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A RATISBONA RATZINGER-BENEDETTO XVI AVEVA RAGIONE

Ultimo Aggiornamento: 30/09/2014 18:28
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30/09/2014 18:14
 
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  Macché gaffe, a Ratisbona Ratzinger l'aveva previsto

di George Weigel*

21-09-2014

 

La sera del 12 settembre 2006, io e mia moglie stavamo cenando a Cracovia, con nostri amici polacchi, quando un nervoso vaticanista italiano (perdonate la ridondanza degli aggettivi) mi chiamò, chiedendomi cosa pensassi del “Zees crazee speech of zee pope about zee Muslims” (“il folle discorso del papa sui musulmani”, detto in inglese con un forte accento italiano, ndr). Quello fu il primo sintomo di come l’orda delle “menti indipendenti” della stampa internazionale si sarebbe infuriata sul tema della Lezione di Ratisbona di Benedetto XVI, una “gaffe” su cui i media continuarono a mordere fino alla fine del suo pontificato.

A otto anni di distanza, la Lezione di Ratisbona appare sotto una luce molto diversa. Infatti, coloro che la lessero per davvero nel 2006, compresero che, lungi dall’aver fatto una “gaffe”, Benedetto XVI aveva analizzato, con la precisione dello studioso, due domande chiave, la cui risposta avrebbe influenzato profondamente la guerra civile che sta tuttora infuriando all’interno del mondo islamico; una guerra il cui esito determinerà se, nel XXI Secolo, l’islam sarà sicuro per i suoi fedeli e per il mondo.

La prima domanda chiave riguarda la libertà di religione. I musulmani possono trovare, all’interno del loro bagaglio culturale e spirituale, argomenti islamici a favore della tolleranza religiosa (compresa la tolleranza nei confronti di chi si converte ad altre religioni)? Questo auspicabile sviluppo, che il papa suggerì, potrebbe richiedere molto tempo (anche secoli) per elaborare una più completa teoria islamica della libertà religiosa.

La seconda domanda chiave riguardava la struttura delle società islamiche: i musulmani possono trovare, anche qui all’interno del loro bagaglio culturale e spirituale, argomenti islamici per stabilire una distinzione fra l’autorità religiosa e politica in uno stato giusto? Questo sviluppo, altrettanto auspicabile, potrebbe rendere le società musulmane più umane al loro interno e meno pericolose per i loro vicini, specialmente se è legato a una istanza islamica per la tolleranza religiosa.

Papa Benedetto XVI proseguì suggerendo che il dialogo interreligioso fra cattolici e musulmani dovesse concentrarsi su quelle due domande, fra loro strettamente legate. La Chiesa cattolica, come apertamente ammise il papa, attraversò le sue lotte interne mentre sviluppava una sua causa per la libertà di religione in un contesto politico di governo costituzionale, giocando un ruolo chiave nella società civile, ma non governandola direttamente. Il cattolicesimo ha infine sviluppato questi principi: non arrendendosi alla filosofia politica secolare, ma usando ciò che aveva appreso dalla modernità politica per tornare alla sua stessa tradizione, riscoprire gli elementi del suo pensiero su fede, ragione e società che erano stati perduti nel corso del tempo e sviluppare il suo insegnamento per la società giusta. 

Un simile processo di riscoperta/sviluppo è possibile anche nell’islam? Questa è la Grande Domanda posta da Benedetto XVI nella Lezione di Ratisbona. Il fatto che questa domanda sia stata prima fraintesa, poi ignorata, è una tragedia di proporzioni storiche. I risultati di quel fraintendimento e di quella ignoranza – e molti altri fraintendimenti e ignoranze – sono ora drammaticamente palesi in tutto il Medio Oriente: nella decimazione delle antiche comunità cristiane, negli atti di barbarie che hanno shockato un Occidente apparentemente apatico, come la crocefissione e la decapitazione di cristiani; negli Stati in subbuglio; nella speranza delusa che il Medio Oriente del XXI Secolo potesse guarire dalle sue varie malattie politiche e culturali per trovare la via di un futuro più umano.

Sono sicuro che Benedetto XVI non sia affatto lieto nel vedere la sua Lezione di Ratisbona confermata dalla storia. Ma i suoi contestatori del 2006 possono comunque esaminare le loro coscienze e rivedere l’obbrobrio che gli hanno scagliato contro otto anni fa. Ammettendo di aver sbagliato nel 2006, potrebbero compiere un primo passo utile per uscire dalla loro ignoranza sul conflitto intra-islamico che minaccia gravemente la pace nel mondo del XXI Secolo. 

Quanto al discorso sul futuro dell’islam, che Benedetto XVI propose allora, ebbene, oggi, sembra alquanto improbabile. Ma se mai dovesse realizzarsi, i leader cristiani dovrebbero spianarne la strada, parlando, senza indugio, delle patologie dell’islamismo e dello jihadismo; smettendo di porgere scuse anti-storiche sul colonialismo del XX Secolo (imitando debolmente il peggio delle chiacchiere accademiche sul mondo arabo-islamico); e dichiarando pubblicamente che il prudente uso della forza militare è moralmente giustificato, una volta che ci si imbatte in fanatici sanguinari, come quelli che, da questa estate in poi, si stanno rendendo responsabili della nascita di un regno del terrore in Siria e Iraq.

*George Weigel, intellettuale e attivista cattolico statunitense, è l'autore della biografia di San Giovanni Paolo II Witness to Hope. L'articolo originale, Regensburg Vindicated è stato pubblicato sul Denver Catholic Register, il 16 settembre 2014

(traduzione di Stefano Magni)







VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI 
A MÜNCHEN, ALTÖTTING E REGENSBURG 
(9-14 SETTEMBRE 2006)

INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Aula Magna dell’Università di Regensburg
Martedì, 12 settembre 2006

 

Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.

  

Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri Signori, gentili Signore!

È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori.
Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche.

Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.

Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue.[1] 

Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano.[2] Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. 
Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema
.

Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa.
Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato.
Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa.

Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".[3]
 L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima.
"Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…"[4]



  continua.....




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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