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Misericordia per la conversione... ma bisogna farlo comprendere bene

Ultimo Aggiornamento: 09/02/2016 00:27
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20/04/2015 14:19
 
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IL TEOLOGO

 

Nel convocare il prossimo Giubileo, papa Bergoglio si mette sulla scia del discorso con cui papa Roncalli inaugurò il Concilio Vaticano II: non insistere sulla condanna degli errori ma proporre la fede con un linguaggio più adatto ai tempi. C'era allora un ottimismo poi spazzato via dal '68, ma quell'impostazione è oggi ancora valida ma ad alcune condizioni. Eccole.

di Enrico Cattaneo


«Uomini custodi della dottrina non per misurare quanto il mondo viva distante dalla verità che essa contiene, ma per affascinare il mondo, per incantarlo con la bellezza dell’amore, per sedurlo con l’offerta della libertà donata dal Vangelo. La Chiesa non ha bisogno di apologeti delle proprie cause né di crociati delle proprie battaglie, ma di seminatori umili e fiduciosi della verità, che sanno che essa è sempre loro di nuovo consegnata e si fidano della sua potenza» (Papa Francesco, “Alla Congregazione per i vescovi”, 27 febbraio 2014).

Questo testo dirompente di papa Francesco, si riallaccia non nella lettera, ma nello spirito, al discorso “Gaudet Mater Ecclesia” tenuto da Giovanni XXIII l'11 ottobre 1962 all’inaugurazione del Concilio Vaticano II. La conferma di tale accostamento è venuta proprio dalla “Bolla di indizione del Giubileo straordinario” (n. 4). Precedentemente, quel discorso era stato ripreso da alcuni autorevoli autori con angolature diverse, perché effettivamente esso segna una "svolta" nell'atteggiamento della Chiesa, e il Concilio non farà che seguire e applicare questo orientamento di fondo, non solo nei confronti del mondo moderno, ma anche al proprio interno, oltre che verso i "fratelli separati", il popolo ebraico e le altre grandi religioni. 

In quel famoso discorso di apertura, il Papa disse chiaramente che lo scopo del nuovo concilio non era quello di condannare gli errori, come era sempre stato fatto nel passato, ma era quello di proporre la fede della Chiesa con un linguaggio più adatto ai tempi: «Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace» (5.1). Non è che non ci siano errori anche gravi, e la Chiesa si è sempre opposta all'errore. Ma oggi, dice il Papa, i tempi sono cambiati, e il modo più efficace per contrastare gli errori del mondo moderno è quello di presentare la bellezza, la coerenza e il bene contenuto nella dottrina cattolica: «Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (7.2). La Chiesa Cattolica intende così «mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati» (7.3). 

Quando ora Papa Francesco afferma che la Chiesa deve custodire la dottrina «non per misurare quanto il mondo viva distante dalla verità che essa contiene, ma per affascinare il mondo, per incantarlo con la bellezza dell’amore, per sedurlo con l’offerta della libertà donata dal Vangelo» (testo sopra citato), non fa dunque che riprendere il senso dell’intervento inaugurale di Giovanni XXIII.

Questo cambio di atteggiamento, secondo Papa Roncalli è sostenuto da una duplice considerazione. Primo: la Chiesa nell'epoca moderna ha attraversato molte difficoltà, opposizioni, persecuzioni, ma con l’aiuto di Dio essa ne è uscita ancora più vigorosa, come se la Provvidenza avesse guidato questi eventi per il bene stesso della Chiesa: «Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa» (4.4).

Secondo: il Papa ha fiducia che gli uomini stessi, guidati dall'esperienza, respingeranno spontaneamente quegli errori e comportamenti sbagliati, che hanno provocato così immani disastri: «Non perché manchino dottrine false, opinioni, pericoli da cui premunirsi e da avversare; ma perché tutte quante contrastano così apertamente con i retti principi dell’onestà, ed hanno prodotto frutti così letali che oggi gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle, soprattutto quelle forme di esistenza che ignorano Dio e le sue leggi, riponendo troppa fiducia nel progressi della tecnica, fondando il benessere unicamente sulle comodità della vita. 
Essi sono sempre più consapevoli che la dignità della persona umana e la sua naturale perfezione è questione di grande importanza e difficilissima da realizzare. Quel che conta soprattutto è che essi hanno imparato con l’esperienza che la violenza esterna esercitata sugli altri, la potenza delle armi, il predominio politico non bastano assolutamente a risolvere per il meglio i problemi gravissimi che li tormentano» (7.2).

Mentre il primo punto può essere facilmente condiviso leggendo la storia della Chiesa, il secondo sembrerebbe eccedere di ottimismo circa le capacità umane di autoredenzione. 

In effetti, ai tempi di Giovanni XXIII, cioè all’inizio degli anni ’60, nonostante che il mondo fosse diviso in due blocchi e che l’ideologia marxista avesse pervaso la cultura occidentale, c'era ancora nella nostra società una sorta di piattaforma comune tra credenti e non credenti, basata sulla dignità della persona umana, sui "retti principi dell'onestà", sul senso morale naturale. 
Basti pensare alla “Dichiarazione universale dei diritti umani” promulgata dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite nel 1948. Questo ottimismo fu condiviso anche da Paolo VI all’inizio del suo pontificato. È sufficiente leggere il suo discorso di chiusura del Concilio (anch’esso citato nella “Bolla di indizione”, n. 4) o le encicliche Populorum progressioEvangelii nuntiandiEcclesiam suam


Ma le cose sono cambiate dopo il ’68. Anche l’atteggiamento di Paolo VI è cambiato dopo il ’68. Lì è iniziata quella deriva che ha portato a corrodere sempre più i principi fondamentali dell'agire e del convivere umano. Paradossalmente, il crollo dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est nel 1989 ha aperto la strada a una cultura nichilista, senza più punti di riferimento universalmente validi, quali la sacralità della vita umana, dal suo concepimento naturale alla sua fine naturale; il valore del matrimonio e della famiglia; la dignità della persona umana, che rigetta ogni tipo di sfruttamento, di abuso, di schiavitù, di violenza, di negazione delle libertà fondamentali. 

Oggi questa piattaforma comune praticamente non c’è più o è molto ridotta. Le società e le nazioni si reggono o su dittature politico-religiose (come l’islam nella sua spaventosa recrudescenza fanatica e bellicosa) o su criteri di maggioranza pilotati da concezioni totalmente pragmatiste, che puntano a inculcare l’idea di supposti nuovi diritti civili, che non hanno altro fondamento che nella volontà individuale intesa come ricerca del benessere. 
Alcuni apporti positivi della modernità, come l’emancipazione della donna, la conoscenza sempre più avanzata sulla natura della sessualità e della procreazione, sono andati però ben oltre i loro primitivi intenti, arrivando a fare della procreazione umana una specie di “fabbrica del figlio” e a proporre come ideale educativo quello di un essere umano destrutturato, che non sa più che cosa significhi essere maschio o femmina se non in base a una propria scelta arbitraria. 
La sessualità genitale poi è stata isolata come un bene in sé, perseguibile sempre e comunque, salve alcune precauzioni sociali e sanitarie. 

Oggi possiamo dire che anche il magistero di san Giovanni Paolo II sulla dignità della persona umana in tutti i suoi aspetti, un magistero estremamente ricco e profondo, sia stato quasi completamente travolto da questa nuova mentalità. Quanto profondamente essa sia penetrata nella Chiesa stessa, è difficile dirlo, però non è difficile verificare come ampi settori della Chiesa, cominciando da teologi, pastori e parti del laicato, abbiano conosciuto e conoscano grossi sbandamenti, purtroppo non sempre consapevoli, ma tranquillamente assorbiti come normali. Certamente c’è pure stata e c’è nella Chiesa una corrente decisa a lottare e a contrastare apertamente le deviazioni odierne, sulla base dei "principi non negoziabili" fondati sulla legge naturale e avvalendosi dei metodi democratici del libero dibattito, finché sarà possibile.

Ora con papa Francesco sembra essere ritornati al clima positivo di apertura indicato dal discorso di Giovanni XXIII: la Chiesa vuole presentarsi non più come una rigida e severa custode della dottrina, ma come madre di misericordia, che annuncia un Dio di misericordia e di perdono. Papa Francesco vuole una Chiesa che anzitutto si liberi dalle tendenze "mondane" che sono al suo interno, e poi che si faccia di nuovo missionaria, non col proselitismo, ma col testimoniare la bellezza di una fede intesa anzitutto come incontro con Cristo, come esperienza dell'amore di Dio, la sola che può dare la forza di allontanare il peccato e scegliere la via del bene individuale e sociale.

La domanda però che ora ci viene è questa: è possibile riprendere l’atteggiamento di s. Giovanni XXIII sopra descritto senza tener conto di un contesto culturale radicalmente cambiato? Sono ancora valide quelle due premesse, o non peccano forse di ingenuità e di ottimismo? La nostra risposta, sulla scia di quanto dice e fa Papa Francesco, è che sì, esse sono ancora valide, purché le si leggano con gli occhi della fede e non come valutazioni umane di tipo storico o sociologico. La parola di Gesù che “portae inferi non praevalebunt” deve valere ancora oggi, non però per farci adagiare in un ottimismo beato, ma per radicarci maggiormente nella fede. 
La Chiesa non deve illudersi che assumendo l’atteggiamento di madre misericordiosa sia sempre meglio accolta e meno perseguitata.   


La Chiesa non può tacere la verità, e questo il mondo non lo sopporta, perché, come dice san Paolo, tiene la verità “prigioniera dell’ingiustizia” (Rom 1,18). Finché si predica un “volemose bene” generico, nessuno ha nulla da obiettare, anzi tutti applaudono. Ma quando si tratta di entrare nello specifico di che cosa sia volere il bene dell’altro secondo il Vangelo e la dottrina cristiana, quando la Chiesa sarà costretta di nuovo a dire “non possumus”, “non possiamo”, allora il mondo glielo farà pagare, e sceglierà ancora Barabba invece di Gesù. È la storia di sempre. 

Ma la Chiesa vincerà, non perché andrà a braccetto con il mondo, ma perché, fedele al Vangelo, continuerà ad amare quelli che la odiano e continuerà a pregare per coloro che la perseguitano. La Chiesa vincerà perché alla fine sarà l’unica ancora capace veramente di amare questa umanità e di cercare il vero bene dell’uomo. 
Ma dove trova la Chiesa questa forza? La trova nella sua missione, che non è semplicemente terrena, come una ONU o una ONG o come lo sono alcune religioni. La sua missione è ultraterrena; essa ha il compito di portare gli uomini alla vita e alla felicità eterne, nella unione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e nella comunione dei santi. Per questo il tempo umano, la storia umana è tanto importante, perché qui, nell’adesione o nel rifiuto del vero e del bene, si gioca il destino eterno dell’uomo; e l’uomo, finché vive in questa vita, può sempre fare la scelta che lo salva o lo danna. 


Per questo la Chiesa ama i peccatori. Essa può odiare solo il male, il peccato, non il peccatore. Anche il peggiore peccatore, finché è in questa vita può sempre convertirsi e salvarsi. C’è solo una creatura degna di odio, perché si è fissata definitivamente e volontariamente nel male, e questa creatura non è umana, ma è uno spirito, chiamato dalla Scrittura “Satana” o diavolo. Esso ha un potere sulla terra non senza una permissione divina, e ha dei ministri capaci di influire sulla storia degli uomini, cercando di portarli anzitutto alla rovina terrena e poi alla dannazione eterna. 

Se si capisce questo, allora si può vedere l’uomo peccatore con occhi diversi, come uno che è sì responsabile del male fatto, ma che è anche vittima del Tentatore, del Maligno. Perciò la Chiesa prega ogni giorno perche noi tutti siamo “liberati dal Male”. Confesso che a volte, di fronte a tanta cattiveria, crudeltà e malvagità degli esseri  umani, mi sento rivoltare e vorrei gettare la spugna. Solo pensando che essi sono “prigionieri del Maligno” riesco ancora ad amarli per quella parte di loro che potrebbe ancora redimersi e salvarsi. Se non si recupera questa dottrina cattolica, non si capisce più perché la Chiesa debba continuare ad interessarsi degli uomini e non ridursi a un club religioso di gente benestante e benpensante.

La Chiesa però nel mostrare il suo amore materno verso questa umanità, deve, seguendo il suo Maestro, usare un duplice registro: quello della misericordia, per rincuorare i peccatori invitandoli al pentimento, e quello della severità, per scuotere i corrotti e liberarli dalle loro catene. Infatti ci sono persone talmente invischiate nel male, che le parole di misericordia non li sfiorano neppure, ma solo la prospettiva di una dannazione, cioè di una infelicità e di un tormento eterni potrebbe, caso mai, smuoverle. Dobbiamo comunque tornare a predicare queste cose. Facciamolo pure con un linguaggio nuovo, comprensibile, ma facciamolo. Se no, non ha senso neppure parlare della Croce di Cristo. 

Questo è lo sfondo del Giubileo della Misericordia. Se non mettiamo in rilievo questo sfondo, non si capirà quasi più nulla di quel Giubileo. Ritornano allora validi i due presupposti dell’azione pastorale indicati da s. Giovanni XXIII: primo, che la gravissima crisi odierna nella Chiesa – crisi di fede, di morale, di pratica (in Francia ad es. il 56% continua a professarsi cattolico, ma solo il 15% si definisce praticante, e chi va a Messa tutte le domeniche non supera il 4%: da OssRom 7-8 aprile 2015, p. 5) – questa crisi, dicevamo, permessa da Dio, tornerà ancora a un bene più grande della Chiesa stessa e delle anime. Secondo, l’attuale andamento delle cose darà frutti «così letali» (per riprendere le parole di Giovanni XXIII), che la gente tornerà spontaneamente al tribunale della propria coscienza e della misericordia. Ma perché ciò avvenga, bisogna molto pregare.

 

La misericordia di Cristo

La recente Bolla pontificia di indizione dell’Anno Santo della Misericordia ci offre l’occasione per alcune riflessioni sulla misericordia che ci viene insegnata da Cristo, e che da Lui viene praticata, con particolare rifermento alla giustizia.

La misericordia in generale è quella propensione a sollevare il misero dalla sua miseria. La misericordia divina esercitata da Cristo per mandato e con la potenza di Dio Padre è l’atto col quale Cristo ha pietà dell’uomo peccatore, lo risolleva dalla miseria conseguente al peccato originale, gli dona la grazia del perdono, rimette o cancella la colpa, liberando col suo sacrificio espiatorio e soddisfattorio l’uomo dal meritato castigo, ridonandogli la vita perduta, estinguendo il debito contratto dall’uomo con Dio a causa del peccato.

L’esercizio della misericordia di Cristo nei nostri confronti suppone quindi un atto di riparazione offerta al Padre offeso dal peccato e comporta la restituzione dell’uomo al Padre riconciliandolo col Padre. Col sacrificio della croce Cristo risarcisce il Padre per la perdita dell’uomo fatto schiavo di Satana a causa del peccato, offrendo al Padre col suo sangue il prezzo del nostro riscatto. Egli estingue al nostro posto il debito contratto col Padre e il Padre ci accoglie di nuovo come suoi figli.

Il peccato, quindi, per la Bibbia è un male che l’uomo da sè non riesce a togliere o riparare: occorre il sacrificio di Cristo. E’ un debito che non può pagare: occorre la ricchezza della grazia di Cristo. É una malattia dalla quale da sè non può guarire: occorre Cristo medico; è un contrasto con Dio, che l’uomo da sè non riesce risolvere: occorre la mediazione di Cristo; è una vita perduta che da sè non può ridarsi: dev’essere rivivificato da Cristo; è una tenebra che non può dissipare:occorre la luce di Cristo; è un abisso dal quale da sè non può risalire: dev’essere risollevato da Cristo; è una macchia che da sè non può lavare: occorre il sangue di Cristo; è un’offesa che da sè non può riparare: occorre l’intercessione di Cristo.

Dio vuol salvare tutti e quindi offre a tutti in Cristo la misericordia che salva. Ma non tutti, per vari motivi, accettano o chiedono questa misericordia o, chiedendola male, non la ricevono. Alcuni, pensiamo per esempio agli atei ed ai panteisti, sentendosi alla pari di Dio o sostituendosi a Dio, si ritengono autosufficienti, per cui pensano di cavarsela da soli e ritengono quindi di non aver bisogno di alcuna misericordia; altri, come Giuda, sentono di aver peccato; ma non credono nella divina misericordia. Vedono solo un Dio punitore, mancano dell’umiltà necessaria per chiedere misericordia, non sono veramente pentiti, e quindi la respingono.

Altri non credono nella misericordia di Dio perchè sono perseguitati dalle sventure: se Dio fosse misericordioso, – essi dicono – mi verrebbe in soccorso; ma siccome non lo fa ed anzi continua lasciarmi nelle afflizioni, non lo considero misericordioso, ma crudele. Altri, come Lutero, si immaginano che la misericordia non rimetta i peccati, ma fa finta di non vederli; basta credere che comunque Dio mi perdonerà. Altri, come Rahner, ritengono che ogni uomo riceva misericordia e si salvi al vertice della sua autotrascendenza e non perda la grazia, anche se ha peccato.

Una cosa appare evidente dalle narrazioni evangeliche sulla condotta di Cristo nei confronti degli uomini: che ad alcuni fa misericordia, perdona i peccati, loda la loro fede, approva le loro idee, promette la salvezza; altri invece li tratta duramente, li rimprovera aspramente, minaccia loro i castighi divini, li accusa di ipocrisia e lancia loro diverse invettive. Non occorre qui portare gli esempi, tanto essi sono noti.

Qui certamente non si può parlare di misericordia. Non per questo Cristo manca di carità anche verso costoro. Sarebbe blasfemo il solo pensarlo. Il fatto è che la carità si pratica in queste due forme opposte a seconda che il prossimo accetti o non accetti Cristo: misericordia ai primi, giustizia verso i secondi.

Infatti la giustizia può avere anche un aspetto penale o punitivo, consistente nel fatto che il peccatore viene da Dio forzatamente reintegrato nell’ordine morale da lui violato. Qualcosa di simile, benchè imperfettamente, viene compiuto dalla giustizia umana, la quale appunto deve imitare quella divina. Il ladro che ha rubato, viene costretto a restituire. Chi ha abusato della sua libertà, la riconduce forzatamente nei giusti limiti con la pena del carcere. Chi ha offeso Dio col peccato, viene forzatamente ricondotto nel giusto rapporto di sottomissione a Dio mediante la pena dell’inferno, e così via.

Esiste un pregiudizio buonista molto diffuso, secondo il quale la bontà e la carità stanno solo nella misericordia. Chi castiga, chi punisce, chi condanna, chi usa la forza o le armi in qualunque modo, chi costringe, è cattivo, violento, malvagio e crudele. Ma Dio è buono. E dunque in Dio c’è solo la misericordia.

Dio non castiga nessuno, non condanna nessuno, ma salva tutti e perdona tutti in base alla sua infinita misericordia. La sofferenza non è castigo del peccato, Dio non c’entra nulla, ma è solo effetto dell’ingiustizia umana. La sofferenza non può essere espiazione – falsa interpretazione della croce di Cristo – , non va presa dalle mani di Dio come mezzo di salvezza, ma va solo combattuta.

Occorre invece osservare che violenza è solo l’uso ingiusto della forza. Esiste invece un uso della forza o della coercizione, riservato per lo più alla pubblica autorità, che è giustizia, e che consiste nel tenere a bada i malfattori, nella difesa armata della patria o nella difesa personale armata, cosa che non solo è lecita, ma è doverosa, e può essere benissimo riconducibile alla carità.

Il credere dunque che i rapporti umani possano e debbano essere regolati soltanto da atti di cortesia, da scambi pacifici, dal dialogo, da fiducia nell’altrui bontà e dalla misericordia, è una pericolosissima illusione, che non è per nulla fattore di giustizia e di pace, ma che al contrario dà spazio al famoso detto di Hobbes homo homini lupus.

Ci si dimentica infatti delle conseguenze del peccato originale, per le quali esistono malfattori che non ascoltano ragione e che, simili alle bestie, sono trattenuti dal delitto solo per il timore della pena o perchè costretti con la forza a restare nell’ordine. Certo la grazia di Cristo ingentilisce e purifica i costumi, ma, come dimostrano duemila anni di cristianesimo, anche nelle società cristiane continuano ad esistere i malvagi, i peccatori e i criminali.

In base a questi princìpi buonisti, si dovrebbero abolire il diritto penale, l’ordine giudiziario, il sistema carcerario, le forze armate e di pubblica sicurezza, i vigili urbani, le guardie del corpo, i vigilantes, e così via. Una cosa assurda, che avrebbe come conseguenza soltanto il dar spazio illimitato a ogni genere di delitto e di violenza, l’oppressione del forte nei confronti del debole, lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, la vendetta privata e così via.

E’ ovvio che le forze dell’ordine e la magistratura devono essere giuste, moderate e rispettose dei diritti di tutti. Ma il giudicarle come tali e indiscriminatamente violenza o ingiustizia, è a sua volta una gravissima ingiustizia, che porterebbe la convivenza umana a catafascio. Le forze dell’ordine che reprimono un delitto, non oppongono violenza a violenza, ma giustizia a violenza, il che è ben diverso.

La misericordia dunque ha senso e funziona solo nei riguardi dei deboli, dei sofferenti, degli oppressi, dei poveri, dei pentiti; ma non ha nessun senso nei confronti dei superbi, degli empi, dei peccator ostinati e arroganti, degli impenitenti e d chi si vanta dei propri delitti.

Costoro vanno affrontati, rimproverati, confutati, accusati e redarguìti, sull’esempio di Cristo, con sdegno, coraggio, severità e durezza, proprio per il bene della loro anima, per scuoterli e intimorirli, e per avvertirli del pericolo di perdersi in eterno.

Il malfattore, il malvagio non dev’essere compassionato, ma richiamato, corretto e bloccato, se occorre, anche con la forza. Per questo, l’uso della misericordia non è una atteggiamento da tenere in continuazione con tutti; ma, a seconda delle circostanze o di coloro con i quali abbiamo a che fare, va a volte sospesa e sostituita dalla severità e dalla giustizia.

La misericordia dev’essere preferita alla giustizia, ma non deve escluderla. Questo è l’esempio di Cristo. Egli è venuto innanzitutto per salvare e fare misericordia. Solo chi resiste ostinatamente è sottoposto a giudizio. Dunque la giustizia non è esclusa.

La preferenza è un atto col quale consideriamo due beni, dei quali però uno prevale sull’altro perchè è migliore, almeno per noi, dell’altro. A me piacciono le mele e le preferisco agli aranci; per cui, se le trovo tra gli aranci, prendo queste anzichè gli aranci.

Ma se mancassero le mele, prenderei gli aranci. Invece non avrebbe senso se io dicessi: preferisco il bene al male. No! Il male devo assolutamente rifiutarlo e scegliere sempre il bene. Così la misericordia non è la totalità del bene, come lo è la carità; ma è solo un bene migliore, da scegliere, se è possibile. Ma se si deve rinunciare alla misericordia, resta sempre la giustizia.

Sarebbe falso qui opporre la misericordia soltanto alla violenza. Certo, in tal caso bisogna scegliere solo la misericordia, come si sceglie il bene escludendo il male. Ma la violenza è una falsa giustizia, – pensiamo alla marxista lotta di classe – è un ingiusto uso dello forza. Esiste però anche un giusto uso della forza: ebbene, questo deve andare assieme alla misericordia.

Per questo, occorre fare attenzione a interpretare bene le parole – riportate dal Papa nella Bolla – che S.Giovanni XXIII pronuncia nel famoso discorso di apertura del Concilio Vaticano II. Dice il testo latino: “Christi Sponsae placet misericordiae medicinam adhibere, potius quam severitatis arma suscipere”. Non si tratta, dunque, come hanno frainteso i buonisti, di accogliere la misericordia escludendo la severità della giustizia, quasi fosse violenza. Ma si tratta invece di preferire (potius quam) la misericordia come bene maggiore, senza escludere il bene della giustizia.

Mentre dunque la carità è una virtù da esercitare a tempo pieno e in ogni circostanza, la misericordia va esercitata e commisurata in relazione alla condotta del prossimo. C’è chi merita misericordia e chi non la merita. Essere misericordioso con un arrogante o un ingrato o un impenitente o un empio, vuol dire approvare la sua condotta perversa e cadere a nostra volta nel peccato.

La misericordia divina è una grazia, ma può essere anche meritata e ottenuta dall’azione umana, che però dev’essere già a sua volta in grazia. Questo vuol dire che ciò che spinge l’uomo a disporsi a ricevere misericordia, ossia il pentimento, è esso stesso causato dalla divina misericordia. In questo senso S.Giovanni, parlando dell’amore divino, ossia, in fin dei conti, della misericordia, dice che Dio, ci “ha amati per primo”.

Noi attiriamo su di noi la misericordia nella misura in cui siamo umili e ci mettiamo a diposizione di Dio, pentendoci dei nostri peccati e facendone penitenza. Nel contempo però Dio non si limita ad essere tanto più misericordioso, quanto più siamo sottomessi a lui; ma a sua discrezione, nella sua infinita bontà e generosità, senza dover render conto a nessuno, si riserva di aggiungere alla misericordia richiesta un’ulteriore quantità di misericordia, la cui misura non è determinata, ma può aumentare all’infinito.

In tal senso si dice che la sua misericordia è infinta. Nessuno può impedire a Dio di far misericordia, quando lo vuole. Come dice la Scrittura: “Se Egli apre, nessuno chiude” (Is 22,22), benchè di fatto essa possa essere limitata, quando siamo noi che, col peccato, per mancanza di fede o di disponibilità o per grettezza di vedute le poniamo un limite o la respingiamo o non le consentiamo di portar frutto.

Se poi siamo attaccati al peccato, la blocchiamo del tutto e sentiamo il rigore della sua giustizia, la quale, sempre in forza della misericordia, come osserva S.Tommaso d’Aquino, non è mai così rigorosa come meriteremmo.

La misericordia di Cristo è la grazia che Egli ci dà per la nostra salvezza. Salutare è il timore che, se non approfittiamo degnamente di tale misericordia, siamo perduti. Tuttavia, il pensiero sommo del cristiano non dovrebbe esser tanto e non solo la preoccupazione di come ricevere misericordia, quanto piuttosto e ancor più quell’amore ardente verso Dio e verso i fratelli, che certo è condizionato dal fatto di ricevere il perdono divino, ma in vista del godimento finale della nostra comunione con Dio e con i fratelli nella carità della vita eterna.





[Modificato da Caterina63 25/04/2015 16:36]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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