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La falsa teologia dell'uomo di oggi

Ultimo Aggiornamento: 22/04/2017 16:13
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17/07/2015 18:02
 
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Verso il Sinodo, c'è chi confonde i fedeli
di mons. Antonio Livi  5-07-2015


Il grave disorientamento che la discussione pubblica sui temi all'ordine del giorno del Sinodo sulla famiglia ha provocato, rende necessario suggerire criteri certi di autentico discernimento teologico. Il Sinodo, che si è svolto in forma straordinaria dal 5 al 19 ottobre 2014 e si riaprirà in sessione ordinaria il 4 ottobre prossimo, è stato convocato da papa Francesco con l’intenzione di consultare l’episcopato mondiale sul modo migliore di applicare alla situazione attuale delle famiglie le linee pastorali da lui stesso indicate nell’Evangelii gaudium
Sinodo sulla famiglia


In questa sua esortazione apostolica il Papa non distingue mai la pastorale dall’evangelizzazione, e nemmeno separa mai la dottrina dogmatica da quella morale. Eppure, come già detto, la discussione pubblica sui temi all’ordine del giorno nel Sinodo sulla famiglia sta provocando visibilmente un pernicioso disorientamento tra i fedeli cattolici, i quali non possono non avvertire la pressione che da molte parti – anche da parte di alcuni autorevoli padri sinodali - viene esercitata pubblicamente sul Santo Padre perché giunga a decretare, alla fine dei lavori, una nuova prassi pastorale della Chiesa nei confronti di quei battezzati che, dopo aver contratto un regolare matrimonio canonico, si sono separati dal coniuge, hanno fatto ricorso al divorzio civile e poi hanno istituito, con un coniuge diverso da quello legittimo,  una convivenza more uxorio (non importa se riconosciuta come matrimonio dalle leggi dello Stato, perché il matrimonio civile tra battezzati è  canonicamente nullo).

Chi si trova in questa condizione è stato sempre considerato dalla Chiesa come persona in stato di permanente e notorio peccato grave, ragione per cui non può, in base ai decreti del Concilio di Trento e alle vigenti leggi canoniche, essere ammesso alla comunione eucaristica, a meno che non ottenga prima l’assoluzione sacramentale (condizione della quale è il pentimento efficace, ossia l’abbandono dello stato di permanente e notorio peccato grave). La nuova prassi pastorale che molti (a cominciare del cardinale Walter Kasper) propongono in nome della “misericordia” comporterebbe qualche inedita forma di riconoscimento ecclesiastico delle cosiddette “seconde nozze” (ossia, in realtà, del concubinato) e di conseguenza l’ammissione dei cosiddetti “divorziati risposati” (terminologia equivoca e teologicamente inammissibile) all’Eucaristia. 

Analoghe proposte riguardano la pubblica “accoglienza”, da parte della Chiesa, delle coppie di omosessuali, “accoglienza” che viene ritenuta necessaria oggi, non solo in nome della “misericordia” ma anche e soprattutto in nome dei “valori autentici” che la Chiesa dovrebbe essere in grado di riconoscere alle “convivenze di fatto”, anche a quelle basate  sui rapporti sessuali contro natura. Più o meno esplicitamente, si argomenta a favore del “rispetto” per le condotte omosessuali facendo riferimento alla necessità che la Chiesa non si estranei dall’evoluzione del costume sociale, visto che oggi, per lo strapotere mediatico e legislativo della “lobby gay”, esse ricevono ogni tipo di tutela giuridica da parte dello Stato, almeno nei Paesi occidentali, ivi compresi quelli di secolare tradizione cattolica.

Se appare auspicabile un intervento di qualificati Pastori e teologi su questa problematica, è perché tutti coloro che hanno a cuore la fede del Popolo di Dio - soprattutto se  a ciò sono tenuti per diretta missione canonica -  hanno il dovere di aiutare i fedeli a valutare criticamente i messaggi che continuamente inondano i media riguardo a quanto è stato ed è oggetto dei lavori del Sinodo. Tra questi messaggi, infatti, non mancano quelli che, pur essendo presentati come meri adattamenti “pastorali” alla mutata situazione sociologica, propongono il realtà un radicale cambiamento della dottrina dogmatica e morale della Chiesa, in particolare per quanto riguarda i sacramenti del Battesimo, della Penitenza, del Matrimonio e dell’Eucaristia. 

Un intervento del genere è dunque necessario per far comprendere a tutti che il rifiuto di tali proposte non è dettato da pregiudizi ideologici o da prese di posizione conservatrici, ma solo dalla doverosa difesa di quegli elementi essenziali del dogma e della morale cattolica che l’azione pastorale non può mai obliterare ma deve invece riproporre sempre efficacemente affinché il Popolo di Dio li comprenda, li ami e li viva in ogni tempo e in ogni luogo.  Occorre quindi un intervento ispirato all’autentica “parresia” apostolica, rilevando con tutta la necessaria chiarezza – che non implica alcuna mancanza di rispetto o di carità nei confronti delle persone che stanno proponendo delle riforme assolutamente  inammissibili – che il radicale cambiamento che taluni propongono riguarda direttamente quei principi fondamentali della fede cristiana che il magistero della Chiesa ha in vario modo definito autorevolmente, approvando anche la loro adeguata formalizzazione scientifica al livello della più accreditata teologia dogmatica, morale e pastorale. 

Trattandosi dunque dei principi fondamentali della fede cristiana, ogni cristiano ha il diritto e il dovere di esaminare responsabilmente tali proposte di cambiamento, per verificare  criticamente, ossia con adeguati criteri di ragione e di fede, se si tratta davvero di “applicazioni” o “adattamenti” che possano servire oggi a comprendere e a vivere più coerentemente il Vangelo da parte di ogni componente del Popolo di Dio, o se non si tratta invece di mutamenti sostanziali e quindi, all’atto pratico, di diretta negazione della verità che Dio ha rivelato e la Chiesa custodisce fedelmente e interpreta infallibilmente.

L’atteggiamento critico di fronte alle proposte di cambiamento cui qui ci si riferisce non deve essere stigmatizzato a priori come se derivasse sempre e comunque da posizioni ideologiche inclini al conservatorismo e ostili al progresso, oppure da indebiti attaccamenti a prassi ecclesiastiche o ad abitudini tradizionali dei fedeli cattolici in qualche parte del mondo. Ciò potrebbe accadere, e sarebbe giustamente da biasimare, se si trattasse di resistenza ai cambiamenti che l’autorità ecclesiastica ritiene di dover introdurre nella dottrina e nella prassi della Chiesa, come già in passato è avvenuto e come in particolare è avvenuto ai nostri giorni con il Concilio Ecumenico Vaticano II. 

Ma se invece si tratta di vagliare la liceità e l’opportunità di cambiamenti proposti da laici (ad esempio, tra gli italiani, Enzo Bianchi e Alberto Melloni), o da ecclesiastici che si esprimono su queste materie in qualità di teologi e non come rappresentanti del Magistero (ad esempio il cardinale Walter Kasper, che tuttavia ha preteso di rappresentare le intenzioni e il criterio di papa Francesco), allora l’atteggiamento critico non può in alcun modo essere censurato come mancanza di docilità agli insegnamenti e alle decisioni del Romano Pontefice. Papa Francesco, infatti, ha indetto il Sinodo per consultare l’episcopato mondiale e giungere poi, eventualmente, a un pronunciamento dottrinale autorevole, che si può prevedere possa essere promulgato nella forma ormai tradizionale (in quanto adottata da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) dell’esortazione apostolica post-sinodale. 

Solo allora, quando si potrà dire “Roma locuta, quaestio finita”, tutti i fedeli avranno l’obbligo di recepire docilmente e con gratitudine le novità eventualmente introdotte nella dottrina e nella prassi della Chiesa: novità che certamente non toccheranno quelli che prima ho chiamato “i principi fondamentali della fede cristiana”. Insomma, esercitare questa vigilanza critica nei confronti di taluni abusi dottrinali non è mettersi in antitesi con il Papa ma proprio il contrario: è sostenerlo in quelle che sono le sue intenzioni, come i documenti del Sinodo straordinario hanno fatto comprendere e l’esito finale del Sinodo ordinario certamente confermerà.

(primo articolo di una serie)



Teologia
 

Quanti hanno la responsabilità, per dovere di ufficio ecclesiastico, di evitare il disorientamento dottrinale tra i fedeli, devono saper rifiutare ogni opinione che abusivamente si presenti come teologica, quando in realtà è meramente umana. Come la categoria tanto di moda dell'«uomo d'oggi».

di mons. Antonio Livi

In un primo articolo (clicca qui) abbiamo fotografato la situazione di disorientamento di tanti fedeli riguardo alle conclusioni del Sinodo straordinario sulla famiglia e in preparazione al prossimo Sinodo ordinario che si terrà in ottobre. Si tratta di un disorientamento causato soprattutto da chi cerca di approfittare dell’occasione per imporre cambiamenti dottrinali mascherati da aggiustamenti dottrinali. 

Si tratta di una situazione che richiede una serie di distinzioni teoretiche e pratiche che vanno però riportate ai criteri della logica aletica, ossia a quelle esigenze fondamentali della razionalità che vigono per ogni ordine di discorsi che abbiano la pretesa della verità. Sono esigenze che non si possono trascurare quando si tratta della verità della dottrina professata dalla Chiesa (fides quae creditur), alla quale deve assentire in toto chiunque voglia appartenere alla Chiesa, Popolo di Dio, e ottenere da Cristo la salvezza. 

La razionalità è infatti intrinseca al messaggio rivelato, in quanto comunicazione salvifica della stessa sapienza divina; e se “l’uditore della Parola” è chiamato a una libera risposta di fede (“rationabile obsequium”),  è proprio perché gli è sempre possibile rilevare nel messaggio rivelato degli adeguati “motivi razionali di credibilità”.

La Chiesa cattolica ha sempre difeso, contro il fideismo, il carattere intrinsecamente razionale della fede nella rivelazione: prima, solennemente, con la costituzione dogmatica Dei Filius del Vaticano I, poi con il suo magistero ordinario e universale (costituzione dogmatica Dei Verbum del Vaticano II, enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II); e va notato che tutti questi documenti del Magistero riconoscono, con perfetta coerenza logica, che  i “motivi razionali di credibilità” della divina rivelazione presuppongono quelle certezze indubitabili che ogni uomo possiede come premessa di ogni possibile assenso, certezze che la filosofia moderna chiama “senso comune” e che la teologia, con san Tommaso d’Aquino, qualifica come “praeambula fidei”.

In rapporto alla questione che sto affrontando, il primo ed essenziale criterio logico è la distinzione, in materia de fide et moribus, tra: (a) ciò che può e deve essere creduto fermamente e irrevocabilmente in quanto proposto dalla Chiesa come rivelato da Dio, e (b) ciò che invece può essere solamente ammesso in via ipotetica, come opinione umana, in quanto mera tesi teologica.

La teologia è infatti essenzialmente “interpretazione privata del dogma”, e come tale non introduce nella dottrina cattolica nuove verità da credere, non aumenta “in estensione” la fede della Chiesa, anche se mira ad arricchirla “in profondità”. Ora, una tesi teologica risulta più o meno plausibile, può cioè essere ammessa dai credenti solo se consiste in un’ipotesi di interpretazione del dogma, ossia se viene argomentata a partire da dati di fede. Invece, va sempre respinta come inammissibile qualsiasi tesi teologica che a un’attenta analisi (per la quale sono utili i criteri di discernimento qui proposti) risulti argomentata a partire da premesse di scienza meramente umana. Di conseguenza, è lecito, anzi doveroso verificare le premesse logiche di ogni tesi teologica proposta all’opinione pubblica cattolica come un approfondimento o un’applicazione delle verità che costituiscono il depositum fidei. 

Quanti hanno la responsabilità, per dovere di ufficio ecclesiastico, di evitare il disorientamento dottrinale tra i fedeli devono saper rifiutare ogni opinione che abusivamente si presenti come teologica, quando in realtà è meramente umana. Non si tratta quindi di criticare un’opinione umana a partire da un’altra opinione umana, né si tratta di contrapporre a un’ideologia un’altra ideologia: si tratta piuttosto della necessità pastorale di non riconoscere come “teologica” una tesi che, quale che sia l’autorità scientifica (filosofica, esegetica, sociologica, psicologica, storiografica) di chi la propone, risulti basata su presunte verità umane e non sulle verità rivelate da Dio.  

Un caso frequente di presunte verità umane che servono da premesse di false argomentazioni teologiche miranti a cambiare la dottrina della fede è la categoria immaginaria del cosiddetto “uomo di oggi”, categoria basata su superficiali analisi psicologiche o socioculturali che ignorano le sostanziali differenze tra la cultura occidentale e quella orientale o africana, e identifica ingenuamente l’uomo di oggi con le manifestazioni esteriori della coscienza umana quali sono elaborate dall’industria dei media. Le congetture circa ciò che dovrebbero essere le aspettative e le pretese del cosiddetto “uomo di oggi” non possono portare il teologo a ignorare quello che ha detto Cristo stesso, redentore dell’uomo, stabilendo i principi morali fondamentali sulla sessualità e sul matrimonio, principi che la Chiesa non può che considerare come assolutamente validi per gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.

Il secondo criterio logico è la distinzione che occorre sempre fare, in materia de fide et moribus, tra: (a) gli enunciati che costituiscono il “dogma”, da intendersi come l’essenza della verità rivelata, che resta immutabile anche nei suoi sviluppi omogenei, e (b) gli enunciati che costituiscono invece una possibile “interpretazione” del dogma stesso che l’autorità ecclesiastica ha fatto propria, inserendola in un testo del Magistero. 

La distinzione comporta due diversi livelli di irriformabilità degli enunciati dogmatici e di immutabilità delle prescrizioni morali, ma non comporta diversi livelli di obbligatorietà nell’assenso dei fedeli; essa è comunque necessaria proprio perché il discernimento dei due diversi livelli epistemici consente di percepire l’unità e la continuità della Tradizione anche nel contesto storico dei continui mutamenti che si verificano nella vita della Chiesa. 

Infatti, le verità che costituiscono gli “articuli fidei” in senso stretto, come oggetto primario di quell’atto di fede divina ed ecclesiastica che è necessario per appartenere alla Chiesa e avere la promessa della salvezza e la vita eterna, sono sempre insegnate esplicitamente dal Magistero come tali, tanto da essere tradizionalmente inserite come “simboli della fede” nella celebrazione eucaristica e provocare così il Popolo di Dio alla “professione di fede” comunitaria. Queste verità fondamentali (che io, per chiarezza logica, preferisco chiamare “nucleo dogmatico” della dottrina della fede) esprimono il contenuto esplicito e la formalizzazione magisteriale della Sacra Tradizione e della Sacra Scrittura, che formano un tutt’uno dal punto di vista epistemico, giacché è la Tradizione ecclesiastica che consegna ai fedeli la Sacra Scrittura, ne garantisce l’autenticità come Parola di Dio (con le note dell’ispirazione divina e dell’inerranza) e all’occorrenza ne interpreta autorevolmente il contenuto. 

(secondo articolo di una serie, il primo è stato pubblicato il 5 luglio, clicca qui)









 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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