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Curiosità varie in campo liturgico

Ultimo Aggiornamento: 13/04/2017 23:05
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L'anno liturgico

di dom Prosper Guéranger

 

 

MARTEDÌ DELLE ROGAZIONI

(premessa breve: La tradizione si è persa quasi dappertutto, ma il benedizionale revisionato nel 1984 da Giovanni Paolo II, ai numeri 1820-1821 le prevede ancora in alcuni momenti particolari a livello ecclesiale. )

Preghiera per i peccatori.

Oggi continuano ancora le suppliche della Chiesa, e le schiere del Signore percorrono, per la seconda volta, le vie della città ed i sentieri delle campagne. Uniamoci ad essi, e facciamo sentire anche noi quel grido che penetra fino al cielo: Kyrie, eléison! Signore, abbiate pietà! Riflettiamo al numero immenso dei peccati che si commettono ogni giorno e ogni notte, ed imploriamo misericordia. All'epoca del diluvio, "ogni mortale aveva depravato la sua via" (Gen 6,12); ma gli uomini non si preoccupavano di domandare grazia al cielo. Dice il Signore: "Venne il diluvio e spense tutti" (Lc 17,27). Se avessero pregato, se avessero fatto ammenda onorevole alla divina giustizia, la mano di Dio si sarebbe arrestata; non avrebbe rovesciato sulla terra "le cataratte del grande abisso" (Gen 8,2). Un giorno dovrà pur venire, nel quale non più le acque, ma un fuoco acceso dalla collera celeste, divamperà su questa terra che noi calpestiamo; un fuoco che brucerà fino alle radici delle montagne (Dt 32,22), e come accadde al tempo di Noè, divorerà i peccatori sorpresi nella loro effimera sicurezza.

Ma in anticipo, la santa Chiesa, oppressa dai suoi nemici, decimata dal martirio dei suoi figli, ridotta agli estremi dalle defezioni degli altri, sprovvista di qualunque appoggio terrestre, sentirà che quel giorno è vicino; poiché rara sarà la preghiera, come la fede. Vegliamo, dunque, e preghiamo, affinché questi giorni della consumazione vengano ritardati; affinché la vita cristiana, così dissanguata, riprenda un po' di vigore; e che il mondo, invecchiato, non si abbatta durante i tempi nostri. I cristiani sono ancora presenti dappertutto, ma il loro numero è visibilmente diminuito. L'eresia occupa vaste regioni, dove prima fioriva il cattolicesimo; nei paesi da essi risparmiati, l'incredulità e l'indifferenza hanno condotto la maggior parte degli uomini a non essere più cristiani che di nome, ed a trasgredire senza rimorsi anche i doveri religiosi più essenziali; in un gran numero di quelli che compiono i loro obblighi di cattolici, le verità sono diminuite (Sal 11,2), la forza della fede ha lasciato il posto alla mollezza delle convinzioni; conciliazioni impossibili sono tentate e seguite; i sentimenti e le azioni dei santi, che lo Spirito di Dio animava, gli atti e gli insegnamenti della Chiesa, sono tacciati di esagerazione e d'incompatibilità con un sedicente progresso; la ricerca degli agi è divenuto uno studio assiduo; la conquista dei beni terrestri, una nobile passione; l'indipendenza un idolo, al quale tutto si sacrifica; la sottomissione, una vergogna che bisogna fuggire o dissimulare; e, finalmente, il sensualismo, quale impura atmosfera, impregna da ogni parte una società che si direbbe abbia deciso di abolire anche il ricordo della Croce.

Sorgono da qui tanti pericoli per questa umanità che sogna condizioni diverse da quelle che Dio ha voluto imporle. Se il Vangelo è divino, come gli uomini potrebbero fare il contrario, senza provocare il cielo a lanciare sopra di essi quei flagelli che schiacciano, quando non salvano? Siamo giusti, e sappiamo riconoscere le nostre miserie di fronte alla santità suprema: i peccati della terra si moltiplicano, per numero e per intensità, in una maniera impressionante; e pertanto, nel quadro che abbiamo tracciato, non parliamo né dell'empietà forsennata, né degli insegnamenti perversi, il cui veleno circola un po' dappertutto, né dei patti con Satana che minaccia di far discendere il nostro secolo al livello di quelli pagani; né della cospirazione tenebrosa organizzata contro ogni ordine, ogni giustizia, ogni verità. Ancora una volta, uniamoci alla santa Chiesa, ed esclamiamo con lei in questi giorni: "Dalla tua collera, liberaci, o Signore!".

 

Preghiera per i beni della terra.

Un altro dei fini che si propongono le Rogazioni è quello di attirare la benedizione di Dio sui raccolti ed i frutti della terra; è la domanda del pane quotidiano che si tratta di presentare solennemente alla Maestà divina. "Gli occhi di tutti da te attendono e tu dai loro a suo tempo il loro cibo, allarghi la mano e colmi di favori ogni vivente" (Sal 144,15-16). Ferma su queste parole, la santa Chiesa supplica il Signore di dare anche quest'anno agli abitanti della terra il nutrimento di cui hanno bisogno. Confessa che ne sono indegni per le loro offese: riconosciamo con lei i diritti della divina giustizia sopra di noi, e scongiuriamola di lasciarsi vincere dalla misericordia. I flagelli che potrebbero arrestare improvvisamente le speranze orgogliose dell'uomo, sono nelle mani di Dio; nessuno sforzo sarebbe per lui di annientare tante belle ricerche: un turbamento dell'atmosfera sarebbe sufficiente per ridurre i popoli agli estremi. Ha un bel fare la scienza economica! bene o male deve fare i conti con Dio! Essa parla di lui raramente, ed egli sembra consentire a vedersi dimenticato; ma "non dorme affatto il custode d'Israele" (Sal 120,4). Che egli trattenga la sua mano benefica, ed i nostri lavori agricoli di cui siamo così fieri, le nostre coltivazioni, per mezzo delle quali ci vantiamo di aver reso ormai impossibile la carestia, saranno immediatamente colpite di sterilità. Una malattia, la cui origine resterà sconosciuta, si potrebbe improvvisamente abbattere sui prodotti della terra - quante volte l'abbiamo costatato - e sarebbe sufficiente per affamare i popoli, sufficiente per attirare le più terribili perturbazioni in un ordine sociale che ha voluto liberarsi dalla legge cristiana, e non ha più altra ragione di sussistere che la compassione divina.

Tuttavia, se il Signore si degnerà anche quest'anno di concedere fecondità e protezione ai raccolti che le nostre mani hanno seminato, dovremo dire, per amore della verità, che egli avrà dato il nutrimento a coloro che lo dimenticano, a coloro che lo bestemmiano, come a quelli che pensano a lui e gli rendono onore. I ciechi ed i perversi, abusando di questa longanimità, ne approfitteranno per proclamare sempre più forte l'inviolabilità delle leggi della natura; Dio tacerà ancora, e li nutrirà. Perché trattiene la sua indignazione? perché la sua Chiesa ha pregato, perché sulla terra ha riconosciuto i dieci giusti (Gen 18,32), ossia quel ristretto numero di cui si contenta nella sua adorabile bontà. Egli lascerà, dunque, parlare e scrivere i sapienti economisti che gli sarebbe così facile confondere; e, grazie a questa pazienza, avverrà che molti di essi si stancheranno di seguitare a correre così le vie dell'assurdo: una circostanza inattesa schiuderà i loro occhi, un giorno essi crederanno e pregheranno insieme a noi. Altri sprofonderanno sempre più in basso nelle loro tenebre; sfideranno la giustizia divina sino alla fine, e meriteranno che su di essi si compia il terribile oracolo: "Dio ha fatto ogni cosa per se stesso, anche l'empio per il giorno infausto" (Pr 16,4).

Per noi che ci gloriarne della semplicità della nostra fede, che attendiamo tutto da Dio e niente da noi stessi, che ci riconosciamo peccatori e indegni dei suoi doni, imploreremo, durante questi tre giorni, il pane della sua misericordia, e diremo insieme alla santa Chiesa: "Che ti degni dare e conservare i frutti della terra, ti preghiamo, ascoltaci, o Signore!".  Che egli si degni ancora questa volta esaudire il grido del nostro affanno! e, tra un anno, torneremo ad indirizzargli la medesima domanda. Marciando, sotto il vessillo della croce, noi verremo di nuovo a percorrere le medesime strade, facendo risuonare nell'aria le medesime Litanie; e la nostra fiducia si fortificherà sempre più al pensiero che la santa Chiesa, in tutto il mondo cristiano, conduce i suoi figli in questo supplichevole cammino. Da quindici secoli il Signore riceve i voti dei suoi fedeli, in quest'epoca dell'anno; non vorremo essere noi, adesso, ad attenuare l'omaggio che gli è dovuto: faremo ogni sforzo per supplire, con l'ardore delle nostre preghiere, all'indifferenza ed alla mollezza che troppo spesso vi si uniscono, facendo così sparire dai nostri usi molti di quei segni di cattolicità che furono così cari ai nostri padri.

 

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 208-211



[Modificato da Caterina63 15/05/2015 19:22]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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  Dalle annotazioni sul sacrificio della messa del Card. Lambertini


Della messa dalla comunione 
fino alla fine

 

CCCLXXVII. Abbiamo interrotto, con interruzioni però non importune il corso della messa: ed ora ripigliandolo, diremo, che il celebrante dopo essersi comunicato, ed aver presa l'abluzione, e dopo essersi comunicato, ed aver comunicati gli astanti, e dipoi presa l'abluzione, dal mezzo dell'altare va al corno dell'epistola, ove dal ministro è stato portato il messale, recita l'antifona chiamata comunione, poi ritorna la mezzo dell'altare, lo bacia, si volta verso il popolo, dicendo: Dominus vobiscum, ritorna al libro, dice l'orazione chiamata Postcommunio; poi serra il messale.
Ritorna al mezzo dell'altare, lo bacia di nuovo, si rivolta di nuovo verso il popolo e dice Dominus vobiscum, e stando in questa positura, nelle messe, nelle quali può dire l'Ite missa est, lo dice, rispondendo il ministro Deo gratias, dicendo in altre messe, nel rivoltarsi all'altare, Benedicamus Domino, e rispondendo pure il ministro Deo gratias, e dicendo nelle messe dei morti, nel rivoltarsi pure verso l'altare, Requiescant in pace, e rispondendo il ministro Amen.
Finalmente stando rivoltato il celebrante verso l'altare, recita l'orazione Placeat, si rivolge al popolo e dà la benedizione, fuorché nelle messe de' morti e passando alla parte del vangelo, recita il vangelo di s. Giovanni, se la rubrica lo permette e se diversamente è prescritto dalla rubrica recita un altro vangelo.

CCCLXXVIII. L'antifonia predetta si chiama Communio, perché si cantava, mentre il popolo si comunicava, come ben osserva il Gavanto. Se ne fa menzione negli ordini romani. Cantavasi alternativamente, ripetendosi ciaschedun versetto del salmo, di cui è composta.
Il cardinal Tommasi ha pubblicato un esempio del salmo della comunione cantato in antifona. Seguitava il canto, finattantoché il pontefice, che celebrava la messa dava cenno, che si finisse, e si dicesse il Gloria Patri, come si vede nel primo Ordine romano al num. 20. "Mox, ut pontifex coeperit in senatorio communicare, statim schola incipit antiphonam ad communionem per vices cum subdiaconibus; et psallunt, usque dum communicato omni populo, annuat pontifex, ut dicant Gloria Patri: etc. tunc repetito versu quiescunt". Questa parte della messa, in cui si dicono il Communio ed il Postcommunio, aveva il nome di Gratiarum actio, come dice Ruperto De divinis officiis al lib. 2 cap. 18.

"Cantus, quem com
munionem dicimus, quem post cibum salutarem canimus, gratiarurn actio est": il che molto tempo prima era stato detto da s. Agostino nell'epistola 149 altre volte 59. "Participato tanto sacramento, gratiarum actio cuncta concludit". All'antifona detta Communio, sieguono le altre orazioni chiamatePostcommunio, dicendosi immediatamente dopo la comunione, per ringraziare Iddio della felicità d'aver partecipato dei divini misteri, e per domandargli la grazia di conservarne in noi il frutto e tutto ciò, che può operare la nostra santificazione. Quest'orazione in alcuni luoghi è chiamataComplenda, ossia Oratio ad complendum che è lo stesso che dire, orazione per finire: e nella rubrica del messale si dice, che tante orazioni si dicono in questa parte della messa, quante se ne sono dette nel principio: "Multiplicans, l'orazione detta comunione, secundum numerum collectarum in principio missae, et secretarum ante canonis praefationem praemissarum": disse il Biel nella lez. 39 sopra il Canone della messa alla pag. 918. Nella quaresima nella messa feriale dopo le orazioni chiamate Postcommunio il sacerdote dice l'orazione, profferendo queste parole: "humiliate capita vestra Deo, e soggiungendo: inclinantes se, Domine, maiestati tuae propitiatus intende, ut qui divino munere sunt refecti, coelestibus semper nutriantur auxiliis. Per Dominum etc.".

Antichissima è quest'orazione, come si raccoglie dal 
Sacramentario gelasiano stampato dal più volte nominato cardinal Tommasi, e non dicevasi nella sola quaresima, ma in tutto l'anno ed oggi si dice nei predetti soli giorni di quaresima, per armare coll'aiuto divino il popolo contro le insidie del demonio che sono più fiere in quei giorni di penitenza, come spiegano Amalario nel lib. 3 De divinis officiis al cap. 37 e il Micrologo al cap. 51 De ecclesiasticis observationibus.

CCCLXXIX. Dell'Ite missa est si è parlalo altrove, quando da noi fu detto che finita la messa de' catecumeni, erano essi licenziati dal diacono e finita la messa, alla quale assistevano gli altri fedeli, erano essi licenziati pure dal diacono colle parole Ite missa est. Secondo la corrente disciplina, ogni volta, che nella messa si è detto il gloria in excelsis, si dice l'Ite missa est, e quando non si dice il gloria in excelsis, si dice il Benedicams Domino, per invitare il popolo a ringraziare Iddio del compiuto sacrifizio della messa: "Semper cum Gloria excelsis, etiam Te Deum, et Ite missa est recitamus": disse il Micrologo al cap. 46. Il senso dell'Ite missa est è il seguente: "Vobis abire licet; nam fit missa, idest dimissio".

I greci usano un altro modo di parlare, finendo la messa col dire: "In pace Christi eamus" come si vede nelle liturgie dei ss. Giacomo, Basilio e Grisostomo; e rispondendo il popolo 
In nomine Domini. Il cardinal Bellarmino nel tom. 3 delle sue Controversie al lib. 6 De missa cap. 27, osserva dopo il Micrologo che dicevasi l'Ite missa est nelle messe de' giorni festivi, perché a quelle per lo più il popolo assisteva; ma non dicevasi nelle messe feriali, perché a quelle per lo più assistevano i chierici ed i monaci che non si licenziavano, dovendo restare a proseguire l'officio; e benché questo motivo potesse indurre a dover dire l'Ite missa est, e non il Benedicamus Domino, nelle domeniche dell'Avvento e della quaresima, aggiunge, dirsi in queste domeniche il Benedicamus Domino, e non l'Ite missa est, per significare la mestizia di quel tempo: "Videtur enim nescio quid lugubre prae se ferre, quod non publica denunciatur dimissio, sed unusquisque per se discedit". Parla pure dell'Ite missa est il cardinal Bona Rer. Liturgic. al lib. 2 cap. 20 num. 3 ove riprova il Micrologo, dicendo che per sostenere il suo assunto sarebbe stato d'uopo che avesse provato, che alle messe quotidiane il popolo non intervenisse; conchiudendo essere stato tralasciato l'Ite missa est, quando i fedeli finita la messa non partivano subito dalla chiesa, ma restavano in essa sino al fine delle preci canoniche ed essere stata dipoi estesa quest'usanza anche alle messe meno solenni e quotidiane.

Circa poi il 
Requiescant in pace, il Belleto al cap. 49 dice essersi ciò introdotto per consuetudine generale: "Dicitur in missa pro defunctis, "requiescant in pace", quod ex sola consuetudine generali natum est"; o perché tutta l'occupazione nelle messe de' morti è per procurare ad essi il sollievo; o perché dopo la messa non conveniva congedare il popolo, restando la funzione della sepoltura del cadavere, ed il proseguimento d'altre preci per l'anima de' defunti. Il Vert nel tom. 1 alla pag. 141 e nel tom. 3 alla pag. 416 sopra le parole Deo gratias, che si dicono dopo l'Ite missa est, ed il Benedicamus Domino, dice ch'è un'aggiunta: lodando i chierici della Chiesa di Parigi, che dette nella messa solenne dal diacono le parole "Ite missa est, o Benedicamus Domino", partono correndo, senza rispondere Deo gratias. Ma il P. Le Brun nel tom. 1 alla pag. 668 dimostra l'antichità deiDeo gratias dopo le predette parole; ritrovandosi in Amalario e negli ordini romani; e riflette doversi preferire l'uso de' monaci Certosini all'abuso de'chierici di Parigi; perché sebbene i detti monaci non danno la benedizione nella messa, né recitano il vangelo di s. Giovanni, non partono però dopo l'Ite inissa est, ma aspettano il Deo gratias.

CCCLXXX. Conforme si è di già esposto, in questa parte della messa si fanno due saluti al popolo col Dominus vobiscum. Il primo significa quella benedizione, che Cristo nell'ascendere al Cielo diede agli Apostoli, ed il secondo significa la vita eterna nella quale Cristo ascendente entrò quando partì dagli Apostoli; "Prima salutatio ante postcommunionem significat illam benedictionem quam Christus ascensurus in coelum legitur dedisse discipulis suis; nam, ut Lucas ultimo commemorat, eduxit eos foras in Bethaniam, et elevatis manibus benedixit eis. Ultima salutatio vitam aeternam significat, quam Christus ascendens ingressus est, quia cum ab eis recessit, ut consequenter scribit Lucas, ferebatur in coelum"; disse il Biel nella citata lezione alla pag. 918, ed alla pag. 921 dice, che profferendosi l'Ite missa est, il sacerdote sta rivoltato verso il popolo, perché parla al popolo, e che dicendo il Benedicamus Domino, o il Requiescant in pace, non ista rivoltato verso il popolo, ma profferisce le dette parole nel rivoltarsi verso l'altare, perché esorta il popolo ad unirsi seco a benedire il Signore, ed a pregare per le anime dei defunti.

CCCLXXXI. L'orazione Placeat dopo il nono secolo si ritrova in molti sagramentari. Il sacerdote la dice segretamente, essendo sua orazione particolare, e la dice piegato verso l'altare, come conviene, indirizzandola alla santissima Trinità. Quest'orazione si ritrova anche nella messa dell'Illirico, ed in altre appresso il Menardo: e la spiegazione di quest'orazione può vedersi appresso il Biel nella citata Lezione sopra il canone.

CCCLXXXII. Una volta nel fine della messa davano i sacerdoti la benedizione con tre segni di croce, conforme oggi fanno i vescovi. Fu questo rito tolto di mezzo da s. Pio V che lo ridusse alle sole messe cantate, ed il pontefice Clemente VIII è stato quello che ha stabilito, che i preti semplici anche nelle messe cantate non diano che una sola benedizione, come può vedersi nel P. Merati al tom. 1 pag. 243 e dai decreti d'Alessandro VII agli abbati regolari vien data la facoltà di dare nelle messe pontificali le tre benedizioni, con questo però, che ne diano una sola nelle messe non pontificali, come può vedersi nella nostra notific. 14 al § 4 num. 29 del tom. 2.

L'uso di dare questa benedizione nel fine della messa non è tanto antico, non parlandone né Amalario, né Floro, né Rabano 
Mauro, né Walfrido, né Remigio scrittori del secolo nono. Ne dice qualche cosa il Micrologo al cap. 21 ove ragionando del popolo, che assiste alla messa, così scrive: "Prius tamen benedicitur ab episcopo, si adest, sin autem, a presbytero, qui missas celebravit". Ma è d'uopo, che ciò non fosse universalmente posto in pratica, non facendosene parola ne' rituali de' cisterciensi e de' premonstratensi, religioni fondate trent'anni dopo il Micrologo. I certosini secondo il rito loro antico non danno la benedizione nel fine della messa o solenne o bassa, come ben avverte il Pouget nel tom. 2 delle sueIstituzioni cattoliche alla pag. 890 e concorda l'antico rito de' cisterciensi, e se ne assegna la ragione da Giovanni Becoffen nell'Esposizione della messa, stampata in Basilea l'anno 1519 ricavata da Giovanni de Indagine, che chi non ha popolo, non dà la benedizione. Danno però oggi i certosini la benedizione nel fine della messa, se la celebrano nelle chiese che non sono del loro ordine, come si raccoglie dalle loro ultime costituzioni stat. 3 compil. cap. 1 num. 58, e nell'antico ordinario de' PP. domenicani al lib. 2 riferito da Marcello de Cavaleri nella sua Statera sacra al tit. 29 num. 50 così si legge: "Et si consuetudo patriae fuerit, et extranei fuerint hoc expectantes, dent benedictionem, iuxta morem patriae".

Quanto sinora si è detto, deve intendersi della benedizione, che si dà dai semplici sacerdoti nel fine della messa, ma non già di quella che si dà dai vescovi nel fine della messa essendo questa antichissima: "benedictionem episcopalem martialis episcopus apostolorum discipulus ex magisterio apostolorum tradidit"; sono parole d'Onorio nella 
Gemma animae al lib. 1 cap. 90 e chi volesse vedere quest'assunto ampiamente provato, può leggere il P. Lupo nel tom. 5 sopra iConcili generali e provinciali alla pag. 526. L'abbate Guido, che visse nel secolo undecimo, e fiorì nell'Italia, parla della consuetudine introdotta che i sacerdoti dessero la benedizione nel fine della messa: "Hinc et illa consuetudo apud modernos quae non fuit apud antiquos, inolevisse videtur, ut in aliis temporibus etiam presbyteri post finem missae benedicant, ne populum ita benedictione, ut communione privatum discedere permittant"; ed altrove: "Adeo in usum iam usquequaque venit haec benedictio, ut nequaquam absque gravi scandalo a presbiteris in populo praetermitti possit, nisi forte apostolica sedes generaliter et synodaliter prohibere voluerit". Resta però molto da dubitare se la consuetudine fosse subito universalmente ricevuta o approvata dalla sede apostolica, mentre Ruperto, che visse nel principio del secolo duodecimo, non ne fa parola, e s. Bernardo che visse nel mezzo del secolo duodecimo è costante nel sostenere, non potersi dare la benedizione dagli abbati ancorché insigniti col privilegio degli ornamenti pontificali, ed Innocenzo III parlando di questa benedizione, che si dà nel fine della messa, sempre dice doversi dare dal vescovo, né mai parla de' preti. Oggidì si dà coll'approvazione della santa sede anche dai preti: "Ipsam (dice il P. Lupo nel luogo citato alla pag. 526 parlando di questa benedizione, e della Chiesa romana), iampridem indidit suo missali; adeo potens est consuetudo". Non si dà questa benedizione nelle messe dei morti, ancorché una volta si desse anche in queste messe, dovendosi nelle messe dei morti tralasciare ogni solennità, secondo la corrente disciplina, come ben riflette il P. Le Brun nel tom. 1 alla pag. 685.

CCCLXXXIII. Data la benedizione, o dopo il Placeat nelle messe dei morti il sacerdote va alla parte del vangelo, dice il Dominus vobiscum, fa un segno di croce sul principio del vangelo, ne fa un altro sopra la sua fronte, sopra la sua bocca e sopra il petto, legge il vangelo di s. Giovanni, o il vangelo di qualche festa della quale si fa l'officio, se essa cade nella domenica, dovendosi allora leggere l'evangelio del giorno, e non quello di s. Giovanni, e leggendosi il vangelo di s. Giovanni, quando arriva alle parole Et verbum caro factum est, s'inginocchia per adorare il Verbo divino, che si è voluto abbassare sino a prendere la nostra carne, ed il ministro dice Deo gratias, acciò che la messa finisca sempre col rendimento di grazie. Concordano gli eruditi, che s. Pio V fu quello che stabilì la regola di dover recitare nel fine della messa il vangelo di s. Giovanni, mentre prima di lui alcuni lo recitavano, altri non lo recitavano. Veggasi il card. Bona Rer. liturgic. al lib. 2 cap. 20 num. 5, il P. Le Brun al tom. 1 pag. 687 e seguenti, il Pouget nel tom. 2 pag. 890 ove dice che nemmeno oggidì si legge dai certosini, il P. Merati al tom. 1 part. 1ª pag. 243 ove alla pag. 244 attesta non recitarsi il vangelo di s. Giovanni nel fine della messa da chi oggidì canta la messa nella cappella papale. Guglielmo Burio nel suo libro intitolatoBrevis notitia romanorum pontificum così scrive nella vita di s. Pio V: "Inter alia ordinavit, in fine missae a sacerdotibus dici evangelium sancti Joannis (quod ante non ex mandato hinc inde dicebatur), quia est veluti compendium mysteriorum principalium fidei nostrae, sanctissimae Trinitatis, creationis mundi, incarnationis Christi, quae profitetur tunc sacerdos suo et totius Ecclesiae nomine". Vi sono finalmente alcune orazioni che si recitano dal sacerdote dopo la messa, che si dicono in rendimento di grazie, fra le quali è l'antico inno Benedicite, come ampiamente dimostra il cardinal Bona nel luogo citato al num. 7.

 

da Prospero Card. Lambertini Benedetto XIV, Annotazioni sopra il santo sacrifizio della Messa secondo l'Ordine del calendario Romano, Torino, Speirani e Tortone, 1856, p. 256-262.

 

 

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La Costituzione apostolica 
"Quo primum" di san Pio V

 

PIO  VESCOVO
SERVO  DEI  SERVI  DI  DIO
A  PERPETUA  MEMORIA


I - Fin dal tempo della Nostra elevazione al sommo vertice dell'Apostolato, abbiamo rivolto l'animo, i pensieri e tutte le Nostre forze alle cose riguardanti il Culto della Chiesa, per conservarlo puro, e, a tal fine, ci siamo adoperati con tutto lo zelo possibile a preparare e, con l'aiuto di Dio, mandare ad effetto i provvedimenti opportuni. E poiché, tra gli altri Decreti del sacro Concilio di Trento, ci incombeva di eseguire quelli di curare l'edizione emendata dei Libri Santi, del Messale, del Breviario e del Catechismo, avendo già, con l'approvazione divina, pubblicato il Catechismo, destinato all'istruzione del popolo, e corretto il Breviario, perché siano rese a Dio le lodi dovutegli, ormai era assolutamente necessario che pensassimo quanto prima a ciò che restava ancora da fare in questa materia, cioè pubblicare il Messale, e in tal modo che rispondesse al Breviario: cosa opportuna e conveniente, poiché come nella Chiesa di Dio uno solo è il modo di salmodiare, così sommamente conviene che uno solo sia il rito per celebrare la Messa.

II - Per la qual cosa abbiamo giudicato di dover affidare questa difficile incombenza a uomini di eletta dottrina. E questi, infatti, dopo aver diligentemente collazionato tutti i codici raccomandabili per la loro castigatezza ed integrità - quelli vetusti della Nostra Biblioteca Vaticana e altri ricercati da ogni luogo - e avendo inoltre consultato gli scritti di antichi e provati autori, che ci hanno lasciato memorie sul sacro ordinamento dei medesimi riti, hanno infine restituito il Messale stesso nella sua antica forma secondo la norma e il rito dei santi Padri.

III - Pertanto, dopo matura considerazione, abbiamo ordinato che questo Messale, già così riveduto e corretto, venisse quanto prima stampato a Roma, e, stampato che fosse, pubblicato, affinché da una tale intrapresa e da un tale lavoro tutti ne ricavino frutto: naturalmente, perché i sacerdoti comprendano di quali preghiere, di qui innanzi, dovranno servirsi nella celebrazione della Messa, quali riti e cerimonie osservare.

IV - Perciò, affinché tutti e dovunque adottino e osservino le tradizioni della santa Chiesa Romana, Madre e Maestra delle altre Chiese, ordiniamo che nelle chiese di tutte le Provincie dell'Orbe cristiano: - nelle Patriarcali, Cattedrali, Collegiate e Parrocchiali del clero secolare, come in quelle dei Regolari di qualsiasi Ordine e Monastero, maschile e femminile, nonché in quelle degli Ordini militari, nelle private o cappelle - dove a norma di diritto o per consuetudine si celebra secondo il rito della Chiesa Romana, in avvenire e senza limiti di tempo, la Messa, sia quella Conventuale cantata presente il coro, sia quella semplicemente letta a bassa voce, non potrà essere cantata o recitata in altro modo da quello prescritto dall'ordinamento del Messale da Noi pubblicato; e ciò, anche se le summenzionate Chiese, comunque esenti, usufruissero di uno speciale indulto della Sede Apostolica, di una legittima consuetudine, di un privilegio fondato su dichiarazione giurata e confermato dall'Autorità apostolica, e di qualsivoglia altra facoltà.

V - Non intendiamo tuttavia, in alcun modo, privare del loro ordinamento quelle tra le summenzionate Chiese che, o dal tempo della loro istituzione, approvata dalla Sede Apostolica, o in forza di una consuetudine, possono dimostrare un proprio rito ininterrottamente osservato per oltre duecento anni. Tuttavia, se anche queste Chiese preferissero far uso del Messale che abbiamo ora pubblicato, Noi permettiamo che esse possano celebrare le Messe secondo il suo ordinamento alla sola condizione che si ottenga il consenso del Vescovo, o dell'Ordinario, e di tutto il Capitolo.

VI - Invece, mentre con la presente Nostra Costituzione, da valere in perpetuo, priviamo tutte le summenzionate Chiese dell'uso dei loro Messali, che ripudiamo in modo totale e assoluto, stabiliamo e comandiamo, sotto pena della Nostra indignazione, che a questo Nostro Messale, recentemente pubblicato, nulla mai possa venir aggiunto, detratto, cambiato. Dunque, ordiniamo a tutti e singoli i Patriarchi e Amministratori delle suddette Chiese, e a tutti gli ecclesiastici, rivestiti di qualsiasi dignità, grado e preminenza, non esclusi i Cardinali di Santa Romana Chiesa, facendone loro severo obbligo in virtù di santa obbedienza, che, in avvenire abbandonino del tutto e completamente rigettino tutti gli altri ordinamenti e riti, senza alcuna eccezione, contenuti negli altri Messali, per quanto antichi essi siano e finora soliti ad essere usati, e cantino e leggano la Messa secondo il rito, la forma e la norma, che Noi abbiamo prescritto nel presente Messale; e, pertanto, non abbiano l'audacia di aggiungere altre cerimonie o recitare altre preghiere che quelle contenute in questo Messale.

VII - Anzi, in virtù dell'Autorità Apostolica, Noi concediamo, a tutti i sacerdoti, a tenore della presente, l'Indulto perpetuo di poter seguire, in modo generale, in qualunque Chiesa, senza scrupolo veruno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena, giudizio o censura, questo stesso Messale, di cui dunque avranno la piena facoltà di servirsi liberamente e lecitamente: così che Prelati, Amministratori, Canonici, Cappellani e tutti gli altri Sacerdoti secolari, qualunque sia il loro grado, o i Regolari, a qualunque Ordine appartengano, non siano tenuti a celebrare la Messa in maniera differente da quella che Noi abbiamo prescritta, né, d'altra parte, possano venir costretti e spinti da alcuno a cambiare questo Messale.

VIII - Similmente decretiamo e dichiariamo che le presenti Lettere in nessun tempo potranno venir revocate o diminuite, ma sempre stabili e valide dovranno perseverare nel loro vigore. E ciò, non ostanti: precedenti costituzioni e decreti Apostolici; costituzioni e decreti, tanto generali che particolari, pubblicati in Concilii sia Provinciali che Sinodali; qualunque statuto e consuetudine in contrario, nonché l'uso delle predette Chiese, fosse pur sostenuto da prescrizione lunghissima e immemorabile, ma non superiore ai duecento anni.

IX - Inoltre, vogliamo e, con la medesima Autorità, decretiamo che, avvenuta la promulgazione della presente Costituzione, e seguita l'edizione di questo Messale, tutti siano tenuti a conformarvisi nella celebrazione della Messa cantata e letta: i Sacerdoti della Curia Romana, dopo un mese; quelli che sono di qua dei monti, dopo tre mesi; quelli che sono di là dei monti, dopo sei mesi o appena sarà loro proposto in vendita.

X - Affinché poi questo Messale sia ovunque in tutta la terra preservato incorrotto e intatto da mende ed errori, ingiungiamo a tutti gli stampatori di non osare o presumere di stamparlo, metterlo in vendita o riceverlo in deposito, senza la Nostra autorizzazione o la speciale licenza del Commissario Apostolico, che Noi nomineremo espressamente nei diversi luoghi a questo scopo: cioè, se prima detto Commissario non avrà fatta all'editore piena fede che l'esemplare, che deve servire di norma per imprimere gli altri, è stato collazionato con il Messale stampato in Roma secondo la grande edizione, e che gli è conforme e in nulla ne discorda; sotto pena, in caso contrario, della perdita dei libri e dell'ammenda di duecento ducati d'oro da devolversi  ipso facto alla Camera Apostolica, per gli editori che sono nel Nostro territorio e in quello direttamente o indirettamente soggetto a Santa Romana Chiesa: della scomunica "latae sententiae" e di altre pene a Nostro arbitrio, per quelli che risiedono in qualsiasi altra parte della terra.

XI - Data però la difficoltà di trasmettere le presenti Lettere nei varii luoghi dell'orbe cristiano, e di portarle alla conoscenza di tutti il più presto possibile, Noi prescriviamo che esse vengano affisse e pubblicate come di consueto alle porte della Basilica del Principe degli Apostoli e della Cancelleria Apostolica, e in Piazza di Campo dei Fiori, dichiarando che sia nel mondo intero accordata pari e indubitata fede agli esemplari delle medesime, anche stampati, purché sottoscritti per mano di pubblico notaio e muniti del sigillo di persona costituita in dignità ecclesiastica, come se queste stesse Lettere fossero mostrate ed esibite.

XII - Nessuno dunque, e in nessun modo, si permetta con temerario ardimento di violare e trasgredire questo Nostro documento: facoltà, statuto, ordinamento, mandato, precetto, concessione, indulto, dichiarazione, volontà, decreto e inibizione. Che se qualcuno avrà l'audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell'indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 14 di Luglio, nell'anno mille cinquecento settanta, quinto del Nostro Pontificato

[Cesare  Glorierio.

E.  Cumin

Nell'anno 1570 dalla Natività del Signore, Indizione 13, giorno 19 del mese di Luglio, nell'anno quinto del Pontificato del santissimo in Cristo Padre e Signore Nostro Pio per divina provvidenza Papa V, la lettera scritta qui dietro è stata pubblicata e affissa alle porte della Basilica del Principe degli Apostoli e della Cancelleria Apostolica, e nella piazza di Campo dei Fiori, come d'uso, da noi Giovanni Andrea Rogerio e Filiberto Cappuis Cursori.

Scipione  de'  Ottaviani, Maestro  dei  Cursori]

 

Traduzione italiana da "Una Voce Notiziario" n° 11-12, 1972, p. 4-8 
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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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23/05/2015 00:45
 
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  Ministeri nelle prime comunità

 

di RINALDO FABRIS

      

La prima forma di ministero è il "ministero della parola" (At 6,4). Esso comprende l’annuncio del vangelo e la presidenza della preghiera. È riservato al gruppo dei "dodici". Solo ad essi è attribuito il titolo di "apostoli", cioè inviati come testimoni autorevoli di Gesù Risorto. Accanto a loro vi è il gruppo dei "sette", con l’incarico del servire alle mense. Sono i "diaconi".

Il termine italiano "ministero", dal latino minister, traduce il vocabolo greco diákonos, utilizzato negli scritti del NT per designare il compito di servizio e di guida nella Chiesa. In senso specifico diákonos è colui che serve a mensa. Ma nell’ambiente greco con questo termine si indica in senso generale anche chiunque ha un incarico nell’ambito religioso o profano. I primi cristiani di lingua greca assumono dal loro ambiente culturale questa terminologia per indicare quelli che nella vita comunitaria hanno un ruolo di responsabilità e il compito di servizio. In questo senso si può interpretare l’espressione di Paolo in apertura della Lettera scritta, a metà degli anni cinquanta, alla Chiesa di Filippi. Egli presenta sé stesso e Timoteo con il titolo "servi di Cristo Gesù" e si rivolge a tutti i santi che sono in Filippi "con gli episcopi e i diaconi" (Fil 1,1). Questo duplice titolo, che sottolinea nello stesso tempo la responsabilità e il servizio, lascia intravedere qualche cosa dei ministeri e delle strutture nella vita delle comunità paoline sorte nei grandi centri urbani dell’impero. Ma vi sono altre qualifiche e forme di organizzazione nelle comunità cristiane di cui si ha una documentazione negli scritti del NT.

 

1. La prima Chiesa negli Atti degli apostoli. Nella Chiesa di Gerusalemme, sorta a Pentecoste con il dono dello Spirito santo e la parola di Pietro, il ritmo della vita comunitaria è scandito da quattro momenti: i credenti "erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42). La prima forma di ministero, essenziale per la vita e crescita della comunità, è quella che viene chiamata con una espressione greca diakonía toú lógou, "ministero della parola" (At 6,4). Esso comprende l’annuncio autorevole del vangelo e la presidenza della preghiera riservato al gruppo dei "dodici", rappresentanti di Israele fondato su dodici patriarchi. Solo ad essi l’autore degli Atti attribuisce il titolo di "apostoli", cioè delegati o inviati come testimoni autorevoli di Gesù risorto. Infatti fanno parte di questo gruppo solo quelli che sono stati con Gesù dall’inizio fino alla sua ascensione al cielo e sono divenuti testimoni della sua risurrezione (At 1,21-22).

Accanto ai dodici, nella Chiesa di Gerusalemme, è menzionato il gruppo dei "sette", che fanno capo a Stefano. Essi sono responsabili dell’assistenza – diakonéin, "servire alle mense" – dei cristiani di lingua greca o ellenisti (At 6,2). Solo a partire da Ireneo di Lione, nel II secolo, questi "sette" sono chiamati "diaconi" nel senso che questo vocabolo assume a partire dalle lettere pastorali e soprattutto da quelle di Ignazio di Antiochia. In realtà Stefano e Filippo esercitano la diakonía della parola e rendono testimonianza a Gesù Cristo risorto come i dodici. Filippo, che annuncia il vangelo in Samaria e poi prosegue lungo la costa mediterranea fino a Cesarea, dall’autore degli Atti è qualificato come "evangelista" (At 21,8). Successivamente nella chiesa di Gerusalemme si organizza il gruppo dei "presbiteri" che collaborano con Giacomo alla guida della chiesa locale (At 11,30; 15,4.22; 21,18).

Un terzo gruppo compare nella chiesa di Antiochia di Siria, la comunità sorta per iniziativa dei cristiani ellenisti scacciata da Gerusalemme al tempo della persecuzione di Stefano. Si tratta di cinque cristiani, presentati come "profeti e dottori o maestri", tra i quali sono menzionati Barnaba e Saulo-Paolo (At 13,1-3). Questi ultimi, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, sono incaricati dalla comunità di partire per la prima missione fuori dell’area siro-palestinese, a Cipro e in Anatolia. Nelle nuove comunità che sorgono in queste regioni – nelle città di Listra, Iconio, Derbe, Antiochia di Pisidia – viene istituito il gruppo dei "presbiteri", che sono designati dalla base, ma ricevono l’incarico da Paolo e Barnaba (At 14,22-23).
Oltre a queste strutture ministeriali stabili vi sono altre forme più agili, costituite dai collaboratori dei missionari come il giovane Giovanni Marco e Sila, originari di Gerusalemme, Timoteo di Listra e i vari delegati delle chiese che accompagnano Paolo a Gerusalemme nell’ultimo viaggio (At 20, 4). Anche alcune donne diventano collaboratrici di Paolo e sono responsabili di chiese domestiche, come Maria a Gerusalemme, Lidia a Filippi, Prisca, assieme al marito Aquila, a Corinto e a Efeso. Dunque secondo la testimonianza degli Atti esistono varie e molteplici forme di ministero che rispondono alle esigenze della vita comunitaria secondo i diversi contesti storici e culturali.

 

2. Le Chiese paoline. Nelle lettere che Paolo invia alle giovani chiese, sorte grazie alla sua attività di evangelizzazione, sono documentate una molteplicità e varietà di strutture organizzative e di forme ministeriali. A parte il ruolo unico di Paolo, che si presenta come "apostolo" incaricato di proclamare il vangelo per iniziativa di Dio, vi sono alcuni cristiani che nelle singole comunità si dedicano alla guida e al servizio. Tutti i cristiani, dice Paolo, hanno ricevuto, in forza del loro battesimo nello Spirito, il dono e la competenza per esprimere e realizzare la vitalità del "corpo di Cristo" che è la Chiesa. Ma Dio ha disposto che vi siano alcuni ministeri fondamentali per la nascita e la crescita della comunità: "Apostoli, profeti e maestri" (1 Cor 12,28).

Questi tre ministeri sono connessi con l’annunzio autorevole della Parola. Il servizio pastorale nella comunità locale è affidato ai collaboratori di Paolo residenti, sia singoli sia famiglie. Essi animano e guidano la comunità cristiana in assenza dell’apostolo.
A Tessalonica vi sono alcuni cristiani che presiedono la comunità nel nome del Signore (1Ts 5,12).
A Corinto vi è a famiglia di Stefana (1Cor 16,15-17).
Nella Chiesa locale di Cencre, il porto orientale di Corinto, responsabile è Febe, che Paolo chiama diákonos (Rm 16,1).
Essa ha il ruolo di accogliere e garantire davanti all’amministrazione romana della città per i cristiani di passaggio e i missionari (Rm 16,2). Nelle Chiese della tradizione paolina si definisce e sviluppa lo statuto dei ministeri sia itineranti sia residenti.
Nelle Chiese dell’Asia, che fanno capo a Efeso, i diversi ministeri derivano dai doni del Signore risorto che ha "stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri" (Ef 4,11). Lo scopo di questi diversi ruoli e compiti è di rendere idonei tutti i cristiani ad esercitare la diakonìa per la crescita della chiesa come "corpo di Cristo", cosicché tutti arrivino alla maturità spirituale di Cristo (Ef 4,12-13). Un discorso a parte meritano le strutture della chiesa e le forme di ministero che si riflettono nelle tre Lettere pastorali.

In queste comunità cristiane, che si richiamano alla tradizione di Paolo, si avverte la necessità di far fronte a una situazione di "crisi" per la presenza dei falsi maestri che intaccano il patrimonio della fede e minacciano la coesione delle comunità. Perciò il compito fondamentale del responsabile della comunità è quello di garantire la trasmissione della fede richiamandosi alla figura autorevole dell’apostolo. Paolo è l’apostolo di Gesù Cristo, maestro della verità e araldo del vangelo. Egli incarica i discepoli, Timoteo e Tito, di rappresentarlo. Il passaggio dall’apostolo a quello dei suoi rappresentanti nelle singole comunità viene espresso mediante il rito di imposizione delle mani. Con questo rito, ripreso dalla tradizione biblica e giudaica, si trasmette il "dono" spirituale – o chárisma – corrispondente al compito e ruolo autorevole dei vari ministeri nella chiesa (1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6).

Timoteo e Tito, discepoli di Paolo, stabiliscono a suo nome i responsabili nelle singole chiese: vescovo, presbiteri, diaconi.
L’epískopos è il sovrintendente o "amministratore" nella casa di Dio che deve garantire il buon ordine e l’ortodossia nella chiesa locale. La sua autorità risale all’apostolo che per mezzo della lettera traccia il modello ideale del suo compito e stile di pastore. Le qualità elencate per il candidato all’episkopê sono quelle che nell’ambiente greco ellenistico si richiedono a quanti svolgono una funzione pubblica (1 Tm 3,2-7; Tt 1,7-9). Dato che nelle tre lettere si parla di epískopos al singolare, si deve ritenere che egli sia il rappresentante o presidente del collegio dei presbyteroi. Infatti si fa riferimento al presbytérion e si menziona anche il ruolo di presidenza dei presbiteri (1 Tm 4,14; 5,17). Il modello per questa struttura dell’ordinamento ecclesiale è quella del "consiglio degli anziani" dell’ambiente giudaico. Il presbyteros come capo della comunità cristiana non solo dà il tono allo stile di vita dei suoi membri, ma la rappresenta all’esterno.

Il terzo gruppo dell’ordinamento ecclesiale nelle pastorali è rappresentato dai diákonoi. Essi nell’ambito della comunità cristiana hanno un ruolo autorevole perché dai candidati alla diakonía si richiedono qualità analoghe a quelle del candidato all’episkopê e al compito di presbiteri (1 Tm 3,8-13). Inoltre la qualifica di "diacono di Gesù Cristo" è data a Timoteo, proposto come modello di tutti i pastori nella chiesa (1 Tm 4,6). La sua attività, come del resto quella dell’apostolo, è presentata come diakonía (1 Tm 1,12; 2 Tm 4,5.11). Poiché si parla di "diaconi" e "diaconia" solo nella prima e seconda Lettera a Timoteo, si può pensare che questa forma di ministero sia propria di alcuni centri ecclesiali più importanti con strutture più articolate.

Il ministero femminile nelle Lettere pastorali. Il modello di chiesa nelle lettere pastorali è quello della famiglia con la sua struttura patriarcale, dove è indiscussa l’autorità dell’uomo, padre e sposo. In questo modello non c’è molto spazio per il ruolo ecclesiale delle donne. Tuttavia quando si parla dei "diaconi", si menzionano anche le donne come candidate alla "diaconia" (1 Tm 3,11). Questo fatto sembra contrastare con quanto si prescrive nella stessa lettera nel contesto dell’ordinamento liturgico: "La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né dettare legge all’uomo piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo" (1 Tm 2,11-12). Se ne dà il motivo rileggendo la storia di Genesi sul peccato di Adamo e Eva, dove si sottolinea la particolare responsabilità della donna e si conclude dicendo che la donna "potrà essere salvata partorendo figli a condizione di perseverare nella fede, nella carità, nella santificazione, con modestia" (1 Tm 2,13-15).

Questa tensione tra i due modelli femminili si può spiegare tenendo presente il contesto culturale e la situazione critica della Chiesa riflessa nei tre scritti pastorali. Nel tracciare l’ordinamento della Chiesa si tende a proiettarvi il modello della struttura familiare, dove le donne, come gli schiavi e i bambini, sono subordinate al ruolo del responsabile maschile. Un ulteriore motivo per sottolineare questo ruolo subalterno e "subordinato" della donna sposa e madre è la propaganda dei "falsi maestri" che condannano il matrimonio e mettono "in scompiglio intere famiglie" (1 Tm 4,3; Tt 1,11). Le donne corrono il rischio di diventare "discepole" di questi maestri che penetrano nelle case con la loro propaganda disgregatrice (2 Tm 3,6).

In tale contesto si comprende la disposizione del "regolamento" per le vedove: "Le più giovani si risposino e abbiano figli e governino la loro casa", per non incrementare il gruppo delle donne che "girano qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene" (1Tm 5,13-14). Solo nell’ambito familiare la donna può svolgere anche un ruolo di insegnamento secondo il modello tipico della società greco-romana. Questo vale per le donne anziane che devono "insegnare il bene per formare le più giovani all’amore del marito e dei figli", a essere "prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone sottomesse ai propri mariti perché la parola di Dio non debba diventare oggetto di biasimo" (Tt 2,3b-5).

Quest’ultima motivazione di carattere "apologetico" si trova più volte a chiusura dei cataloghi dei doveri (Tt 2,8.10; 1 Tm 3,7b; 5,14b; 6,1b). Nel sottofondo si avverte la preoccupazione di eliminare in radice ogni motivo di prevenzione e sospetto da parte dell’ambiente esterno nei confronti della Chiesa e di offrire invece di essa un immagine positiva. Dunque nelle Chiese delle Lettere pastorali le donne possono esercitare un ministero familiare - catechesi - mentre solo le vedove formano una specie di "ordine" ecclesiale (1 Tm 5,3-16).

I ministeri nelle altre Chiese. Il quadro sui ministeri nella prima Chiesa non sarebbe completo se non si accennasse a quelle strutture di guida e di servizio documentate negli altri scritti neotestamentari. Nella Lettera agli Ebrei, dove si afferma l’unica e suprema mediazione sacerdotale di Gesù Cristo, si raccomanda di riconoscere il ruolo degli hegoúmenoi, "responsabili o guide della comunità". Essi sono quelli che hanno annunciato la parola di Dio alla comunità cristiana e devono rispondere del loro compito al supremo pastore (Eb 13,7.17). Dunque l’unicità di Gesù Cristo, sommo sacerdote, non esclude la presenza autorevole e la guida dei responsabili nella Chiesa.

Nella Lettera di Giacomo, inviata come un’omelia ai cristiani dispersi nelle varie regioni, si parla del ruolo del "maestro" e dei presbiteri della Chiesa (Gc 3,1-2.13; 5,14). Parimenti nella prima Lettera di Pietro ci si rivolge a tutti i cristiani, rigenerati per mezzo della parola di Dio e che formano una comunità di fratelli. Essi in quanto aderiscono a Gesù "pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio", sono impiegati "come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo" (1 Pt 2,4-5). Pietro che si presenta come "apostolo di Gesù Cristo" è il presbyteros, modello dei "presbiteri" che devono pascere il gregge di Dio su incarico del pastore supremo (1 Pt 5,1.5). In altre parole, il sacerdozio comune, di cui si parla in 1 Pt 2,9, non esclude il ruolo dei presbiteri che prolungano l’autorità dell’apostolo.

Conclusioni. Nella prima chiesa, come appare attraverso gli scritti del NT, esiste una varietà e molteplicità di ministeri secondo i diversi modelli culturali, da quello ebraico-palestinese, a quello greco extrapalestinese. Questo pluralismo e questa diversità rispondono alle esigenze della chiesa a tutti i livelli, dalla chiesa domestica e locale fino a quella regionale ed universale. Quello che attira l’attenzione è la forma comunitaria o collegiale di esercizio del ministero. Infatti, si passa dai "dodici" e i "sette" della Chiesa-madre di Gerusalemme, al gruppo dei profeti e maestri di Antiochia, ai collaboratori di Paolo: Timoteo, Tito, Sostene e Silvano. Infine, si può rilevare che esiste fin dall’inizio una certa "gerarchia" dei ministeri in base alle esigenze della nascita, crescita e vitalità della Chiesa. I ministeri e le strutture della Chiesa rispondono alle esigenze fondamentali di annunciare e spezzare la Parola in tutte le sue forme, di presiedere e guidare la comunità, di assicurare l’accoglienza e l’assistenza dei più poveri e di tenere vivo il legame di comunione tra le diverse comunità cristiane.

 

 



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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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30/05/2015 01:06
 
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La liturgia è tradizione e innovazione

Una questione di vita o di morte


L'alto medioevo ci insegna che l'evoluzione del rito avviene stando dentro la storia

 

Storia del cristianesimo e liturgia; continuità e trasformazione nella liturgia; primi secoli fra tradizione e innovazione sono le tre tematiche che hanno attraversato e riassunto il convegno "Liturgie e culture tra l'età di Gregorio Magno e Leone III. Aspetti rituali, ecclesiologici e istituzionali" che si è svolto il 24 e 25 febbraio all'Università Europea di Roma. Pubblichiamo le conclusioni del vicedirettore del nostro giornale.

 

di CARLO DI CICCO

Solo apparentemente il tema specifico del convegno è lontano dal nostro tempo. Si è parlato di liturgie e culture nell'alto medioevo, un periodo di storia nel quale la vita della gente era diventata molto difficile.

La precarietà dopo la caduta dell'impero romano d'occidente accompagnava le persone che, come noi oggi, forse erano alla ricerca di una stella polare che potesse guarirle dalle lacerazioni di una condizione esistenziale instabile. Una piccola manciata di secoli divideva quel periodo dalla vita di Gesù e dalle prime comunità apostoliche, ma la liturgia, mentre trasmetteva fedelmente il nucleo della fede dentro le nuove culture nascenti, cominciava già a diversificarsi nelle forme rispetto alla celebrazione cristiana delle origini. Il nostro incontro è stato presentato come il primo di un percorso di ricerca.

Ne seguiranno altri due a completamento di un'indagine storico-liturgica da Gregorio Magno a Gregorio VII il cui pontificato seguì di poco la prima grande frattura nell'unità tra la Chiesa di Roma e l'oriente (1054). Si è anche detto che l'obiettivo del convegno è stato quello di verificare "la dialettica tra continuità e trasformazione negli usi liturgici, indagati con approccio e metodologia storici e documentari, sulla base di testi e documenti". I relatori - Cesare Alzati, Manlio Sodi, Renata Salvarani, Cettina Militello, Thomas Pott, Marco Bais, Norberto Valli, Giuseppe Cuscito, Giacomo Baroffio, Johan Ickx, Pietro Sorci - hanno garantito l'obiettivo ponendosi in ascolto dell'unità e della pluralità rappresentata dal modello gerosolimitano, dalle tradizioni liturgiche a Costantinopoli, in oriente, in Armenia, a Roma e Milano.
Hanno indagato l'architettura e la musica per il culto, le liturgie papali, il primato petrino, le liturgie delle basiliche a Roma e la genesi degli Ordines romani. Le nove relazioni e le tre introduzioni - unite dall'aderenza ai dati storici e libere da pregiudizi di carattere ideologico che a volte segnano anche oggi il dibattito sulla liturgia - hanno fatto emergere con chiarezza una costante preoccupazione della grande Tradizione cristiana: trasmettere fedelmente il nucleo della fede, aggiornando le sue forme celebrative per renderle comprensibili e significative nella vita della gente di ogni epoca.

Questa esigenza, finalizzata alla salvezza delle anime, non è mai venuta meno nella Chiesa e pertanto la sua pratica pastorale riannoda il passato al presente e autorizza con piena legittimità l'aggiornamento dei linguaggi e delle forme. Anche la liturgia si pone con tale spirito in ascolto dei segni dei tempi. Alla comunità cristiana, immersa nell'alto medioevo in una società messa a dura prova da cambiamenti epocali e violenti, si presentavano alternative diverse per uscire dalla lunga transizione avviata con la caduta dell'impero romano e in marcia verso ordinamenti nuovi che si sperava pacifici e giusti.

Ci si confrontava sui possibili modi di vivere e operare nella storia. Da un lato si prospettava la visione, risalente a Gregorio Magno, di una Chiesa plurale e missionaria impegnata in una riforma spirituale; dall'altra la proposta di una Chiesa più pragmatica e sensibile ai benefici assicurati da un più stretto connubio con l'impero carolingio. Nella vivace ricerca della comunità cristiana sul che fare e come realizzarlo, la liturgia cristiana iniziava già a garantire e trasmettere il nucleo della fede dentro culture e condizioni di vita sempre più diversificate.

In questo scenario riassunto per sommi capi, sembra opportuno, concludendo i lavori, sollevare due interrogativi: quanta serietà scientifica è emersa dai lavori e quanto di questo confronto teorico tra esperti può essere utile al popolo di Dio nella situazione presente?
Il culto dei cristiani ha un senso anche oggi, non è archeologia ma ha cose importanti da dire nel nostro tempo. È evidente, pertanto, che un liturgista non possa vivere di sola nostalgia del passato chiudendosi al presente. Dalla rivisitazione avvenuta nel convegno di forme liturgiche e dei loro sviluppi tra l'età di Gregorio Magno (590-604) e il più tormentato tempo del pontificato di Leone III (795-816), si evince che la prassi di salvare e custodire nel culto il nucleo della fede aggiornando le forme espressive appare già allora confermata. Si erano sviluppati riti e istituzioni variate rispetto al tempo apostolico. E non si impedivano nuove forme liturgiche vagliate dalla pastorale della Chiesa.

Allo stesso tempo emerge che la celebrazione, ossia la preghiera della Chiesa (lex orandi) ispira e modella la purezza della fede (lex credendi); che dal retto modo di pregare deriva un retto modo di credere e quindi di fare ed essere Chiesa (lex agendi). Quando si fatica a fare Chiesa occorre pertanto esaminare anzitutto la preghiera della Chiesa, occorre confrontarsi con la liturgia: Chiesa e liturgia sono indissociabili; se l'una è in sofferenza anche l'altra lo è.

Neppure nella ricerca storica dell'evoluzione liturgica nell'alto medioevo poteva così mancare il quadro ecclesiologico, la riflessione su quale coscienza la Chiesa ha di sé nel fluire del tempo. Nel concilio Vaticano II che ha posto alla base dei suoi documenti la costituzione sulla liturgia, Paolo VI enfatizzava il carattere ecclesiologico della storica assise invitando la Chiesa a chiedersi quale coscienza avesse di se stessa in rapporto a Cristo suo fondatore.

Il giovane teologo Joseph Ratzinger spiegava il concilio appena concluso riassumendolo in sei questioni principali.

Al primo punto degli obiettivi conciliari poneva la liturgia. E argomentava: "Appare forse anche la questione meno importante a chi sta fuori ed è un po' tentato di vedervi una specie di estetismo, un gioco di specialisti e di storici che vogliono creare un campo conveniente alle loro scoperte. Ma la liturgia è questione di vita o di morte per la Chiesa che, se non riesce a portarvi i fedeli e in modo che siano essi stessi a compierla, ha fallito il suo compito ed ha perso il suo diritto ad esistere.

Ora proprio in questo punto, c'era nella vita della Chiesa una crisi profonda, le cui radici risalgono molto lontane. Nel tardo medioevo era andata sempre più scomparendo la conoscenza della vera essenza della liturgia cristiana. Le esteriorità passarono in primo piano e avvolsero tutto l'insieme. L'antica sostanza cristiana, rimasta integra nei testi, era talmente ricoperta da pii accessori da non giungere più a portare frutto" (cfr. Problemi e risultati del concilio Vaticano II, Brescia, Queriniana, 1966, pp. 23-24).

È a questo punto, nel nesso stretto tra liturgia ed ecclesiologia, che possiamo guardare al periodo storico preso in esame comparandolo con l'età che stiamo vivendo noi oggi. La nostra Chiesa è segnata dal concilio Vaticano II, come quella del VI- IX secolo era segnata dai grandi concili ecumenici di Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia e ancora dal secondo e terzo di Costantinopoli e dal secondo di Nicea (787).

Nel tempo odierno siamo chiamati a confrontarci con il concilio Vaticano II per comprenderlo nella sua pienezza di nuova Pentecoste e realizzarlo gradualmente e possibilmente nella sua totalità.
Alla luce di queste annotazioni vorrei evocare alcuni spunti che mi sembrano attuali. Al tempo del concilio Vaticano II e subito dopo la sua conclusione si è registrata una grande animazione liturgica, un entusiasmo almeno pari alla grande paura generata da eccessi di avanguardie minoritarie e alimentata a dismisura da minoritarie retroguardie.

In un clima di paura e di scontento era importante e molto innovativo applicare la riforma chiesta dal concilio e realizzata da Paolo VI. Purtroppo scambiata con gli eccessi, mai entrati, del resto, nel Messale romano. La confusione artificiosa e strumentale tra eccessi e riforma ha prodotto una critica ingenerosa alla riforma stessa. Essa invece ha introdotto un mutamento culturale profondo rendendo comprensibile la celebrazione dei santi misteri: la preghiera liturgica partecipata attivamente da tutte le componenti del popolo di Dio ha precedenza sulle devozioni; e se le pratiche devote private, per quanto lodevoli non sono indispensabili, della preghiera liturgica non si può fare a meno, senza che venga meno la stessa Chiesa.

Ma non di rado per la pastorale feriale, quella al di fuori dai riflettori, sottoposta alla tentazione della stanchezza di un quotidiano ripetitivo, è stato talvolta più sbrigativo incentivare particolari devozioni, piuttosto che educare con pazienza e amore il popolo di Dio a celebrare. La celebrazione liturgica, specialmente eucaristica, risveglia infatti una condivisione esigente di responsabilità per la missione, la testimonianza, la fraternità.

La vis polemica intorno alla liturgia nel dopoconcilio è stata a dir poco accesa e ciò ha nuociuto a una serena valutazione dei benefici della riforma. I liturgisti, di frequente impegnati nella necessaria azione apologetica della riforma, sono riusciti a curare con minore continuità iniziative di ampio respiro per la formazione liturgica permanente dei vescovi, dei preti e dei laici. Una formazione riuscita avrebbe facilitato una prassi liturgica rinnovata e condivisa.

Esiste una certa fatica a preparare omelie di qualità nelle celebrazioni e assicurare una partecipazione attiva e informata nella messa e nei sacramenti. Si ascolta ancora un certo linguaggio che parla di "assistere" alla messa, una certa propensione a considerare la messa una devozione, e come tale non di rado considerata quasi privatisticamente.
Capita durante le messe domenicali di vedere comportamenti e partecipazione difformi tra i fedeli di una stessa parrocchia. Non di rado i parroci e i loro aiutanti incoraggiano la confessione dei fedeli durante la celebrazione eucaristica.

Sarebbe importante una stagione nuova di entusiasmo e di sforzi da parte dei liturgisti convinti della bontà della riforma conciliare per comunicare meglio natura e senso della riforma stessa e allargare una cosciente e attiva partecipazione all'eucaristia e agli altri sacramenti. Spiegare la flessibilità già contenuta nel Messale romano approvato e l'importanza di una completa ricezione dell'ecclesiologia del Vaticano II e della Dei Verbum per sintonizzarsi seriamente con la liturgia della Chiesa. Nell'età della comunicazione multimediale e digitale l'afasia liturgica è un controsenso e una zavorra per la credibilità dell'annuncio cristiano.

Proprio la varietà e la durezza del contesto politico e sociale del primo medioevo - sarebbe interessante riflettere anche sulla contemporaneità della nascita dell'islam - insegnano che l'evoluzione della liturgia avviene stando dentro la storia perché la liturgia è il momento di raccordo tra tempo ed eternità, progetto umano e grazia divina. Non dovremmo far risiedere lo splendore della liturgia tanto nell'uso di vesti liturgiche preziose, quanto nella crescita di consapevolezza cristiana di fronte alla preghiera liturgica, intesa quale espressione viva di una Chiesa diventata più sensibile al dialogo per la ricomposizione di tutti i credenti in Cristo, in ascolto di ogni esperienza religiosa che cerca Dio nei modi più disparati, attenta ai diritti dell'uomo, alla libertà religiosa. E questa consapevolezza diventata patrimonio corale e normale dei fedeli aiuterà a superare la ritualità a volte priva di anima delle celebrazioni e darà la giusta motivazione nell'impegno per la giustizia e la pace.

La Chiesa ha bisogno ancora di tanti che si dedichino con passione alla liturgia e che sappiano mettere al centro della storia e del significato della vita la ricerca di Dio, come don Luigi Della Torre (1930-1996), un grande liturgista e pastore della diocesi del Papa. È stato uno di quei preti felici della propria vocazione e perciò liberi di spirito che meglio hanno tradotto in Italia la riforma liturgica conciliare in una nuova vita ecclesiale. Egli può suggerire un metodo e un percorso pastorale concreto. Era convinto che la liturgia proposta nella Sacrosanctum concilium fosse il catechismo per eccellenza di una buona vita cristiana perché la preghiera della Chiesa adegua la mente e il cuore dei fedeli alla Parola di Dio e spinge chi nel nostro tempo vi partecipa con sincerità, all'imitazione di Cristo.



(©L'Osservatore Romano 6 marzo 2011)



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  Un sacerdote risponde

Nella celebrazione della Messa è stata versata acqua al posto del vino; che cosa è successo e che cosa si deve fare?

Quesito

Caro padre Angelo,
vorrei porle una domanda che mi è sorta durante un fatto avvenuto durante la consacrazione nella messa della vigilia della Solennità di Maria Assunta. Al momento di versare il vino nel calice l'accolito (un pò anziano) della mia parrocchia ha versato l'acqua e poi ha dato al celebrante l'ampolla contenete il vino. Quindi nel calice c'era tutta acqua ed un goccio di vino. Se ne sono accorti solo al momento della comunione. Siccome io faccio servizio all'altare l'ho visto da vicino solo io questo fatto (il resto dell'assemblea non ha potuto vedere). Ora la mia domanda è: siccome "l’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana", scambiare le ampolle per sbaglio è un errore "ammissibile" oppure no? Intendo dire bisognava forse ripetere la consacrazione del vino oppure quello era diventato comunque Sangue di Cristo? Grazie in anticipo per la risposta
Luca


Risposta del sacerdote

Caro Luca,
1. il caso che tu mi hai proposto era già stato contemplato dal vecchio Messale.
Ci si chiedeva che cosa dovesse fare un sacerdote che al momento dell’assunzione del Sangue di Cristo si fosse accorto che c’era solo acqua perché ci si era confusi con le ampolline dell’acqua e del vino.
La stessa domanda la si poneva qualora inavvertitamente si fosse rovesciato il calice e non fosse stato possibile assumerne neanche una goccia.

2. Ebbene, va ricordato che la celebrazione del sacrificio di Cristo risulta dalla consacrazione separata di ambedue le specie.
La stessa consacrazione separata rimanda alla separazione avvenuta sulla croce tra l'anima e il corpo del Signore.
Se di fatto si consacra solo una specie, sebbene questa consacrazione risulti valida, non si ripresenta sull'altare il sacrifico di Cristo.

3. È evidente che nella Messa alla quale ti riferisci non è avvenuta la consacrazione del vino, detta anche transustanziazione, perché al posto del vino c'era acqua.

4. Pertanto il sacerdote, accortosi di non aver consacrato il Sangue di Cristo, avrebbe dovuto farsi portare l'ampollina del vino e procedere alla consacrazione cominciando dalle parole "Allo stesso modo, dopo aver cenato...". E subito dopo doveva comunicarsi al Calice.
Se non l'ha fatto, la Messa è stata sostanzialmente incompiuta.

5. I fedeli, accortisi di nulla, sono andati avanti facendo la Santa Comunione.
Il gesto di adorazione che hanno compiuto insieme col sacerdote nel momento dell'elevazione del calice di fatto è risultato un atto di idolatria, di cui però non sono responsabili.
Pertanto se ne sono andati a casa tranquilli.

6. Tranquillo però non doveva rimanere il celebrante, soprattutto se la S. Messa doveva essere applicata per qualche intenzione particolare della quale aveva ricevuto l'offerta da parte dei fedeli.
In questo caso non aveva adempiuto a quanto aveva accettato di fare. 

7. Sicché se non ha provveduto a consacrare il vino al momento della Comunione, doveva applicare l'intenzione di cui aveva percepito l'offerta in un'altra celebrazione.
Mi auguro che l'abbia fatto perché si tratta di una questione di giustizia nei confronti dell'offerente.

Ti ringrazio del quesito che mi hai posto. Anche la casistica serve a puntualizzare ulteriormente le idee sulla celebrazione del sacrificio di Cristo attuato nella S. Messa.
Ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo






Un sacerdote risponde

Al mattino il parroco non celebra la Messa e dà la possibilità di fare la Santa Comunione; posso farla di nuovo partecipando alla Messa vespertina?

Quesito

carissimo padre Angelo,
buongiorno.....
leggo spesso le sue risposte, molto interessanti, visto che tante volte i nostri sacerdoti sono impegnati e non rispondono in modo chiaro ed esauriente..... anzi, capita che non rispondano affatto..
Desidero avere un chiarimento da lei ...
Nella mia parrocchia essendoci ormai un solo sacerdote c'è solo la messa serale, quella del mattino è stata sostituita dalla recita delle lodi mattutine... e per chi non può partecipare a messa il sacerdote da la possibilità di comunicarsi.....
Ora lui dice che se riceviamo al mattino la comunione così in questa liturgia, alla sera se partecipiamo a messa non dobbiamo comunicarci...
perchè????
Lui ci ha detto che non è una cosa che si è inventato lui, ma è la chiesa a dire così....
Premetto che sono una semplice laica, che svolgo il servizio di catechista, e che sono molto ma molto innamorata di Gesù eucarestia.....
Le dico anche che quando vado a messa e non ricevo Gesù, provo la stessa gioia di averlo ricevuto. Sto lì, ringrazio perchè so che Lui è già presente in me... forse esagero, ma quasi quasi la sua presenza è ancora più forte ...
la ringrazio per la risposta chiara che mi darà.
Le auguro ogni bene.
Il Signore la benedica per il servizio che svolge!!!!


Risposta del sacerdote

Carissima, 
1. ecco quanto dice il Codice di Diritto canonico:
Can. 917 - Chi ha già ricevuto la santissima Eucaristia, può riceverla una seconda volta nello stesso giorno, soltanto entro la celebrazione eucaristica alla quale partecipa, salvo il disposto del can. 921, § 2”.

2. Ciò significa che se uno ha fatto la Santa Comunione fuori della Messa o anche dentro la Messa, può riceverla una seconda volta durante la celebrazione della Messa.
Ma chi avesse già ricevuto la Santa Comunione fuori o dentro la Messa non può riceverla una seconda volta fuori della celebrazione della Messa.

3. Pertanto la Comunione fuori della Messa viene considerata un’eccezione.
Viene data a chi si trova nell’incapacità di poter partecipare alla S. Messa.
Tuttavia non è escluso che chi la fa al mattino fuori della Messa, la possa fare di nuovo nella prevista partecipazione della Messa vespertina.

4. Il canone 921 riguarda le persone che sono in fin di vita.
Can. 921 - § 1. I fedeli che si trovano in pericolo di morte derivante da una causa qualsiasi, ricevano il conforto della sacra comunione come Viatico.
§ 2. Anche se avessero ricevuto nello stesso giorno la sacra comunione, tuttavia si suggerisce vivamente che quanti si trovano in pericolo di morte, si comunichino nuovamente”.

5. In passato si poteva fare la Santa Comunione solo una volta al giorno.
Ma il Codice di Diritto Canonico del 1983 ha ammesso la possibilità di farla una seconda volta, ma solo dentro la celebrazione eucaristica.

6. Mi dici che facendo la Comunione spirituale ti capita di avvertire la presenza del Signore in maniera ancora più forte.
Non ne dubito, perché questo dipende dal nostro fervore.
Tuttavia quando si fa la Comunione sacramentale, insieme con la grazia santificante come nella Comunione spirituale, si riceve anche la grazia sacramentale.
La grazia sacramentale è un aiuto in più a vivere meglio il nostro rapporto col Signore e a lasciarsi trasformare in Lui.
San Tommaso ricorda che “l’effetto proprio dell’eucaristia è la trasformazione dell’uomo in Dio” (s. tommaso, IV Sent., 12, 12, 1, ad 1).
E dice anche che l’eucaristia è il sacramento “nel quale l’uomo viene unito perfettamente con Cristo (immolato) crocifisso” (Somma Teologica, III, 73, 3, ad 3).

7. Ti esorto pertanto a fare, sì, la Santa Comunione e a farla bene, ricordando che questa Comunione deve portarti ad una sempre maggiore conformazione a Cristo crocifisso e ad esprimere nella tua vita tutte le virtù manifestate da Cristo sulla croce.

Ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo




Un sacerdote risponde
http://www.amicidomenicani.it/leggi_sacerdote.php?id=4326 

A volte durante la Santa Messa capita di sentire variazioni delle formule liturgiche, ma oggi ho avuto un forte dubbio perché il Sacerdote ha mutato le parole della consacrazione

Quesito

Rev. Padre Bellon,
a volte durante la S. Messa capita di sentire variazioni delle formule liturgiche, ma oggi ho avuto un forte dubbio per il quale mi rivolgo a Lei.
Se il Sacerdote in luogo della formula di consacrazione rituale, dice: "Prendetene e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo dato per voi." in luogo di "... offerto in sacrificio...", con la deliberata intenzione di dire ciò e non per un mero lapsus linguae, la consacrazione è valida?
La ringrazio.
Francesco G.C.

 

Risposta del sacerdote

Caro Francesco,
1. la mutazione che il sacerdote ha proferito nella consacrazione del pane  non è una mutazione sostanziale, tanto più che probabilmente ha voluto rimanere più aderente alle parole pronunciate da Gesù trasmesse da San Luca: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (Lc 22,19).
Tuttavia il Messale Romano ha voluto mettere la formulazione che si trova  in San Paolo: “Hoc est corpum meum quod pro vobis tradetur” (1 Cor 11,24) che dalla Conferenza episcopale italiana viene tradotto: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”.

2. La mutazione attuata dal sacerdote non tocca minimamente la validità della consacrazione.

3. Tuttavia si tratta di un arbitrio, di un abuso.
Innanzitutto perché la Santa Sede ha voluto prendere la formulazione di san Paolo, quella che l’Apostolo ha appreso direttamente dal Signore e che egli stesso ha diffuso dappertutto: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me»” 1 Cor 11,23-24).
“Che è per voi” sta per “offerto  in sacrificio per voi”.
Il carattere di sacrificio dell’Eucaristia è reso ancor più evidente dalle parole usate per la consacrazione del vino “qui pro vobis fundetur”: “che sarà versato per voi” (Lc 22,20).

4. C’è un arbitrio da parte del Sacerdote anche perché i Sacramenti non sono suoi, ma della Chiesa.
I sacerdoti in quanto ministri non sono ministri di se stessi, ma della Chiesa e devono conformarsi alla sua volontà.
Inoltre se fosse permesso al sacerdote di cambiare le parole stabilite dalla Chiesa, perché non potrebbero farlo i fedeli nella recita del Credo, del Padre nostro e in tutte le altre preghiere o acclamazioni comuni nella celebrazione dell’Eucaristia?
Certamente il sacerdote rimprovererebbe ai fedeli una tale confusione e un  simile disordine.
Ma nell’evitare arbitrii personali il sacerdote deve dare il buon esempio.

5. A questo punto merita di essere ricordato quanto San Giovanni Paolo II scrisse nella lettera Dominicae cenae del 24.2.1980: “Il sacerdote come ministro, come celebrante, come colui che presiede all’assemblea eucaristica dei fedeli, deve avere un particolare senso del bene comune della Chiesa, che egli rappresenta mediante il suo ministero, ma al quale deve essere anche subordinato, secondo la retta disciplina della fede.
Egli non può considerarsi come proprietario che liberamente disponga del testo liturgico e del sacro rito come di un suo bene peculiare così da dargli uno stile personale e arbitrario.
Questo può talvolta sembrare di maggiore effetto, può anche maggiormente corrispondere ad una pietà soggettiva, tuttavia oggettivamente è sempre un tradimento di quell’unione che, soprattutto nel Sacramento dell’unità, deve trovare la propria espressione.
Ogni sacerdote, che offre il santo sacrificio, deve ricordarsi che durante questo sacrificio non è lui soltanto con la sua comunità a pregare, ma prega tutta la Chiesa, esprimendo così, anche con l’uso del testo liturgico approvato, la sua unità spirituale in questo sacramento.
Se qualcuno volesse chiamare tale posizione “uniformismo”, ciò comproverebbe soltanto l’ignoranza delle obiettive esigenze dell’unità autentica e sarebbe un sintomo di dannoso individualismo. 
Questa subordinazione del ministro, del celebrante, al Mysterium, che gli è stato affidato dalla Chiesa per il bene di tutto il popolo di Dio, deve trovare la sua espressione anche nell’osservanza delle esigenze liturgiche relative alla celebrazione del santo sacrificio. Queste esigenze si riferiscono ad esempio all’abito e, in particolare, ai paramenti che indossa il celebrante” (Dominicae cenae, n. 12).

Ti auguro ogni bene, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo





 

[Modificato da Caterina63 01/11/2015 00:15]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  PERCHÉ A MESSA NON BISOGNA PRENDERSI PER MANO DURANTE IL PADRE NOSTRO, O ALZARE LE MANI AL CIELO

Perché a messa non bisogna prendersi per mano durante il Padre Nostro, o alzare le mani al Cielo

di Henry Vargas Holguín

 

La pratica di prendersi per mano al momento di recitare il Padre Nostro deriva dal mondo protestante. Il motivo è che i protestanti, non avendo la Presenza Reale di Cristo, ovvero non avendo una comunione reale e valida che li unisca tra loro e con Dio, considerano il gesto di prendersi per mano un momento di comunione nella preghiera comunitaria.
 
Noi nella Messa abbiamo due momenti importanti: la Consacrazione e la Comunione. È lì – nella Messa – che risiede la nostra unità, è lì che ci uniamo a Cristo e in Cristo mediante il sacerdozio comune dei fedeli; il prendersi per mano è ovviamente una distrazione da questo. Noi cattolici ci uniamo nella Comunione, non quando ci prendiamo per mano.
 
Nell'Istruzione Generale del Messale Romano non c'è nulla che indichi che la pratica di prendersi per mano vada effettuata. Nella Messa ogni gesto è regolato dalla Chiesa e dalle sue rubriche.
 
È per questo che abbiamo parti particolari della Messa in cui inginocchiamo, parti in cui ci alziamo, altre in cui ci sediamo ecc., e non c'è alcuna menzione nelle rubriche che parli del fatto che dobbiamo prenderci mano al momento di recitare il Padre Nostro.
 
Si deve quindi evitare questa pratica durante la celebrazione della Messa. Se qualcuno vuole farlo può (a mo' di eccezione) con qualcuno di assoluta fiducia, senza forzare nessuno, senza dar fastidio a nessuno e senza volere che questa pratica diventi una norma liturgica per tutti.
 
Bisogna tener conto del fatto che non tutti vogliono prendere la mano del vicino, e cercare di imporlo è qualcosa che va a detrimento della preghiera, della pietà e del raccoglimento.
 
Un'altra cosa molto diversa è la preghiera comunitaria al di fuori della Messa; quando si recita fuori dalla Messa non c'è alcuna opposizione se si prende la mano di qualcuno, perché è un gesto emotivo e simbolico.
 
Questo, come altri atteggiamenti, non è altro che l'esaltazione del sentimento. L'essere in comunione con qualcuno non consiste tanto nel prendere qualcuno per mano quando si recita il Padre Nostro, ma nel fatto di essere confessato, di essere in stato di grazia e soprattutto nell'essere preparato all'Eucaristia.
 
Se il gesto di prendersi la mano fosse necessario o importante o conveniente per tutta la Chiesa, i vescovi o le Conferenze Episcopali avrebbero inviato già da molto tempo una richiesta a Roma perché questa pratica venisse impiantata. Non lo hanno fatto, né credo che lo faranno mai.
 
Un'altra cosa che vedo molto quando si recita il Padre Nostro è che la gente alza le mani come fa il sacerdote. Nemmeno questo va bene, perché non spetta ai laici durante la Messa compiere gesti riservati al sacerdote o pronunciare le parole o le preghiere del sacerdote confondendo il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale.
 
Solo i sacerdoti stendono le mani, e la cosa migliore è che i fedeli restino o preghino con le mani giunte perché la fede interiore è ciò che conta, è quello che Dio vede.
 
I gesti esterni nella Santa Messa da parte dei sacerdoti servono a far sì che i fedeli – in primo luogo – vedano che il sacerdote è l'uomo designato che intercede per loro.
 
Stendere le braccia nella preghiera era già abituale nella Chiesa delle origini, ma nel contesto di un circolo di preghiera, o nella preghiera in privato o in un altro incontro non liturgico.
 
I gesti nella Messa sono precisi sia nel sacerdote che per i fedeli; ciascuno fa i propri e i fedeli non devono copiare quelli dei sacerdoti. I gesti dei fedeli nella Messa sono le loro risposte, il loro canto, le loro posizioni.
 
Sia prendere la mano di qualcuno che alzare le mani recitando il Padre Nostro sono, nei fedeli, pratiche non liturgiche, che pur non essendo esplicitamente proibite nel Messale non corrispondono nemmeno a una sana liturgia.
 
I fedeli non devono ripetere né con parole né con azioni ciò che dice e fa il sacerdote la cui funzione è presiedere l'assemblea liturgica.









Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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25/03/2016 19:21
 
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Francesco Tolloi: "Levant planetas in scapulas"


Un’osservazione attenta, precisa e circostanziata delle “pianete plicate” e dello “stolone”, del loro uso (in particolare nella forma che qui chiameremo “classica” del rito romano1), della loro genesi e formazione ci impone come necessaria la premessa che non stiamo ragionando di paramenti diversi dalla “pianeta”2 ma di un diverso modo di indossare lo stesso sacro indumento.


   Facendo una brevissima ma chiarificatrice digressione indicheremo l’analogia con il caso della stola nella fattispecie nel suo modo di essere indossata sul camice: il vescovo la porta diritta con le estremità che pendono parallele dalle spalle; il sacerdote la porta incrociata innanzi al petto; il diacono la accomoda sulla spalla sinistra per poi farle percorrere in diagonale il busto e la schiena e unire le sue estremità al fianco destro; sicuramente però non vi è chi dubiti si tratti di nulla altro se non lo stesso paramento indossato in guisa differente3.


   È così per la casula: che essa sia portata distesa, “plicata”, o – come è meglio dire in lingua italiana – piegata nella sua parte anteriore, arrotolata al fine di accorciarla sul davanti e finanche mozzata in questa parte e usata dai ministri sacri resta lo stesso paramento. Proprio in tal senso il Merato, nel commentare l’opera del Gavanto, ammonisce affinchè le pianete – dopo le messe solenni in cui i sacri ministri indossano le indossano piegate – vadano sciolte dai legacci o liberate degli aghi che assicurano al petto la loro parte anteriore in modo che i sacerdoti possano comodamente servirsene per la celebrazione della messa4, troviamo analogo opinare nell’opera del benedettino Michel Baluldry5; o ancora da parte del Piscara Castaldo il quale altresì ci rammenta che le pianete in uso da parte dei ministri non devono differire per forma e benedizione da quelle “sacerdotali”6.


disegno pianeta piegata e stolone


   Quale corollario di questa, a nostro opinare necessaria, premessa possiamo affermare che la pianeta diventò “indumento esteriore” di solo ed esclusivo appannaggio sacerdotale solo nel 1960, durante l’epoca del sommo pontificato del beato Giovanni XXIII quando – portando alle conseguenze premesse mosse, come poi dettaglieremo, alcuni anni prima – con il nuovo codice delle rubriche si giunge ad affermare che “planetae plicatae et stola latior amplius non adhibentur”7.


   La casula – ma analoga considerazione può essere estesa agli altri paramenti – non trae origine nell’ambito nel quale l’utilizzo si è definito e cristallizzato ed oggi conosciamo come esclusivo ossia quello liturgico ma ha principio nel vestiario civile romano. Più precisamente il paramento che oggi conosciamo nulla è se non l’evoluzione e stilizzazione dell’antica poenula romana e questo – facendo poggiare la nostra affermazione sulle parole e l’opinare argomentato del Callewaert – è un dato indubitabile8.


   La poenula era un vestimento di forma rotonda dotato di un’apertura funzionale a far passare il capo e quindi far ricadere la stoffa sulle spalle, l’ampiezza della fattura dell’abito faceva sì che esso ricoprisse l’intera persona. Essa era inizialmente in uso, in special modo, presso i ceti più umili salvo poi divenire un capo di abbigliamento di uso più comune anche da parte delle autorità e dei notabili al di fuori dell’esercizio dei pubblici uffici. La poenula ben presto fu adottata dai chierici: Amalario di Metz ci ragguaglia – e siamo già nel IX secolo – che essa era indossata generalmente e indistintamente da tutti i chierici definendola  “generale indumentum sacrorum ducum”9.


   Osservando retrospettivamente noteremo che è dal secolo IV che i diaconi “non semper sed saepe”10 iniziarono ad indossare la dalmatica (ovviamente anch’essa d’uso inizialmente civile), nei secoli successivi imitati dai suddiaconi (con l’uso della tunicella). Gioverà ricordare una certa “gelosia” romana nel serbare l’uso della dalmatica al papa e ai suoi chierici:  talvolta furono proprio i sommi pontefici a concedere l’uso della dalmatica presso altre realtà ecclesiali locali, a titolo esemplificativo ricorderemo come papa Simmaco la concesse, durante i primi anni del VI secolo, ai diaconi di Arles, san Gregorio Magno, sul finire dello stesso secolo, la concesse al vescovo di Gap e al suo arcidiacono ed ebbe altresì la premura di recapitare delle dalmatiche confezionate, indice evidente della rarità di tale sacro ornamento fuori dall’Urbe11.


   Roma si segnalò più conservativa nell’utilizzo della poenula rispetto ad altri luoghi ed anzi, nell’Urbe, si attesta l’uso da parte dei diaconi di ministrare all’altare con la dalmatica salvo indossare la poenula nelle celebrazioni aventi un carattere penitenziale12, va comunque considerato e tenuto in debito che l’uso della stessa – anche da parte degli accoliti – è attestato in alcuni luoghi fino all’XI secolo13. Fu quindi dal generalizzarsi dell’uso ecclesiastico della poenula che ebbero a formare la loro identità la casula o planeta occidentali e il φαιλόνιον dei greci14. La necessità di piegare o levare la casula  – nei modi e nei momenti che poi illustreremo – deriva da mere esigenze di funzionalità, praticità e comodità che appaiano quanto mai opportuni se non necessari tenuto in opportuno conto l’ingombro che essa doveva costituire per un chierico deputato al servizio del celebrante e al quale sono richiesti diversi spostamenti per le sue incombenze come ad esempio al diacono, o l’impaccio che doveva costituire, per fare un altro esempio, salire gli scalini dell’ambone con un indumento così ampiamente foggiato. Detta necessità indubbiamente portò al lento cristallizzarsi degli usi che trovarono progressivamente sistematizzazione normativa nei libri liturgici. Anche quando l’ampiezza del paramento venne meno non cessarono questi “segni” ormai fissati, codificati e diventati norma; a titolo di completezza non si può trascurare il fatto che molti gesti legati alla pianeta sarebbero incomprensibili se non in considerazione delle fattezze primigenie o comunque antiche di questo indumento: così il Caeremoniale episcoporum che prescrive di arrotolarla sulle braccia15, o il messale stesso laddove impone di sollevare la pianeta al momento in cui il celebrante eleva le sacre specie16, un accorgimento ormai solamente rituale poiché, per usare le parole del Bonanni, “essendo ora aperta non vi sia tal bisogno”17.


   Ma come si addivenne a questi usi? Bisogna, a nostro vedere, fare riferimento ai più antichi ordines che – secondo Callewaert – consentono di evincere, ad esempio, che i diaconi indossassero nei giorni festivi la poenula sopra la dalmatica depondendo la prima nell’accesso al presbiterio nelle occasioni festive e ministrando, invece, parati con la poenula negli altri “in signum moeroris”18. Effettivamente l’assunto ha risontro con gli ordines più antichi e la destinazione ai tempi di mestizia – in seguito – ha riscontro fino alla codificazione “classica” e all’abbandono recenziore. A titolo esemplare secondo l’Ordo I, i diaconi si spogliano della poenula proprio facendo accesso al presbiterio19 – mentre dal III (esso è di fatto un’appendice al I) in poi la levano al Gloria –  i suddiaconi (Ordo I) dellaschola cantorum la raccolgono al seno all’inizio ed anzi, colui che fra di essi li dirige nel canto, la toglie del tutto all’inizio della messa20. Non sarà superfluo rammentare – stando sempre all’opinione di Michel Andrieu – che l’Ordo I, la cui redazione rimonta all’VIII secolo, ebbe lo scopo di diffondere il modo di celebrare romano nelle Gallie21. L’utilizzo della poenula per i tempi penitenziali è da attribuirsi, secondo l’abate Mario Righetti, alle processioni stazionali che si compivano donde deriva la necessità di un indumento esteriore ampio e coprente allo scopo di proteggersi dalle intemperie, un tanto potrebbe essere bastato a caricare le pianete indossate dai ministri di un significato di mestizia, mantenutosi proprio in quei contesti liturgici che si sono rivelati maggiormente conservativi nel mantenere le costumanze più antiche22. Va tenuto altresì in debito conto che l’antica poenula era generalmente confezionata in lana grezza e presentava colorazioni scure con le quali veniva ad opporsi – in un certo qual modo – alla dalmatica che, per il suo colore chiaro ed il suo ornato a clavi purpurei, evocava un carattere più marcatamente festivo. A Roma ab immemorabili – e ben prima della codificazione duecentesca del “canone dei colori”, spesso figlia dell’attribuzione di significati simbolici, – vi era una distinzione tra vestes albae, destinate ai momenti di festività e  vestes pullaecaricate di una significanza luttosa. Ciò portò una certa varietà – ed anzi incertezza – nell’individuazione delle circostanze nelle quali far parare i ministri con lapoenula come ad esempio l’avvento, la settuagesima, la quaresima e le messe dei defunti, gli usi andarono a unificarsi e rendersi omogenei tra i secoli XII e XIII mantenendosi e cristalizzandosi nella forma che abbiamo definito “classica”23.


Purificazione: distribuzione dei ceri


   Pianeta piegata e stolone paonazzi




  continua......

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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La codificazione tridentina è certamente debitrice degli Ordines più recenti nonché riconducibile alle opere del Patrizi Piccolomini e del Grassi. In merito al nostro argomento la troviamo nella sostanza  e contenuti identica dalla promulgazione del Missale Romanum nel 1570 fino all’edizione VI dopo la tipica dello stesso approvata nel 1952 (cit.). Gioverà riportare la rubrica nella sua completezza:

“6. In diebus vero jejunorum (praeterquam in Vigiliis Sanctorum), et in Dominicis et Feriis Adventus et Quadragesimæ, ac in Viglilia Pentecostes ante Missam (exceptis Dominica Gaudéte etiam si ejus Missa infra hebdomadam repetatur, et Dominica Lætáre, Vigilia Nativitatis Domini, Sabbato sancto in benedictione Cerei et in Missa, ac in Quatuor Temporibus Pentecostes), item in benedictione Candelarum et in Processione: in die Purificationis B. Mariæ: in Cathedralibus et præcipuis Ecclesiis utuntur Planetis plicatis ante pectus: quam Planetam Diaconus dimittit cum lecturus ets Evangelium, eaque tunc super sinistrum humerum super Stolam complicantur: aut ponitur aliud genus Stolæ latioris in modum Planetæ plicatæ; et facta Communione resumit Planetam, ut prius. Similiter Subdiaconus dimittit eam cum lecturus est Epistolam, quam legit in Alba, et ea finita, osculataque Celebrantis manu, Planetam resumit, ut prius.

7. In minoribus autem Ecclesiis, prædictis diebus jejuniorum Alba tantum amicti ministrant: Subdiaconus cum Manipulo, Diaconus etiam cum Stola ab humero sinistro pendenti sub dexterum.”24

   Dal testo mutuato dal corpo rubricale  vari sono gli aspetti meritevoli di essere in qualche modo evidenziati: anzitutto l’esclusione – come si è visto arcaica – dell’uso della dalmatica e della tunicella in contesti di messe dal carattere penitenziale, ma anche il riservare l’uso delle pianete da parte dei ministri alle sole chiese cattedrali e le “praecipuis ecclesiis”. Circa le individuazione delle chiese ricomprese nella definizione citata, la sacra congregazione dei riti ebbe modo di pronunciarsi, orientandosi, seppure tardivamente, verso una definizione allargata e non limitata solo a chiese collegiate, basilicali o le chiese insigni di religiosi tanto che si giunse ad annoverare tra le “præcipuis ecclesiis” anche le parrocchiali25.

Venerdì santo alla basilica sessoriana: ostensione delle reliquie.

   Affatto non trascurabile il richiamo alla ulteriore piegatura della pianeta, da parte del diacono, prima della proclamazione del vangelo che prevede addirittura la sostituzione con la “stola latior” o “stolone” per motivi di praticità. Dalla editio princeps del messale apprendiamo che lo stolone era detto nelle chiese romane “bastum”26 probabilmente per la foggia che richiama il “basto” posto sul dorso del somaro. Sarà interessante notare il maggior “conservatorismo” nei confronti degli usi più arcaici della cappella papale laddove si introdusse tardivamente l’uso dello stolone preferendo ripiegare la pianeta e fissarla a tracolla27,  L’uso di questa piegatura supplementare della pianeta o addirittura sostituzione con una “pianeta più comoda” da prima del vangelo fino a dopo la comunione appare come un’attenzione necessaria se consideriamo l’infittirsi delle mansioni che si concentrano in quella parte della messa e che ricadono nella sfera delle competenze del diacono.

Diacono con la casula avvolta

   Lo stolone non è affatto – a dispetto del nome – una stola di dimensioni maggiori o un paramento a sé stante ma nulla è – come sopra si diceva – se non una “pianeta più comoda” e quindi maggiormente adeguata ed adatta all’espletamento degli uffici, ciò si evidenzia anche dal fatto che lo stolone non deve essere fornito della croce come invece è prescritto per la stola28. Tale attenzione è eminentemente pratica tanto che, qualora il vescovo celebri pontificalmente al trono, nei tempi in cui i ministri non fanno uso della dalmatica e della tunicella, i suoi canonici diaconi assistenti non tolgono mai la pianeta piegata dal momento che essa non andrebbe ad arrecare loro impaccio alcuno29.

  Una certa ambiguità nel confondere lo stolone con la stola comune (che invece resta coperta dal primo) si era in ogni caso creata: i diaconi deputati al canto della passione nelle messe della domenica delle palme, del martedì, mercoledì e venerdì santi, giusta le prescrizioni del Caeremoniale episcoporum, indossano, sopra il camice, la stola e il manipolo30); in alcuni luoghi si era instaurato l’uso, attestato anche dal Bauldry31, di sovrapporre lo stolone, tale usanza fu cassata dalla Sacra Congregazione dei Riti nel tardo Ottocento32. In ogni caso l’uso della pianeta piegata era un tratto caratteristico dei tempi di penitenza tanto che neppure durante le celebrazioni solenni che si compiono “coram exposito”, ad esempio le quarant’ore, possono giustificare la loro sostituzione con la dalmatica e la tunicella33.

Domenica delle palme: distribuzione dei rami

S. Anselmo (Roma), domenica delle palme, processioneWestminster, domenica delle palme, processioneDomenica delle palme, processione (Spagna)






   continua
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Sono meritevoli di una rapida rassegna anche altri riti latini diversi dal romano. La liturgia della primaziale di Lione prevede l’uso delle pianete piegate per l’avvento, la quaresima eccetto la prima domenica in questa costumanza è da ravvisarsi l’antico uso di principiare le austerità quadragesimali il lunedì successivo la prima domenica34, il venerdì santo non si adoperano. In questo rito il diacono prima di cantare il vangelo toglie la pianeta e non la ripiega o sostituisce con lo stolone35.

   Il rito ambrosiano prevede l’uso delle pianete piegate durante il tempo di avvento, la quaresima nonché alle rogazioni minori, nelle domeniche di quaresima il diacono depone la pianeta già per cantare le “preces” che in tali occasioni vengono proclamate subito dopo l’ ingressa. La liturgia milanese prevede per la domenica delle palme e il venerdì santo il colore liturgico rosso quindi i ministri si parano con la dalmatica e la tunicella. Nel caso di celebrazioni innanzi al Santissimo Sacramento solennemente esposto le pianete plicate si rimpiazzano – differentemente dall’uso romano –  con la dalmatica e la tunicella36.

   Braga ha un uso delle pianete piegate del tutto simile a quello romano se si eccettua l’uso della dalmatica e della tunicella per la benedizione e processione degli ulivi37.

   Presso i domenicani nei tempi penitenziali il diacono e il suddiacono ministrano senza “indumento esteriore”38; stesso uso si attesta anche presso i carmelitani dell’osservanza (“calzati”)39 e presso i cistercensi40.

   Il rito dei certosini non prevede l’uso delle pianete piegate ma va ricordato che durante la messa il diacono si limita sempre a indossare la stola sopra il suo abito da coro, la cocolla, al momento della proclamazione del vangelo41.

   Un probabile retaggio dell’epoca in cui l’uso delle pianete piegate non si era ancora del tutto definito in modo univoco è ravvisabile presso i canonici regolari premostratensi i quali le prevedono anche per il tempo di settuagesima42.

   Per quanto concerne  i riti estinti afferenti la composita e variegata famiglia “neogallicana” sarà interessante soffermare e focalizzare l’attenzione sull’uso abbastanza diffuso, del quale ci ragguaglia il De Vert, di portare la pianeta piegata e posta di traverso (“plicata ex transverso”) verso sinistra43 con l’evidente scopo di consentire maggiore libertà di movimento al braccio destro; in tale senso è esemplare la testimonianza offerta dal messale della chiesa metropolitana di Parigi promulgato durante l’archiepiscopato del Vintimille ove si prevede l’uso di “planetis transversis” (non nelle domeniche ma nelle ferie d’avvento e di quaresima e ove è previsto il digiuno), il diacono – sotto la pianeta così acconciata indossa già lo stolone qui chiamato “orarion” (modo col quale i greci chiamano la stola diaconale) il quale copre la sua stola ordinaria; sicchè al momento di proclamare il vangelo non dovrà fare altro che deporre la sua pianeta44). Le liturgie delle diocesi francesi presentavano vistose differenze attinenti i tempi in cui i ministri indossavano o meno la dalmatica e la tunicella e le pianete piegate. A mero titolo d’esempio, assolutamente non esaustivo, citiamo – proprio per renderci conto del livello di diversificazione delle prassi –  il caso di Limonges laddove il diacono si serve della pianeta piegata mentre il suddiacono indossa il piviale che depone per proclamare l’epistola45 e di Autun ove nelle ferie di avvento e quaresima, nelle solenni vigilie e nei quattro tempi di settembre, i ministri non usano la dalmatica ma restano solamente con il manipolo sul camice (il diacono aggiunge la stola)46.

   Anche nelle famiglie liturgiche orientali, a uno sguardo attento, non sfuggono utilizzi non esclusivamente presbiterali della pianeta o, come in questi contesti è meglio dire, del φαιλόνιον. Il lettore di rito greco riceve sulle spalle al momento della sua ordinazione (χειροθεςία) un φαιλόνιον non spiegato ma anzi piegato, se egli è secolare si appressa con esso altresì al momento della sua ammissione all’ipodiaconato47,  tale costumanza fa propendere per un uso più esteso antico che qui rinveniamo limitato al solo momento rituale dell’ordinazione48.

Piccolo felonio

  Sarà interessante notare che l’uso del φαιλόνιον non piegato ma accorciato nelle forme è conservato ancora nella tradizione russa nella χειροθεςία lettorale49. Un’altra traccia dell’uso non presbiterale in ambito orientale della poenula, ancora una volta accorciata, è da scorgersi, stando all’opinione di Pilkington, nella mantellina (assai simile a una mozzetta) posta sul camice e che scende sulle spalle dei chierici che ministrano nel rito armeno50.

Divina liturgia in rito armeno




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25/03/2016 19:27
 
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Ritorniamo nuovamente nell’ambito dell’argomento centrale per ripercorrere la storia di questo costume liturgico nella sua ultima fase. Senza dubbio sempre per praticità e comodità, nonché in questa precisa fattispecie il risparmio oggettivo di preziosa stoffa, a portare, nei secoli successivi la codificazione tridentina, all’uso di tagliare la pianeta nella sua parte anteriore per portarla alla misura che assumerebbe nel caso della piegatura, sagomando altresì il gallone o il merletto ai nuovi contorni così definiti. Si può supporre che tale uso portò, a lungo andare, a un fraintendimento, giungendo quasi ad equivocare che le pianete di cui si servivano i leviti fossero qualcosa di differente dalla pianeta del sacerdote e portare progressivemente a una certa disaffezione


pianete mozzate violacea e neraPianeta mozzata violacea


   Il gesuita Braun, autore della più volte citata monografia sui vestimenti liturgici, afferma – e siamo all’inizio del XX secolo – che nei territori germanici era ormai caduto l’uso da parte del diacono e suddiacono di servirsi delle pianete51. Nel cinquantennio successivo, durante il pontificato del venerabile Pio XII, precisamente nel 1951, venne promulgato, “ad experimentum” per la durata di un triennio, il nuovo ordo del sabato santo52: in esso, oltre a una liturgia trasformata, troviamo espunte le casule piegate che in tutta la prima parte del rito (benedizione del fuoco, profezie, benedizione del fonte) venivano utilizzate e le troviamo sostituite con dalmatica e tunicella violacee.


   Di pochi anni successiva la promulgazione del nuovo ordo della settimana santa53, è il 1955: i riti contraddistinti da genuini tratti di arcaicità vengono ridotti, rivisti e ristrutturati sullo sfondo del pastoralismo e le pianete piegate sostituite dalla dalmatica e dalla tunicella. Si rileva in quegli anni una insofferenza verso questo particolare uso liturgico, citiamo – a titolo di esempio – il Fattinger che, nell’auspicare un’abolizione totale di tale costume, lo cassa quale anacronismo privo di significato54. Come si è detto l’edizione giovannea del messale (1962) non prevede espressamente il loro uso.


   Possiamo affermare che l’uso delle pianete piegate è un vero e proprio reperto vivente, un testimone inequivocabile di quello che era un uso non esclusivo della pianeta da parte del sacerdote sicchè l’abolizione ha portato a caricare la stessa di una nuova semantica, differente da quella consacrata dall’uso dei secoli e che anzi, proprio alla luce di questi, appare per lo meno ambigua se non addirittura scorretta. Fu certo un’azione che perlomeno è eufemisticamente classificabile come incauta quella di abolire questi usi. Incauta perché incoerente con un divenire organico che portò allo stratificarsi, definirsi e istituzionalizzarsi di usi secondo un lento processo di consolidamento cui fa antitesi, invece, un moto – o meglio un atto –  così repentino che abroga d’autorità.


   Monsignor Annibale Bugnini, nel censire criticamente una delle sue prime “creature” – ovverosia il nuovo Ordo della settimana santa di cui poco fa abbiamo fatto cenno, afferma, in modo invero piuttosto laconico e sbrigativo, che nessuno avrà a dolersi o sentirà la mancanza delle “pianete piegate”55: orbene questo non sembra un omaggio degno e rispettoso a quanto dai secoli più remoti giunse, forse miscompreso, fino a quegli anni. Anzi possiamo spingerci ad affermare che non sia riscontrabile alcun elemento oggettivo che deponga a favore di questa abolizione, nessun argomento solido ma solo autoritativo o, peggio, rispondente a criteri di soggettività o estetica.


   Non possiamo altresì tacere dell’incongruenza che rasenta l’assurdità di questa abolizione di un uso, di un’attenzione dedicata alla pianeta postulata nelle sue antiche ampie fattezze, che paradossalmente si colloca – dal punto di vista temporale – proprio nel periodo di massima fioritura del recupero dell’antica foggia, detta impropriamente “gotica” dei paramenti.


Pianeta piegata gotica


   Anche, ma certamente non soltanto, questa abolizione, questo abbandono che per Leon Gromiér  “fait mentir les peintures des catacombes”56, crea e implica un concetto e un sentire nuovo che sottende le riforme: un pastoralismo autoreferenziale che inaugura la reinterpretazione del simbolo;  si segna il passo di una nuova era, di un nuovo e inedito modo di procedere che – inevitabilmente – reca con sé la fine di quel ideale equilibrio, ravvisato ancora una volta da Gromier, per il quale la pastorale obbedisce alla liturgia e non viceversa57. Si tratta di tappe – all’apparenza ancora forse timide e quasi sommesse – ma evidentemente prodotte da una nuova mentalità e che segnano il passo verso la creazione di quel rito che Klaus Gamber classifica e denomina come “Ritus modernus”58.


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  1. L’ultima edizione tipica del messale che postula l’uso liturgico di portare la pianeta plicata è Missale Romanum, editio sexta post typicam, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1954 questa è quindi l’edizione cui faremo riferimento. [↩]

  2. Nel linguaggio comune odierno si tende a denominare “casula” il paramento foggiato in dimensioni ampie e morbide avvolgenti la persona, più vicino agli stilemi antichi, mentre, per contro, si costuma chiamare “pianeta” il paramento più stretto, scorciato e rigido che nei secoli passati ha conosciuto le sue particolari declinazioni nazionali (p.e. francese, ispanica ecc.). Il messale, e anche gli altri libri liturgici, invece, usano indifferentemente ora “casula” ora “planeta”; in tal senso qui considereremo i due termini come sinonimi. L’Andrieu afferma che il termine casula fosse estraneo al lessico liturgico romano sino all’Ordo XXXVI e che anzi – in antecedenza – esso designava la veste posta ai bambini neobattezzati; cfr. M. ANDRIEU, Les ordines romani du haut moyen age, IV les textes, Leuven, Spicilegium sacrum lovaniense, 1956, p. 149, in particolare nt. 7. [↩]

  3. Si impone una precisazione: in oriente – in particolare negli ambiti della tradizione costantinopolitana – la stola vescovile e quella sacerdotale sono identiche sia per forma che per modo di essere indossate; essa è chiamata επιτραχήλιου. La stola diaconale, invece, è chiamata οράριου. Essa è lunga e stretta, il diacono la fa pendere dalla spalla sinistra, tenendo poi le estremità in mano quando – ad esempio – deve indicare qualcosa, oppure la accomoda fissandola sotto l’ascella destra e quindi la fa incrociare sopra la spalla sinistra facendo cadere le estremità. Prima della comunione il diacono la acconcia a forma di “X” perché essa non sia d’impedimento nel suo ministrare. In questo particolare modo incrociato la porta sempre l’ipodiacono; generalmente la stola di cui si serve il diacono porta ricamata in direzione della sua lunghezza per tre volte la parola αγιος. Cfr. R. PILKINGTON, I riti orientali, Torino, L.I.C.E. – Berruti, p.31. [↩]

  4. B. GAVANTO-G.M. MERATO, Thesaurus Sacrorum Rituum, Venetiis, Balleoniana, 1792, I,  p. 48. [↩]

  5. M. BAULDRY, Manuale Sacrarum Caeremoniarum, Venetiis, Balleoniana, 1711, p. 202. [↩]

  6. A. PISCARA CASTALDO, Praxis caeremoniarum, Neapoli, Scoriggium, 1645, p. 178. [↩]

  7. Cfr. Rubricae Generales, in Missale Romanum, editio II iuxta typicamRatisbonae, Pustet, 1963, XIX, 137, c. [↩]

  8. C. CALLEWAERT, De Planetis plicatis, in «Ephemerides Liturgicae», L-X, 1936, p. 69. [↩]

  9. AMALARIO DI METZ, De ecclesiasticis officiis, II, 19 (P.L. 105, 1095). [↩]

  10. C. CALLEWAERT, De Planetis plicatis…cit., p. 70. [↩]

  11. L. DUCHESNE, Origines du culte chrétien, Paris, Boccard, 19205. p. 402. [↩]

  12. G. BRAUN, I paramenti sacri, Trad. G. ALLIOD, Torino, Marietti, 1914, p. 98. [↩]

  13. A. KING, Liturgy of the Roman Church, London-New York-Toronto, Longmans, 1957, p. 130. [↩]

  14. Presso la famiglia rituale costantinopolitana i greci solamente conservano la forma pressochè originaria del φαιλόνιον, i russi – ed in genere i popoli slavi – lo confezionano in forme meno ampie e molto accorciate nella parte anteriore. [↩]

  15. Cfr.: Caeremoniale episcoporum, Taurini-Romae, Marietti, 1935, lib. II, cap. VIII, n. 19. [↩]

  16. Ritus servandus in celebratione Missae, in Missale Romanum, editio sexta post typicam, cit., cap. VIII, n. 6. [↩]

  17. F. BONANNI, La gerarchia ecclesiastica considerata nelle vesti sagre e civili, Roma, Placho, 1720, p. 218. [↩]

  18. C. CALLEWAERT, De Planetis plicatis…cit., p. 71. [↩]

  19. M. ANDRIEU, Les ordines romani…, II, p. 126. [↩]

  20. Ibidem. [↩]

  21. Ibid, p. 38 e s. [↩]

  22. Cfr.: M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, Milano, Ancora, 1959, II, p. 131 e s. Analoga motivazione sull’opzione della poenula in luogo della dalmatica per ripararsi dalle avversità metereologiche nelle processioni stazionali si riscontra, a titolo di esempio, anche in  G. DE VERT, Explication simple, litterale et historique des ceremonies de l’Eglise, Paris, Delaulne, 1720, II, p. 335. [↩]

  23.  G. BRAUN, I Paramenti sacri…, cit. p. 90 e ss. [↩]

  24. Cfr. Rubricae generales Missalis, in Missale Romanum, editio sexta post typicam, cit., XIX (nel virgolettato abbiamo ritenuto di mantenere i criteri del messale quanto all’uso delle maiuscole, dittonghi ecc. rendendo in corsivo il testo in rosso nell’originale). [↩]

  25. Cfr SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 23 aprile 1875 n. 3352, in Decreta authentica Congregationis Sacrorum Rituum, IIII, Romae, Propaganda Fide, 1908, p. 52 e s. (in particolare al 7). [↩]

  26. Cfr. Ritus servandus in celebratione missarum in Missale Romanum, Romae, Faletti Variscum, 1570 (rist. anast. a cura di M. SODI – A.M. TRIACCA, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, p. 22). [↩]

  27.  Es. cfr.D. MAGRI, Hierolexicon sive sacrum dictionarium, Venetiis, Balleonium, 1712., p 126. L’uso andò scomparendo opzionando per il più comodo stolone già pochi anni dopo la pubblicazione dell’opera citata, cfr: F. CANCELLIERI, Descrizione delle cappelle pontificie e cardinalizie di tutto l’anno, Roma, Salvioni, 1740, p. 312; qui il Cancellieri, nel descrivere ciò che fa il diacono prima di cantare il vangelo, scrive espressamente: “depone la pianeta piegata e ne piglia un’altra che forma uno stolone”. [↩]

  28. SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 25 settembre 1852 n.3006, in Decreta Authentica…cit., II p. 376. [↩]

  29. Caeremoniale episcoporum…, cit., lib. II, cap. XIII (pp. 154 e ss.). [↩]

  30. Ibid., lib. II, cap. XXI (p. 176 [↩]

  31. M. BAULDRY, Manuale Sacrarum Caeremoniarum…, cit. p. 222. [↩]

  32. SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 12 marzo 1897 n. 3949,  in Decreta Authentica…cit., III p. 327 e s. [↩]

  33. ID., Decreto 31 agosto 1867 n. 3161, in Decreta Authentica…cit., II, p. 455 e s. [↩]

  34. A. KING, Liturgy of Primatial Sees, Bonn, Nova et vetera, 2005, p. 50. [↩]

  35. Cfr. Liturgia Lugdunensis a sancta sede approbata, Rubricae Generales, 4   in Missale Romano-Lugdunense, Parisiis-Lugduni, Le Clere-Pelagaud, 1866. E anche: Le céremonial de la sainte église de Lyon, Lyon, Perisse, p. 262 e s. e p. 267. [↩]

  36. Cfr. Rubricae generales, 27 e 44 in Missale Ambrosianum, editio quinta post typicam, Mediolani, Daverio, 1946. Notiamo che il diacono nel rito proprio dell’arcidiocesi di Milano mette la stola sopra la dalmatica, mentre quando ministra con la pianeta la stola è tenuta sotto. [↩]

  37. A. King, Liturgy of primatial sees…, cit., p. 213 e Rubricae generales, VIII, 6, in Missale Bracarense, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1924. [↩]

  38. De coloribus, 4 in Missale S. Ordinis Praedicatorum, Romae, Hospitio Magistri Ordinis, 1933. [↩]

  39. A. KING, Liturgies of the Religious Orders, Bonn, Nova et Vetera, p. 296. [↩]

  40. Ibid., p. 127. [↩]

  41. Ibid.,  p. 38. [↩]

  42. Ibid., p. 185. Anche l’antico rito di Salisbury (Sarum) poi adottato anche a Londra nel XV secolo prevedeva l’uso delle pianete per i ministri nel tempo di settuagesima, cfr. ID, Liturgies anciennes, trad. B. PAUPARD, Mame, 1960, p. 424 e s. [↩]

  43. C. DE VERT, Explication…, cit., II, p. 335 e ss. [↩]

  44. Rubricae generales, X in Missale Parisiense, Parisiis, Usuum Parisiensium, 1738. Si veda anche: S. DE MOLEON, Voyages liturgiques de France, Paris, Delalaune, 1718, p. 247, nell’Opera è attestato l’uso di tenere lo stolone sotto la pianeta piegata anche ad Angers e a Rouen (ibid., p. 92 e p.313 [↩]

  45. Rubricae generales Missalis, XIV in Missale Lemovicense, Leomovicis, Barbou, 1830. [↩]

  46. De rubricis generalibus, V, 6 in Missale Aeduense, Aeduae, Dejussieu, 1845. [↩]

  47. I. HABERT, Aρχιερατικον Liber Pontificalis Ecclesiae Graecae, Parisiis, Petri Blasii, 1643, p. 38 e p. 306. [↩]

  48. Riferiamo – a titolo esemplare – il caso degli ξωκατάκοιλοι: costoro erano diaconi preposti al servizio del patriarca costantinopolitano. Essi indossavano la stola diaconale e il φαιλόνιον retaggio probabile del fatto che inizialmente essi erano presbiteri preposti ad alcune chiese minori dipendenti da S. Sofia (cfr. Ibid. p. 32 e s.). [↩]

  49. Cfr.: R. PILKINGTON, I riti orientali…, cit., p. 31 e p. 66, ma soprattutto J.G. KING, The rites and ceremonies of the Greek Church in Russia, London, Owen-Dodsley-Rivington, 1772,  p. 276 e s. [↩]

  50. Cfr.: R. PILKINGTON, I riti orientali…, cit. p. 40. [↩]

  51. G. BRAUN, I paramenti sacri…, cit., p. 96. [↩]

  52. Ordo Sabbati Sancti quando vigilia paschalis insaturata peragitur, editio altera, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1952. [↩]

  53. Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus, editio typica, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1955. [↩]

  54. R. FATTINGER, Dizionario tecnico-pratico di liturgia, Roma, Edizioni Paoline, 1958, p. 358. [↩]

  55. Cfr. A. BUGNINI – C. BRAGA, Ordo Hebdomadae Sanctae instauratus commentarium, Bibliotheca Ephemerides Liturgicae Sectio Historica 25, Roma, Edizioni Liturgiche, 1956, p. 56, nt. 28. [↩]

  56. L. GROMIER, Semaine Sainte Restaurée, in «Opus Dei», 2, 1962, p. 80. [↩]

  57. ID., Commentaire du Caeremoniale Episcoporum, Paris, La Colombe, p. 13. [↩]

  58. K. GAMBER, Die Problematik der Liturgiereform, in Ritus modernus. Gesammelte Aufsätze zur Liturgiereform, Regensburg, Pustet, 1972, p. 11. [↩]





  
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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  Perché a messa non bisogna prendersi per mano durante il Padre Nostro, o alzare le mani al Cielo


 





Il Timone.



di Henry Vargas Holguín 


La pratica di prendersi per mano al momento di recitare il Padre Nostro deriva dal mondo protestante. Il motivo è che i protestanti, non avendo la Presenza Reale di Cristo, ovvero non avendo una comunione reale e valida che li unisca tra loro e con Dio, considerano il gesto di prendersi per mano un momento di comunione nella preghiera comunitaria.

Noi nella Messa abbiamo due momenti importanti: la Consacrazione e la Comunione. È lì – nella Messa – che risiede la nostra unità, è lì che ci uniamo a Cristo e in Cristo mediante il sacerdozio comune dei fedeli; il prendersi per mano è ovviamente una distrazione da questo. Noi cattolici ci uniamo nella Comunione, non quando ci prendiamo per mano.

Nell'Istruzione Generale del Messale Romano non c'è nulla che indichi che la pratica di prendersi per mano vada effettuata. Nella Messa ogni gesto è regolato dalla Chiesa e dalle sue rubriche.

È per questo che abbiamo parti particolari della Messa in cui inginocchiamo, parti in cui ci alziamo, altre in cui ci sediamo ecc., e non c'è alcuna menzione nelle rubriche che parli del fatto che dobbiamo prenderci mano al momento di recitare il Padre Nostro.

Nell'Istruzione Generale del Messale Romano non c'è nulla che indichi che la pratica di prendersi per mano vada effettuata. Nella Messa ogni gesto è regolato dalla Chiesa e dalle sue rubriche.

È per questo che abbiamo parti particolari della Messa in cui inginocchiamo, parti in cui ci alziamo, altre in cui ci sediamo ecc., e non c'è alcuna menzione nelle rubriche che parli del fatto che dobbiamo prenderci mano al momento di recitare il Padre Nostro.

Si deve quindi evitare questa pratica durante la celebrazione della Messa. Se qualcuno vuole farlo può (a mo' di eccezione) con qualcuno di assoluta fiducia, senza forzare nessuno, senza dar fastidio a nessuno e senza volere che questa pratica diventi una norma liturgica per tutti.

Bisogna tener conto del fatto che non tutti vogliono prendere la mano del vicino, e cercare di imporlo è qualcosa che va a detrimento della preghiera, della pietà e del raccoglimento.

Un'altra cosa molto diversa è la preghiera comunitaria al di fuori della Messa; quando si recita fuori dalla Messa non c'è alcuna opposizione se si prende la mano di qualcuno, perché è un gesto emotivo e simbolico.

Questo, come altri atteggiamenti, non è altro che l'esaltazione del sentimento. L'essere in comunione con qualcuno non consiste tanto nel prendere qualcuno per mano quando si recita il Padre Nostro, ma nel fatto di essere confessato, di essere in stato di grazia e soprattutto nell'essere preparato all'Eucaristia.

Se il gesto di prendersi la mano fosse necessario o importante o conveniente per tutta la Chiesa, i vescovi o le Conferenze Episcopali avrebbero inviato già da molto tempo una richiesta a Roma perché questa pratica venisse impiantata. Non lo hanno fatto, né credo che lo faranno mai.

Un'altra cosa che vedo molto quando si recita il Padre Nostro è che la gente alza le mani come fa il sacerdote. Nemmeno questo va bene, perché non spetta ai laici durante la Messa compiere gesti riservati al sacerdote o pronunciare le parole o le preghiere del sacerdote confondendo il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale.
Solo i sacerdoti stendono le mani, e la cosa migliore è che i fedeli restino o preghino con le mani giunte perché la fede interiore è ciò che conta, è quello che Dio vede.

I gesti esterni nella Santa Messa da parte dei sacerdoti servono a far sì che i fedeli – in primo luogo – vedano che il sacerdote è l'uomo designato che intercede per loro.

Stendere le braccia nella preghiera era già abituale nella Chiesa delle origini, ma nel contesto di un circolo di preghiera, o nella preghiera in privato o in un altro incontro non liturgico.

I gesti nella Messa sono precisi sia nel sacerdote che per i fedeli; ciascuno fa i propri e i fedeli non devono copiare quelli dei sacerdoti. I gesti dei fedeli nella Messa sono le loro risposte, il loro canto, le loro posizioni.

Sia prendere la mano di qualcuno che alzare le mani recitando il Padre Nostro sono, nei fedeli, pratiche non liturgiche, che pur non essendo esplicitamente proibite nel Messale non corrispondono nemmeno a una sana liturgia.

I fedeli non devono ripetere né con parole né con azioni ciò che dice e fa il sacerdote la cui funzione è presiedere l'assemblea liturgica.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Studi dei Consultori

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UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
DEL SOMMO PONTEFICE  

 

Il sacerdote nell'Offertorio della S. Messa

 

«Nella Chiesa antica esisteva la consuetudine che il vescovo o il sacerdote dopo l'omelia esortasse i fedeli esclamando "Conversi ad Dominum" - volgetevi ora verso il Signore. Ciò significava anzitutto che essi si voltassero verso l'oriente, nella direzione da cui sorge il sole in quanto segno di Cristo che ritorna, all'incontro con il quale noi andiamo nella celebrazione eucaristica. Dove per qualche ragione questo non era possibile, essi volgevano lo sguardo all'immagine di Cristo nell'abside oppure alla croce, per orientarsi verso il Signore. Perché, in definitiva, si trattava di questo fatto interiore: della conversio, del dirigere la nostra anima verso Gesù Cristo e, in questo modo, verso il Dio vivente, verso la luce vera»[1]. Queste parole del Santo Padre Benedetto XVI ci permettono di introdurre al tema che ora ci interessa: «Il sacerdote nell'Offertorio della Santa Messa».

Terminata la Liturgia della Parola, entriamo nella Liturgia Eucaristica. Come è noto, entrambe le parti della Messa «sono strettamente unite tra loro e formano un unico atto di culto»[2]. Di qui che la oblatio donorum, o presentazione delle offerte, primo gesto che il sacerdote, rappresentando Cristo Signore, realizza nella Liturgia Eucaristica[3], non è semplicemente un "intermezzo" tra questa e la Liturgia della Parola, bensì costituisce un punto di unione tra queste due parti strettamente connesse per formare, senza confondersi, un unico rito. Di fatto, la Parola di Dio, che la Chiesa legge e proclama nella liturgia, conduce all'Eucaristia.

La Liturgia della Parola è un vero discorso, che attende ed esige una risposta. Essa possiede il carattere di proclamazione e di dialogo: Dio che parla al suo popolo e questo che risponde e fa sua la Parola divina per mezzo del silenzio e del canto; che aderisce ad essa professando la propria fede nella professio fidei e che, pieno di fiducia si presenta con le sue richieste al Signore[4]. Di conseguenza, il reciproco rivolgersi di colui che proclama verso chi ascolta, e viceversa, implica che sia ragionevole che si pongano l'uno di fronte all'altro[5].

Tuttavia, quando il sacerdote lascia l'ambone o la sede, per salire all'altare - centro di tutta la Liturgia Eucaristica[6] - ci prepariamo in modo più immediato alla preghiera comune che sacerdote e fedeli dirigono al Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo[7]. In questa parte della celebrazione, il sacerdote parla al popolo unicamente dall'altare[8], dato che l'azione sacrificale che ha luogo nella Liturgia Eucaristica non si dirige principalmente alla comunità. Di fatto, l'orientamento spirituale ed interiore di tutti, del sacerdote - come rappresentante di tutta la Chiesa - e dei fedeli, è versus Deum per Iesum Christum. In questo modo, comprendiamo meglio l'esclamazione della Chiesa antica: Conversi ad Dominum. «Sacerdote e fedeli certamente non pregano l'uno verso l'altro, bensì verso l'unico Signore. Pertanto, durante la preghiera guardano nella stessa direzione, verso un'immagine di Cristo nell'abside, o verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come fece il Signore nell'orazione sacerdotale la notte prima della sua Passione»[9].

La oblatio donorum, vale a dire l'Offertorio o presentazione dei doni, prepara il sacrificio. Agli inizi si trattava di una semplice preparazione esteriore del centro e vertice di tutta la celebrazione, che è la Preghiera Eucaristica. Così si vede nelle testimonianze di Giustino[10], o nello sviluppo più elaborato che presenta l'Ordo Romanus I già nel secolo VII. Ad ogni modo, limitarsi a considerare l'offerta dei fedeli, in questi primi secoli, a partire solo dalla semplice apparenza esterna preparatoria, significherebbe svuotare il suo significato ideale e concreto[11].

In realtà, molto presto si intese questo gesto materiale in modo molto più profondo. Tale preparazione non sarà concepita unicamente come un'azione esteriore necessaria, bensì come un processo essenzialmente interiore. Per questo si relazionò con il gesto del capofamiglia giudaico che eleva il pane verso Dio, per riceverlo di nuovo da Lui, rinnovato. In un secondo momento, inteso in modo più profondo, questo gesto si associa con la preparazione che Israele fa di se stesso per presentarsi davanti al suo Signore. In questo modo, il gesto esterno di preparare i doni si comprenderà, sempre più, come un prepararsi interiormente dinanzi alla vicinanza del Signore, che cerca i cristiani nelle loro offerte. In realtà «si fa manifesto che il vero dono del sacrificio conforme alla Parola siamo noi, o almeno dobbiamo arrivare ad esserlo, con la partecipazione all'atto con il quale Gesù Cristo offre se stesso al Padre»[12].

Questo approfondimento del gesto della presentazione dei doni risulta una conseguenza logica della stessa forma esterna che presenta la Santa Messa[13]. Il suo elemento primordiale, il novum radicale che Gesù inserisce nella cena sacrificale giudaica, è precisamente l'«Eucaristia», cioè il fatto che sia un'orazione memoriale di azione di grazie. Questa oratio - la solenne Preghiera Eucaristica - è qualcosa di più che una serie di parole: è actio divina che si realizza attraverso il discorso umano. Per mezzo di essa, gli elementi della terra sono transustanziati, strappati, per dir così, dal loro radicamento creaturale, assunti nel fondamento più profondo del proprio essere e trasformati nel Corpo e Sangue del Signore. Noi stessi, partecipando a questa azione, siamo trasformati e ci convertiamo nel vero Corpo di Cristo.

Si comprende, così, che «il memoriale della sua totale donazione non consiste nella ripetizione dell'Ultima Cena, bensì propriamente nell'Eucaristia, vale a dire, nella novità radicale del culto cristiano. Gesù ci ha affidato così il compito di partecipare alla sua hora. L'Eucaristia ci inserisce nell'atto oblativo di Gesù. Non riceviamo il Logos solamente in modo passivo; siamo invece coinvolti nella dinamica della sua donazione. Egli ci attrae verso di sé»[14].

È Dio stesso colui che opera nella Preghiera Eucaristica e noi ci sentiamo attratti verso questa azione di Dio[15]. In questo cammino, che inizia con la presentazione dei doni, il sacerdote esercita una funzione di mediazione, come avviene nel Canone o nel momento della Comunione. Sebbene con l'attuale processione offertoriale venga soprattutto evidenziato il compito dei fedeli, rimane sempre la mediazione sacerdotale perché il sacerdote riceve le offerte e le depone sull'altare[16].

In questo percorso verso la oratio, che comporta l'offerta di sé, le azioni esterne risultano secondarie. Dinanzi alla oratio, l'agire dell'uomo passa in secondo piano. Essenziale è l'azione di Dio, che attraverso la Preghiera Eucaristica vuole trasformare noi stessi e il mondo. Per questa ragione, è logico che alla Preghiera Eucaristica ci accostiamo in silenzio e pregando. E rimane d'obbligo che, al processo esteriore della presentazione dei doni, corrisponda un processo interiore: «La preparazione di noi stessi; ci mettiamo in cammino, ci presentiamo al Signore: gli chiediamo che ci prepari per la trasformazione. Il silenzio comune è pertanto orazione comune, persino azione comune; è porsi in cammino dall'ambito della nostra vita quotidiana verso il Signore, per farci suoi contemporanei»[17].

Pertanto, il momento della oblatio donorum, «gesto umile e semplice, ha un significato molto grande: nel pane e nel vino che portiamo all'altare tutta la creazione è assunta da Cristo redentore per essere trasformata e presentata al Padre»[18]. È ciò che potremmo chiamare il carattere cosmico e universale della Celebrazione eucaristica. L'offertorio prepara la celebrazione e ci inserisce nel «mysterium fidei che si realizza nell'Eucaristia: il mondo nato dalle mani di Dio creatore ritorna a Lui redento da Cristo»[19].

Non è altro il significato del gesto dell'elevazione dei doni e delle orazioni che lo accompagnano: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell'uomo. Lo presentiamo a te perché diventi per noi cibo di vita eterna». Il contenuto delle preghiere è collegato con le orazioni che gli ebrei recitavano a tavola. Orazioni che, nella forma di benedizioni, hanno per punto di riferimento la Pasqua di Israele e sono pensate, declamate e vissute pensando ad essa. Questo suppone che esse sono state scelte in quanto anticipazione silenziosa del mistero pasquale di Gesù Cristo. Per questo, la preparazione e la realtà definitiva del sacrificio di Cristo si compenetrano in queste parole.

D'altro canto, «portiamo all'altare anche la sofferenza e il dolore del mondo, coscienti che tutto è prezioso agli occhi di Dio»[20]. In realtà, «il celebrante, in quanto ministro del sacrificio, è l'autentico sacerdote, che porta a compimento - in virtù del potere specifico della sacra ordinazione - il vero atto sacrificale che conduce di nuovo tutti gli esseri a Dio. Invece coloro che partecipano all'Eucaristia, senza sacrificare come lui, offrono assieme a lui, in virtù del loro sacerdozio comune, i propri sacrifici spirituali, rappresentati dal pane e dal vino, dal momento della loro preparazione sull'altare»[21].

Il pane e il vino diventano, in un certo senso, simbolo di tutto ciò che l'assemblea eucaristica in quanto tale porta in offerta a Dio e che essa offre in spirito. Questa è la forza ed il significato spirituale della presentazione dei doni[22]. In questa linea si comprende l'incensazione dei doni collocati sull'altare, della croce e dell'altare stesso, che significa l'oblazione della Chiesa e la sua preghiera, che salgono come incenso verso la presenza di Dio[23].

«Si comprende ora meglio perché la Liturgia Eucaristica, con il suo valore di di presentazione e di offerta della creazione e di se stessi a Dio iniziasse, nella Chiesa antica, con l'acclamazione: Conversi ad Dominum - dobbiamo sempre allontanarci dai cattivi sentieri sui quali tanto spesso ci incamminiamo con i nostri pensieri e le nostre opere. Dobbiamo invece sempre dirigerci verso di Lui. Dobbiamo essere sempre convertiti, con la nostra vita intera diretta verso Dio»[24].

Questo cammino di conversione, che deve essere più intenso ed immediato nel momento previo alla Preghiera Eucaristica, dovrebbe essere orientato in primo luogo dalla croce. Una proposta per attuare ciò la segnala Benedetto XVI: «Non procedere a nuove trasformazioni, ma proporre semplicemente la croce al centro dell'altare, verso la quale possano guardare insieme il sacerdote ed i fedeli, per lasciarsi guidare così dal Signore, che tutti insieme preghiamo»[25].

D'altro canto, il gesto di presentazione dei doni e l'atteggiamento con cui si realizza, stimolano il desiderio di conversione e di oblazione di sé. Sono diversi i gesti e le parole che sono finalizzati al raggiungimento di questo obiettivo. Vediamo brevemente due di essi.

a) La preghiera «In spiritu humilitatis...»[26]. Questa formula è entrata nei libri liturgici in Francia nel secolo IX. Appare per la prima volta nel sacramentario di Amiens, nella parte offertoriale[27]. Nella liturgia romana la troviamo già nell'Ordo della Curia e di lì passa nel Messale di san Pio V.

Come segnala Lodi, prima di iniziare il testo della grande Preghiera Eucaristica (o Canone Romano), che deve essere recitato fedelmente e nel quale le intenzioni personali sono più difficilmene esprimibili, troviamo questa orazione che permette al celebrante di esprimere i suoi sentimenti. Allo stesso tempo, per mezzo della Parola biblica che ispira tutta questa orazione, si esprime il senso ultimo di ogni oblazione esteriore: il dono del cuore accompagnato dalla disposizione intima al sacrificio personale[28].

Notiamo che l'articolazione al plurale («...sacrificium nostrum...») sembra indicare, una volta di più, che il sacerdote celebrante la pronunzia a nome suo e del popolo. Il fatto che essa sia pronunciata in segreto dal sacerdote non ci sembra ragione sufficiente per qualificarla come una orazione privata. Infatti, le stesse orazioni di presentazione dei doni possono essere pronunciate a voce alta o in segreto e in nessun caso si considerano private.

Il silenzio che si produce in questo momento di preghiera della apologia, e la posizione - profondamente inclinata - del sacerdote, che manifesta una chiara indole penitenziale, facilitano ai presenti alla celebrazione il penetrare nelle cose invisibili e accentuano l'idea della necessità della penitenza e dell'umiltà nell'incontrarci con Dio. Umiltà e riverenza dinanzi ai santi misteri: atteggiamenti che rivelano la sostanza stessa di qualunque liturgia[29].

b) Il lavabo[30]. Il lavabo nella Messa da parte del presbitero non rappresenta una tradizione universale (in Italia e in Spagna non lo si incontra praticamente fino al secolo XV, mentre in Francia fu introdotto a partire dagli Ordines che pervennero da Roma verso il secolo IX[31]). A Roma esso avrà una funzione unicamente pratica, sebbene più tardi acquisisca anche un valore simbolico[32].

Attualmente, il lavabo è un'azione puramente simbolica, come si deduce dalla formula impiegata, come pure dal fatto che, in genere, si lavano unicamente le punte delle dita indice e pollice - quelle che toccheranno la sacra Ostia. Possiamo dire che il rito esprime il desiderio di purificazione interiore[33]. Di qui che alcuni abbiano proposto e continuino a proporre la soppressione di questo rito. Non condividiamo quest'idea, perché pensiamo che esso ha un chiaro valore catechetico e inoltre rappresenta un rinnovato atto penitenziale per il sacerdote, che in quel momento si dispone all'azione eucaristica e si prepara ad essa. Allo stesso tempo, come nota Lodi[34], la formula che accompagna il gesto del lavabo delle mani è presente già dall'antichità cristiana come uso solenne, praticato prima che il sacerdote si raccolga in orazione, come testimoniato da Tertulliano[35] e dalla Traditio apostolica[36].

Il sacerdote conclude la presentazione dei doni rivolgendosi ai fedeli e chiedendo loro che preghino affinché «il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipontente». «Queste parole hanno valore di impegno in quanto esprimono il carattere di tutta la Liturgia Eucaristica e la pienezza del suo contenuto tanto divino quanto ecclesiale»[37]. Lo stesso può dirsi della risposta dei fedeli: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa». Risulta così logico che «la coscienza dell'atto di presentare le offerte dovrebbe essere mantenuta durante tutta la Messa»[38], perché i fedeli devono imparare ad offrire se stessi all'atto di offrire l'Ostia immacolata, non solo attraverso le mani del sacerdote, ma anche insieme con lui[39].

Note

[1] Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008.

[2] Institutio Generalis Missalis Romani (= IGMR), n. 28; cf. Vaticano II, Sacrosanctum concilium, n. 56.

[3] Cf. IGMR, nn. 72-73.

[4] Cf. IGMR, n. 55.

[5] Cf. J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 102.

[6] Cf. IGMR, n. 73.

[7] Cf. IGMR, n. 78.

[8] Cf. «Pregare "ad Orientem versus"», Notitiae 322, vol. 29 (1993), p. 249.

[9] J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesammelte Schriften, Presentazione al vol. XI: Theologie der Liturgie.

[10] Cf. Giustino di Nablus, I Apologia, 65 ss.

[11] Cf. V. Raffa, «Oblazione dei fedeli», in Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2003, p. 405.

[12] J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 237.

[13] Cf. J. Ratzinger, «Forma y contenido de la celebración eucarística», in La fiesta de la fe, pp. 43-66.

[14] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 11.

[15] «La grandezza dell'opera di Cristo consiste appunto nel fatto che egli non resta isolato e separato di fronte a noi, che non ci rinvia a una semplice passività; non solo ci sopporta, ma ci porta, si identifica con noi, che a lui appartengono i nostri peccati, a noi il suo essere: egli ci accoglie realmente, così che diventiamo attivi con lui e a partire da lui, agiamo con lui e partecipiamo quindi al suo sacrificio, condividiamo il suo mistero. Così anche la nostra vita e la nostra sofferenza, la nostra speranza e il nostro amore diventano fecondi nel nuovo cuore che lui ci ha donato" (J. Ratzinger, Il Dio vicino, pp. 47-48).

[16] Cf. IGMR, n. 73.

[17] J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 236.

[18] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 47.

[19] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 8. «Comunque sia da spiegare la cosa, oggettivamente parlando non sembra potersi negare l'effettivo coinvolgimento già attuale nell'azione e nel movimento, che diremmo di natura oblativa (offerimus), della terra, dell'uomo e della sua attività creativa, ovviamente non come oggetto assoluto chiuso in se stesso e concluso definitivamente nell'attimo fuggente, ma dinamico, aperto a un divenire e mirato a un traguardo futuro in se stesso, ma già presente nella mente e nel cuore. Il sacrificio certo ritualmente si ripresenterà solo nella preghiera eucaristica. Tuttavia non sarà come un evento che emerge del vuoto. Sarà invece il culmine di un'ascesa vissuta interiormente e tutta tesa ad esso» (V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, p. 415).

[20] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 47.

[21] Giovanni Paolo II, Dominicae Cenae (24.02.1980), n. 9.

[22] Cf. IGMR, n. 73.

[23] Cf. IGMR, 75.

[24] Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008.

[25] J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesammelte Schriften, Presentazione al vol. XI: Theologie der Liturgie.

[26] Cf. J. Jungmann, El sacrificio eucarístico, II, nn. 52, 58, 60, 105. M. Righetti, Historia de la Liturgia, II, p. 292.

[27] Cf. P. Tirot, «Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle», Ephemerides Liturgicae 98 (1984), p. 169.

[28] Cf. E. Lodi, «Les prières privées du prêtre dans le déroulement de la messe romain», en L'Eucharistie: célebrations, rites, piétés, BEL Subsidia 79, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 1995, p. 246.

[29] Cf. Giovanni Paolo II, Messaggio all'Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (21.09.2001).

[30] Cf. J. Jungmann, El sacrificio eucarístico, nn. 83-84. M. Righetti, Historia de la Liturgia, II, pp. 282-284.

[31] Cf. P. Tirot, «Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle», pp. 174-177.

[32] Conviene non dimenticare che un'abluzione simbolica si trova da tempi molto antichi nella liturgia della Messa in Oriente. Essa è attestata già nella catechesi mistagogica attribuita a san Cirillo di Gerusalemme morto nel 387 (cf. Catechesi mistagogiche, V, 2: ed. A. Piédagnel, SCh 126, 146-148) nonché, tra V e VI secolo, nello Pseudo-Dionigi (cf. Ecclesiastica Hierarchia, III, 3, 10: PG 3, 437D-440AB).

[33] IGMR, n. 76: «Deinde sacerdos manus lavat ad latus altaris, quo rito desiderium internae purificationis exprimitur».

[34] Cf. E. Lodi, «Les prières privées du prêtre dans le déroulement de la messe romain», p. 246.

[35] Cf. Tertulliano, De oratione, III: CSEL 20, 188.

[36] Cf. Tradition Apostolique, 41, SCh 22bis, 125.

[37] Giovanni Paolo II, Dominicae Cenae (24.02.1980), n. 9.

[38] Ibid.

[39] Cf. Vaticano II



[Modificato da Caterina63 04/03/2017 10:50]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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13/04/2017 23:02
 
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Giovedì santo. L’ abluzione dell’altare papale di S. Pietro


L'abluzione dell'altare papale. (Romagnoli e Zaniboni)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -
 


Un articolo molto profondo e interessante - tratto Rerum Liturgicarum -   di un singolare aspetto  della Settimana Santa in Roma.
L

Una breve premessa.

Tra le innumerevoli cerimonie che si susseguivano serratamente durante la Settimana santa in Roma, merita particolare attenzione – non fosse altro per la curiosità che era in grado di suscitare – l’abluzione dell’altare papale che veniva compiuta la sera del Giovedì santo nella Basilica vaticana. 
L’anonimo autore di un piccolo volume , ai primi del Novecento, dedicato proprio a questo particolare costume liturgico,  ci riferisce che –  fin dalle testimonianze da lui consultate – il concorso di fedeli era tale da rendere persino difficoltoso il passaggio del clero che si dirigeva all’altare per il compimento di questa cerimonia:  talmente numerosa era la moltitudine che esso si vedeva costretto ad aprirsi materialmente il varco tra le ali di folla [1]. L’allora popolarissimo periodico «La Tribuna Ilustrata della Domenica», volle – nel 1898 – pubblicare una dettagliata incisione a colori di Romagnoli e Zaniboni, laddove si notano i fedeli assiepati fino alle immediatissime vicinanze del basamento delle colonne berniniane [2].  Altrettanto – sebbene con un’incisione, questa volta, in bianco e nero presa da un “disegno dal vero “ di D. Paolocci – si evince da «L’illustrazione popolare».
Descriverò qui brevemente il modo di ordinarsi di questa cerimonia.

L'abluzione dell'altare papale (Paolocci)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -

Svolgimento.
Una volta terminata l’ufficiatura delle Tenebrae, ossia il canto di mattutino e lodi del Venerdì santo anticipati la sera del giovedì, il clero della basilica vaticana si portava processionalmente all’altare papale. Aprivano la processione il crocifero – la cui immagine del Crocifisso era velata – accanto ad esso, ai suoi fianchi, incedevano due accoliti che sostenevano i candelieri con le candele in cera gialla grezza spente. Li seguivano i seminaristi, il clero beneficiato e i restanti canonici.  Il canonico officiante, sopra il rocchetto, portava stola e piviale di colore nero. Egli era assistito da sei canonici. Questi, che per l’ufficiatura avevano indossato la cappa, ora indossavano la cotta messa sopra il rocchetto e la stola nera. Il cardinale arciprete della Basilica, indossando la cappa di colore violaceo (caratteristica dei tempi di penitenza), seguiva la processione accompagnato dai suoi familiares
Gli accoliti e il crocifero andavano a collocarsi nella parte retrostante l’altare, mentre l’officiante con i sei canonici si mettevano in ginocchio sul più basso dei gradini dell’altare; il restante del clero si disponeva ad emiciclo presso l’altare. L’altare si presentava in questo momento privo delle tovaglie, in luogo opportuno erano state preparate sette brocche riempite di vino bianco allungato con acqua. L’officiante intonava l’antifona Diviserunt sibi, subito proseguita dai cappellani che cantavano – alternativamente con la Schola cantorum – il salmo XXI, secondo il testo del Salterio romano in uso al clero della basilica vaticana [3]
Ritengo che l’uso di cantarlo – attestato dal citato Autore di La cérémonie de l’ablution (cit., p. 31), sia una innovazione recenziore, infatti Francesco Cancellieri ci riporta che si proseguiva “senza canto”[4]. Non appena la summenzionata antifona era intonata, il canonico officiante si alzava e, una volta toltosi il piviale, saliva con i suoi assistenti all’altare. Ivi, il canonico altarista, in rocchetto e cotta, gli porgeva una delle brocche. Gli altri sei canonici in stola nera, ricevevano anch’essi una brocca. Contemporaneamente versavano una parte del contenuto sulla mensa, spargendolo con l’ausilio di un “aspergillo”. Il Cancellieri ci ragguaglia che questi aspergilli erano dei serti fatti con rami di tasso, di bosso o più comunemente di sanguinella opportunamente composti ed intrecciati [5]. Questi canonici scendevano dall’altare per lasciare il posto al cardinale arciprete che imitava immediatamente il medesimo gesto. Altrettanto facevano, dopo di lui, gli altri canonici, i beneficiari, il clero della basilica e, in fine, i seminaristi. 
Una volta che tutti avevano terminato di spargere il vino allungato con l’acqua sulla mensa, l’officiante con i suoi assistenti saliva nuovamente all’altare di cui asciugava la mensa servendosi di spugne e asciugatoi di stoffa. Terminata anche questa operazione, scendevano in plano per mettersi in ginocchio sul più basso dei gradini. Tutti si ponevano quindi in ginocchio. Avendo i cappellani detto il versetto Christus factus est obediens con la sua risposta, l’officiante principiava il Pater noster – proseguito in segreto – cui faceva seguito l’orazione Respice, quaesumus, Domine
Tutti si levavano e – fatta la debita reverenza – facevano ritorno alla sacrestia, per poi far riaccedere alla navata centrale poco dopo per assistere alla solenne ostensione delle reliquie della Lancia, della Croce e del santo Sudario.

Origine e qualche riferimento storico.
Decisamente diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare  le origini dell’uso liturgico di mondare l’altare: se perlomeno ardita è l’ipotesi per la quale vi sia da ricercare il fondamento nelle costumanze rituali del tempio israelitico (in particolare Esodo XXIX),  a fortiori lo è quella del protestante zwingliano Rodulpus Hospinianus che ne vorrebbe rintracciare l’origine addirittura in lacerti di usi pagati, trasformati ed adattati (nella fattispecie la lustratio del simulacro della dea Cibele) [6]. Fin troppo viziata di “positivismo” appare l’ipotesi del De Vert. L’Autore è conosciuto proprio per queste spiegazioni che ricercano una mera origine pratica, spesso forzatamente pragmatica. Proprio nel caso della ablutio, egli opina che l’uso si sia instaurato profittando del fatto che l’altare si trova spogliato degli ornamenti, in particolare delle tovaglie che abitualmente ne ricoprono la mensa. L’uso di spogliare l’altare dopo la celebrazione sarebbe rimasto nelle prescrizioni del Giovedì santo: essendo già spogliato un lavaggio ne sarebbe stato largamente facilitato e  agevolmente sarebbe venuto ad insinuarsi  nelle incombenze da farsi in quei giorni. È qui che il De Vert si lascia andare a una critica all’atteggiamento e la condotta dei sacristi che lasciano gli altari addobbati col mero pretesto della comodità [7]
Una interpretazione votata alla simbolicità e alla allegoria, vorrebbe che l’altare, immagine del corpo di Cristo, venga lavato, come pietosamente si fa con il corpo di un morto; il vino e l’acqua sembrerebbero, a questo punto, voler alludere e simboleggiare il sangue e l’acqua scaturiti dal costato del Signore, ferito dalla lancia che gli colpì il costato.
Se prima ho fatto cenno all’ampio concorso di popolo che interveniva nell’occasione di questa cerimonia della basilica vaticana, non posso non ricordare che su questo rito l’attenzione di scrittori ed eruditi ha avuto più volte modo di soffermarsi. Solamente tra l’ultimo scorcio del XVII secolo e gli esordi del XVIII, tre furono le opere consacrate a questo uso liturgico (le elenco in ordine cronologico):
  •  I.M. SUARESIUS, Ritus qui observatur in Basilica Vaticana quotannis in Die Coenae Domini, Romae, Herculis, 1686;
  • C. BATTELLO, Ritus annuae ablutionis altaris majoris Sacrosanctae Basilicae Vaticanae, Romae, Zenobii, 1702;
  • F. ORLENDUS, Duplex lavacrum in Coenae Domini fidelibus exhibitum, Florentiae, Nestenus – Borghigiani, 1710.


Tra i testi più vetusti ove si trova contezza di questo peculiare rito merita menzione il De ecclesiasticis officiis di sant’Isidoro (+ 636), per il quale: “Hinc est quod eodem die altaria, templique parietes, et pavimenta laventur, vasaque purificantur quae sunt Domino consecrata”[8]
Sant’Eligio di Noyon parrebbe mettere in stretta relazione l’abluzione dell’altare – nonché dell’edificio ecclesiastico e dei vasi sacri – alla lavanda dei piedi di cui costituirebbe una sorta di particolare prolungamento o, se vogliamo, di sviluppo ulteriore. Così si esprime a proposito sant’Eligio: “Propter humilitatis formam commendandam ea die pedes eorum lavit, et hinc est quod eodem die altaria, tempique parietes, et vasa purificantur” [9]

L’autore citato di La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit., p. 6)  poggiando il suo opinare sulla critica tardo Ottocentesca – in particolare facente capo al Vancard – avanza dubbi circa l’attribuzione di quel testo a sant’Eligio. Potrebbe trattarsi, più verosimilmente, di qualche autore riconducibile al X secolo, o solo a qualche decennio prima. Significativo appare però il fatto che – pur nella difficoltà di datare con precisione un’origine certa di tale rito e di trovare testimonianze precedenti sant’Isidoro – all’epoca del grande dottore ispanico, il rito si configurava già per essere tale, con tanto di tentativi di lettura in chiave  simbolica, e non una mera - parafrasando qui il De Vert - attenzione di pulizia esteriore in vista dell’imminenza della principale festa cristiana. Sicuramente la circostanza di trovare l’altare spoglio ha favorito il formarsi di tale usanza, ma mi pare possa escludersi che questa spiegazione, specie se da sola, riesca ad essere non solo esaustiva ma anche solo convincente.
Due secoli più tardi, Rabano Mauro (+ 856) attesta l’uso germanico di effettuare una lavanda dell’altare nella Feria V della Settimana santa [10]. Martène fornisce altri interessanti ragguagli circa la diffusione di questo rito [11]. Quanto alla menzione di tale uso liturgico  nell’ambito degli Ordines romani, è necessario soffermarsi al n. “L” (numerazione Andrieu).

La redazione di tale Ordo rimonta al X secolo: “Eodem die altaria templi et parietes sive pavimenta ecclesia laventur et vasa Domino sacrata purificentur” [12]. Anche in questo caso devo registrare che l’ablutio non si limita alle mense degli altari ma si estende alle pareti, il pavimento e – infine – ai vasi sacri. È proprio a decorrere da quest’epoca che le testimonianze si presentano meno rarefatte e, se vogliamo, sono all’insegna di una certa sistematicità e ricorrenza. Se ne trova traccia sia nei consuetudinarii diocesani che in quelli di ambito monastico, le tracce non sono tuttavia univoche. Anzi, proprio di pari passo alla diffusione, si va incontro a una diversificazione degli usi. In tal senso il rito dell’abluzione, in alcuni ambiti, lo si trova spostato il giorno dopo, nel venerdì in Parasceve, situato subito dopo il vespero o, anche, durante la refezione. Ma la variante temporale non è certo la sola: appare diversificato il tipo di paramenti e anche il colore che vengono adoperati per compiere tale ufficio. In alcuni luoghi esso si compiva  in camice e stola, altrove si aggiungeva il manipolo, in altre località ancora si costumava indossare il piviale o – se interveniva il vescovo – questi indossava in capo la mitria. Altrove ancora si praticava a piedi nudi e differenti ancora erano i brani liturgici eseguiti durante l’azione propriamente detta.

Diversità si riscontra anche nell’uso degli aspergilli: chi ne usava di confezionati con rami di ginepro e chi, invece, si avvaleva dei ramoscelli di ulivo benedetti la domenica precedente ecc. Quasi sempre la lavanda propriamente detta avveniva con vino allungato con acqua ma esistono esempi ove una prima lavanda avveniva semplicemente con acqua, il vino veniva poi versato – effondendolo in forma di croce – ai punti laddove, durante il rito di consacrazione dell’altare, la mensa era stata segnata con l’unzione da parte del vescovo. Tale uso è attestato in area germanica, la chiesa di Aquileia – che molti usi ebbe a mutuare da tali ambiti geografici – usava poi disporre sulla mensa mondata dei ceri in forma di croce [13]. Qui ho ricordato l’uso aquileiense per motivi geografici e di affetto.

Ancora una volta l’anonimo autore di La cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit. p. 19), ci dà contezza che tra il XV e il XVII secolo le testimonianze del rito di abluzione degli altari sono frequentissime: dai diversi consuetudinarii, ai messali diocesani, quelli monastici, i libri processionali ecc. Ma proprio a partire dal XVI secolo si assiste a una disaffezione verso tale costume liturgico che porta, inevitabilmente, alla desuetudine e all’abbandono. A questo processo di declino non si vide risparmiata neanche la basilica vaticana laddove pare che il rito sia stato ristabilito appena nel 1635 [14]; a titolo di curiosità ricordo che l’uso della basilica era attestato nel XIII secolo il Venerdì santo, l’abluzione avveniva con una provvista di vino greco fornito dal vescovo di Porto. 
Quasi a voler frenare questo decadimento credo si possa leggere la volontà del cardinale Orsini – il futuro Benedetto XIII – quando, essendo vescovo di Benevento, volle vedere introdotto tale uso nella sua cattedrale. A questo inesorabile declino sopravvisse l’uso della basilica vaticana e l’uso di alcuni ordini religiosi fra i quali i carmelitani dell’antica osservanza e dei domenicani[15].

Una brevissima  conclusione.
Qui mi sono limitato – e spero almeno di essere parzialmente riuscito – a voler dare testimonianza di un uso liturgico romano: certo gli aspetti che meriterebbero una approfondita  analisi non sono certamente pochi. La messe documentale da consultare, come ho già notato, sarebbe davvero molto copiosa.  Raccoglierla e confrontarla in modo sistematico e serrato – unitamente anche all’analoga consuetudine della Chiesa greca, porterebbe a una auspicabile chiarezza. Certo questo non era negli scopi di questo mio semplice scritto che mi auguro servirà almeno alla preservazione della memoria ne pereat.
Tu autem in sancto habitas, laus Israel!
Francesco G. Tolloifrancesco.tolloi@gmail.com

[1] La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal à Saint Pierre au Vatican, Rome, Desclée – Lefebvre, s.d. [1908], p. 26.[2] «La Tribuna illustrata della Domenica», anno VI, n. 15,  10 aprile 1898.[3] Per il testo cfr.: Breviarium romanum ad usum Cleri Basilicae Vaticanae, Romae, Typis Vaticanis, pars verna,1925, pp. 260 e ss.. Su questo breviario v. J. NABUCO, Ius Pontificalium, Parisiis – Tornaci – Romae, Desclée, 1956, pp. 232 e ss.. Il salterio romano era utilizzato anche nella ducale basilica di S. Marco a Venezia.[4] Cfr.: F. CANCELLIERI, Descrizioni delle Funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma, Bourliè, 1818 4, p.101.[5] Idem, p. 100.[6] R. HOSPINIANUS, De Festis christianorum, Genevae, De Tournes, 1674, p. 121.[7] C. DE VERT, Cérémonies de l’Eglise, Paris Delaulne, 1720, II, pp. 389 e ss..[8] De eccles. Officiis, Lib. I, cap. 29, De Coena Domini, in P.L., t. LXXXIII, col. 764.[9] Homilia VIIIde Coena Domini, in P.L., t. LXXXVIII, col 623.[10] De institutione clericorum, cap. XXXVI, De Coena Domini, in P.L., t. CVII, col. 347.[11] Se ne trovano diverse menzioni, ad es. E. MARTÈNE, De antiquis Ecclesiae Ritibus, Anteperviae, Bry, 1737, IV, pp. 277 e ss. (Lib. IV, cap. XXII).[12] M. ANDRIEU, Les ordines Romani du Haut Moyen Age, Louvain, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1961, V, p. 189.[13] G. VALE, Gli antichi usi liturgici della Chiesa d’Aquileia dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua, Padova, Tipografia del Seminario, 1907, p. 29.[14] La cérémonie de l’ablution..., cit., p. 24.[15] Per una compiuta descrizione dell’uso domenicano: Ecclesiasticum Officium juxta ritum Sacri Ordinis Praedicatorum, Romae, Hospitio Reverendissimi Magistri Ordinis, 1927, pp. 82 e ss. Vedi anche Caeremoniale juxta Ritum S. Ordinis Praedicatorum (ed. V. Jandel), Mechliniae, Dessain, 1869, pp. 425 e ss.., A. KING, Liturgies of Religious Orders, Bonn, Nova et Vetera, pp. 356 e s.. Sui carmelitani, debitori sia degli usi domenicani che di quelli gerosolimitani del santo Sepolcro, Idem, p. 266 e ss..



[Modificato da Caterina63 13/04/2017 23:05]
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