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Cari Vescovi, vi supplichiamo, non tacete più, gridate dai tetti la Verità (3)

Ultimo Aggiornamento: 05/11/2015 18:05
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25/10/2015 17:16
 
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  LA LETTERA

Qualche considerazione sul Sinodo e sulla famiglia

 



Cinque considerazioni che da semplice laico voglio offrire alla discussione su Chiesa e famiglia che ha tenuto impegnato i Padri del Sinodo. Cinque punti per andare oltre la solita dialettica sulla comunione o meno ai divorziati risposati e mettere al centro la natura stessa della famiglia cristiana. 



di Peppino Zola



Caro direttore,

visto che ormai su Sinodo e famiglia in tanti (cardinali, vescovi, preti, teologi, giornalisti vaticanisti e non) esprimono liberamente le loro opinioni (non sempre ponderate, soprattutto da parte di teologi) mi permetto di dire anche la mia, da semplice laico e nonno di strada. Sarò schematico.

1) Mi pare che molti dimentichino che il centro del cristianesimonon sono regole più o meno misericordiose o rigide, ma Cristo stesso. L’immenso santo Giovanni Paolo II scrisse che Gesù è «il centro del cosmo e della storia». Mi pare che questa elementare verità cristiana stia passando in secondo piano, commettendo l’enorme errore di darla per scontata. Ogni consesso cristiano, invece, dovrebbe occuparsi innanzi tutto di questo, perché solo la luce di Cristo può illuminare ogni esperienza umana. E solo la conversione a Cristo può sanare la ferite che la vita porta con sé. Non sento, in questo periodo, l’invito primario a convertirsi a Cristo, anche e forse soprattutto quando si parla di famiglia.

2) Alla luce di Cristo, ogni vocazione diventa buona e bella: dentro Santa Madre Chiesa fiorisconotante vocazioni, la più strabiliante delle quali è quella alla verginità, cui induce l’esclusivo amore a Cristo, il quale illumina anche la vocazione al matrimonio. In questo contesto pluriforme, non sento più parlare della virtù della castità, neppure da parte di tanti padri sinodali. Hanno forse vergogna della integralità di Cristo, di fronte ad un mondo che assume altri criteri molto più sbrigativi e istintivi? Stanno forse dimenticando che è possibile a Dio ciò che sembra impossibile agli uomini?

3) La vocazione alla famiglia è buona e bella per tanti motivi, ma soprattutto perché essa educa adamare e accettare l’alterità, che, nei fatti, implica, spesso indirettamente, un’esperienza “religiosa”. Ma per indurre ad amare per sempre l’altro, occorre innanzi tutto, ancora, annunciare e testimoniare il fascino e la bellezza di Cristo, prima ancora del fascino e della bellezza del matrimonio. Chi conosce Cristo più facilmente può portare a termine positivamente la vocazione familiare. Parlando di famiglia, allora, non si può non polemizzare (come faceva Cristo con scribi e farisei) con la cultura del “pensiero unico”, che idolatra il più assoluto individualismo. Questa cultura è alla base della crisi attuale dell’intera società e quindi anche della famiglia e i cristiani non possono sottrarsi a vivere e comunicare l’autentica dimensione culturale dell’esperienza cristiana: per ricostituire l’uomo vero, infatti, oltre alla carità, occorre anche il giudizio della cultura e il coraggio della missione, senza dei quali non amiamo veramente il prossimo.

4) Anche i padri sinodali (e soprattutto alcuni teologi) dovrebbero saper distinguere tra ciò che èfisiologico nella vita di una famiglia e ciò che è patologico. E, quindi, dovrebbero dare le ragioni profonde (che hanno le radici in Cristo stesso) di un’esperienza fisiologicamente sana. E, d’altra parte, dovrebbero amare e curare, come i cristiani hanno sempre fatto e in molti stanno facendo, gli aspetti patologici, senza mettere in discussione quelli fisiologici. Tenendo anche presente che molti aspetti patologici sono a loro volta causati dalla cultura di cui sopra e, spesso, sono colpevoli. Giustamente questo giornale ha rilevato che nel Sinodo pare che si parli molto poco del peccato originale, senza del quale non si capiscono tante cose. Teniamo  presente, ad esempio, che la maggioranza dei divorziati non ha nessuna intenzione di comunicarsi dopo la rottura del matrimonio. Ho l’impressione che, su questo specifico tema, molti non abbiano a cuore la “misericordia”, ma altro.

5) C’è poi un aspetto che mi pare non venga considerato. Cristo, con il suo sacrificio, ci ha insegnatoche possiamo partecipare in vario modo al suo di sacrificio, per il bene e per la salvezza di tutti. Penso che una di queste offerte a Dio potrebbe essere, da parte di persone divorziate, quella di partecipare alla vita concreta della comunità cristiana a pieno titolo, pur non potendo accedere materialmente all’eucarestia. Nella tradizione cristiana si parla di comunione di desiderio, che può far partecipare comunque al disegno di salvezza della Chiesa, madre, ma anche maestra. Ma oggi è molto difficile sentire parlare di sacrificio, oltre che di peccato originale. Probabilmente, qualche teologo inorridirà di fronte a quanto ho qui espresso. Pazienza, sono pronto a correggermi. Solo sul punto 1 non si può discutere, anche se è quello più messo sotto silenzio.

 


 

Un Marco Tosatti intelligente, affidabile e serio   comunque è quanto abbiamo detto in altro spazio qui e non dimentichiamo che i titoloni italiani sono diretti magistralmente dal vaticaninsider, per nulla affidabile e di certo rigore modernista.... oserei dire che la presentazione più omogenea e seria è questa:
Il Daily Telegraph :
“Il Sinodo si è concluso. Niente di sostanziale è cambiato. L’insegnamento cattolico rimane lo stesso. E così dovrebbe essere. I termini della salvezza non cambiano a seconda delle circostanze presenti. E’ della Chiesa cattolica che parliamo, non di un partito politico. Sui divorziati risposati è stato lavorato un certo grado di compromesso affermando che quelli in questa situazione devono essere reintegrati nella Chiesa, ma fermandosi prima di permettere la piena Comunione”.






EDITORIALE
I lavori del Sinodo
 

Non vorrei che il Sinodo della famiglia, che da pochi giorni ha chiuso i lavori, passasse senza che fosse fatta una riflessione sul metodo dei suoi documenti e, in particolare, della Relatio finalis. Non quindi sul metodo dei lavori, ma sul metodo della redazione dei documenti. La questione è di grande importanza: ecco perché.

di Stefano Fontana

La Relazione finale inizia con una parte dedicata a “La Chiesa in ascolto della famiglia” a cui segue una seconda parte dal titolo “La famiglia nel piano di Dio”. Il documento non parte dal progetto di Dio sulla famiglia, ma dal contesto di oggi.
Nella prima parte, infatti, si fa il quadro della situazione: si esamina il contesto “antropologico-culturale”, poi quello “socio-economico”, poi quello “sociale”. 

É un viaggio nella fenomenologia di oggi. Si parla un po’ di tutto, come in una specie di inventario: dalle vedove ai bambini, dalla donna ai migranti, dalle politiche familiari alla povertà, dall’ecologia alle persone con bisogni speciali. È un rincorrere l’attualità, senza riuscire mai a prenderla, perché nel frattempo è già mutata. È tutto un costruire quadri sinottici che non si sa quanto siano attendibili. Una volta fatta questa disamina dell’essere si esamina il dover essere, ossia come stanno le cose nel piano di Dio. Fatto questo, in genere i documenti guardano avanti sulle cose da fare.

Questo è il metodo che da decenni seguono i documenti finali dei consessi ecclesiali. La Gaudium et spes del Vaticano II ne è stato il prototipo. Il documento di Medellin, la prima Conferenza episcopale latinoamericana (1969) ne è stata la prima concretizzazione, la famosa indicazione “vedere-giudicare-agire” della Mater et Magistra di Giovanni XXIII la prima formale teorizzazione. Solitamente viene chiamato metodo induttivo, e viene contrapposto al metodo deduttivo che sarebbe il contrario. Se la Relatio finalis avesse cominciato con “La famiglia nel piano di Dio” per poi passare a “La Chiesa in ascolto della famiglia” sarebbe stata accusata di essere deduttiva. Con questo criterio, tutte le encicliche sociali precedenti il Concilio, compresa la Rerum novarum, sono state accusate di essere deduttive. E come tali abbandonate al proprio destino. Dopo tanti anni, a mio modo di vedere, sarebbe ora di cambiare schema e di uscire da questa insulsa contrapposizione induttivo-deduttivo.

Prima di tutto va notato che, come ha ben chiarito Karl Popper che su questo punto è condivisibile, il metodo induttivo non esiste, è stata un’illusione sbagliata e pericolosa del positivismo.
In secondo luogo, è facile porre agli estensori della Relatio finalis del Sinodo sulla famiglia la seguente domanda: l’analisi sociale iniziale è svolta a partire dalla luce della Parola di Dio o dall’analisi delle scienze sociali? Nel primo caso non è induttiva, nel secondo caso non è significativa per la fede. Tutti i dati, presi da soli (ammesso che sia possibile), sono solo stupidi. In terzo luogo, questo metodo assegna un ruolo primario alle scienze sociali che vengono investite, poverette, di un compito superiore alle loro forze. Da esse dipenderebbero la filosofia, la teologia e la stessa Parola di Dio. In quarto luogo, partire dalla Parola di Dio e nel caso specifico da “La famiglia nel piano di Dio” non significa per niente adottare un metodo deduttivo.

La Parola di Dio, infatti, non è un insieme di assiomi o postulati da cui dedurre logicamente delle conclusioni come si fa in geometria. Oggi purtroppo si pensa che la dottrina rivelata, oppure la legge, siano concetti astratti e dedurre da esse delle indicazioni pratiche sarebbe far violenza all’esperienza e ai bisogni concreti delle persone, da cui invece bisognerebbe partire. Ma questa è una visione errata sia della dottrina che della legge cristiane. Si tratta di nozioni di fede che esprimono una realtà e che, soprattutto, sono fattive, creative, orientative, animatrici e in grado di soddisfare i nostri bisogni perché li illuminano e ci fanno conoscere quelli veri da quelli falsi. 

Assumendo questo metodo già si concede molto all’idea, oggi molto diffusa e che ha fatto capolino con forza al Sinodo sulla famiglia, che tra la dottrina e la situazione di vita ci sia una lontananza che va colmata o dal compromesso della coscienza o dal discernimento o dal caso per caso, che ormai sono gli slogan con cui avremo a che fare nel prossimo futuro. Anche Kasper aveva tirato in ballo la sapienza, la prudenza, l’epicheia. Ma la legge di Dio non è una premessa di un sillogismo, ossia qualcosa di astratto e vuoto, essa stessa è vita ed è per questo che illumina la vita. È giunto il momento di cambiare metodo e ridare al progetto di Dio il suo posto: il primo. Bisogna uscire dalla tenaglia induttivo-deduttivo. 

Anche perché, a ben vedere, questo rovesciamento è frutto di una precisa teologia che ha influenzato talmente la vita della Chiesa da imporre anche un nuovo metodo nei documenti. Essa dice che la recezione della Parola di Dio nel mondo fa parte del Messaggio. All’intelligenza nella fede bisogna ora aggiungere l’intelligenza nei bisogni. Partire dai nostri bisogni farebbe parte essenziale del Messaggio di Dio. Come si vede, qui i pericoli si fanno grossi e non è questo il momento di parlarne. Bastino però questi pochi cenni a far capire che il metodo induttivo non è, come farebbe pensare il suo nome, neutro ma espressione di una teologia non condivisibile, perché toglie a Dio il suo primato.





[Modificato da Caterina63 04/11/2015 20:07]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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