È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!

A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

La falsa teologia dell'uomo di oggi

Ultimo Aggiornamento: 22/04/2017 16:13
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
31/10/2015 12:27
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


Note di commento, di Paolo Pasqualucci

Queste “note” riguardano solo alcuni punti dell’articolo di Garrigou-Lagrange.
1. La necessaria aggiunta nel titolo.
La frase “elle revient au modernisme”, di cui al titolo dell’articolo, non si trova nel titolo originale ma nel testo, ove il concetto che essa esprime è ribadito più volte. L’ho aggiunta al titolo al fine di render subito chiaro il contenuto dell’articolo.
2. La nuova traduzione italiana dell’importante libro di Garrigou-Lagrange sul “senso comune”.
Ricordo che l’opera sua propria citata dall’autore alla nota n. 2, ossia “Le Sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques”, è stata di nuovo tradotta in italiano nellaBiblioteca di Sensus communis, n. 10, fondata e diretta da mons. Antonio Livi: Réginald Garrigou-Lagrange, Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, Nuova edizione italiana a cura di Antonio Livi e Mario Padovano, Casa Editrice Leonardo Da Vinci, Roma, 2013, pp. 296, € 23,00. Si tratta di un testo importante, essenziale per coloro che vogliono partecipare con cognizione di causa alla lotta in corso per la difesa del dogma della fede. Nella Nota editoriale del volume, mons. Livi sottolinea opportunamente quanto segue: “Il dogma – sostiene giustamente l’autore di questo trattato – è una formulazione della verità rivelata che implica la verità del senso comune (perché la rivelazione divina si rivolge all’intelletto di ogni uomo) e allo stesso tempo adopera necessariamente le categorie concettuali della metafisica. Di conseguenza, l’unica ermeneutica corretta delle “formule dogmatiche” è quella che non adotta schemi concettuali incompatibili con il senso comune, quali sono – e qui Garrigou-Lagrange si limita a indicare quei sistemi filosofici che ai suoi tempi inficiavano la riflessione teologica e mettevano a rischio l’ortodossia – l’agnosticismo kantiano, l’idealismo hegeliano, il pragmatismo e l’intuizionismo bergsoniano” (op. cit., pp. 7-9; p. 8; vedi anche, più estesamente, il Saggio introduttivo di Mario Padovano, ivi, pp. 11-23). A quei “sistemi”, dobbiamo oggi aggiungere le variegate e sempre più deteriori forme dello scientismo contemporaneo e dell’esistenzialismo, promotrici di un risorgente e sempre più aggressivo ateismo.
3. L’errore del falso ecumenismo appare già diffuso negli scritti anonimi dei neomodernisti degli anni Trenta del XX secolo.
L’articolo dell’illustre teologo prende in esame il fenomeno, al tempo evidentemente diffuso, deiciclostilati anonimi che venivano divulgati ad arte tra il clero, fin nei seminari, per diffondervi dubbi e tesi eterodosse di ogni tipo, propalate in tono più accorto nei lavori a stampa dei vari Bouillard, de Lubac, Teilhard de Chardin. Era la vecchia e consolidata tecnica di infiltrazione dei modernisti, di qualche decennio prima: stroncati da san Pio X, stavano rialzando la testa. Ma di chi potevano essere i ciclostilati in questione? Uno dei maggiori indiziati era Teilhard de Chardin, facilmente riconoscibile per il carattere peculiare delle sue “visioni” sul “Cristo cosmico”, diffuse da alcuni di quei ciclostilati. Riconducibili in parte, quelle visioni, al “pancristismo” di Blondel, cioè al Cristo eone cosmico che, con l’Incarnazione, avrebbe già salvato tutti senza bisogno di conversione alla Chiesa cattolica. L’errore pazzesco del “Cristo cosmico” sembra anche preludere alla falsa dottrina rahneriana dei “cristiani anonimi”: se il Cristo, incarnandosi, ha per ciò stesso già salvato tutti, allora si può dire che nasciamo tutti “cristiani” senza saperlo. Questo singolare errore, che annullava la distinzione tra natura e Grazia (tra il Sovrannaturale e la natura), rendendo superflua l’esistenza stessa della Chiesa visibile e gerarchica, ora anzi ostacolo da abbattere, faceva strame, oltre che del Nuovo Testamento e dell’insegnamento della Chiesa, anche del senso comune dal momento che attribuiva la salvezza a priori all’intero genere umano, a prescindere (quale assurdità!) dal libero arbitrio, dall’intenzione, dalla volontà e dalla condotta di ciascuno. In tal modo, il Cattolicesimo diventava una cosa poco seria: non più l’austera e grandiosa religione del vero Dio, Uno e Trino, che ci concede la salvezza e la vita eterna dopo averci messo alla prova nella lotta quotidiana contro noi stessi e aver sorretto con la Grazia il nostro intelletto e la nostra volontà in questa terribile lotta, ma una religiosità-pappa-del-cuore, incline perciò ad ogni latitudinarismo e sentimentalismo, ad ogni sorta di falsa misericordia, alla democrazia universale e ai “diritti umani”, alla realizzazione in qualche modo di una sorta di regno di Dio in terra, con la partecipazione di tutte le religioni.
Altri indiziati degli scritti anonimi dovevano ritenersi lo stesso de Lubac e comunque tutti coloro che propalavano dottrine errate sul significato dei Sacramenti, diffuse in particolare nel Movimento Liturgico tra le due guerre. Nelle esternazioni anonime di Teilhard de Chardin compare dunque il principio del falso ecumenismo professato oggi dalla Gerarchia cattolica, a partire dalpastorale Vaticano II ossia dall’indirizzo “pastorale” imposto al Concilio dal “buon Papa Giovanni”, elevato da poco alla gloria degli altari non si sa con quali criteri, visto che né risulta una sua particolare santità di vita né che si possa attribuirgli alcun miracolo, per tacere del ruolo nient’affatto positivo da lui svolto nella fase iniziale del Vaticano II, in quanto supremo defensor fidei. Il principio del falso ecumenismo risulta nella frase dell’anonimo che recita: “Una convergenza generale delle religioni verso un Cristo universale, che, al fondo, le soddisfa tutte; tale mi sembra essere la sola conversione possibile per il Mondo e la sola forma immaginabile di una Religione dell’avvenire”. Era l’aspirazione esaltata dei modernisti ad una Chiesa cattolica che, senza più convertire nessuno, si identificasse per l’appunto con l’umanità e si dissolvesse in essa e nella democrazia universale, ad esser qui riproposta.
Teilhard de Chardin innestò l’evoluzionismo darwiniano sul pancristismo di Blondel: da qui le demenziali sue esternazioni sull’umanità in marcia unitaria verso il “punto omega” di una cosiddetta “noosfera”, rappresentato il punto dal “Cristo cosmico”. L’attuale Gerarchia postconciliare usa un linguaggio meno esplicito, in questo senso, ma l’utopia (non cattolica) di un’unità del genere umano da realizzarsi all’insegna del cosiddetto “Cristo universale”, pur vi compare, anche se in una forma linguistica che rinvia alle utopie millenaristiche del passato. Ciò già risulta dalla Allocutio ‘Gaudet Mater Ecclesia’, con la quale Roncalli inaugurò il Concilio, l’11 ottobre 1962. Proponendosi di realizzare l’unità tra i cristiani, non esitò egli a dire, il Concilio “quasi prepara e consolida la via verso quell’unità del genere umano, che si richiede quale necessario fondamento, perché la Città terrestre si compongaa somiglianza di quella celeste” (AAS, 54, 1962, pp. 786-795; p. 793-794. Corsivi miei. Si veda anche l’art. 1 della costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa.). Il Vaticano II sarebbe stato la Nuova Pentecoste che avrebbe aggiornato la missione della Chiesa, indirizzandola, invece che alla conversione delle anime, alla realizzazione dell’unità del genere umano, nella pace e nella fratellanza universali!
4. Il pensiero di san Tommaso sistematicamente deformato dai neomodernisti. 
Colpiscono le ripetute deformazioni del pensiero di san Tommaso da parte di questi neomodernisti, colte implacabilmente da Garrigou-Lagrange. È difficile dire se si trattasse di ignoranza o malafede. In ogni caso il loro pregiudizio verso la Scolastica e Aristotele appare tipico di chi non vuol capire perché animato dall’odio inguaribile dell’eretico per la verità rivelata e (conseguentemente) per la metafisica basata sulla recta ratio e il senso comune, donatici dal Creatore affinché potessimo, tra le altre cose, comprendere le verità da Lui rivelate, per quanto possibile al nostro intelletto sorretto dalla Grazia.
Come preannunciato, elenco  qui la traduzione dei passi tomistici riportati da Garrigou-Lagrange alla nota n. 8, nei quali si distingue nettamente tra fine naturale e sovrannaturale delle creature. Ia, q. 23, a. 1: “Il fine al quale le cose create sono ordinate da Dio è duplice. Il primo eccede la proporzione della natura creata e le sue facoltà: questo fine è la vita eterna, che consiste nella visione divina; cosa al di là della natura di qualsiasi creatura, come si è detto sopra Ia, q. 12, a.4. L’altro fine, invece, è proporzionato alla natura creata, nel senso che la cosa creata può realizzarlo secondo le capacità [sec. virtutem] della sua natura”. Del pari: Ia IIae, q. 62, a. 1: “Esiste infatti una doppia beatitudine o felicità nell’uomo, come si è già detto, q. 3, a. 2 ad 4; q. 5., a. 5.  Una proporzionata alla natura umana, alla quale cioè l’uomo può pervenire seguendo i principi della sua natura. L’altra, è quella che eccede la natura umana”. Ed infine: de Veritate, q. 14, a. 2: “Infatti il bene ultimo dell’uomo è duplice. Uno è proporzionato alla natura…si tratta della felicità della quale hanno parlato i filosofi…L’altro è un bene che eccede la proporzione della natura umana”.
Assurda appare poi l’accusa (vedi supra, nota n. 7 ) mossa da Bouillard a san Tommaso di non servirsi della “causalità reciproca” quando spiega il concetto della giustificazione, causalità della quale si era invece sempre servito nelle opere precedenti.  Il termine “causalità reciproca” può apparire oscuro.  Ma, come spiega Garrigou-Lagrange nella stessa nota, essa indica le quattro forme interconnesse (reciproche) della causalità, messe in rilievo da Aristotele (vedi nota di commento n. 7, cit).
5. Il falso concetto di verità dei neomodernisti, derivato dalla “filosofia dell’azione” di Blondel.
 È evidente come i neomodernisti traessero ispirazione dalla “filosofia dell’azione” di Blondel, la cui condanna, pur firmata dal cardinale Merry Del Val, restò confinata a fonti di secondaria importanza. Non posso qui dilungarmi sulla filosofia dell’azione di Blondel. Mi corre tuttavia l’obbligo di sottolineare la superficialità e la vaghezza del concetto di verità proposto da quel filosofo. Egli accusa il tradizionale concetto aritostelico-tomistico della “adaequatio rei et intellectus” di essere “chimerico”. Non “chimerico” ed invece “realistico” sarebbe, al contrario, quello da lui proposto: “adaequatio realis mentis et vitae”. Ora, se c’è un concetto esemplarmente “chimerico” nella sua ondivaga vaghezza è proprio quello di “vita”. Che vuol dire? Ci si può far rientrare di tutto. La “vita” sarebbe poi soprattutto “azione”, per Blondel. Ma “azione”, come? Come comportamento razionale secondo princìpi morali che trascendono l’azione stessa, rispondente ai canoni della causalità, del principio di contraddizione e di ragion sufficiente, o come “slancio vitale” che produce il proprio principio ispiratore per il fatto stesso del suo “slancio” e quindi sulla base del sentimento, del cuore, dell’indeterminato accavallarsi delle passioni e degli impulsi? La “filosofia dell’azione”, in quanto fondata sulla categoria della “vita”, sul “vitalismo”, appare del tutto irrazionale. Rimanda alla “filosofia della vita” di pensatori come Schleiermacher, al tendere indeterminato e narcisistico dei Romantici verso l’indefinibile Assoluto. In Germania, tra fine Ottocento ed inizio Novecento, fu articolata in particolare da pensatori come Wilhelm Dilthey, che costruì il concetto dello spirito come “vita” nel senso di “esperienza vissuta” (Erlebnis) dalla coscienza individuale, da interpretarsi sempre storicamente e quindi secondo lo spirito del proprio tempo, la temporalità nella quale il soggetto si trova sempre immerso. Da ciò un concetto storicistico di verità, sempre condizionata dal proprio tempo, le esigenze del quale si riflettono nell’esperienza vissuta, nella “vita” appunto. Tale concezione risulta chiaramente incompatibile con l’idea stessa di una verità rivelata da Dio, in quanto tale immutabile, perché le verità religiose e morali che essa annunzia (per esempio, l’indissolubilità del matrimonio) non possono per definizione esser sottoposte alla temporalità, ossia al giudizio che ne possa dare, nel tempo storico determinato, la mutevole coscienza dell’esperienza vissuta dal soggetto.

Si può dire che, storicamente, le filosofie della “vita”, dello “slancio vitale”, dell’azione abbiano rappresentato una reazione inevitabile contro i dogmi angusti e superficiali del positivismodominante a fine Ottocento, con il suo scientismo, il suo materialismo, il suo determinismo, la sua irreligiosità, la sua generalizzata aridità spirituale. Tuttavia, al di là di un’azione di rottura, cosa offrivano esse di costruttivo, soprattutto per il cattolico? Nulla, a ben vedere. Non rifiutavano il mito positivista del progresso, lo rinverdivano in una spiritualità confusa, narcisistica e sincretistica, incompatibile con il vero spirito religioso. Inoltre, contribuivano ad inquinare la giusta concezione della verità, sia metafisica che religiosa, dissolvendo l’una e l’altra nell’irrazionale dello “slancio vitale” fine a se stesso e quindi nel soggettivismo del sentimento, ivi incluso il “sentimento religioso”, in nome di una spiritualità fasulla che azzerava tutte le religioni, riducendole a mere istanze del sentimento individuale della “vita”.

Va ribadito, invece, ad ulteriore sostegno degli ottimi argomenti di Garrigou-Lagrange, che il concetto del vero come “adaequatio “ o “concordantia rei et intellectus” ha un valore universale, immutabile, paradigmatico. Nella scienza, esso resta fondamentale. Albert Einstein non ha avuto il premio Nobel per la sua teoria della relatività ma per la sua teoria (all’epoca rivoluzionaria) sulla trasmissione della luce in pacchetti di energia o “fotoni”, presenti nel treno d’onde elettromagnetiche che pur costituisce il raggio di luce. E questo, perché? Perché la sua ipotesi sull’esistenza dei fotoni è stata sperimentalmente comprovata mentre la teoria della relatività è rimasta una teoria, per quanto geniale e stimolante anche per chi non la condivida. È mancata per quest’ultima la conferma sperimentale ossia “la concordanza tra l’intelletto [l’ipotesi] e la cosa [qui la realtà esteriore, in una sua determinata configurazione]”.

Noi applichiamo questo concetto del vero (nel quale la res, quale essa sia, rappresenta una realtà oggettivamente diversa dal pensiero che la indaga e della quale esso deve dimostrare l’effettiva natura) nella vita di tutti i giorni, nella nostra filosofia pratica, nelle previsioni contenute nei giudizi con i quali ci conduciamo nei negozi quotidiani, verificate o meno queste previsioni dal loro avverarsi o meno secondo lo schema causale adoperato dal nostro intelletto: “se A, allora B”. Secondo uno schema causale che considera sempre e la causa efficiente (chi l’ha fatto questo, cosal’ha prodotto) e quella finale (perché, a qual fine). Non secondo un’idea indeterminata di “vita”, cioè di realtà in continuo e magmatico progresso, posseduta da un movimento che l’intelletto sia sempre costretto a rincorrere, registrandone magari a caso ciò che via via vi appare, come se costituisse l’unico vero da esso conoscibile. E questo falso concetto di verità, che rende il nostro intelletto del tutto passivo di fronte alla cosiddetta “vita”, dominata dalle forze dell’azione, comprese le più oscure, si dovrebbe applicare anche alle verità di origine sovrannaturale della nostra religione!

Ma valga il vero: la concezione evolutiva della verità, che la concepisce come un riflesso della “vita” in (supposta) perenne evoluzione, comporta per logica conseguenza il rifiuto di accettare il carattere immutabile del dogma e quindi, a ben vedere (magari anche senza rendersene conto) il dogma in quanto tale, dato che per quella concezione l’esistenza del dogma non impedisce affatto la ricerca costante del soggetto verso una “verità ulteriore”, che contenga “nuovi significati” e pertanto la possibilità di continue rettifiche. Si è visto che la dodicesima delle proposizioni della filosofia dell’azione condannate, recitava: “Anche se possiede la fede, l’uomo non deve adagiarsi nei dogmi della religione, e aderirvi in modo fisso ed immobile, ma darsi sempre pena di progredire ad una verità ulteriore, sia facendo evolvere verso nuovi significati sia correggendo ciò in cui crede”. Ora, i modernisti affermavano in genere la loro fede nei dogmi insegnati dalla Chiesa e tuttavia li volevano mantenere aperti alla possibilità di “nuovi significati”, da esplorare con il contributo del pensiero moderno, forte delle sue metodologie scientifiche. Ma un dogma che ammetta, da parte di teologi e fedeli, la ricerca continua di una “verità ulteriore” rispetto a quella da esso proclamata,non è più un dogma. I modernisti non sembravano rendersi conto dell’intima contraddizione nella quale erano caduti, irrisolvibile per chi aveva fatto causa comune con il soggettivismo e l’immanentismo del pensiero moderno, nemico del principio di identità e non-contraddizione. Essi si trovavano anche disarmati di fronte all’empirismo brutalmente positivista della scienza moderna, che dovevano subire acriticamente, rifugiandosi nell’irrazionale (si pensi alla popolarità che godeva presso di loro quella torbida manifestazione della “vita” rappresentata dalla teosofia).

Oggi, AD 2015, l’errato concetto di verità come semplice adattamento alla “vita” e quindi ai costumi del Secolo miscredente, anche i peggiori, viene professato dalla parte deviata della Gerarchia cattolica (non si saprebbe quale altro aggettivo attribuirle) in modo solo in apparenza differente. Infatti, non si parla di adottare nuovi concetti o di ricavare “verità ulteriori” dai dogmi; anzi, si proclama l’intangibilità della dottrina. Tuttavia, si invoca l’applicazione di una pastorale che la contraddice apertamente, come è evidente nel caso clamoroso della recente proposta di amministrare la S. Comunione ai divorziati risposatisi, cioè a fedeli viventi consapevolamente ed apertamente in una situazione di peccato mortale e di pubblico scandalo, in spregio al Vangelo e agli insegnamenti del Magistero, situazione dalla quale non intendono uscire e che vogliono anzi veder riconosciuta proprio mediante atti quali la somministrazione della Comunione. Concedere la Comunione a costoro vorrebbe dire disconoscere nei fatti l’indissolubilità del matrimonio, stabilita ipsis verbis da Nostro Signore Gesù Cristo, legittimare il tradimento e l’adulterio, violare la dottrina cattolica sul Sacramento della Comunione, che prescrive l’aver ricevuto l’assoluzione dei propri peccati nella confessione auricolare, prima di accostarsi all’Ostia consacrata, se non si vuol commettere sacrilegio. Ora, invocare una pastorale che contraddice apertamente la dottrina della fede, che altro è se non proporre una nuova dottrina, svincolata dal dogma e ad esso contraria? Lanuova dottrina è già nell’infame proposta! E questa nuova dottrina che altro è se non una “perversione della nozione dell’eterna verità”, come spiegava san Pio X a proposito dei modernisti da lui giustamente condannati e cacciati dalla Chiesa?
6. Il tentativo di eliminare il concetto di “causa formale” dalla definizione del dogma della giustificazione.
Si è visto che Bouillard dichiarava apertamente nel 1944 potersi ed anzi doversi sostituire la nozione aristotelico-tomistica di “causa formale”, impiegata dal Concilio di Trento nella definizione del dogma della giustificazione (sess. 6, capp. 6, 7 e can. 10).
“Forse per il fatto stesso – scriveva – dell’impiego di questo termine, il Concilio di Trento ha conferito un carattere definitivo alla nozione di grazia come forma [à la notion de grâce-forme]?” In nessun modo, rispondeva. E perché? Perché “non era certamente intenzione del Concilio canonizzare una nozione aristotelica e nemmeno una nozione teologica concepita sotto l’influenza di Aristotele. Esso voleva solamente affermare, contro i protestanti, che la giustificazione è un rinnovamento interiore [mentre per gli eretici essa resta esteriore, dipendendo solamente dalla nostra fede nei meriti della Croce, senza che ad essa consegua il nostro rinnovamento interiore, ritenendo erroneamente Lutero esser l’uomo irrimediabilmente corrotto dal peccato originale]”. Perciò il Concilio di Trento, continuava il Nostro, si era limitato ad “utilizzare nozioni comuni alla teologia del tempo. Ma ad esse se ne possono sostituire delle altre, senza modificare il senso dell’insegnamento del Concilio”.

Dunque, l’uso di nuovi concetti (che sono sempre quelli del “proprio tempo”, come percepito nell’esperienza “vitale” del soggetto) non modificherebbe il senso dell’insegnamento e quindi non inciderebbe sul dogma. Si tratterebbe di cambiare la forma senza incidere sul contenuto, ilrivestimento esteriore non la sostanza della dottrina, per esprimermi nel posteriore linguaggio della roncalliana Allocutio, sopra ricordata (essa propugna anche quest’ulteriore e pericoloso, non cattolico principio, come tutti sanno). Bouillard riteneva evidentemente possibile trovare dei nuovi concetti teologici, svincolati dalla metafisica classica, che non modificassero il senso dell’insegnamento.

La concezione di Bouillard implicava chiaramente una concezione evolutiva della verità, da applicarsi al dogma. Perché proponeva il cambiamento di concetti? Perché – questo era il suo principio generale – ogni definizione dogmatica si esprime sempre secondo concetti del proprio tempo: ne consegue, allora, che il Concilio di Trento ha usato la categoria aristotelica in questionesolo perché era corrente al suo tempo, non perché volesse dare un “carattere definitivo” alla sua definizione. Ma far intendere una cosa del genere, non è come dire – osservo – che non esiste un concetto di verità che sia indipendente dalle necessità e dalle idee dominanti al proprio tempo e quindi che possa esser definito in modo da acquistare un “carattere definitivo”? E se non può mai acquistare tale carattere, allora la verità è perpetuamente in evoluzione. Dovremmo poi ritenere che anche i Padri di Trento fossero convinti del fatto che il concetto del vero è sempre figlio delle necessità del proprio tempo e quindi non può acquisire mai un carattere “definitivo”, dal momento che essi hanno usato della categoria aristotelica solo perché era ancora in voga a quell’epoca? Sembrerebbe di sì, dalle parole di Bouillard.

Ma attribuir loro, anche implicitamente, un’intenzione simile è palesemente assurdo, come ognuno può ben capire. E difatti Garrigou-Lagrange ha buon gioco nel replicare che il Tridentino non si preoccupava di canonizzare concetti aristotelici in quanto tali. Invece, esso approvò l’impiego di quel concetto (della “causa formale”) “come una nozione umana stabile, nel senso nel quale noi tutti [senza saper nulla di Aristotele] indichiamo ciò che costituisce formalmente una cosa: qui, lagiustificazione. In questo senso il Tridentino parla della grazia santificante [che è la causa formale della giustificazione] distinta dalla grazia attuale, specificando che essa è un dono sovrannaturale, infuso, che inerisce all’anima e per il quale l’uomo è formalmente giustificato [cioè considerato alla fine giusto da Dio e accolto nel Suo Regno: DS, 1529,1560]”. Se i Concili, prosegue Garrigou-Lagrange “definiscono la fede, la speranza, la carità come delle virtù permanenti, il loro principio radicale (la grazia abituale o santificante) deve anch’esso esser inteso come un dono infuso permanente e pertanto distinto dalla grazia attuale [che è temporanea] o da un influsso [motion] divino transitorio”.




  continua..........







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 10:45. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com