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Cardinale Antonelli sulla crisi del Matrimonio ed Eucaristia

Ultimo Aggiornamento: 16/06/2015 13:54
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16/06/2015 13:42
 
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  6. Verità e responsabilità.

Secondo la Relatio Synodi la questione dell’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia deve essere studiata alla luce della distinzione tra situazione oggettiva di peccato e responsabilità personale, che può essere attenuata o annullata da molteplici fattori interni ed esterni (cfr Relatio, n. 52).

Il Magistero della Chiesa insegna che c’è distinzione tra la verità oggettiva del bene morale e la responsabilità soggettiva delle persone, tra la legge e la coscienza, tra il disordine e il peccato. Riconosce che nella responsabilità personale esiste una legge della gradualità, mentre nella verità del bene e del male non esiste una gradualità della legge.

«L’uomo chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita» (san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 34).

La capacità soggettiva di conoscere, apprezzare e volere il bene è propria di ognuno e viene condizionata da molti fattori interni ed esterni. «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate dall’ignoranza, dalla inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735).

Di solito la responsabilità si sviluppa progressivamente. Invece non si può «guardare alla legge solo come a un puro ideale da raggiungere in futuro»; non si può parlare di gradualità della legge «come se ci fossero vari gradi e varie forme di precetto nella legge divina per uomini e situazioni diverse» (san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 34); la norma morale obbliga tutti e sempre; non deve essere considerata «come un ideale che deve poi essere adattato» alle concrete possibilità dell’uomo (Idem, Veritatis Splendor, 103). Non è graduale l’obbligo di fare il bene, ma è graduale la capacità di farlo.

Per evocare la distinzione tra la verità oggettiva della vita cristiana secondo il vangelo e la responsabilità soggettiva delle persone, san Giovanni Paolo II ha coniato una suggestiva immagine che ha ripetuto varie volte a partire dal discorso tenuto a Kinshasa il 3 maggio 1980. Il Papa era solito raccomandare ai pastori della Chiesa di non abbassare la montagna, ma aiutare i credenti a salirla con il loro passo. Da parte loro, i fedeli non devono rinunciare a salire verso la vetta; devono sinceramente cercare il bene e la volontà di Dio. Solo all’interno di questo atteggiamento fondamentale si può sviluppare un cammino positivo di conversione e di crescita, nonostante che i singoli passi siano brevi e a volte perfino devianti. «È richiesta una conversione continua, permanente, che, pur esigendo l’interiore distacco da ogni male e l’adesione al bene nella sua pienezza, si attua però concretamente in passi che conducono sempre oltre» (Idem, Familiaris Consortio, 9).

Papa Francesco usa un tono diverso, più appassionato, ma in sostanza procede sulla stessa linea. «Senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura, bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 44).

Nella prospettiva della legge della gradualità si comprende come ci possa essere una coscienza buona e retta anche in presenza di una situazione oggettiva di peccato, di un comportamento gravemente erroneo e disordinato. Ci può essere chi ignora semplicemente che un certo comportamento è male; chi sa che teoricamente è un male ma personalmente non lo ritiene tale; chi pur riconoscendolo come male non è abbastanza libero per evitarlo. Solo Dio vede il cuore delle persone e giudica direttamente la loro responsabilità morale. La Chiesa può soltanto fare un discernimento, in quanto l’atteggiamento interiore si manifesta, sia pure in modo parziale, attraverso le parole, le azioni, le abitudini, gli stili di vita. Il suo primo compito è quello di insegnare la verità oggettiva, valida per tutti, e in base a essa regolare la vita cristiana, personale e comunitaria. Quanto ai singoli fedeli, ha il dovere di accompagnarli pazientemente al bene che è possibile a essi, illuminando le loro situazioni di vita, urgendo il perseverante cammino di conversione e di crescita, rispettando la libertà delle coscienze, affidando la fragilità umana alla misericordia infinita di Dio.

Le unioni illegittime dei divorziati risposati e dei conviventi sono fatti pubblici e manifesti. La Chiesa le disapprova come situazioni oggettive di peccato. Se le approvasse quasi fossero il bene che al momento è possibile per essi, devierebbe dalla legge della gradualità alla gradualità della legge, condannata da san Giovanni Paolo II.

Ciò che è male non può diventare il bene attualmente possibile. Il rubare di meno non diventa mai lecito neppure per chi era abituato a rubare molto; il bestemmiare raramente non diventa mai lecito neppure per chi era abituato a bestemmiare spesso. Così neppure un’unione coniugale illegittima può essere resa moralmente buona dalle condizioni previste dai sostenitori dell’Eucaristia ai divorziati risposati (situazione irreversibile, adempimento dei precedenti obblighi, matrimonio civile, compimento di un itinerario penitenziale per espiare l’infedeltà al primo matrimonio, autentici valori umani vissuti nella seconda unione).

Poiché le unioni illegittime sono fatti pubblici e manifesti, la Chiesa non può neppure trincerarsi nel silenzio e nella tolleranza. È costretta a intervenire per disapprovare apertamente tali situazioni oggettive di peccato.

Tuttavia è possibile che i conviventi soggettivamente non siano pienamente responsabili, a motivo dei condizionamenti esistenziali e culturali, psichici e sociali. È possibile perfino che siano in grazia di Dio e abbiano le disposizioni interiori necessarie per ricevere l’Eucaristia. Tutto questo però non si può presumere; deve essere verificato con un attento discernimento secondo la legge della gradualità. Bisogna discernere se i conviventi sono davvero decisi a salire verso la vetta della montagna, che per essi è la perfetta continenza sessuale. Solo se c’è questo impegno sincero di conversione, eventuali passi falsi, eventuali ricadute nei rapporti sessuali possono comportare una responsabilità attenuata. Il necessario aiuto per la difficile salita può venire dall’accompagnamento personalizzato e dalla partecipazione concreta alla vita della Chiesa secondo le indicazioni di Familiaris Consortio e Sacramentum Caritatis, integrate prossimamente dalle future Conclusioni del Sinodo e dall’insegnamento di Papa Francesco.

La legge della gradualità è preziosa per l’accompagnamento personalizzato delle singole persone. Non è possibile ricavare da essa criteri generali per ammettere all’Eucaristia quelli che vivono in situazioni irregolari, a meno che non si faccia confusione con la inaccettabile gradualità della legge. Altro infatti è discernere la responsabilità soggettiva e altro individuare il bene oggettivo possibile alle singole persone. Altro è impegnare le persone a superare progressivamente la loro situazione irregolare, tendendo seriamente alla continenza perfetta, e altro è orientarli a rimanere nella unione illegittima, indicando a quali condizioni possa diventare il bene a essi possibile. La legge della gradualità serve a discernere le coscienze, non a classificare come più o meno buone le azioni da compiere e tantomeno a elevare il male alla dignità di bene imperfetto.

Riguardo ai divorziati risposati e ai conviventi, lungi dal favorire le proposte innovative, serve in definitiva a confermare la prassi pastorale tradizionale.

La responsabilità soggettiva degli eventuali atti disordinati è più o meno attenuata solo in coloro che tendono seriamente alla piena continenza e si impegnano a vivere ‘come fratello e sorella’, sebbene a volte, non potendo per necessità interrompere la convivenza e trovandosi nell’occasione prossima di peccato, vengano meno al loro impegno.

L’atteggiamento abituale, necessario per attenuare la responsabilità personale, è sostanzialmente lo stesso che, secondo San Giovanni Paolo II, consente di ricevere la riconciliazione sacramentale e la comunione eucaristica. “La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi” (Familiaris Consortio, 84).









Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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