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VIAGGIO APOSTOLICO IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY (5-13 LUGLIO 2015)

Ultimo Aggiornamento: 13/07/2015 17:01
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13/07/2015 16:17
 
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VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

(5-13 LUGLIO 2015)

VISITA AL SANTUARIO DELLA DIVINA MISERICORDIA DI GUAYAQUIL

SALUTO DEL SANTO PADRE

Ecuador
Lunedì
, 6 luglio 2015

[Multimedia]



 

Buongiorno! Vi invito a recitare insieme l’Ave Maria…

Adesso vado a celebrare la messa e porto tutti voi nel cuore! Chiederò per ciascuno di voi, dirò al Signore: ‘Tu conosci il nome di quelli che stavano lì’. Chiederò a Gesù, per ciascuno di voi, tanta misericordia: che vi ricopra con la sua misericordia, che abbia cura di voi. E alla Vergine che sia sempre accanto a voi. (al vostro fianco).

E ora, prima di andare, perché sono di passaggio – per la Messa mi dice il Signor Arcivescovo che il tempo corre, vi do la benedizione, ma … no, non vi chiederò nulla … però vi chiedo per favore di pregare per me. Me lo promettete?

Vi benedica Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo. Grazie per la testimonianza cristiana.




VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

(5-13 LUGLIO 2015)

SANTA MESSA 
PER LE FAMIGLIE

OMELIA DEL SANTO PADRE

Parque de los Samanes, Guayaquil (Ecuador)
Lunedì, 6 luglio 2015

[Multimedia]



 

Il brano del Vangelo che abbiamo ora ascoltato (Gv 2,1-11) rappresenta il primo segno prodigioso che si realizza nella narrazione del Vangelo di Giovanni. La preoccupazione di Maria, divenuta supplica a Gesù: “Non hanno più vino” – Gli dice –, e il riferimento a “l’ora” si comprenderanno dopo, nei racconti della Passione.

Ed è bene che sia così, perché questo ci permette di scorgere l’ansia di Gesù di insegnare, accompagnare, guarire e rallegrare a partire da quell’appello di sua madre: “Non hanno più vino”.

Le nozze di Cana si rinnovano in ogni generazione, in ogni famiglia, in ognuno di noi e nei nostri sforzi perché il nostro cuore riesca a trovare stabilità in amori duraturi, in amori fecondi, in amori gioiosi. Facciamo spazio a Maria, “la madre”, come afferma l’Evangelista. E facciamo ora insieme a lei l’itinerario di Cana.

Maria è attenta, è attenta in quelle nozze già iniziate, è sollecita verso le necessità degli sposi. Non si isola in sé stessa, centrata nel proprio mondo, al contrario, l’amore la fa “essere verso” gli altri. Nemmeno cerca le amiche per commentando quello che sta succedendo e criticare la cattiva preparazione delle nozze. E perché sta attenta, con la sua discrezione, si rende conto che manca il vino. Il vino è segno di gioia, di amore, di abbondanza. Quanti adolescenti e giovani percepiscono che nelle loro case ormai da tempo non c’è più di quel vino! Quante donne sole e rattristate si domandano quando l’amore se n’è andato, quando l’amore è colato via dalla loro vita! Quanti anziani si sentono lasciati fuori dalle feste delle loro famiglie, abbandonati in un angolo e ormai senza il nutrimento dell’amore quotidiano dei loro figli, dei loro nipoti, pronipoti! La mancanza di quel vino può essere anche la conseguenza della mancanza di lavoro, delle malattie, delle situazioni problematiche che le nostre famiglie in tutto il mondo attraversano. Maria non è una madre che “pretende”, nemmeno è una suocera che vigila per divertirsi delle nostre inesperienze, dei nostri errori o delle disattenzioni. Maria, semplicemente, è madre! È presente, attenta e premurosa. E’ bello ascoltare questo: Maria è Madre. Provate a dirlo tutti insieme con me? Forza: Maria è Madre! Ancora: Maria è Madre! Ancora: Maria è Madre! 

Maria però, in quel momento in cui si accorge che manca il vino, si rivolge con fiducia a Gesù. Questo significa che Maria prega. Non va dal maggiordomo, ma presenta direttamente la difficoltà degli sposi a suo Figlio. La risposta che riceve sembra scoraggiante: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora».(v. 4). Ma intanto lei ha posto il problema nelle mani di Dio. La sua premura per le necessità degli altri anticipa “l’ora” di Dio. E Maria è parte di quell’ora, dal presepe fino alla croce. Lei, che seppe «trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286), e ci ricevette come figli quando una spada le trafiggeva il cuore. Ella ci insegna a porre le nostre famiglie nelle mani di Dio; ci insegna a pregare, alimentando la speranza che ci indica che le nostre preoccupazioni sono anche preoccupazioni di Dio.

E pregare ci fa sempre uscire dal recinto delle nostre preoccupazioni, ci fa andare oltre quello che ci fa soffrire, quello che ci agita o che ci manca, e ci aiuta a metterci nei panni degli altri. La famiglia è una scuola dove il pregare ci ricorda anche che c’è un “noi”, che esiste un prossimo vicino, evidente, che vive sotto lo stesso tetto, che condivide con noi la vita e ha delle necessità.

E, alla fine, Maria agisce. Le parole: “Fate quello che vi dirà” (v. 5), rivolte a quelli che servivano, sono un invito rivolto anche a noi, a metterci a disposizione di Gesù, che è venuto per servire e non per essere servito. Il servizio è il criterio del vero amore. Chi ama serve, si mette al servizio degli altri. E questo si impara specialmente nella famiglia, dove ci facciamo per amore servitori gli uni degli altri. In seno alla famiglia, nessuno è escluso, tutti valgono lo stesso. Mi ricordo che una volta chiesero a mia mamma quale dei suoi cinque figli – perché noi siamo cinque fratelli – quale dei suoi cinque figli amava di più. E lei disse [mostra la mano]: “Come le dita, se mi pungono questo mi fa male lo stesso come se mi pungono questo”. Una madre ama i suoi figli come sono. E in una famiglia i fratelli si amano come sono. Nessuno è scartato.

Lì nella famiglia «si impara a chiedere permesso senza prepotenza, a dire “grazie” come espressione di sentito apprezzamento per le cose che riceviamo, a dominare l’aggressività o l’avidità, e lì si impara anche a chiedere scusa quando facciamo qualcosa di male, quando litighiamo. Perché in ogni famiglia ci sono litigi. Il problema è dopo, chiedere perdono. Questi piccoli gesti di sincera cortesia aiutano a costruire una cultura della vita condivisa e del rispetto per quanto ci circonda» (Enc. Laudato si’, 213). La famiglia è l’ospedale più vicino: quando uno è malato lo curano lì, finché si può. La famiglia è la prima scuola dei bambini, è il punto di riferimento imprescindibile per i giovani, è il miglior asilo gli anziani. La famiglia costituisce la grande ricchezza sociale, che altre istituzioni non possono sostituire, che dev’essere aiutata e potenziata, per non perdere mai il giusto senso dei servizi che la società presta ai suoi cittadini. In effetti, questi servizi che la società presta ai suoi cittadini non sono una forma di elemosina, ma un autentico “debito sociale” nei confronti dell’istituzione familiare, che è la base e che tanto apporta al bene comune.

La famiglia forma anche una piccola Chiesa, la chiamiamo “Chiesa domestica”, che, oltre a dare la vita, trasmette la tenerezza e la misericordia divina. Nella famiglia la fede si mescola al latte materno: sperimentando l’amore dei genitori si sente più vicino l’amore di Dio.

E nella famiglia – di questo siamo tutti testimoni – i miracoli si fanno con quello che c’è, con quello che siamo, con quello che uno ha a disposizione; e molte volte non è l’ideale, non è quello che sogniamo e neppure quello che “dovrebbe essere”. C’è un particolare che ci deve far pensare: il vino nuovo, quel vino così buono come dice il maestro di tavola alle nozze di Cana, nasce dalle giare della purificazione, vale a dire, dal luogo dove tutti avevano lasciato il loro peccato; nasce dal peggio: «dove abbondò il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). In ciascuna delle nostre famiglie e nella famiglia comune che formiamo tutti, nulla si scarta, niente è inutile. Poco prima di cominciare l’Anno Giubilare della Misericordia, la Chiesa celebrerà il Sinodo Ordinario dedicato alle famiglie, per maturare un vero discernimento spirituale e trovare soluzioni e aiuti concreti alle molte difficoltà e importanti sfide che la famiglia oggi deve affrontare. Vi invito ad intensificare le vostre preghiere per questa intenzione, perché persino quello che a noi sembra impuro – come l’acqua delle giare –, che ci scandalizza o ci spaventa, Dio – facendolo passare attraverso la sua “ora” – lo possa trasformare in miracolo. La famiglia oggi ha bisogno di questo miracolo.

Tutta questa storia ebbe inizio perché “non avevano più vino”, e tutto si è potuto compiere perché una donna – la Vergine – è stata attenta, ha saputo porre nelle mani di Dio le sue preoccupazioni, ed ha agito saggiamente e con coraggio. Però c’è un particolare, non è da meno il dato finale: hanno gustato il vino migliore. E questa è la buona notizia: il vino migliore è quello che sta per essere bevuto, la realtà più amabile, la più profonda e la più bella per la famiglia deve ancora arrivare. Viene il tempo in cui gustiamo l’amore quotidiano, in cui i nostri figli riscoprono lo spazio che condividiamo e gli anziani sono presenti nella letizia di ogni giorno. Il vino migliore è ‘in speranza’, sta per venire per ogni persona che accetta il rischio di amare. E nella famiglia bisogna correre il rischio dell’amore, bisogna arrischiarsi ad amare. E il migliore dei vini sta per venire, anche se tutte le possibili variabili e le statistiche dicessero il contrario. Il vino migliore sta per venire per quelli che oggi vedono crollare tutto. Sussurratevelo fino a crederci: il vino migliore sta per arrivare. Sussurratevelo ciascuno nel suo cuore: il vino migliore sta per venire. E sussurratelo ai disperati e a quelli con poco amore: abbiate pazienza, abbiate speranza, fate come Maria, pregate, agite, aprite il cuore, perché il migliore dei vini sta per venire. Dio si avvicina sempre alle periferie di coloro che sono rimasti senza vino, di quelli che hanno da bere solo lo scoraggiamento; Gesù ha una preferenza per versare il migliore dei vini a quelli che per una ragione o per l’altra ormai sentono di avere rotto tutte le anfore.

Come ci invita a fare Maria, facciamo “quello che Dio ci dice” (cfr Gv 2,5). Fate quello che Lui vi dice. E siamo grati perché in questo nostro tempo e in questa nostra ora, il vino nuovo, il migliore, ci fa recuperare la gioia della famiglia, la gioia di vivere in famiglia. Così sia.


 

Che Dio vi benedica, vi accompagni. Prego per la famiglia di ognuno di voi, e voi fate lo stesso come fece Maria. E, per favore, vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. Arrivederci!




VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

(5-13 LUGLIO 2015)

VISITA ALLA CATTEDRALE DI QUITO

SALUTO DEL SANTO PADRE 
ALLE PERSONE RIUNITE NELLA PIAZZA DELLA CATTEDRALE

Ecuador
Lunedì
, 6 luglio 2015

[Multimedia]



 

Discorso preparato dal Santo Padre

Cari fratelli,

Vengo a Quito come pellegrino, per condividere con voi la gioia di evangelizzare. Sono partito dal Vaticano salutando l’immagine di santa Marianna di Gesù, che dall’abside della Basilica di San Pietro veglia sul cammino che il Papa tante volte compie. Ad essa ho raccomandato anche i frutti di questo viaggio, chiedendole che tutti noi possiamo imparare dal suo esempio. Il suo sacrificio e la sua eroica virtù si rappresentano con un giglio. Tuttavia, nella statua dietro la Basilica di San Pietro viene ritratta con un intero mazzo di fiori, perché presenta al Signore, nel cuore della Chiesa, insieme al suo, i fiori di tutti voi, quelli di tutto l’Equador.

I santi ci invitano a imitarli, a porsi alla loro scuola, come hanno fatto santa Narcisa di Gesù e la beata Mercedes di Gesù Molina, interpellate dall’esempio di santa Marianna. A quanti oggi sono qui e soffrono o hanno sofferto come orfani, a coloro che, pur essendo ancora piccoli, hanno dovuto badare ai fratelli, a quanti si impegnano ogni giorno nel curare gli ammalati o gli anziani, dico che così fece santa Marianna e così la imitarono Narcisa e Mercedes. Non è difficile se Dio è con noi. Esse non hanno compiuto cose eccezionali agli occhi del mondo. Solo hanno amato molto e lo hanno dimostrato nel quotidiano fino a toccare la carne sofferente di Cristo nel popolo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 24). E non l’hanno fatto da sole, ma insieme ad altri.

Per costruire questa cattedrale, i lavori di trasporto, di intaglio e di muratura sono stati fatti secondo le nostre usanze, quelle dei popoli autoctoni; un lavoro di tutti a favore della comunità, un lavoro anonimo, senza cartelli pubblicitari né applausi. Voglia Dio che, come le pietre di questa cattedrale, anche noi ci poniamo sulle spalle le necessità degli altri, aiutando a edificare o restaurare la vita di tanti fratelli che non hanno forze per costruirla o l’hanno vista crollare.

Oggi sono qui con voi, che mi donate il giubilo dei vostri cuori: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie» (Is 52,7). E’ la bellezza che siamo chiamati a diffondere, come buon profumo di Cristo: la nostra preghiera, le nostre buone opere, il nostro sacrificio per i più bisognosi. È la gioia di evangelizzare, e voi «sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).

Dio vi benedica!


Parole pronunciate dal Santo Padre dopo la visita alla Cattedrale di Quito:

Do la mia benedizione a ognuno di voi, alle vostre famiglie, a tutte le persone care e a questo grande e nobile popolo ecuadoriano, perché non ci siano differenze, non ci sia esclusione, non ci siano persone scartate, tutti siano fratelli, tutti vengano inclusi, e nessuno resti fuori da questa grande nazione ecuadoriana. A ognuno di voi, alle vostre famiglie, do la benedizione.

Ma prima recitiamo insieme l’Ave Maria.

[Ave Maria]

Che la benedizione di Dio Onnipotente, del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.

E vi chiedo per favore di pregare per me. Buona notte e a domani.




VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

(5-13 LUGLIO 2015)

SANTA MESSA PER L'EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI

OMELIA DEL SANTO PADRE

Parque Bicentenario, Quito (Ecuador)
Martedì, 7 luglio 2015

[Multimedia]



 

La parola di Dio ci invita a vivere l’unità perché il mondo creda.

Immagino quel sussurro di Gesù nell’ultima cena come un grido, in questa Messa che celebriamo nella Piazza del Bicentenario. Immaginiamoli insieme. il Bicentenario di quel grido di indipendenza dell’America Ispanofona. Quello è stato un grido nato dalla coscienza della mancanza di libertà, di essere spremuti e saccheggiati, «soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 213).

Vorrei che oggi queste due grida concordassero nel segno della bella sfida dell’evangelizzazione. Non con parole altisonanti, o termini complicati, ma una concordia che nasca “dalla gioia del Vangelo”, che «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento» (ibid., 1), dalla coscienza isolata. Noi qui riuniti, tutti insieme alla mensa con Gesù, diventiamo un grido, un clamorenato dalla convinzione che la sua presenza ci spinge verso l’unità e «segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (ibid., 14).

Padre, che siano una cosa sola perché il mondo creda” (cfr Gv 17,21): così Gesù manifestò il suo desiderio guardando il cielo. Nel cuore di Gesù sorge questa domanda in un contesto di invio: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo» (Gv 17,18). In quel momento, il Signore sta sperimentando nella propria carne il peggio di questo mondo, che ama comunque alla follia: intrighi, sfiducia, tradimento, però non si nasconde, non si lamenta. Anche noi constatiamo quotidianamente che viviamo in un mondo lacerato dalle guerre e dalla violenza. Sarebbe superficiale ritenere che la divisione e l’odio riguardano soltanto le tensioni tra i Paesi o i gruppi sociali. In realtà, sono manifestazioni di quel “diffuso individualismo” che ci separa e ci pone l’uno contro l’altro (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 99), frutto della ferita del peccato nel cuore delle persone, le cui conseguenze si riversano anche sulla società e su tutto il creato. Proprio a questo mondo che ci sfida, con i suoi egoismi, Gesù ci invia, e la nostra risposta non è fare finta di niente, sostenere che non abbiamo mezzi o che la realtà ci supera. La nostra risposta riecheggia il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito dell’unità.

A quel grido di libertà che proruppe poco più di 200 anni fa non mancò né convinzione né forza, ma la storia ci dice che fu decisivo solo quando lasciò da parte i personalismi, l’aspirazione ad un’unica autorità, la mancanza di comprensione per altri processi di liberazione con caratteristiche diverse, ma non per questo antagoniste.

E l’evangelizzazione può essere veicolo di unità di aspirazioni, di sensibilità, di sogni e persino di certe utopie. Certamente lo può essere e questo noi crediamo e gridiamo. Già ho avuto modo di dire: «Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci a portare i pesi gli uni degli altri» (ibid., 67). L’anelito all’unità suppone la dolce e confortante gioia di evangelizzare, la convinzione di avere un bene immenso da comunicare, e che, comunicandolo, si radica; e qualsiasi persona che abbia vissuto questa esperienza acquisisce una sensibilità più elevata nei confronti delle necessità altrui (cfr ibid., 9). Da qui, la necessità di lottare per l’inclusione a tutti i livelli, lottare per l’inclusione a tutti i livelli!, evitando egoismi, promuovendo la comunicazione e il dialogo, incentivando la collaborazione. «Bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze … Affidarsi all’altro è qualcosa di artigianale, la pace è artigianale» (ibid., 244). E’ impensabile che risplenda l’unità se la mondanità spirituale ci fa stare in guerra tra di noi, alla sterile ricerca di potere, prestigio, piacere o sicurezza economica. E questo sulle spalle dei più poveri, dei più esclusi, dei più indifesi, di quelli che non perdono la loro dignità a dispetto del fatto che la colpiscono tutti i giorni.

Questa unità è già un’azione missionaria “perché il mondo creda”. L’evangelizzazione non consiste nel fare proselitismo – il proselitismo è una caricatura dell’evangelizzazione – ma nell’attrarre con la nostra testimonianza i lontani, nell’avvicinarsi umilmente a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla Chiesa, avvicinarsi a quelli che si sentono giudicati e condannati a priori da quelli che si sentono perfetti e puri. Avvicinarci a quelli che hanno paura o agli indifferenti per dire loro: «Il Signore chiama anche te ad essere parte del suo popolo e lo fa con grande rispetto e amore» (ibid., 113). Perché il nostro Dio ci rispetta persino nella nostra bassezza e nel nostro peccato. Questa chiamata del Signore con che umiltà e con che rispetto lo descrive il testo dell’Apocalisse: Vedi? Sto alla porta e chiamo; se vuoi aprire…; non forza, non fa saltare la serratura, semplicemente suona il campanello, bussa dolcemente e aspetta. Questo è il nostro Dio!

La missione della Chiesa, come sacramento di salvezza, è coerente con la sua identità di Popolo in cammino, con la vocazione di incorporare nel suo sviluppo tutte le nazioni della terra.

Quanto più intensa è la comunione tra di noi, tanto più sarà favorita la missione (cfr Giovanni Paolo II, Pastores gregis, 22) Porre la Chiesa in stato di missione ci chiede di ricreare la comunione, dunque non si tratta solo di un’azione verso l’esterno; noi siamo missionari anche verso l’interno e verso l’esterno manifestandoci come si manifesta «una madre che va incontro, una casa accogliente, una scuola permanente di comunione missionaria» (Documento di Aparecida, 370).

Questo sogno di Gesù è possibile perché ci ha consacrato: «per loro io consacro me stesso – dice -, perché anch’essi siano consacrati nella verità» (Gv 17,19). La vita spirituale dell’evangelizzatore nasce da questa verità così profonda, che non si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo – una spiritualità piuttosto diffusa -; Gesù ci consacra per suscitare un incontro con Lui, da persona a persona, un incontro che alimenta l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione evangelizzatrice (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 78).

L’intimità di Dio, per noi incomprensibile, ci si rivela con immagini che ci parlano di comunione, comunicazione, donazione, amore. Per questo l’unione che chiede Gesù non è uniformità ma la «multiforme armonia che attrae» (ibid., 117). L’immensa ricchezza del diverso, il molteplice che raggiunge l’unità ogni volta che facciamo memoria di quel Giovedì santo, ci allontana da tentazioni di proposte integraliste, più simili a dittature, ideologie o settarismi. La proposta di Gesù è concreta, non è un’idea, è concreta: “Va’ e fa’ lo stesso”, dice a quell’uomo che gli chiede: “Chi è il mio prossimo?”, dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano: “Va’ e fa’ lo stesso”.

La proposta di Gesù non è neppure un aggiustamento fatto a nostra misura, nel quale siamo noi a porre le condizioni, scegliamo le parti in causa ed escludiamo gli altri. Una religiosità di élite… Gesù prega perché formiamo parte di una grande famiglia, nella quale Dio è nostro Padre e tutti noi siamo fratelli. Nessuno è escluso, e questo non trova il suo fondamento nell’avere gli medesimi gusti, le stesse preoccupazioni, gli talenti. Siamo fratelli perché, per amore, Dio ci ha creato e ci ha destinati, per pura sua iniziativa, ad essere suoi figli (cfr Ef 1,5). Siamo fratelli perché «Dio ha infuso nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio, che grida: Abbà!, Padre!» (Gal 4,6). Siamo fratelli perché, giustificati dal sangue di Cristo Gesù (cfr Rm 5,9), siamo passati dalla morte alla vita diventando «coeredi» della promessa (cfr Gal 3,26-29; Rm 8,17). Questa è la salvezza che Dio compie e che la Chiesa annuncia con gioia: fare parte di un “noi” che porta fino al “noi” divino.

Il nostro grido, in questo luogo che ricorda quel primo grido di libertà, attualizza quello di san Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16). E’ tanto urgente e pressante come quello che manifestava il desiderio di indipendenza. Ha un fascino simile, ha lo stesso fuoco che attrae. Fratelli, abbiate i sentimenti di Gesù! Siate una testimonianza di comunione fraterna che diventa risplendente!

E che bello sarebbe che tutti potessero ammirare come noi ci prendiamo cura gli uni degli altri, come ci diamo mutuamente conforto e come ci accompagniamo! Il dono di sé è quello che stabilisce la relazione interpersonale che non si genera dando  “cose”, ma dando sé stessi. In qualsiasi donazione si offre la propria persona. “Darsi” significa lasciare agire in sé stessi tutta la potenza dell’amore che è lo Spirito di Dio e in tal modo aprirsi alla sua forza creatrice. E darsi anche nei momenti più difficili, come in quel Giovedì Santo di Gesù in cui Lui sapeva come si tessevano i tradimenti e gli intrighi, ma si donò, si donò, si donò a noi con il suo progetto di salvezza. L’uomo donandosi si incontra nuovamente con sé stesso, con la sua vera identità di figlio di Dio, somigliante al Padre e, in comunione con Lui, datore di vita, fratello di Gesù, del quale rende testimonianza. Questo significa evangelizzare, questa è la nostra rivoluzione – perché la nostra fede è sempre rivoluzionaria – questo è il nostro più profondo e costante grido.


Parole pronunciate a braccio alla fine della Messa

Cari fratelli,

vi ringrazio per questa celebrazione, questo esserci riuniti intorno all’altare del Signore, che ci chiede che siamo uno, che siamo veramente fratelli, che la Chiesa sia una casa di fratelli. Che Dio vi benedica. E vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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