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1994 - ANNO DELLA FAMIGLIA LETTERA ALLE FAMIGLIE GRATISSIMAM SANE

Ultimo Aggiornamento: 11/05/2014 19:03
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11/05/2014 19:00
 
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   Questo argomento è stato ampiamente trattato nei Documenti conciliari, nell'Enciclica Humanae vitaenelle « Proposizioni » del Sinodo dei Vescovi del 1980, nell'Esortazione apostolica Familiaris consortioe in analoghi interventi, sino all'Istruzione Donum vitae della Congregazione per la Dottrina della Fede.

La Chiesa insegna la verità morale circa la paternità e maternità responsabili,difendendola dalle visioni e tendenze erronee oggi diffuse. Perché la Chiesa fa questo? Forse perché non avverte le problematiche evocate da quanti consigliano in quest'ambito cedimenti e cercano di convincerla anche con indebite pressioni, quando non addirittura con minacce? Non di rado, infatti, il Magistero della Chiesa viene rimproverato di essere ormai superato e chiuso alle istanze dello spirito dei tempi moderni; di svolgere un'azione nociva per l'umanità, anzi per la Chiesa stessa. Mantenendosi ostinatamente sulle proprie posizioni - si dice -, la Chiesa finirà per perdere in popolarità e i credenti si allontaneranno sempre più da essa.

Ma come sostenere che la Chiesa, specialmente l'Episcopato in comunione col Papa, sia insensibile a problemi così gravi ed attuali? Paolo VI intravedeva proprio in essi questioni tanto vitali da spingerlo a pubblicare l'Enciclica Humanae vitae. Il fondamento su cui si basa la dottrina della Chiesa circa la paternità e maternità responsabili è quanto mai ampio e solido. Il Concilio lo indica anzitutto nell'insegnamento sull'uomo, quando afferma che egli « in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa » e che non può « ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé ». Questo perché egli è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio e redento dal Figlio unigenito del Padre, fattosi uomo per noi e per la nostra salvezza.

Il Concilio Vaticano II, particolarmente attento al problema dell'uomo e della sua vocazione, afferma che l'unione coniugale, la biblica « una caro », può essere compresa e spiegata pienamente solo ricorrendo ai valori della « persona » e del « dono ». Ogni uomo ed ogni donna si realizzano in pienezza mediante il dono sincero di sé e, per i coniugi, il momento dell'unione coniugale costituisce di ciò un'esperienza particolarissima. È allora che l'uomo e la donna, nella « verità » della loro mascolinità e femminilità, diventano reciproco dono. Tutta la vita nel matrimonio è dono; ma ciò si rende singolarmente evidente quando i coniugi, offrendosi reciprocamente nell'amore, realizzano quell'incontro che fa dei due « una sola carne » (Gn 2, 24).

Essi vivono allora un momento di speciale responsabilità, anche a motivo della potenzialità procreativa connessa con l'atto coniugale. I coniugi possono, in quel momento, diventare padre e madre, dando inizio al processo di una nuova esistenza umana, che poi si svilupperà nel grembo della donna. Se è la donna a rendersi conto per prima di essere diventata madre, l'uomo con il quale si è unita in « una sola carne » prende a sua volta coscienza, attraverso la sua testimonianza, di essere diventato padre. Della potenziale, e in seguito effettiva, paternità e maternità sono entrambi responsabili. L'uomo non può non riconoscere, o non accettare, il risultato di una decisione che è stata anche sua. Non può nascondersi dietro espressioni quali: « non so », « non volevo », « sei stata tu a volere ». L'unione coniugale comporta in ogni caso la responsabilità dell'uomo e della donna,responsabilità potenziale che diventa effettiva quando le circostanze lo impongono. Ciò vale soprattutto per l'uomo che, pur essendo anch'egli artefice dell'avvio del processo generativo, ne resta biologicamente distante: è infatti nella donna che esso si sviluppa. Come potrebbe l'uomo non farsene carico? Occorre che entrambi, l'uomo e la donna, si assumano insieme, di fronte a se stessi e agli altri, la responsabilità della nuova vita da loro suscitata.

È conclusione, questa, che viene condivisa dalle stesse scienze umane. Occorre, però, andare più a fondo, analizzando il significato dell'atto coniugale alla luce degli accennati valori della « persona » e del « dono ». È quanto fa la Chiesa con il suo costante insegnamento, in particolare nel Concilio Vaticano II.

Al momento dell'atto coniugale, l'uomo e la donna sono chiamati a confermare in modo responsabileil reciproco dono che hanno fatto di sé nel patto matrimoniale. Ora, la logica del dono di sé all'altro in totalità comporta la potenziale apertura alla procreazione: il matrimonio è chiamato così a realizzarsi ancora più pienamente come famiglia. Certo, il dono reciproco dell'uomo e della donna non ha come fine solo la nascita dei figli, ma è in se stesso mutua comunione di amore e di vita. Sempre dev'essere garantita l'intima verità di tale dono. « Intima » non è sinonimo di « soggettiva ». Significa piuttosto essenzialmente coerente con l'oggettiva verità di colui e di colei che si donano. La persona non può mai essere considerata un mezzo per raggiungere uno scopo; mai, soprattutto, un mezzo di « godimento ». Essa è e dev'essere solo il fine di ogni atto. Soltanto allora l'azione corrisponde alla vera dignità della persona.

Nel concludere la nostra riflessione su quest'argomento così importante e delicato, desidero rivolgere un particolare incoraggiamento anzitutto a voi, carissimi coniugi, e a tutti coloro che vi aiutano a comprendere ed a mettere in pratica l'insegnamento della Chiesa sul matrimonio, sulla maternità e paternità responsabili. Penso, in particolare, ai Pastori, ai molti studiosi, teologi, filosofi, scrittori e pubblicisti, che non si adeguano al conformismo culturale dominante, disposti coraggiosamente ad « andare contro corrente ». Tale incoraggiamento riguarda, inoltre, un gruppo sempre più numeroso di esperti, medici ed educatori, veri apostoli laici, per i quali la valorizzazione della dignità del matrimonio e della famiglia è diventata un compito importante della loro vita. A nome della Chiesa dico a tutti il mio grazie! Che cosa potrebbero fare senza di loro i Sacerdoti, i Vescovi e persino lo stesso Successore di Pietro? Di ciò sono andato sempre più convincendomi sin dai primi anni del mio sacerdozio, da quando cominciai a sedermi nel confessionale, per condividere le preoccupazioni, i timori e le speranze di tanti coniugi: ho incontrato casi difficili di ribellione e di rifiuto, ma al tempo stesso tante persone stupendamente responsabili e generose! Mentre scrivo questa Lettera ho presenti tutti questi coniugi e li abbraccio con il mio affetto e la mia preghiera.

Le due civiltà

13. Carissime famiglie, la questione della paternità e della maternità responsabili si inscrive nell'intera tematica della « civiltà dell'amore », di cui ora desidero parlarvi. Da quanto finora è stato detto risulta in modo chiaro che la famiglia sta alla base di quella che Paolo VI ha qualificato come « civiltà dell'amore », espressione entrata poi nell'insegnamento della Chiesa e diventata ormai familiare. Oggi è difficile pensare ad un intervento della Chiesa, oppure sulla Chiesa, che prescinda dal riferimento alla civiltà dell'amore. L'espressione si collega con la tradizione della « chiesa domestica » nel cristianesimo delle origini, ma possiede un preciso riferimento anche all'epoca contemporanea. Etimologicamente il termine « ci- viltà » deriva da « civis » - « cittadino », e sottolinea la dimensione politica dell'esistenza di ogni individuo. Il senso più profondo dell'espressione « civiltà » non è però soltanto politico, quanto piuttosto « umanistico ». La civiltà appartiene alla storia dell'uomo, perché corrisponde alle sue esigenze spirituali e morali: creato ad immagine e somiglianza di Dio, egli ha ricevuto il mondo dalle mani del Creatore con l'impegno di plasmarlo a propria immagine e somiglianza. Proprio dall'adempimento di questo compito scaturisce la civiltà, che altro non è, in definitiva, se non l'« umanizzazione del mondo ».

Civiltà dunque ha lo stesso significato, in certo modo, di « cultura ». Si potrebbe perciò anche dire: « cultura dell'amore », pur essendo preferibile attenersi all'espressione diventata ormai familiare. La civiltà dell'amore, nel senso attuale del termine, si ispira alle parole della Costituzione conciliareGaudium et spes: « Cristo . . . svela . . . pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione ». Si può perciò affermare che la civiltà dell'amore prende avvio dalla rivelazione di Dio che « è amore » come dice Giovanni (1 Gv 4, 8.16), ed è descritta efficacemente da Paolo nell'inno alla carità della Prima Lettera ai Corinti (1 Cor 13, 1-13). Tale civiltà è intimamente connessa con l'amore « riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5, 5) e cresce grazie alla costante coltivazione di cui parla, in modo così incisivo, l'allegoria evangelica della vite e dei tralci: « Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto » (Gv 15, 1-2).

Alla luce di questi e di altri testi del Nuovo Testamento è possibile comprendere che cosa s'intende per « civiltà dell'amore », e perché la famiglia è organicamente unita con tale civiltà. Se prima « via della Chiesa » è la famiglia, occorre aggiungere che anche la civiltà dell'amore è « via della Chiesa », la quale cammina nel mondo e chiama su tale via le famiglie e le altre istituzioni sociali, nazionali e internazionali, a motivo proprio delle famiglie ed attraverso le famiglie. La famiglia infatti dipendeper molteplici motivi dalla civiltà dell'amore, nella quale trova le ragioni del suo essere famiglia. E in pari tempo la famiglia è il centro e il cuore della civiltà dell'amore.

Vero amore, tuttavia, non c'è senza la consapevolezza che Dio « è Amore » - e che l'uomo è l'unica creatura in terra chiamata da Dio all'esistenza « per se stessa ». L'uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio non può « ritrovarsi pienamente » se non attraverso il dono sincero di sé. Senza un tale concetto dell'uomo, della persona e della « comunione di persone » nella famiglia, non ci può essere la civiltà dell'amore; reciprocamente, senza la civiltà dell'amore è impossibile un tale concetto di persona e di comunione di persone. La famiglia costituisce la « cellula » fondamentale della società. Ma c'è bisogno di Cristo - « vite » dalla quale traggono linfa i « tralci » -, perché questa cellula non sia esposta alla minaccia di una specie di sradicamento culturale, che può venire sia dall'interno che dall'esterno. Infatti, se esiste da un lato la « civiltà dell'amore », permane dall'altro latola possibilità di un'« anti-civiltà » distruttiva, com'è confermato oggi da tante tendenze e situazioni di fatto.

Chi può negare che la nostra sia un'epoca di grande crisi, che si esprime anzitutto come profonda «crisi della verità »? Crisi di verità significa, in primo luogo, crisi di concetti. I termini « amore », « libertà », « dono sincero », e perfino quelli di « persona », « diritti della persona », significano in realtà ciò che per loro natura contengono? Ecco perché si rivela tanto significativa ed importante per la Chiesa e per il mondo - prima di tutto nell'Occidente - l'Enciclica sullo « splendore della verità » (Veritatis splendor). Solo se la verità circa la libertà e la comunione delle persone nel matrimonio e nella famiglia riacquisterà il suo splendore, si avvierà veramente l'edificazione della civiltà dell'amore e sarà allora possibile parlare con efficacia - come fa il Concilio - di « valorizzazione della dignità del matrimonio e della famiglia ».

Perché è così importante lo « splendore della verità »? Lo è, anzitutto, per contrasto: lo sviluppo della civiltà contemporanea è legato ad un progresso scientifico-tecnologico che si attua in modo spesso unilaterale, presentando di conseguenza caratteristiche puramente positivistiche. Il positivismo, come si sa, ha come suoi frutti l'agnosticismo in campo teorico e l'utilitarismo in campo pratico ed etico. Ai nostri tempi la storia in un certo senso si ripete. L'utilitarismo è una civiltà del prodotto e del godimento, una civiltà delle « cose » e non delle « persone »; una civiltà in cui le persone si usano come si usano le cose. Nel contesto della civiltà del godimento, la donna può diventare per l'uomo un oggetto, i figli un ostacolo per i genitori, la famiglia un'istituzione ingombrante per la libertà dei membri che la compongono. Per convincersene, basta esaminare certi programmi di educazione sessuale,introdotti nelle scuole, spesso nonostante il parere contrario e le stesse proteste di molti genitori; oppure le tendenze abortiste, che cercano invano di nascondersi dietro il cosiddetto « diritto di scelta » (« pro choice ») da parte di ambedue i coniugi, e particolarmente da parte della donna. Sono soltanto due esempi tra i molti che si potrebbero ricordare.

È evidente che in una simile situazione culturale la famiglia non può non sentirsi minacciata, perché insidiata nelle sue stesse fondamenta. Quanto è contrario alla civiltà dell'amore è contrario all'intera verità sull'uomo e diventa per lui una minaccia: non gli permette di ritrovare se stesso e di sentirsi al sicuro come coniuge, come genitore, come figlio. Il cosiddetto « sesso sicuro », propagandato dalla « civiltà tecnica », è in realtà, sotto il profilo delle esigenze globali della persona, radicalmente non-sicuro, ed anzi gravemente pericoloso. La persona, infatti, vi si trova in pericolo, così come, a sua volta, in pericolo versa la famiglia. Qual è il pericolo? È la perdita della verità su se stessa, a cui si unisce il rischio di perdita della libertà e, conseguentemente, di perdita dello stessoamore. « Conoscerete la verità - dice Gesù - e la verità vi farà liberi » (Gv 8, 32): la verità, soltanto la verità, vi preparerà ad un amore di cui si possa dire che è « bello ».

La famiglia contemporanea, come quella di sempre, va in cerca del « bell'amore ». Un amore non « bello », ossia ridotto a solo soddisfacimento della concupiscenza (cfr 1 Gv 2,16), o ad un reciproco « uso » dell'uomo e della donna, rende le persone schiave delle loro debolezze. Non portano a questa schiavitù certi moderni « programmi culturali »? Sono programmi che « giocano » sulle debolezze dell'uomo, rendendolo così sempre più debole ed indifeso.

La civiltà dell'amore richiama la gioia: gioia, tra l'altro, perché un uomo viene al mondo (cfr Gv16, 21) e, conseguentemente, perché i coniugi diventano genitori. Civiltà dell'amore significa « compiacersi della verità » (cfr 1 Cor 13, 6). Ma una civiltà, ispirata ad una mentalità consumistica ed antinatalista, non è e non può essere mai una civiltà dell'amore. Se la famiglia è così importante per la civiltà dell'amore, lo è per la particolare vicinanza ed intensità dei legami che in essa si instaurano tra le persone e le generazioni. Essa tuttavia resta vulnerabile e può facilmente subire i pericoli che indeboliscono o addirittura distruggono la sua unità e stabilità. Per effetto di tali pericoli le famiglie cessano di testimoniare a favore della civiltà dell'amore e possono perfino diventarne la negazione, una specie di contro-testimonianza. Una famiglia sfasciata può, a sua volta, rafforzare una specifica forma di « anti-civiltà », distruggendo l'amore nei vari ambiti del suo esprimersi, con inevitabili ripercussioni sull'insieme della vita sociale.

L'amore è esigente

14. Quell'amore a cui l'apostolo Paolo ha dedicato un inno nella Prima Lettera ai Corinzi - quell'amore che è « paziente », è « benigno » « tutto sopporta » (1 Cor 13, 4.7) - è certamente un amore esigente. Ma proprio in questo sta la sua bellezza: nel fatto di essere esigente, perché in questo modo costituisce il vero bene dell'uomo e lo irradia anche sugli altri. Il bene infatti, dice san Tommaso, è per sua natura « diffusivo ». L'amore è vero quando crea il bene delle persone e delle comunità, lo crea e lo dona agli altri. Soltanto chi, nel nome dell'amore, sa essere esigente con se stesso, può anche esigere l'amore dagli altri. Perché l'amore è esigente. Lo è in ogni situazione umana; lo è ancor più per chi si apre al Vangelo. Non è questo che Cristo proclama nel « suo » comandamento? Bisogna che gli uomini di oggi scoprano questo amore esigente, perché in esso sta il fondamento veramente saldo della famiglia, un fondamento che è capace di « tutto sopportare ». Secondo l'Apostolo, l'amore non è in grado di « sopportare tutto », se cede alle « invidie », se « si vanta », se « si gonfia », se « manca di rispetto » (cfr 1 Cor 13, 5-6). Il vero amore, insegna san Paolo, è diverso: « tutto crede, tutto spera, tutto sopporta » (1 Cor 13, 7). Proprio questo amore « tutto sopporterà ». Agisce in esso la potente forza di Dio stesso, che « è amore » (1 Gv 4, 8.16). Vi agisce la potente forza di Cristo, Redentore dell'uomo e Salvatore del mondo.

Meditando il capitolo 13 della Prima Lettera di Paolo ai Corinzi, ci incamminiamo sulla via che in modo più immediato ed incisivo ci fa comprendere la verità piena circa la civiltà dell'amore. Nessun altro testo biblico esprime tale verità in modo più semplice e profondo dell'inno alla carità.

I pericoli che incombono sull'amore costituiscono una minaccia anche alla civiltà dell'amore, perché favoriscono quanto è in grado di contrastarla efficacemente. Si pensi anzitutto all'egoismo, non solo all'egoismo del singolo, ma anche a quello della coppia o, in un ambito ancora più vasto, all'egoismo sociale, p.es. di classe o di nazione (nazionalismo). L'egoismo, in ogni sua forma, si oppone direttamente e radicalmente alla civiltà dell'amore. Si vuol dire, forse, che l'amore è da definirsi semplicemente come « anti-egoismo »? Sarebbe una definizione troppo povera e in definitiva solo negativa, anche se è vero che per realizzare l'amore e la civiltà dell'amore debbono essere superate varie forme di egoismo. Più giusto è parlare di « altruismo », che è l'antitesi dell'egoismo. Ma ancor più ricco e completo è il concetto di amore illustrato da san Paolo. L'inno alla carità della Prima Lettera ai Corinzi rimane come la magna charta della civiltà dell'amore. In esso non è questione tanto di singole manifestazioni (sia dell'egoismo che dell'altruismo), quanto dell'accettazione radicale del concetto di uomo come persona che « si ritrova » attraverso il dono sincero di se stesso. Un dono è, ovviamente, « per gli altri »; è questa la dimensione più importante della civiltà dell'amore.

Entriamo così nel nucleo stesso della verità evangelica sulla libertà. La persona si realizza mediante l'esercizio della libertà nella verità. La libertà non può essere intesa come facoltà di fare qualsiasicosa: essa significa dono di sé. Di più: significa interiore disciplina del dono. Nel concetto di dono non è inscritta soltanto la libera iniziativa del soggetto, ma anche la dimensione del dovere. Tutto ciò si realizza nella « comunione delle persone ». Siamo così nel cuore stesso di ogni famiglia.

Siamo anche sulle orme dell'antitesi tra l'individualismo e il personalismo. L'amore, la civiltà dell'amore si collega con il personalismo. Perché proprio col personalismo? Perché l'individualismo minaccia la civiltà dell'amore? Troviamo la chiave della risposta nell'espressione conciliare: un « dono sincero ». L'individualismo suppone un uso della libertà nel quale il soggetto fa ciò che vuole, « stabilendo » egli stesso « la verità » di ciò che gli piace o gli torna utile. Non ammette che altri « voglia » o esiga qualcosa da lui nel nome di una verità oggettiva. Non vuole « dare » ad un altro sulla base della verità, non vuole diventare un « dono sincero ». L'individualismo rimane pertanto egocentrico ed egoistico. L'antitesi col personalismo nasce non soltanto sul terreno della teoria, ma ancor più su quello dell'« ethos ». L'« ethos » del personalismo è altruistico: muove la persona a farsi dono per gli altri e a trovare gioia nel donarsi. È la gioia di cui parla Cristo (cfr Gv 15, 11; 16, 20.22).

Occorre pertanto che le società umane, ed in esse le famiglie, che vivono spesso in un contesto di lotta tra la civiltà dell'amore e le sue antitesi, cerchino il loro fondamento stabile in una giusta visione dell'uomo e di quanto decide della piena « realizzazione » della sua umanità. Certamente contrario alla civiltà dell'amore è il cosiddetto « libero amore », tanto più pericoloso perché proposto di solito come frutto di un sentimento « vero », mentre di fatto distrugge l'amore. Quante famiglie sono andate in rovina proprio per il « libero amore »! Seguire in ogni caso il « vero » impulso affettivo in nome di un amore « libero » da condizionamenti, significa, in realtà, rendere l'uomo schiavo di quegli istinti umani che san Tommaso chiama « passioni dell'anima ». Il « libero amore » sfrutta le debolezze umane fornendo loro una certa « cornice » di nobiltà con l'aiuto della seduzione e col favore dell'opinione pubblica. Si cerca così di « tranquillizzare » la coscienza, creando un « alibi morale ». Non si prendono però in considerazione tutte le conseguenze che ne derivano, specialmente quando a pagarle sono, oltre al coniuge, i figli, privati del padre o della madre e condannati ad essere di fattoorfani di genitori vivi.

Alla base dell'utilitarismo etico, come si sa, c'è la continua ricerca del « massimo » di felicità, ma di una « felicità utilitaristica », intesa solo come piacere, come immediato soddisfacimento a vantaggio esclusivo del singolo individuo, al di fuori o contro le oggettive esigenze del vero bene.

Il programma dell'utilitarismo, fondato su di una libertà orientata in senso individualistico, ossia una libertà senza responsabilità, costituisce l'antitesi dell'amore, anche come espressione della civiltà umana considerata nel suo insieme. Quando tale concetto di libertà trova accoglienza nella società, alleandosi facilmente con le più diverse forme di umana debolezza, si rivela ben presto come una sistematica e permanente minaccia per la famiglia. Si potrebbero citare, al riguardo, molte conseguenze nefaste, documentabili a livello statistico, anche se non poche di esse rimangono nascoste nei cuori degli uomini e delle donne, come ferite dolorose e sanguinanti.

L'amore dei coniugi e dei genitori possiede la capacità di curare simili ferite, se le insidie ricordate non lo privano della sua forza di rigenerazione, tanto benefica e salutare per le comunità umane. Tale capacità dipende dalla grazia divina del perdono e della riconciliazione, che assicura l'energia spirituale di iniziare sempre di nuovo. Proprio per questo i membri della famiglia hanno bisogno di incontrare Cristo nella Chiesa mediante il mirabile sacramento della Penitenza e della Riconciliazione.

In questo contesto ci si rende conto di quanto sia importante la preghiera con le famiglie e per le famiglie, in particolare per quelle minacciate dalla divisione. Bisogna pregare perché i coniugi amino la loro vocazione, anche quando la strada diventa difficile o conosce tratti angusti ed in salita, apparentemente insuperabili; pregare affinché anche allora siano fedeli alla loro alleanza con Dio.

« La famiglia è la via della Chiesa ». In questa Lettera desideriamo professare ed annunziare insiemequesta via, che attraverso la vita coniugale e familiare conduce al Regno dei cieli (cfr Mt 7,14). È importante che la « comunione delle persone » nella famiglia diventi preparazione alla « comunione dei Santi ». Ecco perché la Chiesa confessa ed annunzia l'amore che « tutto sopporta » (1 Cor 13, 7), vedendo in esso, con san Paolo, la virtù « più grande » (1 Cor 13, 13). L'Apostolo non pone limiti a nessuno. Amare è vocazione di tutti, anche dei coniugi e delle famiglie. Nella Chiesa, infatti, tutti sono ugualmente chiamati alla perfezione della santità (cfr Mt 5, 48).






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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