proprio ma come regalo, come un dono che Dio gli offre nella forma sacramentale. L’accesso alla comunione eucaristica presuppone certamente la vita di grazia, presuppone la comunione nel corpo ecclesiale, presuppone anche una vita ordinata conforme al corpo ecclesiale per poter dire “Amen”. San Paolo insiste sul fatto che chi mangia il pane e beve il vino del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (1 Cor 11. 27).

Se le cose stessero diversamente, potremmo cadere nella tentazione di concepire la vita cristiana nel modo delle realtà automatiche. Il perdono, per esempio, si convertirebbe in qualcosa di meccanico, quasi in una esigenza, non in una domanda che dipende anche da me, poiché io la devo realizzare. Io andrei, allora, alla comunione senza lo stato di grazia richiesto e senza accostarmi al sacramento della riconciliazione.

MORALE SESSUALE E “CHI SONO IO PER GIUDICARE?”

Dalla Sacra Scrittura si ricava il disordine intrinseco degli atti omosessuali, poiché non procedono da una vera complementarietà affettiva e sessuale. Si tratta di una questione molto complessa, per le numerose implicazione che sono emerse con forza negli ultimi anni. In ogni caso, la concezione antropologica che si ricava dalla Bibbia comporta alcune ineludibili esigenze morali e nello stesso tempo uno scrupoloso rispetto per la persona omosessuale.

…la Chiesa, con il suo magistero, ha la capacità di giudicare la moralità di certe situazioni. Questa è una verità indiscussa: Dio è il solo giudice che ci giudicherà alla fine dei tempi e il papa ed i vescovi hanno l’obbligo di presentare i criteri rivelati per questo giudizio finale che oggi già si anticipa nella nostra coscienza morale.
La Chiesa ha detto sempre “questo è vero, questo è falso” e nessuno può interpretare in modo soggettivista i comandamenti di Dio, le beatitudini, i concili, secondo i propri criteri, il proprio interesse o persino le proprie necessità, come se Dio fosse solo lo sfondo della sua autonomia. Il rapporto tra la coscienza personale e Dio è concreto e reale, illuminato dal magistero della Chiesa; la Chiesa possiede il diritto e l’obbligo di dichiarare che una dottrina è falsa, precisamente perché una tale dottrina devia la gente semplice dalla strada che porta a Dio.
A partire dalla rivoluzione francese, dai successivi regimi liberali e dai sistemi totalitari del secolo XX, l’obiettivo dei principali attacchi è sempre stato la visione cristiana dell’esistenza umana ed del suo destino. Quando non si poté vincere la sua resistenza, si permise il mantenimento di alcuni dei suoi elementi, ma non del cristianesimo nella sua sostanza; il risultato fu che il cristianesimo cessò di essere il criterio di tutta la realtà e si incoraggiarono le suddette posizioni soggettiviste.

Queste hanno origine in una nuova antropologia non cristiana e relativista che prescinde del concetto di verità: l’uomo odierno si vede obbligato a vivere perennemente nel dubbio. Di più: l’affermazione che la Chiesa non può giudicare situazioni personali si basa su una falsa soteriologia, cioè che l’uomo è il suo proprio salvatore e redentore.

CELIBATO SACERDOTALE

Il Concilio Vaticano II e altri documenti magisteriali più recenti insegnano una tale conformità o adeguazione interna tra celibato e sacerdozio che la Chiesa di rito latino non sente di avere la facoltà di cambiare questa dottrina con una decisione arbitraria che romperebbe con lo sviluppo progressivo, durato secoli, della regolamentazione canonica, a partire dal momento in cui è stato riconosciuto questo vincolo interno, anteriormente alla suddetta legislazione. Noi non possiamo rompere unilateralmente con tutta una serie di dichiarazioni di papi e di concili, come neppure con la ferma e continua adesione della Chiesa cattolica all’immagine del sacerdote celibe.

La crisi del celibato nella Chiesa cattolica latina è stato un tema ricorrente in momenti specialmente difficili nella Chiesa. Per citare qualche esempio, possiamo ricordare i tempi della riforma protestante, quelli della rivoluzione francese e, più recentemente, gli anni della rivoluzione sessuale, nei decenni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Ma se qualcosa possiamo imparare dallo studio della storia della Chiesa e delle sue istituzioni è che queste crisi hanno sempre mostrato e consolidato la bontà della dottrina del celibato.

SACERDOZIO FEMMINILE

Papa Francesco è stato chiaro, come anche i suoi predecessori. Al riguardo, ricordo che san Giovanni Paolo II, al n. 4 dell’esortazione apostolica “Ordinatio sacerdotalis” del 1994, rafforzò con il plurale maiestatico (“declaramus”), nell’unico documento nel quale quel papa utilizzò questa forma verbale, che è dottrina definitiva insegnata infallibilmente dal magistero ordinario universale (can. 750 § 2 CIC) il fatto che la Chiesa non ha autorità per ammettere le donne al sacerdozio.

Compete al Magistero decidere se una questione è dogmatica o disciplinare; in questo caso, la Chiesa ha già deciso che questa proposta è dogmatica e che, essendo di diritto divino, non può essere cambiata e nemmeno rivista. La si potrebbe giustificare con molte ragioni, come la fedeltà all’esempio del Signore o il carattere normativo della prassi multisecolare della Chiesa, tuttavia non credo che questa materia debba essere discussa di nuovo a fondo, poiché i documenti che la trattano espongono a sufficienza i motivi per respingere questa possibilità.

Non voglio mancare di segnalare che c’è una essenziale uguaglianza tra l’uomo e la donna nel piano della natura ed anche nel rapporto con Dio tramite la grazia (cfr. Gal 3, 28). Ma il sacerdozio implica una simbolizzazione sacramentale del rapporto di Cristo, capo o sposo, con la Chiesa, corpo o sposa. Le donne possono avere, senza nessun problema, più incarichi nella Chiesa: al riguardo, colgo volentieri l’occasione di ringraziare pubblicamente il numeroso gruppo di donne laiche e religiose, alcune della quali con qualificati titoli universitari, che prestano la loro indispensabile collaborazione nella congregazione per la dottrina della fede.

PROTESTANTIZZAZIONE DELLA CHIESA

Il teologo Karl-Heinz Menke dice il vero quando asserisce che la relativizzazione della verità e l’adozione acritica delle ideologia moderne sono l’ostacolo principale verso l’unione nella verità.

In questo senso,  una protestantizzazione della Chiesa cattolica a partire da una visione secolare senza riferimento alla trascendenza non soltanto non ci può riconciliare con i protestanti, ma nemmeno può consentire un incontro con il mistero di Cristo, poiché in Lui siamo depositari di una rivelazione sovrannaturale alla quale tutti noi dobbiamo la totale ubbidienza dell’intelletto e della volontà (cfr. “Dei Verbum”, 5).

Penso che i principi cattolici dell’ecumenismo, così come furono proposti e sviluppati dal decreto del Concilio Vaticano II, sono ancora pienamente validi (cfr. “Unitatis redintegratio”, 2-4). D’altra parte, il documento della congregazione per la dottrina della fede “Dominus Iesus”, dell’anno santo del 2000, incompreso da molti e ingiustamente rifiutato da altri, sono convinto che sia, senza alcun dubbio, la magna carta contro il relativismo cristologico ed ecclesiologico di questo momento di tanta confusione.






[Modificato da Caterina63 30/03/2016 16:44]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/04/2016 21:53
 
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Come il cardinale Müller (con echi ratzingeriani) rilegge papa Bergoglio

 
Nota preliminare
Reitero la nota dall'articolo precedente, ma è il punto focale di tutto e giova ribadirlo fino all'estenuazione.
Di seguito la cronaca recente ricca di spunti e considerazioni. Ma c'è un discorso da fare a monte non più eludibile. Anche se nella Chiesa voci autorevoli come quella del Card. Müller, nella sua qualità di prefetto della Dottrina della Fede, ci offrono una esegesi commestibile delle posizioni del papa regnante, si impongono due considerazioni basilari. 

1) È già inaudito che un papa abbia bisogno di un'esegesi o di una rilettura, che peraltro spicca per la difformità con quanto suoi gesti e parole esprimono; 

2) abbiamo ormai una fin troppo consolidata esperienza di quanto ogni esegesi, più o meno in linea con la Tradizione perenne della Chiesa, di fatto risulti affogata e neutralizzata nel magistero liquido - già di per sé deformante - da una prassi che di fatto la ignora quando non la disprezza e dunque la sovverte. Il punctum dolens, del quale abbiamo reiteratamente espresso anche le radici è questo. Finché non ci sarà un prelato autorevole che riconosca e ponga mano alle radici (i famosi punti controversi del Concilio V2), la situazione non solo non cambierà, ma sarà sempre più rivoluzionaria. Oggi a nulla più servono i discorsi, se non a salvare quel po' che è salvabile nelle coscienze dei fedeli più attenti: sono i fatti quelli che contano. E i fatti, oggi, li mettono in campo solo i rivoluzionari...

Come il cardinale Müller (con echi ratzingeriani) rilegge papa Bergoglio

Leggiamo su www.chiesa un articolo di Sandro Magister: Come il cardinale Müller rilegge il papa, che riporta punto per punto l'esegesi, da parte del prefetto della Dottrina della Fede, delle parole del papa sui temi 'caldi' che più si prestano ad equivoci : omosessualitàcomunione ai divorziati risposatiLuterosacerdozio femminile,celibato del clero.
 
Le affermazioni sono tratte dal libro Informe sobre la esperanza, del Card. Gerhard Ludwig Müller, edito dalla Biblioteca de Autores Cristianos [vedi], uscito nei giorni scorsi in Spagna, che verrà presto reso disponibile anche in italiano per i tipi di Cantagalli, e poi in inglese, in francese e in tedesco.
 
Le affermazioni del Prefetto della Dottrina per la Fede destano maggiore interesse e susciteranno molto rumore innanzitutto in vista dell'imminente pubblicazione dell'esortazione apostolica che tirerà le somme del doppio sinodo sulla famiglia, sulla quale continuano a posizionarsi i fronti contrapposti già evidenziatisi nel corso dell'Assise. In secondo luogo, in vista  del fatto che fra qualche mese verrà celebrato il primo mezzo millennio dalla Riforma e il papa ha annunciato il suo viaggio in Svezia nel mese di ottobre per una commemorazione ecumenica insieme con i rappresentanti della Federazione Luterana mondiale e altre confessioni cristiane.

Quanto all'esortazione, viene menzionato anche l'arcivescovo Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia e segretario del papa emerito Benedetto XVI, secondo il quale nel documento si ritroverà - contrariamente alle reiterate affermazioni rivoluzionarie del card. Kasper - "quel che ha sempre detto il magistero della Chiesa", senza strappi né nella dottrina né nella pratica pastorale.

Magister registra che "la sensazione diffusa è che entrambi i fronti abbiano le loro ragioni, vista l'invincibile ambiguità che caratterizza i pronunciamenti di papa Francesco. Perché è facile prevedere che chiunque saprà scovare nelle oltre 200 pagine del documento il passaggio che più gli aggrada, e agire di conseguenza". Sostanzialmente è espresso il nostro stesso timore e conseguenti interrogativi

Interessante ricordare che la bozza dell'esortazione è passata anche al vaglio della congregazione per la dottrina della fede, che – secondo alcune indiscrezioni – l'avrebbe rinviata al papa corredata di numerose proposte di modifica. Ma non ci è dato sapere se e quanto nell'esortazione ne sia stato tenuto conto. Ed è per questo che acquistano comunque un peso non indifferente, in virtù dell'autorevolezza del card. Müller, le affermazioni che leggerete di seguito.

Altra notazione interessante, sempre di Magister, è che il titolo del libro ricalca quello del libro-intervista che l'allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, pubblicò nel 1985 con una immensa eco in tutto il mondo: "Rapporto sulla fede", in spagnolo "Informe sobre la fe". Müller non solo ha in Ratzinger il suo maestro e gli è succeduto nella stessa carica, ma è anche colui al quale il papa emerito ha affidato la pubblicazione di tutte le sue opere teologiche.

Quelli pubblicati di seguito sono cinque assaggi del libro, su altrettante questioni controverse, presi dal citato articolo di Magister. (MG)

Da "Informe sobre la esperanza"
di Gerhard L. Müller

"CHI SONO IO PER GIUDICARE?"

Proprio quelli che fino ad oggi non hanno mostrato alcun rispetto per la dottrina della Chiesa si servono di un frase isolata del Santo Padre, "Chi sono io per giudicare?", tolta dal contesto, per presentare idee distorte sulla morale sessuale, avvalorandole con una presunta interpretazione del pensiero "autentico" del papa al riguardo.
 
La questione omosessuale che diede spunto alla domanda posta al Santo Padre è già presente nella Bibbia, tanto nell'Antico Testamento (cfr. Gen 19; Dt 23, 18s; Lev 18, 22; 20, 13; Sap 13-15) quanto nelle lettere paoline (cfr. Rom 1, 26s; 1 Cor 6, 9s), trattata come soggetto teologico, sia pure con i condizionamenti propri inerenti alla storicità della divina rivelazione.
 
Dalla Sacra Scrittura si ricava il disordine intrinseco degli atti omosessuali, poiché non procedono da una vera complementarietà affettiva e sessuale. Si tratta di una questione molto complessa, per le numerose implicazioni che sono emerse con forza negli ultimi anni. In ogni caso, la concezione antropologica che si ricava dalla Bibbia comporta alcune ineludibili esigenze morali e nello stesso tempo uno scrupoloso rispetto per la persona omosessuale. Queste persone, chiamate alla castità ed alla perfezione cristiana attraverso la padronanza di sé e a volte con l'aiuto di un'amicizia disinteressata, vivono "una autentica prova. Perciò devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione" (Catechismo della Chiesa cattolica, 2357-2359).
 
Tuttavia, oltre al problema suscitato della decontestualizzazione della citata frase di papa Francesco, pronunciata come segno di rispetto per la dignità della persona, mi sembra sia evidente che la Chiesa, con il suo magistero, ha la capacità di giudicare la moralità di certe situazioni. Questa è una verità indiscussa: Dio è il solo giudice che ci giudicherà alla fine dei tempi e il papa ed i vescovi hanno l'obbligo di presentare i criteri rivelati per questo giudizio finale che oggi già si anticipa nella nostra coscienza morale.
 
La Chiesa ha detto sempre "questo è vero, questo è falso" e nessuno può interpretare in modo soggettivista i comandamenti di Dio, le beatitudini, i concili, secondo i propri criteri, il proprio interesse o persino le proprie necessità, come se Dio fosse solo lo sfondo della sua autonomia. Il rapporto tra la coscienza personale e Dio è concreto e reale, illuminato dal magistero della Chiesa; la Chiesa possiede il diritto e l'obbligo di dichiarare che una dottrina è falsa, precisamente perché una tale dottrina devia la gente semplice dalla strada che porta a Dio.

A partire dalla rivoluzione francese, dai successivi regimi liberali e dai sistemi totalitari del secolo XX, l'obiettivo dei principali attacchi è sempre stato la visione cristiana dell'esistenza umana ed del suo destino.
 
Quando non si poté vincere la sua resistenza, si permise il mantenimento di alcuni dei suoi elementi, ma non del cristianesimo nella sua sostanza; il risultato fu che il cristianesimo cessò di essere il criterio di tutta la realtà e si incoraggiarono le suddette posizioni soggettiviste.
 
Queste hanno origine in una nuova antropologia non cristiana e relativista che prescinde del concetto di verità: l'uomo odierno si vede obbligato a vivere perennemente nel dubbio. Di più: l'affermazione che la Chiesa non può giudicare situazioni personali si basa su una falsa soteriologia, cioè che l'uomo è il suo proprio salvatore e redentore.
 
Nel sottomettere l'antropologia cristiana a questo riduzionismo brutale, l'ermeneutica della realtà che da ciò deriva adotta soltanto gli elementi che interessano o sono convenienti all'individuo: alcuni elementi delle parabole, certi gesti benevoli di Cristo o quei passaggi che lo presentano come un semplice profeta del sociale o un maestro in umanità.
 
E al contrario si censura il Signore della storia, il Figlio di Dio che invita alla conversione o il Figlio dell'Uomo che verrà a giudicare i vivi ed i morti. In realtà, questo cristianesimo semplicemente tollerato si svuota del suo messaggio e dimentica che il rapporto con Cristo, senza la conversione personale, è impossibile.

CHI PUÓ FARE LA COMUNIONE

Papa Francesco dice nella "Evangelii gaudium" (n. 47) che l'eucaristia "non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli". Vale la pena analizzare questa frase con profondità, per non equivocarne il senso.

In primo luogo, bisogna notare che questa affermazione esprime il primato della grazia: la conversione non è un atto autonomo dell'uomo, ma è, in se stessa, un'azione della grazia. Tuttavia da ciò non si può dedurre che la conversione sia una risposta esterna di gratitudine per ciò che Dio ha fatto in me per conto suo, senza di me. Nemmeno posso concludere che chiunque possa accostarsi a ricevere l'eucaristia sebbene non sia in grazia e non abbia le dovute disposizioni, solo perché è un alimento per i deboli.
 
Prima di tutto dovremmo chiederci: che cos'è la conversione? Essa è un atto libero dell'uomo e, nello stesso tempo, è un atto motivato dalla grazia di Dio che previene sempre gli atti degli uomini. È per questo un atto integrale, incomprensibile se si separa l'azione di Dio dall'azione dell'uomo. […]
 
Nel sacramento della penitenza, per esempio, si osserva con tutta chiarezza la necessità di una risposta libera da parte del penitente, espressa nella sua contrizione del cuore, nel suo proposito di correggersi, nella sua confessione dei peccati, nel suo atto di penitenza. Per questo la teologia cattolica nega che Dio faccia tutto e che l'uomo sia puro recipiente delle grazie divine. La conversione è la nuova vita che ci è data per grazia e nello stesso tempo, anche, è un compito che ci è offerto come condizione per la perseveranza nella grazia. […]

Ci sono solo due sacramenti che costituiscono lo stato di grazia: il battesimo e il sacramento della riconciliazione. Quando uno ha perso la grazia santificante, necessita del sacramento della riconciliazione per ricuperare questo stato, non come merito proprio ma come regalo, come un dono che Dio gli offre nella forma sacramentale. L'accesso alla comunione eucaristica presuppone certamente la vita di grazia, presuppone la comunione nel corpo ecclesiale, presuppone anche una vita ordinata conforme al corpo ecclesiale per poter dire "Amen". San Paolo insiste sul fatto che chi mangia il pane e beve il vino del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (1 Cor 11. 27).
 
Sant'Agostino afferma che "colui che ti creò senza di te non ti salverà senza di te" (Sermo 169). Dio chiede la mia collaborazione. Una collaborazione che è anche regalo suo, ma che implica la mia accoglienza di questo dono.
 
Se le cose stessero diversamente, potremmo cadere nella tentazione di concepire la vita cristiana nel modo delle realtà automatiche. Il perdono, per esempio, si convertirebbe in qualcosa di meccanico, quasi in una esigenza, non in una domanda che dipende anche da me, poiché io la devo realizzare. Io andrei, allora, alla comunione senza lo stato di grazia richiesto e senza accostarmi al sacramento della riconciliazione. Darei per scontato, senza nessuna prova di ciò a partire dalla Parola di Dio, che mi è concesso privatamente il perdono dei miei peccati tramite questa stessa comunione. Ma questo è un falso concetto di Dio, è tentare Dio. E porta con sé anche un concetto falso dell'uomo, col sottovalutare ciò che Dio può suscitare in lui.

PROTESTANTIZZAZIONE DELLA CHIESA

Strettamente parlando, noi cattolici non abbiamo alcun motivo per festeggiare il 31 ottobre 1517, cioè la data considerata l'inizio della Riforma che portò alla rottura della cristianità occidentale.

Se siamo convinti che la rivelazione divina si è conservata integra ed immutata attraverso la Scrittura e la Tradizione, nella dottrina della fede, nei sacramenti, nella costituzione gerarchica della Chiesa per diritto divino, fondata sul sacramento del sacro ordine, non possiamo accettare che esistano ragioni sufficienti per separarsi dalla Chiesa.
 
I membri delle comunità ecclesiali protestanti guardano a questo evento da un'ottica diversa, poiché pensano che sia il momento opportuno per celebrare la riscoperta della "parola pura di Dio", che presumono sfigurata lungo la storia da tradizioni meramente umane. I riformatori protestanti arrivarono alla conclusione, cinquecento anni fa, che alcuni gerarchi della Chiesa non solo erano corrotti moralmente, ma avevano anche travisato il Vangelo e, di conseguenza, avevano bloccato il cammino di salvezza dei credenti verso Gesù Cristo. Per giustificare la separazione accusarono il papa, presunto capo di questo sistema, di essere l'Anticristo.
 
Come portare avanti, oggi, in modo realistico, il dialogo ecumenico con le comunità evangeliche? Il teologo Karl-Heinz Menke dice il vero quando asserisce che la relativizzazione della verità e l'adozione acritica delle ideologia moderne sono l'ostacolo principale verso l'unione nella verità.
 
In questo senso, una protestantizzazione della Chiesa cattolica a partire da una visione secolare senza riferimento alla trascendenza non soltanto non ci può riconciliare con i protestanti, ma nemmeno può consentire un incontro con il mistero di Cristo, poiché in Lui siamo depositari di una rivelazione sovrannaturale alla quale tutti noi dobbiamo la totale ubbidienza dell'intelletto e della volontà (cfr. "Dei Verbum", 5).
 
Penso che i principi cattolici dell'ecumenismo, così come furono proposti e sviluppati dal decreto del Concilio Vaticano II, sono ancora pienamente validi (cfr. "Unitatis redintegratio", 2-4). D'altra parte, il documento della congregazione per la dottrina della fede "Dominus Iesus", dell'anno santo del 2000, incompreso da molti e ingiustamente rifiutato da altri, sono convinto che sia, senza alcun dubbio, la magna carta contro il relativismo cristologico ed ecclesiologico di questo momento di tanta confusione.

SACERDOZIO FEMMINILE

La domanda se il sacerdozio femminile sia una questione disciplinare che la Chiesa potrebbe semplicemente cambiare non tiene, poiché si tratta di una questione già decisa.
 
Papa Francesco è stato chiaro, come anche i suoi predecessori. Al riguardo, ricordo che san Giovanni Paolo II, al n. 4 dell'esortazione apostolica "Ordinatio sacerdotalis" del 1994, rafforzò con il plurale maiestatico ("declaramus"), nell'unico documento nel quale quel papa utilizzò questa forma verbale, che è dottrina definitiva insegnata infallibilmente dal magistero ordinario universale (can. 750 § 2 CIC) il fatto che la Chiesa non ha autorità per ammettere le donne al sacerdozio.
 
Compete al Magistero decidere se una questione è dogmatica o disciplinare; in questo caso, la Chiesa ha già deciso che questa proposta è dogmatica e che, essendo di diritto divino, non può essere cambiata e nemmeno rivista. La si potrebbe giustificare con molte ragioni, come la fedeltà all'esempio del Signore o il carattere normativo della prassi multisecolare della Chiesa, tuttavia non credo che questa materia debba essere discussa di nuovo a fondo, poiché i documenti che la trattano espongono a sufficienza i motivi per respingere questa possibilità.
 
Non voglio mancare di segnalare che c'è una essenziale uguaglianza tra l'uomo e la donna nel piano della natura ed anche nel rapporto con Dio tramite la grazia (cfr. Gal 3, 28). Ma il sacerdozio implica una simbolizzazione sacramentale del rapporto di Cristo, capo o sposo, con la Chiesa, corpo o sposa. Le donne possono avere, senza nessun problema, più incarichi nella Chiesa: al riguardo, colgo volentieri l'occasione di ringraziare pubblicamente il numeroso gruppo di donne laiche e religiose, alcune della quali con qualificati titoli universitari, che prestano la loro indispensabile collaborazione nella congregazione per la dottrina della fede.
 
D'altra parte non sarebbe serio avanzare proposte in merito partendo da semplici calcoli umani, dicendo per esempio che "se apriamo il sacerdozio alle donne superiamo il problema vocazionale" o "se accettiamo il sacerdozio femminile daremmo al mondo un'immagine più moderna".
 
Credo che questo modo di porre il dibattito è molto superficiale, ideologico e soprattutto antiecclesiale, perché omette di dire che si tratta di una questione dogmatica già definita da chi ha il compito di farlo, e non di una materia meramente disciplinare.

CELIBATO SACERDOTALE

Il celibato sacerdotale, così contestato in certi ambienti ecclesiastici odierni, ha le sue radici nei Vangeli come consiglio evangelico, ma ha anche un rapporto intrinseco con il ministero del sacerdote.

Il sacerdote è più di un funzionario religioso al quale sia stata attribuita una missione indipendente dalla sua vita. La sua vita è in stretto rapporto con la sua missione evangelica e pertanto, nella riflessione paolina come anche nei Vangeli stessi, chiaramente il consiglio evangelico appare legato alla figura dei ministri scelti da Gesù. Gli apostoli, per seguire Cristo, hanno lasciato tutte le sicurezze umane dietro di loro e in particolare le rispettive spose. Al riguardo, san Paolo ci parla della sua esperienza personale in 1 Cor 7, 7, ove sembra considerare il celibato come un carisma particolare che ha ricevuto.
 
Attualmente, il vincolo tra celibato e sacerdozio in quanto dono peculiare di Dio attraverso il quale i ministri sacri possono unirsi più facilmente a Cristo con un cuore indiviso (can. 277 § 1 CIC; "Pastores dabo vobis", 29), si trova in tutta la Chiesa  universale, anche se in forma diverso. Nella Chiesa orientale, come sappiamo, riguarda solo il sacerdozio dei vescovi; ma il fatto stesso che per loro lo si esiga ci indica che tale Chiesa non lo concepisce come una disciplina esterna.
 
Nel suddetto menzionato ambiente di contestazione al celibato, è molto diffusa la seguente analogia. Alcuni anni fa sarebbe stato inimmaginabile che una donna potesse fare il soldato, mentre oggi, invece, gli eserciti moderni contano su un gran numero di donne soldato, pienamente atte a un compito considerato, tradizionalmente, come esclusivamente maschile. Non succederà lo stesso con il celibato? Non è un inveterato costume del passato che bisogna rivedere?
 
Tuttavia la sostanza dell'attività militare, a parte alcune questioni di tipo pratico, non esige che chi la esercita appartenga a un determinato sesso; mentre il sacerdozio è invece in intima connessione con il celibato.
 
Il Concilio Vaticano II e altri documenti magisteriali più recenti insegnano una tale conformità o adeguazione interna tra celibato e sacerdozio che la Chiesa di rito latino non sente di avere la facoltà di cambiare questa dottrina con una decisione arbitraria che romperebbe con lo sviluppo progressivo, durato secoli, della regolamentazione canonica, a partire dal momento in cui è stato riconosciuto questo vincolo interno, anteriormente alla suddetta legislazione. Noi non possiamo rompere unilateralmente con tutta una serie di dichiarazioni di papi e di concili, come neppure con la ferma e continua adesione della Chiesa cattolica all'immagine del sacerdote celibe.
 
La crisi del celibato nella Chiesa cattolica latina è stato un tema ricorrente in momenti specialmente difficili nella Chiesa. Per citare qualche esempio, possiamo ricordare i tempi della riforma protestante, quelli della rivoluzione francese e, più recentemente, gli anni della rivoluzione sessuale, nei decenni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Ma se qualcosa possiamo imparare dallo studio della storia della Chiesa e delle sue istituzioni è che queste crisi hanno sempre mostrato e consolidato la bontà della dottrina del celibato.
 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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16/05/2016 14:21
 
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Esercizi di lettura. La "Amoris laetitia" del cardinale Müller


In un monumentale discorso in Spagna, il prefetto della dottrina della fede riconduce l'esortazione postsinodale nell'alveo della disciplina precedente della Chiesa. Troppo tardi. Perché ormai Francesco l'ha scritta in modo da far capire il contrario 

di Sandro Magister




ROMA, 11 maggio 2016 – Con la "Amoris laetitia" sta accadendo nella Chiesa cattolica qualcosa di simile a quanto accadde mezzo secolo fa con la "Humanae vitae". A parti rovesciate.

L'enciclica di Paolo VI sulla procreazione era chiarissima. Ma teologi, vescovi e conferenze episcopali dissenzienti ne diffusero interpretazioni artificiose e fumose, al fine di far apparire lecito ciò che il papa proibiva.

L'esortazione postsinodale di Francesco sulla famiglia è stata scritta invece in forma volutamente vaga, consentendo a chiunque di leggervi ciò che desidera, in particolare sulla questione cruciale della comunione ai divorziati risposati. E tocca a teologi, vescovi e cardinali volonterosi affaticarsi a darne una lettura chiara ed univoca, in accordo con il magistero della Chiesa di sempre.

Tra questi, il più alto d'autorità è il cardinale Gerhard L. Müller, già vescovo di Ratisbona, curatore dell'opera omnia di Joseph Ratzinger e dal 2012 prefetto della congregazione per la dottrina della fede.

Già pochi giorni prima della pubblicazione della "Amoris laetitia" Müller aveva ribadito i punti fermi dai quali il magistero della Chiesa non si poteva discostare, in un libro uscito in Spagna dal titolo: "Informe sobre la esperanza":

> Come il cardinale Müller rilegge il papa (29.3.2016)

Ma ai primi di maggio, ad "Amoris laetitia" pubblicata, egli è tornato in Spagna, prima a Madrid poi a Oviedo, non solo per presentare il suo libro, ma soprattutto per dettare una lettura dell'esortazione papale rigorosamente aderente a ciò che vi si trova scritto.

Il cardinale Müller ha tenuto il suo lungo e argomentato discorso di illustrazione della "Amoris laetitia" nel seminario di Oviedo, il 4 maggio. E in quest'altra pagina web si può leggerlo integralmente così come l'ha pronunciato, in lingua spagnola:

> ¿Qué podemos esperar de la familia?

La traduzione italiana integrale è qui:

> Che cosa possiamo aspettarci dalla famiglia?

E qui quella in inglese:

> What can we expect from the family?


Mentre qui c'è quella in lingua tedesca, pubblicata in Germania da "Die Tagespost" e corredata da una decina di note:

> Was dürfen wir von der Familie erwarten?

Qui di seguito sono invece riprodotte le parti centrale e finale del discorso.

Leggendolo, si vedrà come Müller interpreta le ambiguità della "Amoris laetitia" non come un via libera a cambiamenti della dottrina e della prassi, ma al contrario come la prova che papa Francesco non ha inteso in alcun modo rompere con la precedente disciplina, perché se davvero "avesse voluto cancellare una disciplina tanto radicata e di tanta rilevanza l'avrebbe detto con chiarezza e presentando ragioni a sostegno", cosa che non ha fatto.

Quanto all'ormai famosa nota 351, su cui fanno leva i fautori della comunione ai divorziati risposati, Müller mostra come essa non tocchi affatto il caso specifico.

E quanto al "discernimento" per esaminare se una persona è o no colpevole soggettivamente e grazie a ciò ammetterla o no alla comunione, dice:

"L'economia dei sacramenti è un'economia di segni visibili, non di disposizioni interne o di colpevolezza soggettiva. Una privatizzazione dell'economia sacramentale certamente non sarebbe cattolica".

Ma l'elemento portante dell'intero discorso è la sua architettura dottrinale e teologica. Dice il cardinale:

"Il principio di fondo è che nessuno può veramente desiderare un sacramento, quello dell'eucaristia, senza desiderare anche di vivere in accordo con gli altri sacramenti, tra cui quello del matrimonio. […] Cambiare la disciplina in questo punto concreto, ammettendo una contraddizione tra l'eucaristia e il matrimonio, significherebbe necessariamente cambiare la professione di fede della Chiesa, che insegna e realizza l'armonia tra tutti i sacramenti, tale e quale l'ha ricevuta da Gesù. Su questa fede nel matrimonio indissolubile, non come ideale lontano ma come realtà concreta, è stato versato sangue di martiri".

Colpisce che un discorso di tale portata il cardinale Müller l'abbia pronunciato non a Roma ma in Spagna e senza che abbia avuto particolare pubblicità. "L'Osservatore Romano" l'ha del tutto ignorato.

Perché agli effetti pratici il suo impatto è minimo. Come marginale, irrilevante, è ormai il ruolo del prefetto della congregazione per la dottrina della fede.

Con Francesco è cambiata infatti la forma del magistero papale.

La chiarissima "Humanae vitae" di Paolo VI fu travolta dalle fumosità di vescovi e cardinali dissenzienti.

Mentre invece la "Amoris laetitia" è vittoriosa proprio grazie alla sua calcolata vaghezza. Perché a tutti i livelli della Chiesa come nella pubblica opinione è ormai passato ciò che non vi è scritto a chiare lettere, ma è solo fatto intuire.

__________



Che cosa possiamo aspettarci dalla famiglia?

Una cultura di speranza per la famiglia, partendo dalla "Amoris laetitia"
 
di Gerhard L. Müller

 
Introduzione

[…]


1. Chiesa e famiglia: l'arca di Noè

[…]


2. L'architettura dell'arca: l'amore di Cristo vissuto nella famiglia

[…] Il papa insiste sul fatto che la pastorale matrimoniale deve essere “una pastorale del vincolo” (AL 211). Dinanzi a una pastorale emotiva, che cerchi soltanto di incoraggiare i sentimenti o accontentarsi di esperienze intimiste dell'incontro con Dio, una pastorale del vincolo è una pastorale che prepara al “sì per sempre”. La preparazione al matrimonio prende luce da qui: accompagnando le tappe del fidanzamento affinché i giovani imparino a dire "sì, voglio" e accolgano il progetto che Dio ha per loro. Coltivando il vincolo, l'amore esce da sé stesso, supera il sentimento fluttuante, diventa forte per sostenere la società ed accogliere i figli. Si tratta di dare una dimora alla famiglia, della quale il vincolo matrimoniale è la chiave di volta. Nel vincolo si supera l'individualismo degli sposi o della coppia e si crea una cultura della famiglia, un ambiente dove l'amore può fiorire, l'arca di Noè per navigare insieme nel diluvio della postmodernità liquida. Agli sposi la Chiesa garantisce che, in ogni occasione, in qualsiasi situazione si trovino, veglierà su questo vincolo, lo renderà stabile e lo proteggerà affinché resti vivo, affinché possiate sempre tornare ad esso, perché in esso sta la vostra più profonda vocazione.

Bisogna capire da qui l'insistenza di papa Francesco su quello che lui chiama "ideale cristiano". Alcuni hanno interpretato questo ideale come un obiettivo lontano, solo per pochi. Ma non è questo il pensiero di Francesco. Il papa non è platonico! Tutto il contrario, per lui il cristianesimo tocca la carne dell'uomo (cf. "Evangelii gaudium" 88, 233). Lo si vede chiaramente quando Francesco ci avverte che non dobbiamo presentare "un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono" (AL 36). Qui il papa stesso nega che l'ideale sia astratto e artificioso. 

Di che cosa ci parla allora il papa quando fa riferimento all'ideale del matrimonio? Nella Chiesa l'ideale è sempre l'ideale incarnato, perché il Verbo, il Logos, si è fatto carne e accompagna la sua vita nei sacramenti. Questa presenza viva e trasformatrice dell'amore pieno di Gesù si trova precisamente nei sacramenti, che contengono in sé l'architettura dell'arca di Noè. La "Amoris laetitia", infatti, parla in diverse occasioni del rapporto tra l'iniziazione cristiana e la vita matrimoniale (AL 84, 192, 206-207, 279) e del nesso tra eucaristia e matrimonio (AL 318). Potremmo concludere che ogni famiglia e tutta la Chiesa si fondano su questa cultura dell'amore di Gesù, che è custodita nell'economia dei sacramenti. Questi rimangono segno vivo di Cristo per generare la sua stessa vita tra gli uomini. Costituiscono l'architettura dell'arca, quell'arca le cui misure furono dettate da Dio.

Il nostro tempo, pieno di desideri liquidi, ha bisogno, come dicevo prima, di una dimora dell'amore, di una cultura dell'amore. La Chiesa promuove questa cultura dell'amore precisamente nei suoi sacramenti, che la costituiscono. Essa potrà offrire speranza agli uomini, a tutti, anche ai lontani, se si mantiene fedele a questa dimora che ha ricevuto da Dio e mentre promuove questa cultura comune dell'amore di Cristo, confessata nei segni sacramentali, che sono l'architettura della nave che ci fa approdare nel buon porto.

L'immagine dell'arca di Noè, della Chiesa che naviga e porta la speranza in mezzo al mondo, è unita al numero otto che simboleggiava sin dai primi tempi l'ottavo giorno, il giorno della risurrezione di Cristo, l'inizio del mondo futuro. In questo modo si insisteva sul fatto che la Chiesa non cammina soltanto verso una lontana pienezza, bensì che in lei questa pienezza dell'amore è già stata inaugurata. Si, è possibile vivere l'amore di cui ci parla san Paolo nel suo inno e per questo non dobbiamo aspettare la fine dei tempi. Questo amore possiamo viverlo adesso, perché la Chiesa, nei suoi sacramenti, mantiene viva ed efficace, come dono originario di Cristo, la dimora che accoglie, sostiene e dona vigore alle nostre povere forze.


3. Accogliere nell'arca i più lontani: accompagnare, discernere, integrare

Partendo da questo grande orizzonte della cultura dell'amore, possiamo affrontare una domanda alla quale il papa ha dedicato la sua attenzione nella "Amoris laetitia": come dare speranza a quanti vivono lontani e, specialmente, a quanti hanno vissuto il dramma e la ferita di una seconda unione civile dopo un divorzio? Sono quelli che, per dirla così, sono naufragati nel diluvio della postmodernità liquida e hanno dimenticato quella promessa sponsale per la quale sigillarono in Cristo un amore per sempre. Possono ritornare nell'arca di Noè, costruita sull'amore di Cristo, e sfuggire al diluvio? In tre parole il papa ci ha indicato la via per questo compito della Chiesa: accompagnare, discernere, integrare (AL 291-292). Partendo da esse si può leggere il capitolo ottavo della "Amoris laetitia". 


3.1. Accompagnare: l'arca che galleggia e naviga

Si tratta, anzitutto, di accompagnare. Questi battezzati non sono esclusi dalla Chiesa. Al contrario, la Chiesa, nuova arca di Noè, li accoglie, anche se la loro vita non corrisponde alle parole di Gesù. Questa capacità di accoglienza è descritta da sant'Agostino stabilendo una distinzione, sempre riguardo all'arca di Noè come immagine della Chiesa. In primo luogo, nell'arca non furono ammessi soltanto gli animali puri secondo la Legge. Questo significava per Agostino che la Chiesa accoglie nel suo seno giusti e peccatori sotto un medesimo tetto; che è fatta di uomini che cadono e si rialzano, che devono pronunciare, all'inizio di ogni messa: “Io confesso”. In questo modo, la Chiesa cattolica si distacca dalla visione donatista, che prospettava una "Chiesa dei puri", nella quale non c'era posto per il peccatore. Dio separerà il grano dalla zizzania soltanto alla fine dei tempi, compresa la zizzania che germoglia in ogni credente. 

Ebbene, dice sant'Agostino, tutti questi animali, puri ed impuri, passarono sotto la stessa porta ed abitarono in una stessa dimora, con le stesse pareti e lo stesso tetto. Qui il vescovo d'Ippona fa riferimento ai sacramenti, con il battesimo come porta, e con il cambiamento di vita che chiedono a quanti vogliono riceverli, abbandonando il peccato. In questa armonia tra i sacramenti e la vita visibile dei cristiani, dice sant'Agostino, la Chiesa pone davanti al mondo la testimonianza non soltanto di come visse Gesù, ma di come sono chiamati a vivere i membri del corpo di Gesù. La coerenza tra i sacramenti e il modo di vita dei cristiani assicura, dunque, che la cultura sacramentale nella quale vive la Chiesa e che essa propone al mondo resti abitabile. Soltanto così può ricevere i peccatori, accogliendoli con premura ed invitandoli a un cammino concreto affinché superino il peccato. Ciò che la Chiesa non deve mai abbandonare è l'architettura dei sacramenti, pena la perdita del dono originario che la sostiene e l'oscuramento dell'amore di Gesù e del modo con cui questo amore trasforma la vita cristiana. È proprio assimilando questa struttura sacramentale che la Chiesa evita i due modi possibili di diventare una "Chiesa dei puri", l'esclusione dei peccatori e l'esclusione del peccato.

Dunque, il primo elemento chiave per questo cammino di accompagnamento è l'armonia tra la celebrazione sacramentale e la vita cristiana. Questa è la ragione della disciplina eucaristica che la Chiesa ha mantenuto sin dalle sue origini. Grazie ad essa la Chiesa può essere una comunità che accompagna, accoglie il peccatore senza per questo benedire il peccato e così offre la base affinché sia possibile un percorso di discernimento ed integrazione. San Giovanni Paolo II confermò questa disciplina nella "Familiaris consortio" 84 e nella "Reconciliatio et poenitentia" 34; la congregazione per la dottrina della fede, a sua volta, lo affermò nel suo documento del 1994; Benedetto XVI l'approfondì nella "Sacramentum caritatis" 29. Si tratta di un insegnamento magisteriale consolidato, appoggiato sulla Scrittura e fondato su una ragione dottrinale: l'armonia salvifica dei sacramenti, cuore della "cultura del vincolo" che vive la Chiesa. 

Alcuni hanno affermato che la "Amoris laetitia" ha eliminato questa disciplina e ha permesso, almeno in alcuni casi, che i divorziati risposati possano ricevere l'eucaristia senza la necessità di trasformare il loro modo di vita secondo quanto indicato in FC 84, cioè abbandonando la nuova unione o vivendo in essa come fratello e sorella. A questo bisogna rispondere che se la "Amoris laetitia" avesse voluto cancellare una disciplina tanto radicata e di tanta rilevanza l'avrebbe detto con chiarezza e presentando ragioni a sostegno. Invece non vi è alcuna affermazione in questo senso; né il papa mette in dubbio, in nessun momento, gli argomenti presentati dai suoi predecessori, che non si basano sulla colpevolezza soggettiva di questi nostri fratelli, bensì sul loro modo visibile, oggettivo, di vita, contrario alla parole di Cristo.

Ma non si trova questa svolta – obiettano alcuni – in una nota a piè di pagina in cui si dice che, in alcuni casi, la Chiesa potrebbe offrire l'aiuto dei sacramenti a chi vive in situazione oggettiva di peccato (n. 351)? Senza entrare in un'analisi dettagliata, basta dire che questa nota fa riferimento a situazioni oggettive di peccato in generale, senza citare il caso specifico dei divorziati in nuova unione civile. La situazione di questi ultimi, effettivamente, ha caratteristiche particolari che la distinguono da altre situazioni. Questi divorziati vivono in contrasto con il sacramento del matrimonio e, dunque, con l'economia dei sacramenti, il cui centro è l'eucaristia. Questa è, infatti, la ragione richiamata dal precedente magistero per giustificare la disciplina eucaristica di FC 84; un argomento che non è presente nella nota né nel suo contesto. Ciò che afferma, dunque, la nota 351 non tocca la disciplina precedente: è sempre valida la norma di FC 84 e di SC 29 e la sua applicazione in ogni caso. 

Il principio di fondo è che nessuno può veramente desiderare un sacramento, quello dell'eucaristia, senza desiderare anche di vivere in accordo con gli altri sacramenti, tra cui quello del matrimonio. Chi vive in contrasto col vincolo matrimoniale si oppone al segno visibile del sacramento del matrimonio; in ciò che tocca la sua esistenza corporea, anche se dopo soggettivamente non fosse colpevole, egli si rende "anti-segno" dell'indissolubilità. E precisamente perché la sua vita corporea è contraria al segno, non può formare parte, ricevendo la comunione, del supremo segno eucaristico, dove si rivela l'amore incarnato di Gesù. La Chiesa, se lo ammettesse, cadrebbe in quello che san Tommaso d'Aquino chiamava la "falsità nei segni sacramentali". E non siamo dinanzi a una conclusione dottrinale eccessiva, bensì dinanzi alla base stessa della costituzione sacramentale della Chiesa, che abbiamo paragonato all'architettura dell'arca di Noè. È un'architettura che la Chiesa non può modificare perché viene da Gesù stesso; perché essa, la Chiesa, nasce da qui, e qui si appoggia per navigare nelle acque del diluvio. Cambiare la disciplina in questo punto concreto, ammettendo una contraddizione tra l'eucaristia e il matrimonio, significherebbe necessariamente cambiare la professione di fede della Chiesa, che insegna e realizza l'armonia tra tutti i sacramenti, tale e quale l'ha ricevuta da Gesù. Su questa fede nel matrimonio indissolubile, non come ideale lontano ma come realtà concreta, è stato versato sangue di martiri.

Qualcuno potrebbe insistere: non ha poca misericordia Francesco se non compie questo passo? Non è troppo chiedere a queste persone che camminino verso una vita conforme alla Parola di Gesù? Succede piuttosto il contrario. Diremmo, utilizzando l'immagine dell'arca, che Francesco, sensibile alla situazione di diluvio vissuta dal mondo attuale, ha aperto tutte le finestre possibili della nave e ci ha tutti invitati a lanciare corde dalle finestre per trarre dentro nella barca l'uomo naufrago. Ma permettere, sia pure soltanto in alcuni casi, che si dia la comunione a chi tiene visibilmente un modo di vita contrario al sacramento del matrimonio non sarebbe aprire una finestra in più, ma aprire una breccia nel fondo della nave, lasciando che vi entri il mare e mettendo in pericolo la navigazione di tutti e il servizio della Chiesa alla società. Più che una via d'integrazione sarebbe una via di disintegrazione dell'arca ecclesiale, una via d'acqua. Nel rispettare questa disciplina, quindi, non solo non si pone un limite alla capacità della Chiesa di salvare la famiglie, ma si assicura anche la stabilità della nave e la sua capacità per portarci in un buon porto. L'architettura dell'arca è necessaria proprio perché la Chiesa non permetta che nessuno si blocchi in una condizione contraria alla parola di vita eterna di Gesù, cioè, perché la Chiesa non condanni “eternamente nessuno” (cf. AL 296-297). 

Nel preservare l'architettura dell'arca si preserva, potremmo dire, la nostra casa comune che è la Chiesa, stabilita sull'amore di Gesù; si preserva la cultura o l'ambiente della famiglia, decisiva per tutta la sua pastorale familiare e il suo servizio alla società. In questo modo ritorniamo a quello che abbiamo considerato il punto centrale della speranza della Chiesa per la famiglia: la necessità di creare una cultura della famiglia, di offrire una dimora al desiderio e all'amore. Si tratta di animare una “cultura del vincolo”, parallela alla “pastorale del vincolo” di cui parla il papa; cultura che oggi, nella società postmoderna, soltanto la Chiesa cattolica genera. Qui vediamo che questa disciplina della Chiesa ha un enorme valore pastorale.

Abbiamo discusso molto in questi anni sulla possibilità di dare la comunione ai divorziati in una nuova unione civile. All'inizio della "Amoris laetitia" il papa ha ricordato alcune posizioni eccessive che sono state affacciate. Gli argomenti sono stati molti e molto vari, con il rischio di perdersi in selve intricate di casistiche. Cerchiamo per un attimo di prendere un poco di distanza e guardare la questione in prospettiva, dimenticando i dettagli. Se la Chiesa ammettesse alla comunione i divorziati che vivono in una nuova unione senza chiedere loro un cambio di vita, lasciando che continuino nella loro situazione, non dovrebbe dire semplicemente che ha accettato il divorzio in certi casi? Certamente, non lo avrà accettato per iscritto, continuerà ad affermare [l'indissolubilità] come ideale, ma non la ammette come ideale anche la nostra società? In che cosa la Chiesa sarebbe diversa allora? Potrebbe dire che è ancora fedele alle parole di Gesù, parole chiare, che allora suonarono dure? Non furono queste parole contrarie alla cultura e alla prassi del suo tempo, permissive con un divorzio caso per caso per adattarsi alla fragilità dell'uomo? In pratica, l'indissolubilità del matrimonio rimarrebbe come un bel principio, perché comunque non sarebbe confessata nell'eucaristia, il vero luogo dove si professano le verità cristiane che toccano la vita e danno forma alla testimonianza pubblica della Chiesa.

Dobbiamo chiederci: non abbiamo considerato questo problema troppo dal punto di vista dei singoli individui? Tutti possiamo capire il desiderio di accedere alla comunione di questi nostri fratelli e le difficoltà che hanno ad abbandonare la loro unione o a vivere in essa in un altro modo. Dal punto di vista di ognuna di queste storie, potremmo pensare: che cosa ci costa, in fondo, lasciare che si comunichino? Abbiamo dimenticato, mi sembra, di guardare le cose da un più ampio orizzonte, dalla Chiesa come comunione, dal suo bene comune. Perché da una parte il matrimonio ha un carattere intrinsecamente sociale. Cambiare il matrimonio per alcuni casi significa cambiarlo per tutti. Se vi sono alcuni casi in cui non è importante vivere contro il vincolo sacramentale, non bisognerebbe dire ai giovani che vogliono sposarsi che queste eccezioni valgono anche per loro? Non penetrerà poi questa idea anche anche in quelle coppie che lottano per rimanere unite ma soffrono il peso del cammino e la tentazione di abbandonare? Inoltre, da un altro lato, l'eucaristia ha anche una struttura sociale (cf. AL 185-186), non dipende soltanto dalle mie condizioni soggettive, ma anche da come mi relaziono con gli altri dentro il corpo della Chiesa, perché la Chiesa nasce dall'eucaristia. Intendere il matrimonio e l'eucaristia come atti individuali, senza prendere in considerazione il bene comune della Chiesa, finisce per dissolvere la cultura della famiglia, come se Noè, nel vedere tanti naufraghi attorno alla nave, smontasse fondo e pareti per dare a ciascuno una tavola. La Chiesa perderebbe la sua essenza comunionale, fondata nell'ontologia dei sacramenti, e diventerebbe una congerie di individui che galleggiano senza meta in balia delle onde.

In realtà, i divorziati in una nuova unione civile che si astengono dall'accostarsi all'eucaristia e camminano per poter rigenerare il loro desiderio in conformità ad essa, stanno proteggendo la dimora della Chiesa, la nostra casa comune. E anche per loro stessi è un bene mantenere intatte le pareti dell'arca, della dimora dove è contenuto il segno dell'amore di Gesù. Così la Chiesa può ricordare loro: "Non ti fermare, c'è possibilità anche per te, non sei escluso dal ritorno all'alleanza sacramentale che hai contratto, anche se ci vorrà tempo; puoi vivere, con la forza di Dio, in fedeltà ad essa". E se qualcuno dice che questo è impossibile, ricordiamo le parole della "Amoris laetitia": “Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo” (AL 102). Dunque, nessuno si senta escluso dal cammino verso la vita grande di Gesù. Il desiderio di ricevere la comunione può condurre, con l'aiuto del pastore (e qui si apre la via del discernimento) a una rigenerazione del desiderio, affinché ritroviamo in noi la sete di vivere secondo le parole del Signore.

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(apriamo una parentesi per ricordare le parole di Benedetto XVI all'incontro con le Famiglie a Milano 2 giugno 2012 e di come il pensiero sia unico, in tal senso da Benedetto, a Francesco e in Muller)

In realtà, questo problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo semplici ricette. La sofferenza è grande e possiamo solo aiutare le parrocchie, i singoli ad aiutare queste persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio. Io direi che molto importante sarebbe, naturalmente, la prevenzione, cioè approfondire fin dall’inizio l’innamoramento in una decisione profonda, maturata; inoltre, l’accompagnamento durante il matrimonio, affinché le famiglie non siano mai sole ma siano realmente accompagnate nel loro cammino. E poi, quanto a queste persone, dobbiamo dire – come lei ha detto – che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono «fuori» anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia: devono vedere che anche così vivono pienamente nella Chiesa. Forse, se non è possibile l’assoluzione nella Confessione, tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati. Poi è anche molto importante che sentano che l’Eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il Corpo di Cristo. Anche senza la ricezione «corporale» del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante. Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del Matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa. Grazie per il vostro impegno.  

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Insomma, il papa nell'esortazione ci avverte contro due deviazioni. Ci sono quelli che vogliono condannare e si accontentano di un immobilismo che non apre nuove vie affinché queste persone possano rigenerare il loro cuore. E dell'altra parte ci sono quelli che vedono la soluzione nel trovare eccezioni in diversi casi, rinunciando a rigenerare il cuore delle persone. Non sarebbe necessario elevarsi sopra tutto questo e prendere un altro punto di vista? Questo punto di vista è quello della comunione ecclesiale, quello del bene comune della Chiesa, quello di mantenere vivo nel suo centro, come cultura della famiglia, la vita stessa di Cristo che ci anima nei sacramenti. Se demoliamo la struttura dell'arca di Noè, come possiamo essere sicuri che si manterrà a galla e che non colerà a picco la speranza cristiana per tutte la famiglie?


3.2. Discernere e integrare

Dentro questa cultura della famiglia, che si poggia sull'architettura dell'arca, possiamo allora chiederci: quali sono le nuove vie che la "Amoris laetitia" ci invita ad aprire? Il papa riflette su di esse esortandoci a discernere e integrare.

Interroghiamoci anzitutto sul discernimento. Alcuni hanno interpretato che il papa, dicendo che bisogna tener più conto delle circostanze attenuanti, stia chiedendo che il discernimento si fondi su queste, come se ciò consistesse nell'esaminare se la persona è o no colpevole soggettivamente. Ma questo discernimento sarebbe alla fin fine impossibile, poiché soltanto Dio scruta i cuori. Inoltre, l'economia dei sacramenti è un'economia di segni visibili, non di disposizioni interne o di colpevolezza soggettiva. Una privatizzazione dell'economia sacramentale certamente non sarebbe cattolica. Non si tratta di discernere una mera disposizione interiore, bensì, come dice san Paolo, di "discernere il corpo" (cf. AL 185-186), le visibili relazioni concrete nelle quali viviamo.

E ciò significa che la Chiesa non ci lascia da soli dinanzi a questo discernimento. Il testo della "Amoris laetitia" ci indica i criteri chiave per arrivarne a capo. Il primo consiste nella meta che si vuole nel discernere. È la meta che la Chiesa annuncia per tutti, in qualsiasi caso e situazione, e che non deve essere taciuta per rispetto umano né per paura di scontrarsi con la mentalità del mondo, come ricorda il papa (AL 307). Consiste nel tornare alla fedeltà del vincolo matrimoniale, rientrando così di nuovo in quella dimora o arca che la misericordia di Dio ha offerto all'amore e al desiderio dell'uomo. Tutto il processo si indirizza, passo dopo passo, con pazienza e misericordia, a rinascere e a guarire la ferita della quale soffrono questi fratelli, che non è il fallimento del matrimonio precedente, bensì la nuova unione stabilita.

Il discernimento è necessario, quindi, non per scegliere la meta, ma per scegliere il cammino. Avendo chiaramente in mente dove vogliamo portare la persona (la vita piena che Gesù ci ha promesso) si possono discernere le vie affinché ognuno, nel suo caso particolare, possa arrivare li. E qui entra, come secondo criterio, la logica dei piccoli passi di crescita, dei quali anche il papa parla (AL 305). La chiave è che questi divorziati rinuncino a stabilirsi nella loro situazione, che non facciamo pace con la nuova unione nella quale vivono, che siano pronti ad illuminarla alla luce delle parole di Gesù. Tutto ciò che porti ad abbandonare questo modo di vivere è un piccolo passo di crescita che bisogna promuovere e animare. 

Veramente, chi desidera cibarsi di Gesù nell'eucaristia avrà anche il desiderio, usando l'immagine biblica, di cibarsi delle sue parole, di assimilarle nella sua vita. O meglio, come dice Sant'Agostino, avrà il desiderio di essere assimilato ad esse. Perché non è Gesù che si adegua al nostro desiderio, ma è il nostro desiderio che è chiamato a conformarsi a Gesù, per trovare in lui la sua piena realizzazione.
 
Da qui possiamo passare alla terza parola, "integrare", ed esaminare le nuove vie che la "Amoris laetitia" apre per i divorziati in una nuova unione. Il papa ci chiede, seguendo il sinodo, di sviluppare un percorso che deve essere realizzato in ogni diocesi sotto la guida del vescovo e secondo l'insegnamento della Chiesa (AL 300). Questo dovrebbe farsi, se possibile, con una équipe di pastori qualificati ed esperti.

È essenziale che nel percorso si annunci la parola di Dio, specialmente in ciò che riguarda il matrimonio (AL 297). Così, questi battezzati faranno man mano luce su questa seconda unione che hanno iniziato e nella quale vivono. Si aprirebbe qui anche la possibilità di rivedere un'eventuale nullità del matrimonio sacramentale, secondo le nuove norme emanate dal papa.

In questo cammino troviamo anche un'altra novità, aperta dal Papa nella "Amoris laetitia". Senza cambiare la normativa canonica generale, il papa ammette che possano esservi eccezioni riguardo all'assunzione da parte di questi divorziati di alcune cariche pubbliche ecclesiali. Il criterio è, come ho indicato prima, il cammino di crescita concreta della persona verso la guarigione.

Lungo tutto questo percorso è bene ricordare che i sacramenti non sono soltanto una celebrazione puntuale, bensì un cammino: chi inizia a muoversi verso la penitenza si trova già in un processo sacramentale, non è escluso dalla struttura sacramentale della Chiesa, già riceve in un certo modo l'aiuto dei sacramenti. Di nuovo, l'importante è essere disponibili a lasciarsi trasformare da Gesù, anche se si sa che il cammino sarà lungo, e a lasciarsi accompagnare in questo cammino. Ciò che muove il pastore è il desiderio di introdurre la persona nella cultura del vincolo, offrendo una dimora al suo desiderio, affinché possa rigenerarsi secondo le parole del Signore.

Il papa ci invita a intraprendere un percorso; questa è la chiave. La comunione eucaristica sarà nell'orizzonte finale e arriverà nel momento voluto da Dio, poiché è Lui che agisce nella vita dei battezzati, aiutandoli a rigenerare i loro desideri in conformità al Vangelo. Iniziamo passo per passo, aiutandoli a partecipare alla vita della Chiesa, finché raggiungano “la pienezza del piano di Dio in loro” (AL 297).

Concludo. Nelle acque della postmodernità liquida, la Chiesa può offrire una speranza a tutte la famiglie e a tutta la società, come l'arca di Noè. Essa riconosce la debolezza e la necessità di conversione dei suoi membri. Appunto per questo è chiamata a mantenere, nel medesimo tempo, la concreta presenza in essa dell'amore di Gesù, vivo ed efficace nei sacramenti, che danno all'arca la sua struttura e dinamismo, facendola capace di solcare le acque. La chiave è sviluppare, e la sfida non è piccola, una “cultura ecclesiale della famiglia” che sia “cultura del vincolo sacramentale”. 

San Giovanni Crisostomo dice che l'arca di Noè si differenzia dalla Chiesa in un dettaglio importante. L'antica arca accolse nel suo seno gli animali irrazionali, "alogos", e li ha  mantenuti sempre irrazionali. La Chiesa, invece, riceve anche l'uomo che, a causa del peccato, ha perso il Logos, la ragione, ed è pertanto "irrazionale", cammina senza la luce dell'amore. Ma precisamente perché la Chiesa ha l'ambiente vitale del corpo di Cristo, perché preserva l'armonia dei sacramenti, essa, a differenza dell'arca di Noè, è capace di rigenerare l'uomo, di conformare il cuore umano al Verbo (Logos) di Gesù. In essa gli uomini entrano "irrazionali" ed escono "razionali", cioè pronti a vivere secondo la luce di Cristo, secondo il suo amore che "tutto spera" e "che dura per sempre".


(Traduzione dall'originale spagnolo di Helena Faccia Serrano, Alcalá de Henares, España).

 


[Modificato da Caterina63 16/05/2016 15:09]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il cardinale Muller
 

Intervista esclusiva al mensile Il Timone del cardinale Gerard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: «Non mi piace, non è corretto che tanti vescovi stiano interpretando Amoris Laetitia secondo il loro proprio modo di intendere l’insegnamento del Papa: «Non si può dire che ci sono circostanze per cui un adulterio non costituisce peccato mortale».

di Riccardo Cascioli

«La Amoris Laetitia va interpretata alla luce di tutta la dottrina della Chiesa…. Non mi piace, non è corretto che tanti vescovi stiano interpretando Amoris Laetitia secondo il loro proprio modo di intendere l’insegnamento del Papa. Questo non va nella linea della dottrina cattolica». Sono le chiare affermazioni del cardinale Gerard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in una lunga intervista rilasciata al mensile Il Timone. 

Nell’intervista, che appare nel numero di febbraio da oggi acquistabile e immediatamente disponibile sul sito della rivista (un numero 3 euro, abbonamento annuale 28 euro), il cardinale Müller esclude la possibilità della comunione per i divorziati risposati: «Non si può dire che ci sono circostanze per cui un adulterio non costituisce peccato mortale». Mancanza di misericordia? Niente affatto: «Noi siamo chiamati ad aiutare le persone, poco a poco, per raggiungere la pienezza nel loro rapporto con Dio, ma non possiamo fare sconti», afferma Müller. E i vescovi – con codazzo di giornalisti adulanti - che indicano ormai possibile la comunione ai divorziati risposati? «A tutti questi che parlano troppo – è la risposta del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – raccomando di studiare prima la dottrina sul papato e sull’episcopato nei due concili vaticani, senza dimenticare la dottrina sui sette sacramenti».

La lunga intervista, che tocca molti temi inerenti la dottrina cattolica, arriva come una doccia fredda sugli entusiasmi di quegli osservatori che consideravano le ormai famose dichiarazioni del cardinale Müller al TgCom24 (clicca qui) come il distacco definitivo del prefetto dalle posizioni dei quattro cardinali che hanno firmato i Dubia. Al contrario, le articolate risposte di Müller suonano come una risposta positiva ai Dubia, un contributo alla chiarezza così come i quattro chiedono.

Ai sopra citati vescovi, teologi e giornalisti, non piacerà neanche la parte in cui il il cardinale Müller spazza via il politicamente corretto in tema di ecumenismo. «La riforma protestante – ha osservato Müller – non deve essere semplicemente intesa come una riforma da alcuni abusi morali, ma bisogna riconoscere che andava a incidere sul nucleo del concetto cattolico di Rivelazione». «Si può sempre riformare la vita morale, le nostre istituzioni, università, strutture pastorali; è necessario anche sbarazzarsi di una certa “mondanizzazione” della Chiesa». 

La cover di MullerAl proposito Müller afferma che «ci sono errori dogmatici fra i riformatori che noi mai possiamo accettare. Con i protestanti il problema non sta solo nel numero dei Sacramenti, ma anche nel loro significato». Müller ha poi messo in guardia, per quel che riguarda l’ecumenismo, dal relativismo e dall’indifferenza verso i temi dottrinali: «Per cercare l’unità non possiamo accettare di “regalare” due o tre sacramenti, o accettare che il Papa sia una specie di presidente delle diverse confessioni cristiane», ha detto.

Tutti questi temi sono maggiormente approfonditi nell’intervista, che tocca molti altri punti interessanti. Di sicuro il cardinale Müller ha voluto lanciare un avvertimento a chi crede di poter liquidare facilmente la dottrina (che altro non è che il contenuto della Rivelazione di Gesù) pensando così di andare incontro alle esigenze dell’uomo moderno. «Senza dottrina non c’è Chiesa», titola in copertina Il Timone sintetizzando le parole del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Non si può immaginare nulla di più ecclesialmente scorretto.

 

IL LIBRO
 

È uscito ieri in Germania il nuovo libro del Prefetto della Congregazione della Fede, il card. Gerhrard Ludwig Müller, intitolato Il Papa – Missione e Mandato. Non è solo un libro di storia, ma è anche autobiografico ed è un importante intervento nel dibattito sul matrimonio e l'eucarestia, generato da Amoris Laetitia.

di Marco Tosatti
La copertina

Ieri, 20 febbraio, in Germania è uscito per i tipi della Herder Verlag il nuovo libro del Prefetto della Congregazione della Fede, il card. Gerhrard Ludwig Müller, intitolato Der Papst – Sendung und Auftrag (Il Papa – Missione e Mandato). In più di 600 pagine il porporato offre un accurato esame del ruolo e della figura del pontefice, sin dai primordi dell’era cristiana. Le origini, il suo sviluppo dai tempi degli Apostoli, la sua missione, la relazione con l’episcopato cattolico, la sua autorità magisteriale, l’infallibilità e altri aspetti ancora.

Un’ampia parte dell’opera è dedicata a un excursus biografico del cardinale stesso, in particolare al suo rapporto con i sette pontefici nel regno dei quali ha vissuto sino ad ora. In questo capitolo, una sezione di cinque pagine (100-105) è dedicata al pontificato in corso; non è esaustiva, nel senso che più avanti nell’opera verranno trattati con cura due documenti papali, la Evangeli Gaudium e la Laudato Sì.

La prefazione dell’opera porta la data del 22 febbraio 2016; ma Maike Hickson, di OnePeterFive, afferma, dopo aver sentito il dott. Stephan Weber, della Herder Verlag, che il testo è stato completato alla fine dell’estate-inizio dell’autunno dell’anno scorso. Cioè quando il dibattito sulle contrastanti interpretazioni dell’Amoris Laetitia (pubblicata l’8 aprile) erano già in pieno corso. Müller ricorda il suo contributo al Sinodo dei Vescovi che in due momenti successivi ha trattato del problema della Famiglia. Appare chiaro che fare opera di memoria adesso su quei temi in questi giorni acquista un’attualità dirompente.

Il cardinale ricorda che il matrimonio “non è puramente un ideale umano”, ma “una realtà indistruttibile creata da Dio”. Il legame matrimoniale, secondo il Prefetto, è analogo al legame che esiste fra Cristo e la Sua Chiesa. Cita i benefici del matrimonio, secondo Sant’Agostino (bonum fidei, bonum prolis et bonum sacramenti) e afferma che il senso più completo del matrimonio è “la santificazione degli sposi nel loro cammino comune fino alla vita eterna con Dio”. 

Il matrimonio, spiega Müller, viene ad esistere per virtù di una consacrazione, e fa sì che vi sia una partecipazione alla nuova creazione, al Regno di Dio. Ecco perché il matrimonio è qualcosa di diverso dalla semplice benedizione di persone. L’indissolubilità del matrimonio sacramentale e gli altri benefici del matrimonio sono essenziali, e inerenti a questa consacrazione.

Fatta questa premessa, il cardinale ricorda che neanche la più alta autorità ecclesiale non può intervenire “nella sostanza di un sacramento”. La Chiesa ha preferito, e anche ora preferisce, andare incontro a severe difficoltà piuttosto che sciogliere anche un solo matrimonio valido sacramentalmente, sia nel caso di dispute con i governanti, o con l’opinione pubblica prevalente (per esempio lo scisma della Chiesa cattolica inglese da Roma al tempo di Enrico VIII). La Chiesa, ricorda il porporato, deve obbedire a Dio più che agli uomini, e non può sacrificare la Verità o il Vangelo, che supera la mera ragione naturale, al puro calcolo umano.

Il Prefetto della Fede parla poi della debolezza umana, che resta anche dopo il battesimo, e in particolare della concupiscenza; che non può essere usata come pretesto per relativizzare i Comandamenti divini, e il dovere di vivere una vita cristiana in base ai sacramenti. E’ una dottrina cattolica irreversibile: l’uomo, giustificato da Cristo può, con l’aiuto della Grazia, adempiere ai comandi del Decalogo e alle richieste etiche dei sacramenti.

Come tutti i cristiani, le persone sposate devono vivere una vita alla luce della Croce, portare lealmente ciascuno la sua croce personale, “da cui nessuno è esente, di fronte alle molteplici sfide della nostra vita mortale”. Con un riferimento indiretto ad Amoris Laetitia M?ller afferma: “La misericordia di Dio non può essere interpretata come un’ignoranza del peccato, o, qui in particolare, come un permesso per un secondo legame di tipo matrimoniale quando secondo gli standard umani la vita matrimoniale è diventata insopportabile o fastidiosa”.

Stiamo assistendo in queste settimane a contrastanti interpretazioni dell’Amoris Laetitia, alcune delle quali aprono la strada ai sacramenti a persone il cui primo legame sacramentale è ancora valido. E’ forse anche alla luce di questa situazione che il Prefetto della Fede ha scritto: “La Chiesa deve restare fedele alla parola di Dio nella Scrittura e nella Tradizione e nell’interpretazione cogente del Magistero – altrimenti si renderà colpevole riguardo alla salvezza delle anime. In Cristo – il Maestro della Verità e il Buon Pastore – l’insegnamento e la vita della Sua Chiesa sono inseparabili”.

E aggiunge: “Se la Chiesa dovesse offrire i sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucarestia solo allo scopo di non disturbare il sentimento di inclusione – senza indicare gli ostacoli oggettivi e insuperabili per la ricezione dei sacramenti – darebbe alla gente una falsa sensazione di una salvezza essenzialmente certa… Il sacramento della Riconciliazione non è qui per condurre le persone fuori della loro consapevolezza del peccato, ma piuttosto per risvegliare in loro il pentimento e la risoluzione a modificare la propria vita, così che, nell’assoluzione, il peccato è realmente cancellato”. 

Per quanto riguarda il Magistero, in un altro punto del libro ricorda che anche il Papa può sbagliare, per esempio se manca di insegnare la fede. Un papa non può cambiare “i criteri inerenti di ammissione ai sacramenti”, e “dare l’assoluzione sacramentale e permettere la Santa Comunione per un cattolico che è in stato di peccato mortale senza pentimento o la ferma risoluzione di evitare d’ora in poi quel peccato, senza di conseguenza peccare egli stesso in relazione alla verità del Vangelo e alla salvezza di quei fedeli che sono così condotti nell’errore”.

Müller ricorda Pio XII come il papa della sua fanciullezza. La famiglia del cardinale, profondamente cattolica e anti hitleriana, ha formato “dolcemente” i quattro figli (due maschi e due femmine) alla religione. Müller ha parole di gratitudine per i sacerdoti che lo formarono da bambino, e per il vescovo della sua città, Magonza. Sin da allora gli fu insegnato a distinguere fra la figura e il ruolo del papa, come San Pietro e i suoi successori, e il papa come persona, che può commettere errori e avere debolezze. Durante il pontificato di Giovanni XXIII lesse per la prima volta Henri de Lubac SJ, che lo aiutò a “trovare la mia strada fra l’opposizione distruttiva fra l’integralismo e il modernismo”, che definisce “entrambi ideologici, distruttivi e sterili”, analoghi a una forma di auto salvezza gnostica. Un capitolo particolare è dedicato al ruolo che ha avuto nella sua formazione il  cardinale Karl Lehmann, che è stato suo docente per tredici anni e la sua guida nell’Abilitazione post-dottorale. 

Sono noti i rapporti teologici di Müller con il teologo della Liberazione Gustavo Gutierrez. Egli stesso indica poi nel libro le persone che hanno contribuito a formare il suo pensiero: Erich Przywara (1889–1972); Gustav Siewerth (1903–1963); Karl Rahner (1904–1984); Hans Urs von Balthasar (1905–1988); Jean Daniélou (1905–1974); Henri de Lubac (1896–1991); Yves Congar (1904–1995); and Louis Bouyer (1913–2004). Durante il pontificato di Benedetto XVI Müller ha collaborato con il Papa emerito per raccogliere ed editare l’Opera Omnia di Ratzinger, che descrive come “Uno dei grandissimi teologi sulla Cattedra di Pietro”.




[Modificato da Caterina63 21/02/2017 08:21]
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06/03/2017 10:50
 
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Ascoltare la Parola di Dio – vedere il mondo alla luce della fede


Conferenza tenuta presso la Pontificia Università Gregoriana il 18 novembre 2015 in occasione del 50° anniversario della promulgazione della 
Costituzione Dogmatica Dei Verbum

Gerhard Card. Müller

 

1. La Dei Verbum e la ricezione del Concilio

Eminenze, Eccellenze, egregio Signor Rettore, Signor Decano, Signore e Signori!

Ringrazio la Facoltà Teologica della Pontificia Università Gregoriana per aver accolto lʼiniziativa della Congregazione per la Dottrina della Fede, organizzando questo congresso.

Esso sʼinserisce in una serie di eventi internazionali molto diversi tra loro, che, a partire dal50° anniversario dell'inizio del Concilio Vaticano II, celebrato nel 2012, hanno voluto ricordare il Concilio più recente della Chiesa, approfondendone la conoscenza. Cinque decenni dopo questa grande assemblea della Chiesa, grazie a convegni e simposi, siamo riusciti a riscoprire il Concilio stesso. Sicuramente vi ricordate delle raccomandazioni pronunciate da Benedetto XVI durante lʼultimo grande incontro con il clero della diocesi di Roma il 14 febbraio 2013, dove egli – attingendo alla ricchezza della sua vita e del suo lavoro teologico e parlando a braccio – tracciò le grandi linee del Concilio, incoraggiandoci a riscoprire il Concilio dei Padri, il Concilio della Chiesa e a non confondere il “concilio dei media” con il Concilio vero.

Negli ultimi cinquantʼanni tante cose, che non avevano niente a che fare con il Concilio, vennero confuse con esso, lette in chiave selettiva e interpretate, mentre per lʼermeneutica si scelsero criteri non inerenti al Concilio stesso. Alcuni brani e documenti isolati furono favoriti e citati, altri invece silenziosamente ignorati.

Avvenne tra lʼaltro, che lʼideale teorico-scientifico di un testo stilisticamente e intellettualmente uniforme di un singolo autore, fu più considerato rispetto al risultato di un lungo, spesso faticoso, ma comune sforzo del Concilio, il quale non deve cercare soltanto una comunicazione sincronica, ma vuole collocarsi anche diacronicamente allʼinterno della corrente della tradizione. Testi conciliari che portano sempre anche lʼimpronta di questo sforzo, esito di vari correnti e sviluppi, vennero diffamati da alcuni teologi come “compromessi della disonestà reciproca”, nati – così si sostenne – da una sorta di “commercio” tra le forze conservatrici e progressiste, che avrebbero tradito lo “spirito” di ciò che era invece voluto dai Padri conciliari. Questo verdetto venne emesso soprattutto in merito alla Costituzione sulla divina Rivelazione, che oggi si colloca al centro della nostra riflessione. E in verdetti del genere dilagava unʼermeneutica sbagliata e fatale.

In questo contesto vorrei ricordare unʼindicazione utile, offerta nellʼimmediato post-Concilio da Joseph Pascher, studioso della liturgia e teologo conciliare. Egli disse: “Per quanto sia interessante lo spirito di coloro che presero parte al Concilio, il ricorso a questo spirito rimane nebuloso e mancherebbe di autentico rilievo persino se fosse illuminato dallʼanalisi statistica o dallʼanalisi dellʼopinione. Lo spirito di questi uomini acquista significato teologico soltanto per il fatto di essere confluito nelle decisioni conciliari.“[ii]

Nel corso degli ultimi anni, in cui i giubilei della promulgazione dei singoli documenti conciliari hanno ricalcato la via del Concilio, tante cose si sono chiarite. Il Concilio intero e tutti suoi documenti fanno parte di questa autorità dottrinale, anche se con un carattere vincolante e dogmatico diverso. Ma negli ultimi anni si è anche visto come testi che ai tempi del Concilio rivestivano forse unʼattualità e una modernità maggiore rispetto ad altri – in modo da venire spesso usati per sostenere lʼ“ermeneutica della rottura“[iii] –, abbiano a volte perso splendore a causa delle mutate condizioni dei tempi, mentre altri documenti, considerati difficili, abbiano potuto acquistare importanza. La Dei Verbum sʼinserisce indubbiamente nella schiera di questi testi complessi ed esigenti. Questo documento porta ancora, e in modo assai evidente, le tracce del lungo dibattito nato attorno allʼacquisizione della Costituzione De fontibus Revelationis, come suonava il titolo originale. In questa sede non vogliamo soffermarci sui dettagli in merito – basti pensare agli sforzi intrapresi per arrivare a questo testo, che hanno plasmato tutto il Concilio. Forse fu proprio la drammaticità di questa maturazione a fare della Dei Verbum uno dei documenti conciliari più attuali.

Il Concilio Vaticano II viene spesso chiamato “Concilio sulla Chiesa”[iv]. Questo termine però, è corretto soltanto se consideriamo anche il modo in cui il Concilio parla della Chiesa. Il “primo frutto del Concilio”[v], la Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia, promulgata nel 1963 dopo un solo anno di consultazioni, descrive la Chiesa come luogo dellʼadorazione del vero Dio; anzi, la sua natura e il suo compito sta proprio nellʼassumere quella posizione adorante che onora Dio soltanto, coinvolgendo gli uomini in questo vero culto divino. Solo sotto questo aspetto la Chiesa è potuta essere oggetto del Concilio.[vi]

La genesi della Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina Rivelazione cominciò nellʼautunno del 1962, per poi protrarsi fino alla VIII sessione pubblica del 18 novembre 1965. La Costituzione sulla divina Rivelazione, già nelle sue parole introduttive, caratterizza la Chiesa programmaticamente come Chiesa che ascolta, come Chiesa in religioso ascolto della parola di Dio: “Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans…”. Commentando la Dei Verbum, Joseph Ratzinger afferma: “Il proemio (…) è una delle parti più riuscite del testo: la supremazia della Parola di Dio, il suo essere collocata distintamente al di sopra di ogni discorso degli uomini, di ogni agire della Chiesa, emerge in modo molto chiaro. La Chiesa stessa viene rappresentata nel doppio gesto dellʼascolto e della predicazione. (…) E se talvolta è potuto sembrare che il Concilio tendesse allʼautoriflessione ecclesiastica, nella quale la Chiesa gira esclusivamente su di sé, diventando proprio lei lʼoggetto centrale del suo stesso annuncio, invece di rimandare continuamente oltre se stessa, qui vediamo come lʼintera esistenza della Chiesa si apre per così dire verso lʼalto, con tutto il suo essere raccolto nel gesto dellʼascolto, che può essere la sola fonte della sua predicazione”.[vii] Anche cinquantʼanni dopo la Dei Verbum, questa visione può essere approvata senza riserve. Lʼorientamento della Chiesa verso la Parola di Dio ha fatto sì che la Dei Verbum sia divenuta un documento ecclesiologico chiave del Concilio Vaticano II.

Quale fu lʼimpatto che questa importante Costituzione ebbe negli anni successivi?

2. Alcuni momenti dellʼimpatto della Dei Verbum nella storia

Cinquantʼanni dopo, possiamo affermare senza esitazione che la Dei Verbum ebbe un impatto davvero positivo. Vorrei soffermarmi su cinque momenti che, nonostante siano ormai considerati dimensioni ovvie della dottrina della Chiesa, in verità devono la loro indiscussa presenza nella Chiesa di oggi, in gran parte proprio alla Costituzione sulla divina Rivelazione.

a. Rivelazione come “illuminazione” tramite Dio – la fede come luce

Oggi è comunemente accettato che il pensiero personalista, nella forma sviluppata soprattutto da Martin Buber e Ferdinand Ebner, poté influire anche sulla Dei Verbum. Questo influsso emerge in modo particolarmente convincente dal paragone, elaborato da René Latourelle, tra le rispettive affermazioni sulla Rivelazione, fatte dai Concili Vaticani I e II.[viii] Sono tante le formulazioni felici con cui la Dei Verbum mostra lʼevento della Rivelazione come un agire di Dio nel mondo, come un dialogare del Padre con il suo popolo e cioè – nella variante cristologica – come una conversazione tra lo sposo e la sua sposa. In tante affermazioni della Costituzione ritroviamo la convinzione della Chiesa che Dio stesso crea lʼaccesso alla sua vita; che proprio Colui che ha creato lʼuomo, tramite il dono della Torah e mediante lʼaver mandato la “Torah in persona”[ix] e cioè il logos in persona, illumina la ragione umana in modo che essa possa cercare Dio e riconoscerLo come tale. Non siamo noi a deporre in Dio qualcosa che riteniamo importante, al punto di “divinizzarlo” – come sostiene la teoria ottocentesca della “proiezione” [di Feuerbach, N.d.T.] – ma Dio stesso è il Creatore della Rivelazione.

Questa certezza attraversa la Dei Verbum come un filo rosso – non perché lʼuomo potesse riconoscere Dio da sé, ma perché Dio si è manifestato nella storia e lʼuomo è in grado di percepire questa comunicazione.

Il concetto che la Dei Verbum ha della Rivelazione rimanda – al num. 3 – alla storia del popolo di Dio come luogo dove Dio parla agli uomini, “ammaestrandoli”. Dalla prospettiva odierna può sembrare deplorevole che questo brano, in cui la Costituzione offre una sorta di teologia cristiana dellʼAntico Testamento, abbia “accorciato” la storia trascorsa tra la Creazione del mondo e la comparsa di Gesù in modo tale che alcune tappe essenziali – come per esempio il dono dei 10 Comandamenti sul monte Sinai – vengono appena accennate. Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 [lʼautore si riferisce allʼedizione tedesca, N.d.T.] ha risposto a questa mancanza citando, alla voce sulla Rivelazione, ampi stralci della Dei Verbum – ma soffermandosi anche sul divenire del popolo di Israele, sullʼAlleanza stretta sul monte Sinai, nonché sullʼimportante contributo offerto da donne sante come Sara, Rebecca, Rachel, Miriam, Debora e Hannah – per poi riprendere il filo della Dei Verbum, parlando della Rivelazione in Gesù Cristo e citando, al num. 4, le famose parole iniziali della Lettera agli Ebrei: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente,in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio (Ebr 1,1-2)“.

In questo articolo, il parlare di Dio viene poi affiancato dalla significativa metafora della luce, e cioè – da parte degli uomini – dal vedere. La Costituzione sulla divina Rivelazione chiama Cristo il “Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini”, e dopo la citazione del Vangelo di Giovanni, la Dei Verbum constata: chi ha visto Gesù ha visto il Padre (cfr. Gv 14,9). Con ciò si vuole affermare che la fede è conoscenza, consapevolezza. Ella è, per così dire, luminosa, splendente – e non una miscela di luce e buio. È chiara e non confusa, in modo da essere aperta alla ragione e cioè letteralmente “evidente”. Questo concetto corrisponde a quanto esposto prima: la Rivelazione non è un’arbitraria comunicazione divina, avvenuta in un determinato luogo del mondo e in un determinato tempo, privando altri popoli e culture di questo privilegio. Ella è re-velatio, nel senso che tira via un velo, qualcosa che oscura, conducendoci a una conoscenza del mondo. Il num. 3 alludeva, come abbiamo già detto, al motivo patristico della paideia di Dio.

Per descrivere questo processo possiamo ricorrere al termine “illuminismo”, termine ingiustamente “confiscato” dal razionalismo e usato contro il cristianesimo. In un certo senso, la Rivelazione è “illuminismo tramite Dio”, che, nel lungo processo riportato dalla Sacra Scrittura, attraverso una lunga catena di generazioni di fedeli e tramite la raccolta di conoscenze nell’ambiente di un semplice popolo, purificò le religioni, esortandoli al culto spirituale: logike latreia (cfr. Rm 12,1).

Che si tratti davvero di unʼ“illuminismo”, un uscire fuori dallʼoscurità, è descritto in tanti passi della Sacra Scrittura: il Libro dei Numeri racconta come il profeta Baalam vide una “stella spuntare da Giacobbe” (Num 24,17). Quest’ immagine veterotestamentaria ritorna nel racconto di Matteo sui Magi, i quali nella loro ricerca vengono guidati dalla stella, dalla luce di Betlemme. Alla fine, i discepoli di Gesù non saranno solo chiamati “sale della terra”, “città sul Monte”, ma anche “luce del mondo” (Mt 5,13 s.). Nel Vangelo di Giovanni, la promessa di Gesù suona così: “Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita“ (Gv 8,12), perché Egli stesso è “la luce del mondo” (Gv 8,12).

Essendo molto di più di una figura retorica, questa metafora ha trovato ampio riflesso nella liturgia della Chiesa: essa rispecchia lʼesperienza dei credenti di tutti i secoli. Coloro che pregano si volgono verso oriente, perché è da lì che aspettano il Signore, la vera luce: lux ex oriente. E se la celebrazione della Notte Santa è tutta incentrata sul pensiero della luce, non è per sentimentalismo, ma perché questo carattere illuminista e illuminante della rivelazione biblica è stato percepito in modo particolare dagli uomini appartenenti alle culture e alle religioni pre-cristiane, che spesso giocavano con la penombra, con ciò che è soffuso.

A questo punto bisogna forse accennare al fatto che la Dei Verbum ha avuto lʼaccortezza di elencare tra i tre modi in cui si attua la Rivelazione, non solo la dottrina e la vita della Chiesa, ma anche la liturgia: “Così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede“ (num. 8). La liturgia non è un lusso che la Chiesa si permette, finalizzato alla sua autorappresentazione, in modo da poterla plasmare a nostro piacimento, secondo le sole leggi della plausibilità e dellʼattrattiva. Anzi, la liturgia è un locus theologicus, in cui il popolo rende presente la dimensione indescrivibile della fedeltà e della presenza di Dio, al di là di quanto possa essere contenuto in una dottrina.[x] La pratica della fede, espressa nella liturgia, precede – anche storicamente – la ponderata professione di fede e ha dunque anche una certa rilevanza per la conoscenza della fede.[xi]

b. Lʼunità della Rivelazione nella Creazione e nella storia

Vorrei soffermarmi – almeno brevemente – su un secondo aspetto della teologia della Rivelazione della Dei Verbum, che descrive nellʼintero primo capitolo Iʼagire rivelatore di Dio in un’ampia visione storico-salvifica e, assumendo i migliori elementi del pensiero personalista e dialogico, supera una comprensione puramente intellettualistica della Rivelazione. Ciò che nelle poche voci del capitolo I viene sviluppato come termine della Rivelazione storico-personale, è oggi parte scontata del nucleo della teologia cattolica. Lʼunità intrinseca, nella Rivelazione e nella Creazione, dellʼ“agire divino determinato dal logos“[xii], come si afferma al num. 3 della Dei Verbum, riesce a superare definitivamente lʼestrinsecismo teologico-rivelatore. La più recente risonanza di questa visione si trova nellʼenciclica Laudato si‘ di Papa Francesco, dove egli insiste sul legame intrinseco che esiste tra natura e Rivelazione, tra Creazione e redenzione.[xiii]

c. La Scrittura come “anima della teologia”

Unʼaltra acquisizione della Dei Verbum è aver fatto sì che, nellʼambito della teologia cattolica, alla critica biblica moderna fosse accordato uno spazio legittimo che va oltre la mera accettazione dello sviluppo della teologia scientifica. Unʼacquisizione questa che risponde alla più intima natura della fede, che è una storia basata su un factum historicum. In questo modo, si è reso possibile proseguire la via imboccata da Pio XII con lʼenciclica Divino afflante Spiritu (1943), mettendo lo studio e lʼinterpretazione della Sacra Scrittura di nuovo al centro della teologia. Come afferma la Dei Verbum in accordo con Leone XIII, lo studio della Scrittura deve diventare di nuovo lʼ“anima della teologia”[xiv], conferendo forza e vivacità alla predicazione e alla catechesi. Allo stesso modo, la Costituzione sulla divina Rivelazione Dei Verbum documenta come il riconoscimento dellʼesegesi storico-critica sia stato possibile soltanto nellʼambito dellʼesegesi storico-critica della nuova idea del termine “rivelazione”.[xv]In una sorta di ricezione inter-conciliare, questo obiettivo poté già affluire nel Decreto sulla formazione sacerdotale, Optatam totius (art. 16).

Guardando agli anni passati, possiamo constatare con gratitudine che quanto auspicato dalla Dei Verbum si è spesso realizzato. Lʼesegesi, laddove essa, nellʼambito e nel servizio della Chiesa, venga esercitata come interpretazione della Scrittura, non è riuscita soltanto a legare la teologia e la liturgia in modo più forte alle loro origini, rendendo il loro linguaggio più fresco e vivace. Ella ha anche reso accessibile a tanti fedeli la ricchezza della Sacra Scrittura, lʼumanità della Parola di Dio e la figura che essa ha preso nella storia, in modo che i fedeli venissero rinvigoriti e messi nella posizione di vivere nel nostro tempo e affrontare, con più determinazione, le tante domande poste alla fede.

d. Lʼunità della Scrittura

Infine – e questo è il quarto effetto che vorrei menzionare – la Dei Verbum ha messo nuovamente in evidenza la consapevolezza dellʼunità intrinseca della Sacra Scrittura composta da Antico e Nuovo Testamento. Il concetto dellʼunica storia della salvezza, come viene sviluppato nel proemio e nel capitolo I della Costituzione, ne ha fornito la cornice. Tutto lo sviluppo che risulta da questo può essere letto come espressione della parola di santʼAgostino, citata al num. 16: Novum Testamentum in Vetere latet et in Novo Vetus patet – “Il Nuovo Testamento è nascosto nellʼAntico, mentre lʼAntico è svelato nel Nuovo.”[xvi] Questa via indicata dal Concilio venne seguita anche dalla Pontificia Commissione Biblica, con la pronta promulgazione di importanti documenti: Lʼinterpretazione della Bibbia nella Chiesa“ nel 1993, nel 2001 fu la volta del testo cruciale Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana[xvii], per poi completare la tematica nel 2014 con un altro documento della stessa Commissione, Lʼispirazione e la verità della Bibbia. Ma la teologia della Rivelazione fu affermata anche da uno dei più importanti documenti magisteriali post-conciliari: il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992 da Giovanni Paolo II.

Se pensiamo che oggi, allʼinterno della teologia protestante, esistano – seppure sporadicamente e in modo isolato, ma comunque cosciente – nuovi tentativi assurdi di sciogliere lʼunità della Scrittura composta da Antico e Nuovo Testamento, disconoscendo – facendo diretto appello a Harnack (e cioè in fin dei conti a Marcione) – allʼAntico Testamento la dignità canonica, allora ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati ad avere la Costituzione sulla divina Rivelazione, la quale non solo ci dà una base sicura, ma fornisce anche un orientamento affidabile per lʼecclesiologia e per lʼesegesi, per il nostro rapporto con il giudaismo e le altre religioni.

e. La Rivelazione come misericordia

Prima di soffermarmi, nellʼultima parte, sulle sfide legate allʼodierna ricezione della Dei Verbum, vorrei accennare ad un ulteriore aspetto che proprio adesso, alla soglia dellʼ“Anno Santo della misericordia”, può darci un importante suggerimento.

Nella sua prima enciclica Lumen fidei, il Santo Padre aveva citato una parola di SantʼIreneo di Lione, che descrive lʼevento della Rivelazione, che coinvolse Abramo, in questo modo: “Abramo, prima di ascoltare la voce di Dio, già lo cercava nell’ardente desiderio del suo cuore e percorreva tutto il mondo, domandandosi dove fosse Dio, finché Dio ebbe pietà di colui che, solo, lo cercava nel silenzio”.[xviii]

Questa parola di SantʼIreneo non ci rivela soltanto lʼimportante rimando teologico-rivelatore al nesso tra lʼagire di Dio e lʼagire degli uomini. Ci insegna soprattutto che la divina misericordia non è soltanto un qualche isolato atto di perdono dei nostri peccati (lo è anche), ma si colloca nel più intimo della comunicazione di Dio stesso. La Rivelazione è fondamentalmente misericordia divina proprio perché non è unʼinteressante rivelazione di verità sopranaturali, ma lʼavvenimento della comunicazione tra Dio e il suo popolo.[xix] Ella è – come abbiamo già detto – lʼ“illuminazione” derivante da Dio sul mondo e sullʼuomo. Ed è per questo che “riconoscere Dio”, conoscerlo come Colui che ci offre attenzione, amore e fedeltà, costituisce unʼunità inscindibile. Rivelarsi ad un popolo volubile, nonché al cuore degli uomini in continua ricerca, è misericordia. La Rivelazione è lʼespressione della sapienza e della bontà di Dio, come dice la felicissima formula posta allʼinizio del num. 2.

Adesso però, vorrei gettare un ulteriore sguardo su alcune sfide che oggi siamo chiamati ad affrontare.

3. Le sfide che dobbiamo affrontare oggi

a. Premessa

Un giubileo celebrato allʼinterno della Chiesa, sia pure quello di un documento magisteriale come la Dei Verbum, non può limitarsi ad uno sguardo meramente storico sul testo. Non si tratta di tracciare una storia di successi, della quale possiamo congratularci a vicenda in occasione di qualche dotto congresso. Bisogna parlare anche delle difficoltà, perché laddove non si affrontano i problemi, non ci può essere sviluppo. Oltre alla riflessione genetica e analitica, che ha la sua giustificazione e che dobbiamo prendere come punto di partenza, siamo chiamati ad una visione teologica che cerca di leggere il testo anche alla luce del suo significato attuale.

Nel Lexikon für Theologie und Kirche del 1967, il giovano teologo tedesco Joseph Ratzinger e il futuro cardinale Alois Grillmeier SJ ci hanno dischiuso la genesi della Costituzione sulla divina Rivelazione e i suoi principali aspetti in modo dettagliato e per esperienza diretta. E con questo, il primo compito di analisi testuale è stato compiuto. Ma qual è il messaggio della Costituzione oggi, mezzo secolo dopo la sua promulgazione? Quali sono le dichiarazioni che oggi colpiscono noi e la nostra situazione, in modo particolare. Quali dichiarazioni ci interpellano, aiutandoci a comprendere la nostra condizione e a rispondere alle problematiche attuali?

b. La Dei Verbum sullo sfondo della teologia pluralista delle religioni

Oggi la fiducia nellʼaffidabilità dellʼautocomunicazione di Dio, che desidera renderci partecipi della sua vita, sembra vacillare in tanti ambiti, persino in quello teologico. Lo scetticismo verso una fede che invece di illuminare oscura, è entrato nella percezione comune di tanti nostri contemporanei. Anzi, tanti uomini del nostro tempo considerano persino lʼidea della Rivelazione obsoleta, e hanno lʼimpressione che la via concreta che questo “illuminismo” ha imboccato, nel giudaismo e nel cristianesimo, sia soltanto dannosa. La critica che la Rivelazione biblica rivolge alle religioni e ai loro dei, è ritenuta responsabile per lʼindisturbato assorbimento tecnologico della natura; la chiara professione dellʼunico vero Dio, propria del monoteismo, viene accusata di intolleranza e violenza intrinseca.

Tanti ritengono che la natura e il mandato della fede non consistano nellʼilluminare e conoscere. La fede – così credono – dovrebbe piuttosto “toccare” lʼuomo con il mistero oscuro di ciò che è trascendente. La religione non dovrebbe essere corrispondente alla ragione, ma sperimentabile come qualcosa di “vissuto”. Alla “luce della fede” – come dice lʼenciclica Lumen fidei – forse si lascia ancora qualche piccolo spazio, dove la ragione non può illuminare, oppure essa diventa una piccola luce soggettiva che brilla accanto a tante altre piccoli luci, che riescono a farci vedere soltanto una piccolissima parte della verità.[xx] Questa forma mistica di religione – o meglio: forma orientata verso lʼesperienza, come oggi potremmo dire – che rinuncia largamente ai contenuti, ai dogmi e anche ad interrogarsi sulla verità, sembra essere per tanti nostri contemporanei lʼunica manifestazione accettabile della fede. Parlare di una “Rivelazione” che si manifesta persino in una Scrittura che continua a esistere come tradizione, acquistando così un’autorità sovrapersonale, istituzionalizzata, è qualcosa che questa visione esclude.

Questo modo di pensare, diffuso soprattutto nel mondo occidentale, parte dal presupposto che Dio rimanga un mistero e che non esista religione in grado di nominarlo e mostrarlo in toto. Il giudaismo e il cristianesimo – e cioè le forme istituzionalizzate della fede biblica sin dai tempi di Abramo – vengono poi sussunti come due forme delle tante “religioni” esistenti. In questo modo, si tralasciano soprattutto le affermazioni della teologia della Rivelazione, che la Dei Verbum riporta in modo sistematico. La critica kantiana della capacità cognitiva ha indotto tanti a dedurre che nessuna religione possa possedere la verità nella sua pienezza, ma che ciascuna – cristianesimo incluso – abbia soltanto una verità distorta e parziale, guardando il tutto attraverso una sua propria lente specifica. Per questo – così si sostiene – anche tanti cristiani non ritengono più sensato evangelizzare culture straniere. Per loro unʼimpresa del genere non è altro che un deplorabile errore storico che, di conseguenza, non può costituire un mandato possibile nel nostro presente. Ma un tale modo di pensare fa sì che ogni pretesa di verità, come anche la possibilità di trovarla, debba essere abbandonata, se si vuole “dialogare” e vivere in pace con gli altri. Questa teologia pluralista delle religioni e in un certo senso con essa anche la più recente “teologia comparativa”, si sono fatte largo in tanti ambiti della teologia e della catechesi, nonché nella mentalità di tanti cristiani – soprattutto occidentali –, in modo da costituire una sfida che assume le dimensioni dellʼarianesimo. E con ciò, tutta lʼidea biblica della Rivelazione divina è messa in discussione.

È proprio lʼidea storico-personale della Rivelazione sviluppata nella Dei Verbum, che ci sfida a entrare in dialogo con le altre religioni e culture. Dio non ha lasciato conoscenze segrete, come informazione privilegiata, ad una parte del mondo, per far sì che unʼaltra parte dellʼumanità ne venisse invece privata. Se la Rivelazione è un attuarsi divino-umano della comunicazione, allora questa è pensabile soltanto laddove venga accolta e ascoltata. E se alla Chiesa la Dei Verbum raccomanda vivamente lo studio della Scrittura, lo fa per dischiuderci la via che la Rivelazione ha percorso nella storia – una via che si contraddistingue per il fatto che Israele, ogni volta, venne portato a prendere su di sé “il giogo della legge” in piena libertà: “Quindi [Mosè] prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”(Es 24,7).

Questo “noi lo faremo e lo eseguiremo” è il contributo del popolo di Dio allʼevento della Rivelazione. E a causa della naturale avversione dellʼuomo contro una volontà altrui – non perché Dio fosse schizzinoso o avaro con la sua Rivelazione – questa cʼè stata soltanto in un punto nel mondo e nella storia dellʼumanità, sempre legata al factum historicum del popolo dʼIsraele e di Gesù di Nazareth, nonostante mirasse, in modo universale, alla salvezza di tutti. Nel num. 5 della Dei Verbum, i Padri conciliari hanno voluto sottolineare che la Chiesa confida nel fatto che Dio spiana la strada al suo Vangelo attraverso i tempi in modo così inequivocabile, perché lʼuomo potesse aderire alla volontà di Dio totum libere (in tutta libertà), acconsentendo volontariamente (voluntarie) alla Rivelazione che noi possiamo ascoltare. Perciò, la particolare praeparatio Evangelica, tracciata al num. 3 della Dei Verbum, è espressione della libertà che Dio concede agli uomini. Il voler ascoltare non è mai una categoria collettiva, ma implica delle decisioni personali. Ed è per questo – e qui si tratta di unʼesperienza comune ai fedeli di tutti i secoli – che la Rivelazione non è frammentaria e nebulosa, ma chiara e udibile, e comunque viene sempre veramente accolta soltanto da pochi.

Credo che a questo punto si possa trarre un bilancio intermedio: negli anni Sessanta le affermazioni del primo capitolo sulla Rivelazione si potevano ancora ritenere una cornice ermeneutica utile per sondare lo spazio che il Concilio volle dedicare alla Sacra Scrittura e allo studio di essa. In questo modo, la Dei Verbum ha davvero avuto un effetto positivo sulla Chiesa. Ma forse è solo oggi, alla luce della teologia pluralista delle religioni, che si può riconoscere lʼampio significato della Costituzione sulla divina Rivelazione, soprattutto il contributo offerto dalla teologia della Rivelazione. E poi diventa anche chiaro che lo sforzo intrapreso dai Padri conciliari nel nome della Rivelazione e la sua trasmissione non era invano.

c. La questione delle “realtà della vita” come locus theologicus secondo la Dei Verbum num. 8

Come ultimo punto vorrei trattare brevemente una seconda questione, che a mio parere costituisce una sfida per la teologia e per il magistero, e che merita di essere contemplata alla luce della Dei Verbum.

Il cristianesimo non è una religione del Libro, come si ama definirlo, ma Rivelazione divina nella storia del popolo che Egli ha scelto a questo scopo. Per questa ragione, il principio della sola scriptura non è mai stato sufficiente per trovare una misura per una vita di fede. La teologia cattolica invece ha coniato la formula “Scrittura e tradizione”, che, essendo fondamentalmente niente di nuovo, significava soltanto lʼapplicazione di quel principio che fece parlare già nel giudaismo di una tradizione scritta e di una tradizione orale.

Il malinteso, però, secondo il quale la tradizione sarebbe un’autonoma, seconda fonte diconoscenze rivelate nascoste alla Scrittura, è riuscito a protrarsi fin dallʼera post-tridentina per giungere dritto nel cuore del dibattito sulla De fontibus Revelationis e ha costituto la maggiore causa delle difficoltà emerse nellʼaula conciliare negli anni 1962 e 1963. La tradizione non è una fonte autonoma, ma un’istanza che dà prova della Rivelazione, e cioè lʼeco che la Rivelazione di Dio trova nella vita dei credenti, i quali, nella Chiesa che ascolta, si affidano completamente alla Parola rivelata, accogliendo la Parola della Scrittura “non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale Parola di Dio” (cfr. 1 Tess 2,13). La tradizione è espressione della conoscenza della Chiesa, che Dio ha definitivamente comunicato in Gesù Cristo; che Egli ha anzitutto comunicato se stesso in modo definitivo e allo stesso tempo comprensibile agli uomini; e che comunque la via del comprendere non finisce – una via per cui vale la promessa di Gesù, che lo Spirito avrebbe introdotto i discepoli nella pienezza della verità, avallando la presenza del Risorto “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (cfr. Mt 28,20).

E qui emerge ciò che oggi si chiama “realtà della vita” e che si vorrebbe elevare a locus theologicus. Oggi la tradizione della Chiesa – anche quella che ha conosciuto un vivido progresso – viene spesso e volentieri compresa come “principio generale” e “dottrina astratta”, oppure caratterizzata come “ideale” irraggiungibile, che non avrebbe alcuna “capacità di connessione con le odierne costellazioni mondane“ e perciò nessuna rilevanza per lʼuomo nella sua situazione concreta.

Come metro dellʼesistenza cristiana non vale più la misura della Rivelazione e dellʼamore divino, ma la dimensione biografica dellʼesistenza storica e terrena di uomini limitati e peccatori. In questo contesto, si rimanda spesso e volentieri alla Dei Verbum, num. 8, che in merito alla trasmissione della Rivelazione dice: “Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità.”

A mio parere, la visione che contrappone la dottrina della Chiesa, la sua tradizione e la verità vissuta dagli uomini del nostro tempo, quasi fossero delle alternative reciproche, è errata. La Dei Verbum ci indica unʼaltra direzione. Vorrei sviluppare questo pensiero in modo più approfondito.

Il Libro dellʼEsodo ci dà la bella notizia che Mosè, nel momento dellʼesodo dallʼEgitto, avrebbe portato con sé anche le ossa del patriarca Giuseppe (cfr. Es 13,19). Questo, nella tradizione più tarda, venne interpretato nel senso che Israele sarebbe giunto nella Terra Promessa con due arche: lʼarca della Torah – le tavole della legge, che Dio aveva dato a Mosè sul monte Sinai – e lʼarca con le ossa di Giuseppe. Fu dunque inteso nel senso che la mera dottrina non sarebbe stata sufficiente per indurre il popolo allʼobbedienza, ma che ci sarebbe voluta anche la testimonianza vissuta. La Chiesa ha sempre tenuto vivo questo pensiero con la venerazione dei santi che sono un “Vangelo vissuto.”

Che cosa significa questo? Le indicazioni ci dicono che la “realtà della vita” per noi rilevante non è una qualsiasi realtà che ha a che fare con la vita; non è compito della statistica o dellʼopinione riportata dalla stampa, ma si tratta della realtà della vita in obbedienza alla fede pienamente realizzata e vissuta (cfr. Rm 1,5), oppure – cristologicamente parlando – della sequela di Cristo. È vero: bisogna prendere sul serio le biografie degli uomini con i loro progressi, le loro crepe. Poiché anche noi cristiani non dobbiamo farci un’immagine illusoria della nostra vita. Dobbiamo affrontare la nostra realtà. E non lo facciamo fabbricando di essa una norma su come Dio dovrebbe vedere noi e il mondo, ma confrontando la nostra debole, fragile vita con il disegno divino, collocandola allʼinterno della “luce della fede” che nonostante non sappia tutto, sa illuminare tutto.

La “consapevolezza interiore che viene dallʼesperienza spirituale” è una vita nel popolo di Dio e con esso, nella Chiesa e in cammino con essa. Il “progresso” nella Chiesa e la crescita della tradizione della Chiesa, di cui parla la Dei Verbum, non sono escrescenze che accompagnano le nostre mutate abitudini di vita e le nostre opinioni, capaci di incontrare il consenso della maggioranza. Il loro significato è piuttosto quello di “una crescita nella comprensione della realtà originaria”[xxi]. È qui che emerge lʼeffetto di un punto debole della Costituzione sulla divina Rivelazione, che è già stato sollevato da ambiti differenti, nel corso della discussione conciliare: alla questione circa i criteri per una tradizione autentica viene dato troppo poco spazio. Il “progresso” della tradizione di cui parla la Dei Verbum può avverarsi soltanto in una vita che ha come misura la Scrittura e la sua realtà di vita.

Credo che di questo concetto fondamentale, di come dovrebbe essere una vita di fede, non esista definizione più azzeccata di quella esposta nella regola per una “Vita comune” di Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante morto per mano degli sgherri nazisti nel 1945, quando ormai il loro regime era giunto al tramonto. In un passo di questo libricino, Bonhoeffer parla dellʼeffetto della comune lettura quotidiana della Scrittura, che – cito – ci “colloca nel bel mezzo della storia sacra di Dio sulla terra”[xxii]. E poi continua:

“Non è importante che Dio è spettatore e che partecipa alla nostra vita odierna, ma che siamo noi ascoltatori attenti e partecipanti dellʼagire di Dio nella storia sacra, della storia di Cristo sulla terra; e soltanto se ci rendiamo partecipi di questo, Dio è con noi anche nellʼoggi. Qui avviene un’inversione totale. Non è nella nostra vita che lʼaiuto e la presenza di Dio si devono ancora dimostrare, ma è nella vita di Gesù Cristo che per noi si sono dimostrati lʼaiuto e la presenza di Dio. (… ) Che Gesù Cristo è morto, è più importante che io morirò; e che Gesù Cristo è risuscitato dai morti, è la sola ragione della speranza che anchʼio sarò risuscitato nel giorno del Giudizio. La nostra salvezza è ʹal di fuori di noi stessiʼ (extra nos) – non la trovo nella storia della mia vita, ma soltanto nella storia di Gesù Cristo.“[xxiii]

Questo testo insolito, che ha trovato conferma nel martirio di colui che lo ha scritto, ci dà forse unʼintuizione del significato che la Rivelazione potrebbe avere per lʼuomo di oggi. Chi ha oggi il coraggio di dirci che una “teologia della biografia” non è lʼapprovazione delle nostre fattive condizioni di vita, ma soprattutto un inserimento nella biografia di Gesù, nel suo annuncio del Regno di Dio e nel suo movimento di raccoglimento? Che la norma non è la storia della nostra vita, ma la storia della vita di Gesù Cristo, che abbraccia noi tutti?

La Dei Verbum è attuale, perché parla di questa “inversione” – soprattutto nella parte in cui tratta la teologia della Rivelazione. Le nostre biografie – siano pure piene di crepe e vacillanti – possono essere il materiale con cui Dio continua a scrivere la sua storia, a costruire il suo Regno. Anzi: saranno le generazioni a venire a dimostrare come “cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse”. La vera realtà della vita è che siamo chiamati a partecipare a questa storia, a portarla avanti, affinché possa rendere trasparente tutto ciò che accade nel mondo, illuminando la nostra vita.

4. Conclusione

Alla fine della Dei Verbum, nel num. 26, i Padri conciliari hanno espresso il desiderio che “il tesoro della Rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre di più il cuore degli uomini“. Nonostante il fatto che non bisogna ignorare il fatto che i documenti ecclesiali non hanno più lo stesso impatto che avevano invece in altre epoche e che sono rapidamente dimenticati[xxiv], a cinquantʼanni dalla promulgazione della Dei Verbum è legittimo sperare che anche la Costituzione sulla divina Rivelazione, con l’aiuto dello Spirito Santo, continui a contribuire alla manifestazione del tesoro della Rivelazione.


 Cfr. M. Seckler, Über den Kompromiss in Sachen der Lehre, in: M. Seckler u. a. (curatore), Begegnung. Beiträge zu einer Hermeneutik des theologischen Gesprächs, Graz – Wien – Köln 1972, 45-75; 56; cfr. anche P. Eicher, Offenbarung. Prinzip neuzeitlicher Theologie, München 1977, 484; sul tutto: cfr. A. Buckenmaier, „Schrift und Tradition“ seit dem Vatikanum II. Vorgeschichte und Rezeption (Konfessionskundliche und kontroverstheologische Studien LXII), Paderborn 1996, 247-251.

[ii] J. Pascher, Der „Geist des Konzils“ in der Liturgiekonstitution des Zweiten Vatikanums, in: H. Fleckenstein u. a. (curatore), Ortskirche – Weltkirche (FS J. Döpfner), Würzburg 1973, 357-370; 358.

[iii] Cfr. Benedetto XVI, Discorso al Sacro Collegio e alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005, in: AAS 98 (2006), 40-53; 46.

[iv] Cfr. K. Rahner / H. Vorgrimler, Kleines Konzilskompendium, Freiburg 292002, 25.

[v] Come suona il titolo del libro di B. Fischer (curatore), Die erste Frucht des Konzils, Freiburg – Basel – Wien 1964 .

[vi] La liturgia, così sostiene la Sacrosanctum Concilium, “ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina” (num. 2). Tramite questa caratterizzazione della liturgia, che descrive anche la natura e il mandato della Chiesa, la Costituzione stessa contribuisce ad un’ecclesiologia approfondita.

[vii] J. Ratzinger, Einleitung und Kommentar zum Prooemium, zu Kapitel I, II und VI der Offenbarungskonstitution „Dei Verbum“, in: LThK2 Ergänzungsband II, 504-528; 504 (JRGS 7/1, 715-791; 732).

[viii] Cfr. R. Latourelle, La Révélation et sa transmission selon la constitution "Dei Verbum“, in: Gr 47 (1966), 1-40;

[ix] J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret: Prima Parte, Milano 2007, 137.

[x] Cfr. R. Voderholzer, Dogmatik im Geist des Konzils. Die Dynamisierung der Lehre von den Loci theologici durch die Offenbarungskonstitution „Dei Verbum“, in: TThZ 115 (2006), 149-166.

[xi] Cfr. G. L. Müller, Die Liturgie als Quelle des Glaubens, in: ders., Mit der Kirche denken. Bausteine und Skizzen zu einer Ekklesiologie der Gegenwart, Würzburg 2001, 55-62.

[xii] J. Ratzinger, Einleitung und Kommentar 508 (JRGS 7/1, 736).

[xiii] Cfr. Papa Francesco, enciclica Laudato si' sulla cura della casa comune, in part. num. 84 s.

[xiv] Cfr. Leone XIII., enc. Providentissimus Deus, 18 novembre 1893: AAS 26 (1893-94) 283; L. Leloir, La Sainte Écriture, âme de toute la théologie, in: Seminarium 18 (1966), 880-892.

[xv] Cfr. G. L. Müller, Art. Exegese: V. Exegese und Systematische Theologie, in: LThK3 vol. 3, 1101-1103.

[xvi] Sant`Agostino, Quæst. in Hept. 2, 73: PL 34, 623.

[xvii] Contiene la significativa introduzione dell`allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger, in: Päpstliche Bibelkommission, Das jüdische Volk und seine Heilige Schrift in der christlichen Bibel (24 maggio 2001) (VAS 152), Bonn 2001, 3-8.

[xviii] Ireneo di Lione, Demonstratio apostolicae praedicationis 24; SC 406, 117; cit. in: Papa Francesco, enciclica Lumen fidei, num. 35.

[xix] Cfr. G. L. Müller, Art. Exegese V, 1102.

[xx] Cfr. Papa Francesco, enciclica Lumen fidei, num. 3.

[xxi] J. Ratzinger, Einleitung und Kommentar 521 (JRGS 7/1, 760).

[xxii] Bonhoeffer, Gemeinsames Leben, München 1976, 43.

[xxiii] Bonhoeffer, 43s.; sottolineature dell´autore.

[xxiv] Cfr. Papa Francesco, Lettera Apostolica Evangelii gaudium sullʼannuncio del Vangelo nel mondo odierno (2013), num. 25.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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11/11/2017 09:54
 
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  • AMORIS LAETITIA/L'INTERVISTA

Müller: "Mai detto di eccezioni sulla comunione ai risposati"

«Nessun cambiamento e nessuna demolizione dei Dubia. L'unico modo di interpretare Amoris Laetitia è in continuità con la Tradizione e il Magistero precedente». Così il cardinale Gerhard Müller smentisce alla Nuova BQ le interpretazioni apparse in questi giorni che gli attribuiscono un'apertura sull'accesso all'Eucarestia dei "divorziati risposati". E sdogana i Dubia: "Legittimi e autorevoli"

Il cardinale Müller

«No, nessun cambiamento e nessuna demolizione dei Dubia. Lo scopo del mio intervento è solo affermare che l’unico modo di interpretare Amoris Laetitia è in continuità con il Verbo di Dio nella Bibbia, il Magistero precedente, con la Tradizione dei grandi Concili di Firenze, Trento e Vaticano II». Al telefono il cardinale Gerhard Müller, ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, prende subito le distanze dalle interpretazioni parziali di alcune testate che gli attribuiscono un’apertura sull’accesso all’Eucarestia dei “divorziati risposati”.

La vicenda nasce dal breve saggio con cui il cardinale Müller introduce il libro scritto da Rocco Buttiglione “Risposte amichevoli ai critici di Amoris Laetitia” (editrice Ares, in uscita oggi, 10 novembre) che, secondo le anticipazioni di Vatican Insider, sosterrebbe l’apertura della via ai sacramenti per i “divorziati risposati”, ma si dovrebbe dire – precisa il cardinale Müller –  «battezzati in un matrimonio legittimo sacramentale che vivono more uxorio con un partner che non è il proprio legittimo sposo o sposa».

Sempre secondo queste interpretazioni, il testo del cardinale Müller smentirebbe perciò la posizione dei cardinali dei Dubia. «Niente affatto – replica l’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede -. I Dubia sono autorevoli, chiaramente legittimi, io ho dato una risposta che non è contro nessuna persona. Il mio testo è chiaro su questo. Una interpretazione corretta dice che Amoris Laetitia si può e si deve interpretare ortodossamente nell’unità della tradizione cattolica. Purtroppo alcuni hanno sempre una visione “partitica”, pro o contro il Papa come se la Chiesa fosse un partito politico. Il senso del mio intervento non è di continuare con le polemiche ma di superarle e di parlare teologicamente su questi temi. Non si tratta di avere ragione a ogni costo ma di rendere onore alla Verità rivelata. Vorrei che le mie riflessioni facessero uscire da questa visione riduttiva: il tema è la Verità, ciò che ha detto Gesù Cristo, non il Papa o i cardinali. E quanto al Papa bisogna ben distinguere ciò che è scritto in documenti magisteriali, in cui è maestro di fede, da quelle che possono essere opinioni, commenti e perfino intenzioni, che essendo argomentazioni private, non hanno alcuna rilevanza per la fede divina e cattolica. In ogni caso, l’unico criterio di giudizio è ciò che ha detto Gesù Cristo. Non parliamo dei divorziati risposati, ma del matrimonio legittimo sacramentale davanti a Dio oppure non valido. E in questo caso, come aiutare queste coppie che vivono more uxorio senza essere sposate validamente davanti a Dio?».

Tocchiamo quindi la questione dell’indissolubilità del matrimonio. In questi giorni le viene attribuita la convinzione che ci possano essere alcune eccezioni.
Nessuna eccezione, questo è un concetto falso. Io ho dato una spiegazione teologica chiara, senza nessuna possibilità di malintesi. Vorrei pacificare la situazione e non alimentare polemiche tra gruppi contrapposti.
Allora deve essere chiaro che quando si tratta di un legittimo matrimonio sacramentale non ci possono essere eccezioni. I sacramenti sono efficaci ex opere operato. Cosi non ci sono eccezioni nella validità del battesimo o della transustanziazione del pane nel Corpo di Cristo.

Però nel saggio di Buttiglione si fa riferimento ad alcune situazioni molto particolari in cui ci sarebbe una colpa veniale, per cui dovrebbe essere possibile essere assolti e ricevere i sacramenti seppur mantenendo lo stato della seconda unione.
Nella mia introduzione è scritto molto chiaramente che è necessaria la riconciliazione, e questa è possibile soltanto se prima c’è contrizione e proposito di non commettere più il peccato. Certe persone che affrontano questi argomenti non capiscono che accostarsi al sacramento della Riconciliazione non significa automaticamente assoluzione. Ci sono elementi essenziali senza cui non si realizza la riconciliazione. Se non c’è contrizione non ci può essere assoluzione e se non c’è assoluzione, se uno rimane in stato di peccato mortale, non può ricevere la comunione.
Quanto a Buttiglione, egli fa anche riferimento a situazioni in cui è un problema la conoscenza della fede cattolica. Sono casi di cristiani non coscienti, battezzati ma non credenti, che magari sono andati a sposarsi in chiesa per far contenta la nonna, ma senza una reale coscienza. Qui diventa un problema quando dopo tanti anni si riaccostano alla fede e allora rimettono in discussione quel matrimonio. Ci sono molti casi del genere, anche Benedetto XVI si era posto il problema. Quindi, cosa fare? In questo senso si può dire con il Papa che c’è bisogno di discernimento, ma questo non significa che si possa ammettere ai sacramenti senza le condizioni di cui sopra. Il tema qui non riguarda la indissolubilità del matrimonio sacramentale, ma la validità di tanti matrimoni, che non sono realmente validi.

Anche lei però, nel suo testo, fa riferimento a casi di persone che si convertono o tornano alla fede dopo che già si è realizzata una seconda unione, e quanto ai sacramenti parla di decisione in foro interno. Cosa vuol dire?
Mentre da noi in Europa le cose sono abbastanza chiare perlomeno teoricamente, in molti paesi ci sono tante situazioni difficili da giudicare. In America Latina, ad esempio, ci sono tanti matrimoni che non sono celebrati in forma canonica, ci sono coppie che vivono insieme ma non si sa neanche se c’è un effettivo consenso al matrimonio. Sono stato recentemente ad Haiti e lì la situazione è disastrosa, tutti si chiamano sposi, vivono insieme, ma non sono formalmente sposati né in chiesa né civilmente. Quando alcuni maturano, cominciano ad andare in chiesa, a quel punto si deve stabilire chi sia il vero sposo o sposa. E qui è importante che la persona sia onesta e dica con sincerità con chi ha espresso il vero consenso, perché è il consenso che fa il matrimonio, non solo la forma canonica. In ogni caso, per l’ammissione ai sacramenti, è il parroco o il vescovo che deve chiarire la situazione in cooperazione con la libertà dei fedeli. Ma ci sono anche situazioni rovesciate.

Cioè?
Ci sono particolari circostanze, ad esempio in regimi che perseguitano la Chiesa, dove non è possibile sposarsi canonicamente. Facciamo l’esempio della Corea del Nord: i pochi cattolici presenti hanno comunque il diritto di sposarsi, e qui il matrimonio è possibile solo con il consenso. Ma se nel tempo accade qualcosa e i due si separano, e si vogliono risposare, allora tutto dipende dal foro interno, dalla loro onestà nel riconoscere se un consenso c’è stato oppure no, e lo devono esprimere al prete oppure al nuovo sposo o sposa.

È qui che entra in gioco la coscienza.
Sì, ma la coscienza va intesa correttamente, non come la spiegano certi giornalisti che annacquano la verità. Parliamo di una coscienza retta, che non può dire “io non devo rispettare la legge di Dio”. La coscienza non libera dalla legge di Dio ma ci dà l'orientamento per compierla.

Lei comunque, nella sua introduzione a Buttiglione, rifugge dalla casuistica, mi sembra sia preoccupato soprattutto di offrire alcuni criteri chiari per la comprensione di Amoris Laetitia per evitare quelle che lei definisce esplicitamente “interpretazioni eretiche”.
Esatto. Ci sono purtroppo singoli vescovi e intere conferenze episcopali che propongono interpretazioni che contraddicono il Magistero precedente, ammettendo ai sacramenti persone che si ostinano in situazioni oggettive di peccato grave. Ma non è questo il criterio con cui applicare Amoris Laetitia. Lo stesso papa Francesco ha parlato di una esortazione apostolica tomista. Allora è giusto che vada letta alla luce di san Tommaso, e sull’ammissione all’Eucarestia san Tommaso è chiaro dogmaticamente e anche con una sensibilità pastorale per le singole persone.




- ECCO COSA HA SCRITTO MÜLLER



Pubblichiamo alcuni passaggi rilevanti del testo con cui il cardinale Gerhard Müller introduce il libro di Rocco Buttiglione, "Risposte amichevoli ai critici di Amoris Laetitia" (Ares), che meglio possono far comprendere il pensiero dell'ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il titolo dell'introduzione è già significativo e offre la giusta chiave di lettura: «Perché Amoris Laetitia può e deve essere intesa in senso ortodosso».

 

La questione se i «divorziati risposati civilmente» ‒ una connotazione problematica dal punto di vista dogmatico e canonico – possano avere accesso alla Comunione benché permanga in essere un matrimonio sacramentale valido, in alcuni casi particolarmente connotati o anche in generale, è stata falsamente elevata al rango di questione decisiva del cattolicesimo e a pietra di paragone ideologica per decidere se uno sia conservatore o liberale, favorevole o avverso al Papa. (pp. 7-8)

Invece di definire la propria fede cattolica attraverso l’appartenenza a un campo ideologico, in realtà il problema è solo quello della fedeltà alla Parola rivelata di Dio che viene tramandata nella confessione della Chiesa. (p. 8)

La vera riforma rende la Chiesa nella vita dei suoi membri più simile a Cristo e non più conforme allo spirito del tempo. (p. 9)

Ciò di cui c’è bisogno in questo momento della vita della Chiesa, però, non è lo sforzo di differenziarsi a ogni costo, ma piuttosto la volontà di discutere serenamente gli uni gli argomenti degli altri invece di rivolgere attacchi personali gli uni contro gli altri. Certo, i criteri devono essere le regole della teologia cattolica e non quelle di una posizione ideologica che utilizza e strumentalizza le dottrine della fede della Chiesa solo come materiali per la costruzione di un’«altra Chiesa». (p. 9)

1) Le dottrine dogmatiche e le esortazioni pastorali del capitolo 8 di Amoris Laetitia possono e devono essere intese in senso ortodosso.
2) Amoris Laetitia non implica nessuna svolta magisteriale verso un’etica della situazione e quindi nessuna contraddizione con l’enciclica Veritatis Splendor di san Giovanni Paolo II.  (p. 11)

Rimane valida la dottrina di Veritatis Splendor (art. 56; 79) anche rispetto ad Amoris Laetitia (art. 303) per la quale esistono norme morali assolute alle quali non si dà alcuna eccezione (cfr il dubium n. 3, 5 dei cardinali). (p. 12)

Il motivo per cui si è potuti arrivare a queste interpretazioni contraddittorie di Amoris Laetitia è un’incomprensione del ruolo del Magistero del Papa e dei vescovi e del modo in cui esso funziona. Davanti all’opposizione di principio protestante contro l’esistenza e la natura del Magistero ecclesiastico, che può proporre a credere a ogni cattolico le verità dell’autocomunicazione escatologica-definitiva di Dio come verità e vita in modo ultimamente vincolante, si è insinuato qua e là, a partire dal secolo XVII, una specie di positivismo magisteriale cattolico che per la fede cattolica non è meno pericoloso della semplice negazione del Magistero stesso. Nella sua forma estrema esso dice: «Una proposizione è vera perché il Papa la propone da credere»; e non «il Papa la può e la deve insegnare in modo vincolante perché essa è vera e contenuta nella rivelazione (nella sua oggettivazione della Sacra Scrittura e nella tradizione Apostolica)».
Il Papa non è, in realtà, una fonte della fede. La rivelazione non è data al Magistero vivente della Chiesa in proprietà, ma gli è affidata solo per essere spiegata in modo vincolante.
Il Papa gode solo di un’assistentia Spiritus Sancti e non di un’illuminazione o ispirazione da parte della verità divina. Il cattolico crede infatti a Dio che si rivela e non al Papa, anche se è dal Papa che la confessione di fede della Chiesa, testimoniata dagli apostoli e dai loro legittimi successori, viene proposta da credere in modo ultimamente vincolante. (p. 12-13)

Per questo non ci possono essere interpretazioni di Amoris Laetitia sull’accesso ai sacramenti per i cattolici in situazioni irregolari, simili al matrimonio, che siano puramente autoreferenziali e solo immanenti al testo e che mettano alla gogna il problema della concordanza delle indicazioni pastorali con la Sacra Scrittura, la tradizione Apostolica e le definizioni dogmatiche del Magistero precedente come se ciò costituisse un’illecita opposizione contro il Papa regnante. Amoris Laetitia è un documento papale che sta in continuità con l’insieme della tradizione del Magistero e quindi evidentemente la sua interpretazione viene regolata dalla lettura della Sacra Scrittura e della tradizione Apostolica come anche da quella delle precedenti decisioni dogmatiche dei Papi e dei concili ecumenici. (p. 13)

Come ci può essere un modo di leggere Amoris Laetitia che eviti polemiche e polarizzazioni, pretese di dar ragione alla propria linea di partito e scontri teatrali a beneficio dei mass media e a danno della credibilità della Chiesa, senza reciproche offese e anche senza rifiuti di dialogo e misure disciplinari autoritarie contro presunti critici del Papa, e anche lontano da una politica del personale che invece di richiedere competenze spirituali e culturali domanda solo una ricezione acritica dell’art. 305 e della nota 351 di Amoris Laetitia? (p. 15)

Chi si impegna per la chiarezza e verità della dottrina della fede, specialmente in una epoca di relativismo e agnosticismo, non merita di venire apostrofato come rigorista, fariseo, legalista e pelagiano (p. 16)

...Questo però non significa che adesso Amoris Laetitia, art. 302, sostenga, in contrasto con Veritatis Splendor, 81, che, a causa di circostanze attenuanti, un atto oggettivamente cattivo possa diventare soggettivamente buono (è il dubium n. 4 dei cardinali). L’azione in se stessa cattiva (il rapporto sessuale con un partner che non è il legittimo sposo) non diventa soggettivamente buona a causa delle circostanze. Nella valutazione della colpa, però, possono esservi delle attenuanti e le circostanze e gli elementi accessori di una convivenza irregolare simile al matrimonio possono essere presentati anche davanti a Dio nel loro valore etico nella valutazione complessiva del giudizio (per esempio la cura per i figli avuti in comune che è un dovere che deriva dal diritto naturale). (p. 18)

La contraddizione con il bene non può mai diventare una sua parte oppure l’inizio di un cammino verso il compimento della santa e santificante volontà di Dio. Non si dice da nessuna parte che un battezzato in condizione di peccato mortale possa avere il permesso di ricevere la santa Comunione e riceva cosi di fatto il suo effetto di comunione di vita spirituale con Cristo. Il peccatore, infatti, oppone consapevolmente e volontariamente all’amore verso Dio il catenaccio (obex) del peccato grave. (p. 19)

Anche quando si dice «che nessuno può essere condannato per sempre», questo va compreso dal punto di vista della cura che mai non si arrende per la salvezza eterna del peccatore piuttosto che come negazione categorica della possibilità di una condanna eterna che però presuppone l’ostinazione volontaria nel peccato. (p. 19)

Certo, le categorie del matrimonio come «ideale» in opposizione alla «realtà», ideale a cui l’uomo in linea di principio non può mai corrispondere interamente, sono forse appropriate per la teologia morale e la vita spirituale, ma non per la teologia sacramentale. Il matrimonio non è affatto «una analogia imperfetta» (AL, 73) della relazione di Cristo con la sua Chiesa, la cui realtà esso rappresenta in modo sacramentale e a cui partecipa in modo essenziale. L’incompiutezza non sta nella fondazione del vincolo matrimoniale da parte di Dio (a causa dell’efficacia del sacramento ex opere operato), ma unicamente negli atti umani (il libero consenso, la volontà del matrimonio sacramentale con i beni che gli appartengono ecc.) attraverso i quali Dio realizza la grazia santificante del sacramento del matrimonio nella concretezza visibile della vita matrimoniale cristiana. (pp. 19-20)

Ciò che Papa Francesco ricerca in Amoris Laetitia con una sintesi di funzione magisteriale e di cura pastorale, di verità e di bontà, non è la quadratura del cerchio, ma un necessario equilibrio fra la fedeltà alla fede rivelata e il superamento delle difficoltà e dei possibili fallimenti del cristiano nella sequela di Cristo perché questo percorso a causa della debolezza dell’uomo non esclude deviazioni e ricadute. (p. 21)

Il singolo cristiano può ritrovarsi senza sua colpa nella dura crisi dell’essere abbandonato e del non riuscire a trovare nessun’altra via d’uscita che l’affidarsi a una persona di buon cuore e il risultato sono delle relazioni simil/matrimoniali.
C’è bisogno di una particolare capacità di discernimento spirituale nel foro interno da parte del confessore per trovare un percorso di conversione e di riorientamento verso Cristo che sia giusto per la persona, andando al di là di un facile adattamento allo spirito relativistico del tempo o di una fredda applicazione dei precetti dogmatici e delle disposizioni canoniche, alla luce della verità del Vangelo e con l’aiuto della grazia antecedente. (p. 22)

Per la dottrina della fede un matrimonio validamente contratto da cristiani, che a causa del carattere battesimale è sempre un sacramento, rimane indissolubile. I coniugi non possono dichiararlo nullo e invalido di loro iniziativa e nemmeno lo può sciogliere dall’esterno l’autorità ecclesiastica, fosse pure quella del Papa. (pp. 22-23)

Nel caso di una conversione in età matura (di un cattolico che è tale solo sul certificato di battesimo) si può dare il caso che un cristiano sia convinto in coscienza che il suo primo legame, anche se ha avuto luogo nella forma di un matrimonio in Chiesa, non fosse valido come sacramento e che il suo attuale legame simil/matrimoniale, allietato da figli e con una convivenza maturata nel tempo con il suo partner attuale sia un autentico matrimonio davanti a Dio. Forse questo non può essere provato canonicamente a causa del contesto materiale o per la cultura propria della mentalità dominante. È possibile che la tensione che qui si verifica fra lo status pubblico/oggettivo del «secondo» matrimonio e la colpa soggettiva possa aprire, nelle condizioni descritte, la via al sacramento della penitenza e alla santa Comunione, passando attraverso un discernimento pastorale in foro interno. (pp. 23-24)

La lettera di risposta di Papa Francesco al documento dei vescovi argentini del 2016 porta la stessa data del documento stesso, cioè il 5 settembre. Si tratta di un messaggio che conferma la ricezione del documento con amichevoli parole di consenso. L’affermazione che «non c’è nessun’altra interpretazione» non può tuttavia essere intesa in senso letterale davanti al dato di fatto dell’esistenza di interpretazioni contraddittorie.
Fra di esse ve ne sono alcune che si richiamano sì ad Amoris Laetitia ma stanno direttamente in contraddizione con la dottrina definita dogmaticamente della fede della Chiesa.
Non è sufficiente affermare l’ortodossia dei discussi passaggi sull’ammissione all’Eucaristia attraverso il sacramento della penitenza di persone in condizioni di convivenza irregolare e la loro piena integrazione nella vita della Chiesa. (pp. 24-25)

Ciò che è in questione è una situazione oggettiva di peccato che, a causa di circostanze attenuanti, soggettivamente non viene imputata. Questo suona in modo simile al principio protestante del simul justus et peccator ma certamente non è inteso in quel senso. Se il secondo legame fosse valido davanti a Dio, i rapporti matrimoniali dei due partner non costituirebbero nessun peccato grave ma piuttosto una trasgressione contro l’ordine pubblico ecclesiastico per avere violato in modo irresponsabile le regole canoniche e quindi un peccato lieve. Questo non oscura la verità che i rapporti more uxorio con una persona dell’altro sesso, che non è il legittimo coniuge davanti a Dio, costituisce una grave colpa contro la castità e contro la giustizia dovuta al proprio coniuge. (pp. 25-26)

Il cristiano che si trova in stato di peccato mortale ‒ qui si tratta direttamente del rapporto con Dio non delle circostanze attenuanti o aggravanti di un peccato ‒ e quindi persevera in una contraddizione consapevolmente voluta contro Dio, è chiamato al pentimento e alla conversione. Solo il perdono della colpa che, in colui che viene giustificato, non solo copre ma completamente cancella il peccato mortale, permette la comunione spirituale e sacramentale con Cristo nella carità.
Da ciò non si può separare il proposito di non peccare più, di confessare i propri peccati gravi (quelli dei quali si è consapevoli), di offrire una riparazione per i danni che si sono apportati al prossimo e al corpo mistico di Cristo, per poter ottenere in tal modo, attraverso l’assoluzione, la cancellazione del proprio peccato davanti a Dio e anche la riconciliazione con la Chiesa.
La nota 351 non contiene nulla che contraddica tutto questo. (p. 26)

I sacramenti sono stati stabiliti per noi, perché noi siamo esseri corporei e sociali, e non perché Dio ne abbia bisogno per comunicare la grazia. Proprio per questo è possibile che qualcuno riceva la giustificazione e la misericordia di Dio, il perdono dei peccati e la vita nuova nella fede e nella carità anche se per delle ragioni esterne non può ricevere i sacramenti oppure anche ha una obbligazione morale di non riceverli pubblicamente per evitare uno scandalo. (p. 27)

L’affermazione però che l’Eucaristia non è un «premio per i perfetti» ma «un generoso rimedio e un alimento per i deboli» non rende le cose più chiare. Essa non apre affatto, per coloro che si trovino in una condizione di peccato grave e si ostinino a rimanervi, la via della Comunione sacramentale che conduce alla comunione spirituale con Cristo nella carità soprannaturale infusa. (p. 27)

È chiaro che i sacramenti non sono un premio per la perfezione morale. Li può ricevere in modo efficace però solo chi non si chiude alla grazia attraverso il peccato. Si può commettere un peccato perché si cede alla debolezza della carne o perché ci si oppone a Dio sfidandolo. La debolezza però in se stessa non è un peccato. Il peccato, poi, non è una debolezza. Il peccato infatti è un’azione cosciente e libera contro la santa volontà di Dio nei suoi comandamenti e nei suoi segni sacramentali di salvezza. Esso però deriva dalla debolezza del cristiano battezzato e giustificato in cui la tendenza al peccato ancora permane e ci può tentare al peccato, ma in se stessa non è peccato. In questo senso i sacramenti sono anche una medicina contro la concupiscenza (remedia concupiscentiae). Questo è riaffermato dal Concilio di Trento nel decreto sul peccato mortale (Dh, 1515) contro la dottrina della giustificazione dei riformatori. Il perdono dei peccati veri e propri è però riservato al battesimo e al sacramento della penitenza. (pp. 27-28)

San Tommaso, che in quanto Doctor communis viene citato cosi spesso e con serena naturalezza in Amoris Laetitia come testimone della fede cattolica, dice in un’importante «questione sull’uso dei sacramenti» che «nessuno in stato di peccato mortale si può unire con Cristo ed essere integrato nel suo corpo perché non possiede la fede formata dalla carità. Chi riceva questo sacramento in stato di peccato mortale commette un peccato mortale» (S.th., III, q. 80) (p. 28)

Una medicina che risana un malato può far male a uno che invece è sano. Nel battesimo e nella penitenza ci è offerta una medicina che purifica (medicina purgativa) che ci libera «dalla febbre del peccato». Il sacramento dell’Eucaristia è una medicina che rafforza (medicina confortativa) che può essere data solo a quelli che sono liberi dal peccato (S.th., III, q. 80, a. 4 ad 2). (p. 28)

Un punto importante di Amoris Laetitia, che spesso non viene capito giustamente in tutto il suo significato pastorale, e che non è facile da applicare nella prassi con tatto e discrezione, è la legge della gradualità. Non si tratta di una gradualità della legge, ma della sua applicazione progressiva a una concreta persona nelle sue condizioni esistenziali concrete. Questo avviene dinamicamente in un processo di chiarificazione, discernimento e maturazione sulla base del riconoscimento della propria personale e irripetibile relazione con Dio attraverso il percorso della propria vita (cfr AL, 300) (pp. 29-30)

Secondo le spiegazioni di San Tommaso d’Aquino che abbiamo riportato, la Santa Comunione può essere ricevuta efficacemente solo da coloro che si sono pentiti dei loro peccati e si accostano alla mensa del Signore con il proposito di non più commetterne. (p. 30)

Dio è particolarmente vicino all’uomo che si mette sul cammino della conversione, che, per esempio, si assume la responsabilità per i figli di una donna che non è la sua legittima sposa e non trascura nemmeno il dovere di avere cura di lei.
Questo vale anche nel caso in cui egli, per la sua debolezza umana e non per la volontà di opporsi alla grazia, che aiuta a osservare i comandamenti, non sia ancora in grado di soddisfare a tutte le esigenze della legge morale. Un’azione in sé peccaminosa non diventa per questo legittima e nemmeno gradita a Dio. La sua imputabilità come colpa può, però, essere diminuita quando il peccatore si rivolge alla misericordia di Dio con cuore umile e prega: «Signore, abbi pietà di me peccatore». Qui l’accompagnamento pastorale e la pratica della virtù della penitenza come introduzione al sacramento della penitenza ha un’importanza particolare. Essa è, come dice Papa Francesco, «una via dell’amore» (AL, 306). (p. 30)




 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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31/12/2017 09:20
 
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Caro Müller, un errore cacciarti. Firmato: Benedetto XVI
EDITORIALI 31-12-2017

Il cardinale Müller con papa Benedetto XVI

Il cardinale Gerhard Ludwig Müller unisce alla "competenza teologica" quella "saggezza" necessaria nelle persone che devono prendere decisioni nella Chiesa. Lo scrive il papa emerito Benedetto XVI nella prefazione al volume che esce oggi in Germania per celebrare i 70 anni dell'ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. "Il Dio Trino - La fede cristiana nell'era secolare", questo è il titolo del volume che raccoglie i contributi di altri vescovi e teologi. Nella prefazione (che qui riportiamo integralmente) Benedetto XVI tesse gli elogi del cardinale Müller e sottolinea la consonanza teologica che lo unisce a lui, facendo chiaramente intendere - con lo stile delicato che lo contraddistingue - quanto sia stato avventato averlo messo alla porta (clicca qui). Tanto più, fa notare il papa emerito, che il cardinale Müller non si muoveva affatto in opposizione a papa Francesco, tutt'altro. Benedetto XVI ripete così con il cardinale Müller quella difesa pubblica che aveva già espresso per il cardinale Robert Sarah (clicca qui), anche lui mortificato e messo in un angolo da papa Francesco. Da notare anche la coincidenza temporale: lo scritto di Benedetto XVI porta la data del 31 luglio, un mese esatto dopo la mancata riconferma del cardinale Müller (R. Cas.).

Eminenza, caro confratello,

il tuo settantesimo compleanno si sta avvicinando e anche se non sono più in grado di scrivere un vero contributo scientifico per la miscellanea che ti sarà dedicata per questa occasione, vorrei comunque partecipare con una parola di saluto e di ringraziamento.

Sono trascorsi ormai ventidue anni da quando, nel marzo 1995, mi regalasti la tua Katholische Dogmatik für Studium und Praxis der Theologie. Questo fu per me allora un segno incoraggiante del fatto che anche nella generazione teologica postconciliare vi fossero pensatori con il coraggio di occuparsi dell'intero, di presentare cioè la fede della Chiesa nella sua unità e integralità. Infatti, così com'è importante l'esplorazione del dettaglio, non è meno importante che la fede della Chiesa appaia nella sua unità interna e integralità e che in ultimo la semplicità della fede emerga da tutte le riflessioni teologiche complesse. Perché la sensazione che la Chiesa ci carichi di un fardello di cose incomprensibili, che alla fine possono interessare solo gli specialisti, è l'ostacolo principale per pronunciare il sì al Dio che in Gesù Cristo ci parla. Non si diventa, secondo la mia opinione, un grande teologo per il fatto di riuscire ad affrontare dettagli minuziosi e difficili, ma per il fatto che si è in grado di presentare l'ultima unità e semplicità della fede.

La tua Dogmatik in un volume però mi ha riguardato anche per un motivo autobiografico. Karl Rahner aveva presentato nel primo volume dei suoi scritti un progetto per una rinnovata costruzione della dogmatica, che aveva elaborato insieme ad Hans Urs Von Balthasar. Questo fatto ovviamente ha risvegliato in tutti noi un'incredibile sete di vedere questo schema riempito di contenuti e portato a compimento. Il desiderio di una dogmatica firmata Rahner-Balthasar, che nacque in questa occasione, si scontrò con un problema editoriale.

Erich Wewel aveva convinto, negli anni '50, padre Bernard Häring di scrivere un manuale di teologia morale, che dopo la sua pubblicazione divenne un grande successo. Allora all'editore venne un pensiero: che anche nella dogmatica dovesse essere realizzato qualcosa di simile e che fosse necessario che tale opera venisse scritta in un volume unico da una sola mano. Ovviamente si rivolse a Karl Rahner, chiedendogli di scrivere questo libro. Però Rahner era nel frattempo invischiato in così tanti impegni che non si ritenne in grado di corrispondere ad una così grande impresa. Stranamente consigliò all'editore di rivolgersi a me, che a quel tempo, all'inizio del mio cammino, stavo insegnando dogmatica e teologia fondamentale a Frisinga. Però anch'io, nonostante fossi agli esordi, ero coinvolto in molti impegni e non mi sentivo in grado di scrivere un'opera così imponente in un tempo accettabile. Allora chiesi di poter coinvolgere un collaboratore – il mio amico padre Alois Grillmeier. Nel limite del possibile ho lavorato al progetto e diverse volte mi sono incontrato con padre Grillmeier per ampie consultazioni. Però il Concilio Vaticano II richiese tutti i miei sforzi nonché di pensare in modo nuovo tutta l'esposizione tradizionale della dottrina della fede della Chiesa. Quando nel 1977 fui nominato arcivescovo di Monaco-Frisinga era chiaro che non potevo più pensare ad una tale impresa. Allorché nel 1995 il tuo libro giunse nelle mie mani, vidi inaspettatamente che era stato realizzato da un teologo della generazione successiva alla mia quanto desiderato in precedenza, ma non era stato possibile realizzare.

Poi ti ho potuto conoscere personalmente, quando la Conferenza Episcopale Tedesca ti propose come membro della Commissione Teologica Internazionale. In essa ti sei contraddistinto soprattutto per la ricchezza del tuo sapere e per la tua fedeltà alla fede della Chiesa che ti sgorgava da dentro. Quando nel 2012 il Cardinal Levada ha lasciato il suo incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede per motivi di età, apparivi, dopo varie riflessioni, come il vescovo più adatto per ricevere questo incarico.

Quando nel 1981 accettai questo incarico, l'arcivescovo Hamer – allora Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede – mi spiegò che il prefetto non doveva essere necessariamente un teologo, ma un saggio, che affrontando le questioni teologiche non facesse valutazioni specifiche, ma riconoscesse cosa fare in quel momento per la Chiesa. La competenza teologica si doveva trovare piuttosto nel segretario che guida le Consulta, cioè la riunione dei periti, che insieme danno un giudizio scientifico accurato. Ma similmente alla politica, l'ultima decisione non spetta ai teologi, bensì ai saggi, che conoscono gli aspetti scientifici e, oltre a questi, sanno considerare l'insieme della vita di una grande comunità. Negli anni del mio ufficio, ho cercato di corrispondere a questo criterio. Quanto vi sia riuscito, lo possono valutare altri.

Nei tempi confusi, nei quali stiamo vivendo, l'insieme di competenza teologica scientifica e saggezza di colui che deve prendere la decisione finale mi sembra molto importante. Penso per esempio che nella Riforma liturgica le cose sarebbero andate a finire diversamente se la parola dei periti non fosse stata l'ultima istanza, ma se, oltre a questo, avesse giudicato una saggezza in grado di riconoscere i limiti dell'approccio di un “semplice” studioso.

Nei tuoi anni romani ti sei sempre nuovamente impegnato a non agire soltanto come studioso, ma come saggio, come padre nella Chiesa. Tu hai difeso le chiare tradizioni della fede, ma secondo la linea di papa Francesco, hai cercato di comprendere come possano essere vissute oggi.

Papa Paolo VI voleva che i grandi compiti nella Curia - quello del Prefetto e del Segretario - venissero assegnati sempre solo per cinque anni, per tutelare in questo modo la libertà del Papa e la flessibilità del lavoro della Curia. Nel frattempo il tuo contratto quinquennale nella Congregazione per la Dottrina della Fede è terminato. In questo modo non hai più un incarico specifico, ma un sacerdote e soprattutto un vescovo e cardinale non va mai in pensione. Per questo puoi e potrai anche in futuro servire la fede pubblicamente, a partire dall'essenza intima della tua missione sacerdotale e del tuo carisma teologico. Noi tutti siamo felici che con la tua grande e profonda responsabilità e il dono della parola che ti è dato, sarai presente anche in futuro nella lotta del nostro tempo per la retta comprensione dell'essere uomo e dell'essere cristiano. Il Signore ti possa sostenere.

Infine devo ancora esprimere un ringraziamento tutto personale. Come vescovo di Regensburg hai fondato l'Institut Papst Benedikt XVI, che – guidato da un tuo alunno – sta compiendo un lavoro veramente encomiabile per mantenere pubblicamente presente la mia opera teologica in tutta la sua  portata. Il Signore ti ricompenserà della tua fatica.

 

Città del Vaticano, Monastero Mater Ecclesiae

Festa di Sant'Ignazio di Loyola 2017

tuo Benedetto XVI




DIBATTITO

Muller e il diritto-dovere di correggere a volte il Papa

ECCLESIA  18-01-2018 - di Tosatti

Nella Chiesa esiste il diritto, e persino il dovere di correggere “un apostolo”, quando insegna qualche cosa che non è giusto; e sono diritti e doveri che possono (o devono) essere esercitati non solo da “un altro apostolo”, cioè da qualcuno che ha la carica episcopale, ma anche da un inferiore verso un superiore. Così si esprime il card. Gerhard Müller, già prefetto della Congregazione per la Fede, in una riflessione pubblicata dal sito statunitense “First Things” e incentrato sull’autorità papale.

“Con quale autorità?” si intitola il breve, ma molto interessante saggio, che parte dalle polemiche sulla “Kulturkampf” scatenata da Bismarck contro i cattolici; ma di cui si possono facilmente percepire le ricadute sull’attualità ecclesiale. A partire dalle controverse indicazioni di “Amoris Laetitia”, continuando con i “Dubia”, ancora rimasti senza una risposta da parte del Pontefice, le petizioni filiali, la “Correctio filialis” e il documento di fedeltà all’insegnamento di sempre della Chiesa in materia di matrimonio e sacramenti. Da quando scrive il porporato tedesco è evidente la legittimità di queste iniziative.

“Bisogna tenere alla mente – scrive Mūller - che le affermazioni dottrinali hanno diversi gradi di autorità. Richiedono diversi gradi di consenso, così come espresso dalle cosiddette ‘note teologiche’. L’accettazione di un insegnamento con ‘fede cattolica e divina’ è richiesto solo per le definizioni dogmatiche. Chiaro è anche il papa o i vescovi non devono mai chiederea nessuno di agire o insegnare contro la legge morale naturale. L’obbedienza del fedele verso i suoi superiori ecclesiastici di conseguenza non è un’obbedienza assoluta, e il superiore non può chiedere obbedienza assoluta, perché sia il superiore che quelli affidati alla sua autorità sono fratelli e sorelle dello stesso Padre, e sono discepoli dello stesso Maestro”.

Ne consegue un grado diverso di responsabilità: “Quindi è più difficile insegnare che apprendere, perché l’insegnamento è associato a una maggiore responsabilità davanti a Dio. L’affermazione ‘dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini’ ha una sua validità anche e specialmente nella Chiesa. Contro il principio di obbedienza assoluta che prevaleva nello Stato militare prussiano, i vescovi tedeschi insistevano davanti a Bismarck: ‘Sicuramente non è la Chiesa cattolica che ha abbracciato il principio immorale e dispotico in base a cui l’ordine di un superiore libera qualcuno incondizionatamente da ogni responsabilità personale’”.

Questo principio vale anche all’interno della Chiesa, e non solamente nei confronti dell’autorità civile o statuale: “Quando opinioni private o limitazioni morali e spirituali entrano nell’esercizio dell’autorità ecclesiastica, allora si richiedono critiche sobrie e obiettive così come la correzione personale, specialmente da parte di fratelli nell’ufficio episcopale. Tommaso d’Aquino non sarà sospettato di relativizzare il Primato Petrino e la virtù dell’obbedienza. Il modo in cui interpreta l’incidente di Antiochia è quanto mai illuminante, incidente che culmina nella pubblica correzione di Pietro da parte di Paolo”.

Il cardinale tira le conseguenze dell’avvenimento, e dello scontro, famoso fra  Pietro e Paolo: “Secondo l’aquinate l’evento ci insegna che in certe circostanze un apostolo può avere il diritto e persino il dovere di correggere un altro apostolo in maniera fraterna, e che persino un inferiore può avere il diritto e il dovere di criticare il superiore”.

Anche questo diritto-dovere hanno dei limiti precisi, come insegna il Concilio vaticano II citato da Müller: “Questo non significa che si può ridurre il magistero a un’opinione privata, così da dispensare qualcuno dal potere obbligante dell’insegnamento autentico e definito della Chiesa. Significa solo che uno deve capire bene il significato preciso dell’autorità della Chiesa in generale e il ruolo del ministero di Pietro in particolare. E questo è particolarmente vero quando il conflitto non nasce dall’insegnamento del papa ei l punto di vista personale di qualcuno, ma fra l’insegnamento del papa e l’insegnamento dei papi precedenti che sia in accordo con la tradizione ininterrotta della Chiesa”. E certamente l’esempio più recente e attuale di questo contrasto lo si può trovare fra le interpretazioni aperturiste di Amoris Laetitia e il magistero dei papi moderni, ultimi dei quali Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.



[Modificato da Caterina63 18/01/2018 09:58]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Autorità del Papa e Magistero della Chiesa - Card. Gerhard Müller

 
Nella nostra traduzione da First Things la seconda di una serie di riflessioni del cardinal Müller, ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, su questioni di importanza attuale nella vita della Chiesa, quali l'Autorità del Papa e il Magistero della Chiesa. La prima riflessione, su soggettività, colpevolezza e confessione, sarà oggetto di successiva traduzione

Con quale autorità? - Sul munus docendi del Papa
Gerhard Ludwig Müller 

Il Papa non è un monarca assoluto il cui pensieri e desideri sono legge
(Papa Benedetto XVI)
Come si rapportano il Magistero del Papa e la Tradizione della Chiesa? Quando interpreta le parole di Gesù, il papa deve essere in continuità con la Tradizione e il Magistero precedente, compreso quello dei papi più recenti? O è piuttosto la Tradizione della Chiesa che deve essere reinterpretata alla luce delle nuove parole del papa? Cosa succede se ci sono contraddizioni?
Per rispondere a queste domande, ritengo opportuno iniziare con una importante lettera apostolica che Papa Pio IX ha inviato all'episcopato tedesco il 4 marzo 1875. Nella sua lettera, il Papa ha spiegato che i vescovi tedeschi avevano interpretato il dogma dell'infallibilità papale e del primato petrino in perfetta armonia con le definizioni del Concilio Vaticano I. Causa della lettera del Papa il dispaccio circolare del cancelliere tedesco Bismarck che aveva gravemente male interpretato questo dogma per giustificare la brutale persecuzione dei cattolici tedeschi nel cosiddetto Kulturkampf, o "guerra culturale". Secondo Pio IX, nella loro risposta alla provocazione di Bismarck, i vescovi tedeschi hanno mostrato chiaramente "che non c'è assolutamente nulla nelle definizioni affrontate che sia nuovo o che cambi qualcosa sui nostri rapporti con i governi o che possano offrire qualsiasi pretesto per continuare a perseguitare la Chiesa".
 
Certamente, per valutare gli eventi, bisogna conoscere i presupposti culturali in base ai quali hanno operato Bismarck e i suoi "guerrieri della cultura" liberali. Sebbene avessero per lo più abbandonato il contenuto religioso della Riforma protestante che aveva segnato il loro paese, essi avevano ampiamente sostenuto i pregiudizi contro la Chiesa cattolica. Per loro, l'ufficio pedagogico esercitato dal papa e dai concili della Chiesa rivendicava un'autorità superiore alla Parola di Dio stessa. Non solo il magistero ecclesiale ostacolava l'immediata relazione del credente con Dio, ma si erigeva come elemento estraneo frapponentesi tra i cittadini e lo stato - uno stato, la Prussia della fine del diciannovesimo secolo, che attribuiva a se stesso un'autorità totale, scissa anche dalla legge morale naturale.
 
Bismarck e i suoi sostenitori erano convinti che l'autorità del papa si estendesse all'invenzione e all'istituzione arbitrarie di dottrine e prassi riguardanti tutta la Chiesa, compresi i cittadini cattolici tedeschi, che sarebbero quindi tenuti ad aderirvi sotto la minaccia della scomunica e della perdita della vita eterna. Contro questa totale caricatura della pienezza del potere del papa, i vescovi tedeschi sottolineavano che "in tutti i punti essenziali la costituzione della Chiesa è basata su direttive divine, e quindi non è soggetta all'arbitrio umano". Per quanto riguarda loro,"l'opinione secondo la quale il papa è "un sovrano assoluto per la sua infallibilità" si basa su una comprensione completamente falsa del dogma dell'infallibilità papale". Infatti, il Magistero del papa "si limita ai contenuti della Sacra Scrittura e della tradizione e anche ai dogmi precedentemente definiti dall'autorevole insegnamento della Chiesa".

Il fatto è che l'ufficio dell’insegnamento tenuto dal papa e dai vescovi in unione con lui è un ministero al servizio della Parola di Dio, un Verbo che si è fatto carne in Gesù Cristo. Cristo è quindi l'unico Maestro (cfr Mt 23,10), che ci annuncia "parole di vita eterna" (cfr Gv 6,68). Rispetto a Lui, Pietro, gli apostoli e tutti i battezzati sono fratelli e sorelle dell'unico Padre celeste.
 
Senza pregiudizio per il fatto che tutti i credenti sono fratelli e sorelle, Gesù ha scelto alcuni dei suoi numerosi discepoli per essere suoi apostoli, dando loro l'autorità di insegnare e governare. Egli ha affidato loro "il messaggio della riconciliazione", così che ora agiscano nella persona stessa di Cristo per la salvezza del mondo (cfr 2 Cor 5,19ss). Il Signore risorto, al quale è stato dato tutto il potere nei cieli e sulla terra, invia i suoi apostoli in tutto il mondo per fare discepoli di tutte le nazioni e battezzarli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Istituendo i suoi apostoli, Gesù istituisce anche i loro successori, cioè i vescovi, insieme al successore di Pietro, il papa, come loro capo. Il mandato che Cristo dà loro è di "insegnare loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,20). In questo modo Egli chiarisce che il contenuto dell'insegnamento degli apostoli - criterio della verità di ciò che dicono - è il Suo insegnamento. La certezza della fede cristiana poggia infine sul fatto che la parola umana degli apostoli e dei vescovi è la divina Parola di salvezza, non prodotta ma piuttosto testimoniata dal mediatore umano (cfr 1 Ts 2,13).

Fin dai tempi di Ireneo di Lione nel secondo secolo, è stata stabilita una terminologia secondo la quale il contenuto della rivelazione si trova nella Sacra Scrittura e nella Tradizione apostolica. Questa rivelazione è autorevolmente proclamata dal magistero ecclesiastico costituito dal papa e dai vescovi in ​​unione con lui. In contrasto con il principio “sola scriptura”, la sola Bibbia, come aveva affermato la Riforma, il Concilio di Trento sottolinea che essa appartiene alla Santa Madre Chiesa "per giudicare il vero significato e l'interpretazione della Sacra Scrittura" e.... nessuno può osare interpretare la Scrittura in modo contrario al consenso unanime dei Padri.
 
Il Concilio Vaticano II riprende questo modo fondamentale di interpretare la fede cattolica e ne trae la conclusione: "Questo Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma è suo servo. Insegna solo ciò che è stato tramandato. Al comando divino e con l'aiuto dello Spirito Santo, lo ascolta devotamente, lo custodisce con dedizione e lo espone fedelmente. Tutto ciò che propone per credere come divinamente rivelato è tratto da questo unico deposito di fede "( Dei Verbum, 10).
 
C'è accordo tra tutti i cristiani sul fatto che la Sacra Scrittura è la Parola di Dio. Ma dal momento che questa Parola è trasmessa nel linguaggio umano, non ha l'evidenza ( quoad se - in se stessa) che i protestanti vogliono attribuirle. Piuttosto, c'è bisogno di un'interpretazione umana da parte degli maestri della fede la cui autorità proviene dallo Spirito Santo. Verso coloro che ascoltano la Parola di Dio, questi maestri rappresentano l'autorità di Dio, facendo uso delle parole e delle decisioni umane (quoad nos - evidenti per noi). Il compito di insegnamento e governo autorevoli non può essere lasciato solo al singolo credente che nella sua coscienza arriva ad accettare una certa verità. Dopo tutto, la rivelazione è stata affidata all'intera Chiesa. Pertanto, il Magistero è una parte essenziale della missione della Chiesa. Solo con l'aiuto del magistero vivente [attenzione al 'vivente' in senso storicista! -ndT] del papa e dei vescovi la Parola di Dio può essere trasmessa nella sua integrità ai fedeli e a tutto il popolo di tutti i tempi e luoghi.

Nel Credo professiamo la nostra fede usando parole umane. Queste parole sono soggette ad un certo cambiamento, nella modalità di espressione. Ciò è possibile ed effettivamente necessario, poiché, come afferma chiaramente san Tommaso, "l'atto del credente non si ferma all'enunciato ma va alla realtà" ( S TH II-II 1,2, ad 2). Nella misura in cui l'insegnamento degli apostoli - e quindi l'insegnamento della Chiesa - è Parola di Dio nelle parole degli esseri umani, la Parola di Dio prende forma e si sviluppa nella coscienza della sua fede nella Chiesa, in modo abbastanza analogo al modo in cui ciascuno dei fedeli subisce uno sviluppo spirituale e storico sotto la guida dello Spirito Santo. Certo, la missione dello Spirito Santo non consiste nel creare nuove dottrine, ma nel rendere presente nella Chiesa la pienezza della rivelazione di Gesù Cristo (cfr Gv 16,13).
 
Il Papa, nella misura in cui, come capo del collegio episcopale, è il principio dell'unità della Chiesa nella verità, ha la missione sia di preservare la verità della rivelazione sia, ove necessario, di stabilire nuove formulazioni concettuali del credo (il "simbolo"). Nel fare ciò, egli non può aggiungere nulla alla rivelazione che ci è stata data nella Scrittura e nella Tradizione, né può cambiare il contenuto delle precedenti definizioni dogmatiche. Ma per preservare l'unità della Chiesa nella fede, egli ha il diritto e il dovere, in alcune circostanze, di dare una nuova formulazione al credo (nova editio symboli). San Tommaso d'Aquino spiega: "La verità della fede è sufficientemente esplicita nell'insegnamento di Cristo e degli apostoli. Ma dal momento che, secondo 2 Pt. 3:16, alcuni uomini sono così malvagi da alterare l'insegnamento apostolico e le altre dottrine e Scritture fino alla loro stessa distruzione, si è reso necessario, col tempo, esprimere più esplicitamente la fede contro gli errori sorti (Summa Theologiae II-II, 1,10 e 1).
 
Per questo compito, il magistero attinge la comprensione soprannaturale della fede ( sensus fidei ) data dallo Spirito Santo a tutto il Popolo di Dio sotto la guida dei vescovi (cfr Lumen Gentium n. 12). Ma conta anche sui teologi. Senza il lavoro teologico preparatorio di sant'Atanasio e dei padri cappadoci, non ci sarebbe stato il Credo niceno né la sua difesa e le sue specifiche nei successivi concili. Allo stesso modo, i decreti del Concilio di Trento non sarebbero stati possibili senza il lavoro preparatorio dei teologi più istruiti di quel tempo. È vero che per il Concilio Vaticano II la trasmissione storica e fedele della rivelazione ha le sue basi nel carisma dell'infallibilità, che è propria del papa e dei concili ecumenici. Allo stesso tempo, il Vaticano II non manca di aggiungere: "Il Romano Pontefice ed i vescovi, nella coscienza del loro ufficio e della gravità della cosa, prestano la loro vigile opera usando i mezzi convenienti però non ricevono alcuna nuova rivelazione pubblica come appartenente al deposito divino della fede"(Lumen Gentium n. 25).

Certamente un cattolico non si può ignorare la dottrina sviluppata dalla Chiesa per seguire esclusivamente la dottrina della Scrittura pura per supposizione. La parabola del figliol prodigo, ad esempio, non impartisce una istruzione catechetica sul sacramento del pentimento nella sua materia (pentimento, confessione, soddisfazione) e forma (assoluzione del sacerdote). Se si guardasse la Scrittura da sola, si potrebbe quindi concludere che, dal momento che il figlio non si è effettivamente preoccupato di confessare i suoi peccati, non è nemmeno necessario farlo. Tuttavia, contrastare la Scrittura contro la Chiesa in questo modo significherebbe ignorare completamente le parole di Cristo, che ha affidato agli apostoli - con Pietro come loro capo - la conservazione fedele dell'intero deposito di fede.
 
Cristo ha posto il papa "alla testa degli altri apostoli, e in lui ha creato una fonte e un fondamento duraturo e visibile dell'unità di fede e di comunione" (Lumen gentium n. 18). Ora, la pienezza dell'autorità apostolica non implica una pienezza illimitata di potere in senso secolare. Piuttosto, questo potere è strettamente limitato dal suo scopo: è al servizio della preservazione dell'unità della Chiesa nella fede nel Figlio di Dio che è venuto "nella pienezza dei tempi" (Gal 4,4-6). L'autorità del papa è strettamente legata alla rivelazione; essa deriva infatti dalla rivelazione. È solo attraverso la potenza di Dio che Pietro è in grado di preservare l'intera Chiesa nella fedeltà a Cristo, anche quando Satana la scuote e la setaccia, affinché il grano possa essere separato dalla pula. Come dice Gesù: "Ma ho pregato affinché la vostra fede non fallisca" (Lc 22,32). Nel suo Magistero supremo, il papa unisce la Chiesa intera e tutti i suoi vescovi nella stessa confessione: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16). Ed è proprio in questa confessione che egli è la roccia su cui il Signore Gesù continua a costruire la sua Chiesa fino alla fine del mondo. È quindi chiaro che le parole del papa sono al servizio di tutta la Tradizione della Chiesa, e non il contrario.

Quanto detto sopra si riferisce all'insegnamento della Chiesa, ma anche all'amministrazione dei suoi mezzi di grazia nei sacramenti. Nel Decreto sulla Santa Comunione, il Concilio di Trento dichiara che la Chiesa ha il potere di determinare o modificare i riti esterni dei sacramenti. Allo stesso tempo, il Concilio nega che la Chiesa abbia il diritto o il potere di interferire con l'essenza dei sacramenti, insistendo sul fatto che "la loro sostanza è preservata". Quando il Concilio di Trento definisce che ci sono tre atti del penitente che fanno parte del sacramento della penitenza (pentimento con la volontà di non peccare di nuovo, confessione e riparazione), anche i papi e i vescovi dei secoli successivi sono vincolati da questa dichiarazione. Non sono liberi di concedere l'assoluzione sacramentale per i peccati, o di autorizzare i loro sacerdoti a farlo, quando i penitenti non mostrano segni di pentimento o quando rifiutano esplicitamente la volontà di non peccare di nuovo. Nessun essere umano può annullare la contraddizione interiore tra l'effetto del sacramento - cioè la nuova comunione di vita con Cristo nella fede, nella speranza e nell'amore - e la disposizione inadeguata del penitente. Nemmeno il papa o un concilio possono farlo, perché non hanno l'autorità, né potrebbero mai ricevere tale autorità, perché Dio non chiede mai agli esseri umani di fare qualcosa che sia al tempo stesso contraddittorio in se stesso e contrario a Dio stesso.
 
Bisogna tenere a mente che le affermazioni dottrinali hanno diversi gradi di autorità. Richiedono gradi diversi di consenso, come espresso dalle cosiddette "note teologiche". L'accettazione di un insegnamento con "fede divina e cattolica" è richiesta solo per le definizioni dogmatiche. È anche chiaro che il papa o i vescovi non devono mai chiedere a nessuno di agire o insegnare contro la legge morale naturale. L'obbedienza dei fedeli verso i loro superiori ecclesiali non è quindi un'obbedienza assoluta, e il superiore non può esigere un'obbedienza assoluta, perché sia ​​il superiore che quelli affidati alla sua autorità sono fratelli e sorelle dello stesso Padre, e sono discepoli del stesso Maestro. Pertanto, è più difficile insegnare che imparare, perché l'insegnamento è associato a una maggiore responsabilità di fronte a Dio. L'affermazione "Dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (Atti 5:29) ha la sua validità anche e soprattutto nella Chiesa. Contro il principio di assoluta obbedienza prevalente nello stato militare prussiano, i vescovi tedeschi hanno insistito prima di Bismarck: "Non è certamente la Chiesa cattolica che ha abbracciato il principio immorale e dispotico che il comando di un superiore libera incondizionatamente da ogni responsabilità personale”.

Quando le opinioni private o i limiti spirituali e morali entrano nell'esercizio dell'autorità ecclesiastica, è necessaria una critica sobria e oggettiva e una correzione personale, specialmente da parte dei confratelli nell'ufficio episcopale. Tommaso d’Aquino non sarà sospettato di relativizzare il primato petrino e la virtù dell'obbedienza. Ancor più illuminante è il modo in cui egli interpreta l'incidente di Antiochia, culminato nella correzione pubblica Paolo su Pietro (Gal 2,11). Secondo Tommaso d’Acquino, l'evento ci insegna che in certe circostanze un apostolo può avere il diritto e persino il dovere di correggere fraternamente un altro apostolo, e che anche un inferiore può avere il diritto e il dovere di criticare il superiore (cfr. Commento ai Galati, cap. II, lettura 3). Ciò non vuol dire che si possa ridurre il magistero ad un'opinione privata, per liberarsi del potere vincolante dell'insegnamento autentico e definito della Chiesa (cfr. Lumen gentium 37). Significa solo che si deve comprendere bene il significato preciso dell'autorità nella Chiesa in generale e il ruolo del ministero di Pietro in particolare. Questo è particolarmente vero quando il conflitto non nasce tra l'insegnamento del papa e la propria visione, ma tra l'insegnamento del papa e un insegnamento dei papi precedenti che è conforme alla tradizione ininterrotta della Chiesa.
 
Come ha spiegato Papa Benedetto XVI durante la Messa in occasione della presa di possesso della Cattedra del Vescovo di Roma il 7 maggio 2005, 
"Il potere che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori è, in senso assoluto, un mandato a servire. Il potere di insegnare nella Chiesa implica un impegno al servizio dell'obbedienza alla fede". Egli continua: "Il papa non è un monarca assoluto i cui pensieri e desideri sono legge. Al contrario: il ministero del papa è garanzia di obbedienza a Cristo e alla sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, ma piuttosto vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all'obbedienza alla Parola di Dio, di fronte ad ogni tentativo di adattarla o di annacquarla, e ad ogni forma di opportunismo".
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]




Va ricordato che:

Scomunica
, una parola che probabilmente per molti ha un sapore antico, di una Chiesa che non c’è più. Al contrario, la scomunica è ancora molto attuale. Lo è talmente che, lo scorso mese di maggio, papa Francesco l’ha utilizzata scomunicando Martha Heizer, insegnante di religione a Innsbruck nonché co-fondatrice e presidente del movimento “Wir sind Kirche” (“Noi siamo Chiesa”), e suo marito Gert. Tre anni fa i due coniugi, in segno di sfida verso il Vaticano sulla questione del sacerdozio femminile, avevano cominciato a celebrare la messa in casa loro, nel piccolo comune tirolese di Absam dove abitano, in assenza di sacerdoti. 

Nessun sacramento

All’indomani del gesto, la Congregazione per la dottrina della fede aveva istituito una commissione che ha stabilito la scomunica per una pratica che, profanando il sacramento dell’Eucarestia, per la Chiesa si configura tra i delitti più gravi al pari, ad esempio, della pedofilia.

Ma cos’è, in realtà, la scomunica? Secondo il dizionario storico dell’Enciclopedia Treccani è, “nel diritto canonico una censura ecclesiastica che, a causa di un peccato grave e fino all’eventuale assoluzione, esclude il battezzato dalla comunione con la Chiesa, vietandogli di ricevere o amministrare sacramenti e di esercitare qualsiasi ministero ecclesiastico”. Si tratta, insomma, della più grave delle pene che possa essere comminata a un battezzato, perché lo allontana dalla Chiesa e dai sacramenti.

Può essere anche automatica

Esistono due tipi di scomunica: “latae sententiae” se scaturisce da un comportamento delittuoso e non è necessario che venga esplicitamente comminata perché chi compie un determinato atto si trova a essere scomunicato per il solo fatto di averlo compiuto; “ferendae sentientiae” se, invece, la scomunica non è automatica e deve essere comminata da un organismo ecclesiale.

Esistono inoltre, sempre secondo il diritto canonico, i diversi gradi di scomuniche: se, infatti, generalmente una scomunica può essere tolta dal sacerdote durante la confessione, alcune sono riservate al vescovo o, persino, alla Santa Sede: in questo caso, che riguarda i delitti più gravi, la scomunica può essere comunque tolta da un sacerdote che, però, deve essere ricorso alla Penitenzieria Apostolica, il competente ufficio della Curia Romana.

Va detto che, poiché il peccato grave è già sufficiente da solo a dannare l’anima, la scomunica è considerata non tanto come punizione quanto come un tentativo estremo di riportare un fedele sulla retta via, ed evitare che, accompagnato a comunione sacrilega, il peccato diventi ancora più grave.

Quali sono, secondo il diritto canonico, i peccati passibili di scomunica? Nell’elenco dei più gravi, con scomunica riservata alla Santa Sede, troviamo: chi profana le ostie dell’Eucarestia (ed è quello che ha causato la scomunica dei coniugi Heizer); chi usa violenza fisica contro il Papa; il sacerdote che, in confessione, assolve la persona con cui ha avuto rapporti sessuali; il vescovo che consacra un altro vescovo senza mandato pontificio; il sacerdote che rende pubblica l’identità di un fedele e i suoi peccati.

Tra coloro che vengono, invece, scomunicati automaticamente ma senza necessità di ricorrere alla Santa Sede (cioè la scomunica può essere annullata dopo la confessione e il pentimento) c’è chi ricorre all’aborto(anche se è necessario l’intervento del vescovo per la sua remissione), chi abbandona la propria fede e chi appartiene a logge massoniche.

È da sottolineare che la scomunica priva dell’esercizio dei diritti ma non dei doveri perciò al fedele rimane, ad esempio, l’obbligo di partecipare alla messa la domenica e i giorni di precetto, pur senza ricevere la comunione


[Modificato da Caterina63 22/01/2018 11:19]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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19/03/2018 20:16
 
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IL DOCUMENTO

L’importanza salvifica della Regola della Fede

ECCLESIA 18-03-2018

La Dottrina non genera odio. Sia l’esperienza che la ragione ci dicono che verità e amore stanno insieme e che verità e libertà sono concetti gemelli, mentre invece menzogna e odio, ideologia e violenza, compongono una nefasta alleanza. Affermare il cristianesimo come dogmatico significa dire che esso è fondato sull’autorivelazione storica di Dio. Significa dire che il Verbo fatto carne ci ha trasmesso la pienezza della verità e della vita.

 

Il cardinal Gerhard Ludwig Muller

Qual è l’importanza della dottrina cristiana per la vita dei fedeli? Alcuni teologi e vescovi presentano un’idea della dottrina che assomiglia fortemente a ciò che propone il filosofo italiano Gianni Vattimo nel suo libro intervista Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo. In quest’opera, il noto pensatore post-moderno esorta la Chiesa cattolica ad abbandonare le affermazioni veritative che essa collega alla fede. Nell’ottica di Vattimo, le verità assolute sono fonte di conflitto e di violenza, mentre invece la vera forza del cristianesimo si trova nella pratica della carità. La famosa affermazione di Aristotele Amicus Plato sed magis amica veritas - Platone è un amico ma la verità è la più grande amica - dovrebbe quindi essere cancellata. È possibile per la Chiesa seguire le indicazioni di Vattimo? È pensabile che la confessione di verità di fede specifiche non sia più necessaria alla salvezza? Oppure c’è una regula fidei - una regola della fede - che contiene il nucleo delle verità rivelate e che tutti i cristiani devono confessare per porsi nel giusto rapporto con Dio e con il prossimo?

La tesi di Vattimo non è né originale né ragionevole. Nel suo Storia naturale della religione (1757), il filosofo scozzese David Hume - in accordo con altri pensatori scettici e agnostici di origine inglese e francese - ha affermato che sulla pretesa cristiana di una verità assoluta gravava la colpa delle devastanti guerre civili che si erano combattute in Gran Bretagna e in Francia. Secondo lui, per trovare una base di una coesistenza pacifica e tollerante tra persone di diversa provenienza, era necessario orientarsi verso un tipo di cristianesimo ridotto alle opere di carità oppure ad una religione e ad una moralità naturali che non si appellavano a nessuna rivelazione soprannaturale. Secondo questa prospettiva, Gesù incarnava l’amore. Egli ha pensato e vissuto una moralità di autentica bontà umana. I dogmi della Chiesa sono considerati come costrutti mentali che permettono al clero di difendere e accrescere il proprio potere. Per i sostenitori di questa opinione, Gesù voleva un cristianesimo libero dai dogmi - ed è precisamente questo tipo di cristianesimo che corrisponde alle esigenze del nostro tempo. Secondo questa prospettiva, oggi abbiamo bisogno di un umanesimo senza metafisica, senza rivelazione, e senza una moralità ostile alla vita. All’inizio del movimento ecumenico, prima e dopo la Prima Guerra Mondiale, veniva spesso menzionato il seguente motto: “La dottrina separa, la vita unisce”.

Più recentemente, l’egittologo Jan Assmann ha portato avanti la tesi che la fede biblica nell’unico Dio aveva soppresso la tolleranza propria del politeismo (cf. The Price of Monotheism). Egli sostiene che il monoteismo per sua natura ammette solamente la confessione nell’unico Dio di Israele, così da reprimere il culto delle altre divinità - insieme ai loro adoratori, se necessario. Eppure si potrebbe domandare se l’identificazione del monoteismo con la violenza e del politeismo con la tolleranza resista ad una verifica empirica. I fatti storici parlano una lingua completamente diversa. Si considerino, per esempio, le persecuzioni che gli ebrei hanno subito a motivo della loro fedeltà all’unico Dio e Creatore di tutto. Il martirio dello scriba Eleazaro e dei sette fratelli (2 Mac 6, 18- 7, 42) è appena un esempio. Lo stesso vale per le persecuzioni dei cristiani sotto l’Impero Romano nel corso dei primi tre secoli del cristianesimo. Ai nostri giorni, ogni anno migliaia di cristiani nel mondo testimoniano con le loro vite la verità che l’amore di Dio è più forte dell’odio del mondo. Essi sono martiri della verità, la verità che è Dio stesso e che si fonda in lui. Chiunque, di fronte alla sofferenza e alla morte dei martiri, affermi che il nuovo monoteismo e la loro confessione di Cristo sia una sorgente di violenza, dimostra un grado di sconsideratezza, che arriva a disprezzare l’umanità. L’accusa che la fede nella verità di un unico Dio implichi una propensione a ricorrere alla violenza, è in se stessa un’espressione di violenza mentale, che in Occidente porta all’aggressione verbale contro i cristiani devoti.

Ma l’identificazione del monoteismo con la violenza non risulta carente solamente nel confronto con una verifica empirica. Essa contraddice anche la logica basilare. La violenza è il solo strumento che la verità non può usare per farsi riconoscere. Dopotutto, la verità è volta alla conoscenza, che si realizza solo quando la verità è liberamente accolta dalla ragione. Pertanto, per aiutare qualcuno a raggiungere questa conoscenza – per aiutare qualcuno a pervenire alla conoscenza della verità - non è possibile ricorrere alla violenza, ma si devono utilizzare argomenti razionali che cercano di convincere. La verità può essere denunciata come una sorgente di violenza solamente quando si arriva ad affermare in modo apodittico che il relativismo è la sola posizione corretta da tenere di fronte alla verità, che in ultima analisi è inconoscibile.

È invece la menzogna, nella misura in cui non riesce a prevalere con la forza dell’argomentazione, che necessariamente dà origine alla violenza o al rischio della violenza. Oltre a ciò, ci può essere l’attrattiva dei beni mondani a sedurre il credente ad allontanarsi dalla vera fede. Parlando all’ultimo dei fratelli Maccabei, “il re esortava… non solo a parole, ma con giuramenti prometteva che l'avrebbe fatto ricco e molto felice se avesse abbandonato gli usi paterni, e che l'avrebbe fatto suo amico e gli avrebbe affidato cariche” (2 Mac. 7, 24). Questa scena è attinente ai problemi attuali, come lo è la reazione del tiranno di fronte alla fedeltà di un vero israelita: “Il re, divenuto furibondo, si sfogò su costui più crudelmente che sugli altri, sentendosi invelenito dallo scherno” (2 Mac. 7, 39). Come negli ultimi giorni Gesù non aveva minacciato i suoi persecutori, ma aveva pregato per loro mentre pendeva dalla croce, così anche qui possiamo riconoscere il frutto non violento di ogni martirio: “Così anche costui passò all'altra vita puro, confidando pienamente nel Signore” (2 Mac 7, 40).

I critici più acuti delle ideologie totalitarie (come George Orwell in La Fattoria degli animali, Alexander Solzhenitsyn in Arcipelago gulag, o Eugene Kogon in Der SS-Staat) hanno rintracciato il fallimento degli stati particolarmente violenti, come l’Unione Sovietica o la Germania nazista, nelle menzogne sulle quali essi erano edificati. In questi sistemi, la solidarietà con i membri della stessa classe o etnia aveva più valore della verità e del rispetto per la nostra comune umanità. Mielke, Ministro della Sicurezza di Stato della Repubblica Democratica Tedesca, che fu responsabile di centinaia di esecuzioni presso il Muro di Berlino, dovette affrontare domande cruciali nel primo parlamento democraticamente eletto dopo la caduta della Cortina di ferro. Cercando di scusarsi per i suoi misfatti, aveva balbettato: “Ma io vi amo tutti”.

Sia l’esperienza che la ragione ci dicono che verità e amore stanno insieme e che verità e libertà sono concetti gemelli, mentre invece menzogna e odio, ideologia e violenza, compongono una nefasta alleanza. La primordiale esperienza della verità di Dio da parte di Israele è legata alla sua liberazione dal potere di Faraone. Il popolo viene liberato da Dio, il quale fa un’alleanza con lui. Il Dio del monte Sinai, che rivela la verità su di sé dicendo: “Io sono colui che sono” (Es. 3, 14), è anche il Dio dell’esodo, che libera il suo popolo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù” (Es. 20, 2).

Colui che ha creato tutti gli esseri umani vuole anche salvare tutti gli esseri umani. “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Tim. 2, 5-6). Dio non è il dittatore prepotente del Cielo che esige una cieca obbedienza, ma il nostro Salvatore, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tim. 2, 4). E i suoi apostoli non vengono come propagandisti di una dottrina terrena di salvezza “con eccellenza di parola o di sapienza” (1 Cor. 2, 1), ma come “ministri della Parola” (Luca 1,2), come i suoi “testimoni fino agli estremi confini della terra” (Atti 1,8), come predicatori e maestri dei gentili “nella fede e nella verità” (cf. 1 Tim. 2, 7).

La verità di Dio in Cristo e nella sua Chiesa resta il fondamento e la sorgente dell’amore di Dio e del prossimo, un amore che è il compimento di tutta la legge. Platone era nel giusto quando subordinava la sua venerazione per Omero alla verità (Repubblica 595bc), e Aristotele applicava questo principio allo stesso Platone, suo maestro (Etica nicomachea 1096a). La sentenza criticata da Vattimo resta irrevocabilmente in vigore: Amicus Plato sed magis amica veritas. Qualsiasi distorsione della relazione tra simpatia soggettiva e verità morale viene esclusa.

L’indicazione di Vattimo alla Chiesa cattolica nasconde una tentazione diabolica che promette un successo solo apparente: se vuoi entrare in contatto con le persone ed essere amato da tutti, fai come Pilato, lascia da parte la verità ed evita la Croce! Gesù avrebbe potuto evitare la morte se solo fosse rimasto concentrato sul suo messaggio relativo all’amore incondizionato del Padre celeste. Perché opporsi al diavolo, il vero sovrano di questo mondo, il “padre della menzogna” e “omicida fin dal principio” (cf Gv. 8, 44)? Cristo stesso è responsabile della sua morte, e la Chiesa non avrà nessuna prospettiva in questo mondo se non seguirà il sentiero della sapienza e del potere mondano! Possiamo rispondere a questa tentazione con la Sacra Scrittura, che ci ricorda il vero messaggio evangelico: “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità” (1 Gv. 1, 5-6). Noi crediamo in Gesù e lo seguiamo perché egli è la Verità. In quanto Verità-in-persona egli costituisce il fondamento e il criterio di ogni verità. Coloro che appartengono a Dio e dimorano in Cristo “conosceranno la verità” e la verità li renderà liberi (cf. Gv. 8, 32). San Giovanni Paolo II disse che se avesse dovuto scegliere di conservare un solo versetto del Vangelo, avrebbe scelto questo.

Quale, allora, l’errore fondamentale dello scetticismo metafisico e del relativismo morale? Potrebbe essere il fatto che essi confondono la verità con la teoria. La teoria sarà certamente sempre qualcosa di lontano dalla vita quotidiana. Al contrario, in Cristo la conoscenza della verità di Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti nella vita di ciascuno vanno sempre insieme. In lui “la luce è venuta nel mondo” (Gv. 3, 19). Tutti coloro che giustificano le proprie azioni malvagie odiano la luce e amano le tenebre, nascondendo le loro azioni malvagie dalla luce della verità. Verità e moralità sono interdipendenti. Questa è la novità radicale del cristianesimo. Non ci può essere alcuna contraddizione tra la fede che si confessa e la vita vissuta in conformità con i comandamenti di Dio. “Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv. 3, 21).

La nostra salvezza eterna dipende dalla concreta accettazione delle verità di fede? A questo punto siamo in grado di vedere la risposta alle nostre domande iniziali. Il relativismo riguardo alla verità limita la salvezza alle gioie mondane, al piacere dei sensi, all’appagamento emotivo. Ciò che si perde di vista, allora, è il fatto che Dio è l’origine e il fine degli esseri umani. Egli stesso è il fine della nostra ricerca infinita di verità e felicità. Dimenticando Dio, noi perdiamo il nostro vero essere.

La fede in Cristo contiene già in sé tutte le verità. In Gesù Cristo, il Verbo incarnato, la fede in lui e la conoscenza di lui diventano un’unica cosa. Egli è l’unica Parola divina che è divenuta carne. Le parole umane che costituiscono l’insegnamento di Gesù sono passate nell’ “insegnamento degli apostoli” (Atti 2,42) e nella dottrina della fede della Chiesa. Esse rendono presente l’unica verità di Dio e ci comunicano la vita divina (cf. Gv. 6, 68). Per questo Gesù può dire ai suoi discepoli allora e oggi: “le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv. 6, 63). Perciò è impossibile separare l’atto di fede dai suoi contenuti, cioè dagli articoli del Credo. La fede non può essere una fiducia formale in una persona che resta per noi sostanzialmente sconosciuta nel suo essere e nella sua essenza, nella sua storia e nel suo destino. Amare una persona significa anche voler conoscere la verità di quella persona. Perciò il contenuto della fede è importante per la nostra salvezza. Gli articoli di fede non trasmettono proiezioni astratte e postulati morali. Essi sono piuttosto una confessione di Dio stesso che nelle sue parole e nelle sue azioni ci comunica se stesso come verità e vita (cf. Dei Verbum 2).

Dio, che è la verità, ci conduce nella verità. Dio ci rivela se stesso. Questo è il motivo per cui la nostra beatitudine dipende anche dalla nostra fede nel Credo della Chiesa che riguarda il Dio Uno e Trino. La nostra confessione battesimale non riguarda il nostro stato emotivo e neppure ciò che Gesù significa soggettivamente per noi o ciò che noi pensiamo che sia: un profeta, un maestro morale, o qualsiasi altra proiezione che gli esseri umani possono inventare nei loro sforzi di giustificare se stessi. Invece ciò che ci viene chiesto nel battesimo è se noi crediamo in Dio Padre che ci ha creato, in Dio Figlio che ci ha redenti e in Dio Spirito Santo che abita in noi e che è Signore e Datore della vita divina. “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Eb. 11, 1). Perciò “senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti s'accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano” (Eb. 11, 6). Allora la fede è importante per la salvezza non solo in quanto comporta il credere che Dio ci perdonerà per amore di Cristo, come afferma la dottrina luterana sulla giustificazione. C’è anche un altro aspetto essenziale della fede, ossia la conoscenza di Dio. Questo significa che noi giungiamo alla conoscenza di Dio nelle verità che egli ha rivelato per la nostra salvezza (fides quae creditur). “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rom. 10, 10). Se vogliamo essere salvati, dobbiamo credere “che Gesù è il signore e che Dio lo ha risuscitato da morte” (cf. Rom. 10, 9).

Il Cardinale John Henry Newman ha parlato della distinzione tra il criterio “liberale” di interpretazione della rivelazione cristiana e il criterio “dogmatico”. Il principio liberale accetta le verità che Dio ha rivelato in Cristo solo nella misura in cui sono coerenti con la ragione naturale, corrispondono al sentimento religioso o soddisfano i bisogni della società civile (cf. Apologia, c. 2). Il principio dogmatico, al contrario, è descritto da Newman in questi termini:

“dunque, vi è una verità; vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori;… Il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla; la verità e l’errore sono posti davanti a noi per la prova dei nostri cuori; scegliere tra l’una e l’altro è un terribile gettar le sorti da cui dipende la nostra salvezza o la nostra dannazione; ‘prima di ogni altra cosa è necessario professare la fede cattolica’; ‘colui che vuole essere salvo deve credere così’ e non in modo diverso;… Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza” (Lo sviluppo della dottrina cristiana).

Nel suo cosiddetto Biglietto Speech in occasione della sua elevazione al Cardinalato (1879), Newman spiega di nuovo il significato del liberalismo: “Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro… [Questo liberalismo] è contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che… la religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia… [La religione rivelata] non è affatto un collante della società”.

Affermare il cristianesimo come dogmatico, al contrario, significa dire che esso è fondato sull’autorivelazione storica di Dio. Significa dire che il Verbo fatto carne ci ha trasmesso la pienezza della verità e della vita. Significa affermare che per il potere dello Spirito Santo, la Chiesa, nella sua predicazione e nella sua cura pastorale, rende testimonianza alla verità di Dio, comunicandoci la vita divina nei sacramenti. Perciò “la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati” (Gaudium et spes, 10).




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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