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La falsa teologia dell'uomo di oggi

Ultimo Aggiornamento: 22/04/2017 16:13
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25/11/2016 15:16
 
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Valorizzare l'adulterio citando (male) san Tommaso

di Luisella Scrosati11-04-2016

San Tommaso d Aquino


Secondo i contestatori, le posizioni espresse in tali documenti – come per altro quelle chiaramente insegnate da Veritatis Splendor – rappresenterebbero una visione troppo legalista della vita cristiana, che non terrebbe conto della complessità delle situazioni né della misericordia. Analoghe osservazioni le abbiamo udite a più riprese dalle parole del cardinal Kasper, il quale si appellava ad una visione più ampia, più attenta alle situazioni concrete delle persone, più misericordiosa, e in tale contesto il cardinale tedesco ritornava ad indicare nel principio di epicheia la strada da percorrere. Si tratta di considerazioni attraenti, perché ciascuno di noi sente di condividere profondamente una prospettiva che non pone l’uomo per la legge, ma la legge per l’uomo. Nello stesso tempo però bisogna uscire dalla dinamica propria degli slogan e vedere come effettivamente stiano le cose. 

Il documento del 1994 della Congregazione della Dottrina della Fede che stabilisce che «la struttura dell'Esortazione [Familiaris Consortio § 84, relativamente all’impossibilità dell’ammissione all’Eucaristia dei divorziati-risposati che vivono more uxorio, n.d.a.]  e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni», non può essere derubricato facilmente ad opinione né può essere con leggerezza bollato come un’interpretazione legalista e farisaica della morale.

In Amoris Laetitia, specialmente nel capitolo ottavo (Accompagnare, discernere e integrare la fragilità), sembrano riecheggiare le stesse argomentazioni del cardinal Kasper del 20 febbraio 2014. In particolare vale la pena soffermarsi sull’utilizzo problematico del principio di epicheia. Prendiamo il § 304: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano». Quindi il Papa prega di rileggere una considerazione di San Tommaso (Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4.), che richiama indirettamente l’epicheia, poi ripresa dal Papa in questi termini: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione». 

Ma cos’è la tanto invocata epicheia? Essa è una virtù che permette di vivere secondo il bene indicato e protetto dalla legge, laddove questa risulti difettosa a motivo della sua universalità. La legge è infatti per definizione universale: essa punta al bene comune, senza poter tener presente tutta la casistica immaginabile. Possono perciò presentarsi situazioni non previste dal legislatore, nelle quali, per mantenersi fedeli alla mensdella legge (che è il bene), sia necessario agire contrariamente alla sua lettera.

San Tommaso stesso fa un esempio semplice, ma molto chiaro: «La legge stabilisce che la roba lasciata in deposito venga restituita, poiché ciò è giusto nella maggior parte dei casi; capita però talvolta che sia nocivo: p. es., se chi richiede la spada è un pazzo furioso fuori di sé, oppure se uno la richiede per combattere contro la patria» (Summa Theologiae, II-II, q. 120, a. 1). È chiaro: per conseguire il bene comune promosso dalla legge, in questo caso si deve necessariamente contravvenire alla sua applicazione letterale. San Tommaso esplicita: «se nasce un caso in cui l’osservanza della legge è dannosa al bene comune, allora essa non va osservata» (Summa Theologiae, I-II, q. 96, a. 6). 

Da quanto detto, seppur necessariamente in breve, risulta chiaro che l’epicheia: 

1. non è un’eccezione alla legge, né la tolleranza di un male, né un compromesso: essa è invece principio di una scelta oggettivamente buona ed è la perfezione della giustizia; 

2. è una virtù che entra in gioco solo quando l’applicazione della lettera della legge fosse nociva al bene oggettivo e non quando l’osservanza della legge risultasse in alcuni casi difficoltosa o esigente; 

3. riguarda solo il caso concreto, che, a motivo dell’universalità della legge, non è stato possibile prevedere nella norma e non può perciò derogare ad altri casi particolari già previsti dal legislatore. 

4. ultimo e più importante: vi sono norme morali - chiamate assoluti morali - che per la loro propria natura non ammettono eccezioni di sorta; si tratta cioè di norme la cui trasgressione letterale non può mai raggiungere il fine della legge stessa, cioè il bene, e per questo motivo non può mai essere ammessa. In questi casi il principio di epicheia non avrebbe senso, perché nella trasgressione della lettera della legge verrebbe inscindibilmente trasgredito anche il bene morale. Si tratta di quegli atti che la tradizione morale della Chiesa definisce intrinsece malum: «Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti “irrimediabilmente” cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: “Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) — scrive sant'Agostino —, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?”» (Veritatis Splendor, § 81).

È piuttosto singolare che nel testo dell’Esortazione si richiami solo questo articolo di San Tommaso, omettendo altri passi in cui l’Aquinate spiega bene l’esistenza degli assoluti morali e dell’impossibilità, in questo ambito, di ricorrere al principio di epicheia. Nel Commento alla Lettera ai Romani (c. 13, l. 2), per esempio, Tommaso si chiede per quale motivo San Paolo, in Rm. 13, 9, riporti solo i precetti negativi della seconda tavola della legge mosaica, quella relativa ai precetti verso il prossimo, omettendo però il comandamento “onora il padre e la madre”, e risponde: «Perché i precetti negativi sono più universali quanto alle situazioni… perché i precetti negativi obbligano semper ad semper (sempre e in ogni circostanza). In nessuna circostanza infatti si deve rubare o commettere adulterio. I precetti affermativi invece obbligano semper, ma non ad semper, ma a seconda del luogo e della circostanza». Nella stessa Summa Theologiae, poco oltre l’articolo citato nell’Esortazione, Tommaso spiega perché riguardo agli assoluti morali non si può ricorrere all’epicheia: «La dispensa di una legge è doverosa quando capita un caso particolare in cui l’osservanza letterale verrebbe a contrastare con l’intenzione del legislatore. Ora, l’intenzione di qualsiasi legislatore è ordinata in primo luogo e principalmente al bene comune, e in secondo luogo al buon ordine della giustizia e dell’onestà, nel quale va conservato o perseguito il bene comune. Se quindi si danno dei precetti che implicano la conservazione stessa del bene comune, oppure l’ordine stesso della giustizia e dell’onestà, tali precetti contengono l’intenzione stessa del legislatore: quindi non ammettono dispensa» (Summa Theologiae, I-II, q. 100, a. 8). 

Ancora, in un altro passo, Tommaso spiega che «propriamente l’epicheia corrisponde alla giustizia legale» (Summa Theologiae, II-II, q. 120, a. 2, ad. 1) e non può quindi essere presa in considerazione nell’ambito della legge naturale, essendo sì superiore alla giustizia legale, ma «non è superiore a qualsiasi giustizia» (Ivi, ad. 2).

Occorre fare attenzione anche a tirare in ballo la virtù della prudenza, come se questa fosse una virtù che abilita a trovare eccezioni: «Nel caso dei precetti morali positivi, la prudenza ha sempre il compito di verificarne la pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo conto di altri doveri forse più importanti o urgenti. Ma i precetti morali negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o comportamenti concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima eccezione; essi non lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per la “creatività” di una qualche determinazione contraria. Una volta riconosciuta in concreto la specie morale di un'azione proibita da una regola universale, il solo atto moralmente buono è quello di obbedire alla legge morale e di astenersi dall'azione che essa proibisce» (VS 67). È il principio che ha portato molti al martirio, piuttosto che commettere un male. 

Perché? Perché la prudenza non concretizza la norma universale adattandola ai casi particolari, ma è quella virtù che guida l’azione concreta perché raggiunga il bene che le è proprio. La prudenza, in certo qual modo, “riconosce” nell’azione concreta il bene da conseguire, quel bene che è indicato dalla legge, e quindi lo persegue.

Nel nostro caso, l’atto morale di avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio rientra sempre nella specie morale dell’adulterio o della fornicazione. Non esistono situazioni o circostanze che possano modificarne la specie morale. Come scriveva vent’anni fa il prof. Angel Rodriguez Luño, «non è esatto dire che queste azioni sono in sé cattive indipendentemente dal loro contesto [perché altrimenti, in questo caso, sarebbe legittima l’accusa di astrattismo e legalismo, n.d.a], perché in realtà sono azioni che portano con sé e inseparabilmente un contesto» (Acta Philosophica, 5(1996), fasc. 1, p.72). 

Una relazione di tipo sessuale ha intrinsecamente legata la dimensione donativa e procreativa e dunque essa richiede il contesto matrimoniale. Se si inizia ad ipotizzare che, nella situazione di divorziati-risposati, «molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, “non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli”» (Amoris Laetitia, nota 329), allora si opera un’inversione clamorosa e non si capisce più il senso della legge morale. Se io autorizzo a pensare che in certe situazioni, per un fine buono, l’adulterio perde la sua connotazione malvagia, sto facendo implicitamente questo ragionamento: 1) principio generale: l’atto sessuale è un male; 2) applicazione concreta: il matrimonio è l’unica eccezione riconosciuta in cui l’atto sessuale non sia un male; 3) potrebbero darsi altre situazioni concrete in cui l’atto sessuale non sia un male. 

Invece la posizione corretta è la seguente: 1) l’esercizio della sessualità è un bene che significa intrinsecamente la donazione nuziale; 2) l’esercizio della sessualità in un contesto non matrimoniale contraddice l’intrinseco significato dell’atto; 3) perciò, l’adulterio e la fornicazione sono semper et pro semper intrinsecamente cattive. 

Ecco perché non ha senso invocare l’epicheia e la virtù di prudenza, perché sarebbe come dire che in certi casi, si possa ammettere un po’ di ingiustizia, un po’ di lussuria, etc. Ed ecco perché la strada della ricerca delle eccezioni rivela in realtà un impianto morale di fondo molto legalistico (che paradossalmente è proprio quello che si voleva respingere!) che non parte dall’equazione bene-legge morale, ma da una visione della legge morale come limite. Perciò appare – falsamente - come un atto di misericordia quella di ricercare delle situazioni in cui liberare le persone da una legge morale che sarebbe per loro oppressiva. 

A quanti sono divorziati-risposati e non possono per gravi motivi separarsi, la continenza non è un traguardo lodevole, ma è l’unica modalità per conseguire il proprio bene ed il bene della persona con cui si convive. 




Il padre Calmel e la crisi della Chiesa

Padre Roger-Thomas Calmel(di Cristina Siccardi, 27 marzo 2013)

«Lo spirito cattolico diminuirà rapidamente; la preziosa luce della fede si spegnerà progressivamente fino a quando si giungerà ad una pressoché totale corruzione dei costumi (…). Nel supremo momento del bisogno della Chiesa, coloro che dovranno parlare resteranno in silenzio! (…). Alla fine del XIX secolo e per gran parte del XX, si diffonderanno varie eresie, e, sotto il loro potere, la luce preziosa della fede si spegnerà nelle anime (…)».

Questo disse la Madonna a Madre Mariana de Jesus Torres il 2 febbraio 1634 a Quito (Ecuador), quando la lampada del Tabernacolo si spense, lasciando al buio la cappella del convento dell’Immacolata Concezione (le apparizioni di Quito sono riconosciute dalla Chiesa). Eppure, come Maria Maddalena e san Giovanni sono rimasti sempre accanto a Gesù, così esistono amici stretti di Dio che restano, come guardie fedeli, ferme e incorruttibili, a vigilare il Tabernacolo. Fra questi c’è sicuramente la splendida figura di Padre Roger-Thomas Calmel O.P. (1914-1975), un sacerdote di solida formazione tomista, che ha lasciato un insegnamento straordinario di fermezza nella fede e di vivida comprensione delle problematiche sorte nella Chiesa a causa delle idee dei novatori, che trovarono terreno fertile durante i lavori del Concilio Vaticano II.

Con lucidità e lungimiranza, illuminato da una vita di intensa  preghiera e di grazia, egli seppe spiegare le dinamiche rivoluzionarie che traevano matrice dal liberalismo, atte ad edificare una «Chiesa-miraggio», nel tentativo “ecumenico” di realizzare l’unità religiosa del genere umano, dispensato dal rinunciare al mondo e a Satana (come, invece, Gesù Cristo insegna), e teso a vivere nella libertà e nella fratellanza universale.

Padre Calmel spiegò come in un dato momento della storia della Chiesa, si sia sentito «il bisogno di un rinnovamento biblico, o liturgico, o missionario, o del “laicato”; questo rinnovamento era nell’aria; guardate come la rivoluzione si affermi attraverso l’inganno, la seduzione, la falsificazione; si incomincia mettendo da parte i cristiani tradizionali e vitali che avrebbero fatto fiorire il rinnovamento nella fedeltà alla Tradizione della Chiesa, si dà un posto ai rivoluzionari che vogliono il rinnovamento contro la Tradizione e il Vangelo contro la Chiesa, a poco a poco si insegna al popolo cristiano, terribilmente ingannato, a leggere la Scrittura contro la teologia tradizionale, a celebrare la liturgia contro l’adorazione e la contemplazione, a magnificare il matrimonio contro la verginità consacrata, a esaltare la povertà evangelica contro la proprietà privata, a divenire apostolo dei non credenti, prescindendo dalla fede e dal battesimo; questa deviazione incredibile, quest’arte di confiscare per falsificare è assolutamente connaturata ed essenziale alla rivoluzione» (Père Jean-Dominique Fabre, Le père Roger-Thomas Calmel, Clovis, Suresnes Cedex 2012, p. 314).

Padre Calmel, che non ha tradito ed è rimasto sul Calvario, senza salpare per altre lidi mondanamente più accattivanti (ma proprio per questo deprimenti), riuscì a realizzare disamine filosofiche e teologiche intrise di realismo e di misticismo, puntando lo sguardo anche al futuro: ciò che noi oggi viviamo lui lo profetò. Egli affermò che con il Concilio Vaticano II, senza condannare alcun errore, all’«errore sarà dato libero sfogo» (ivi, p. 318). Egli, «per amore di Gesù», non si fece sospingere dai nuovi venti, ben cosciente che «noi saremo sempre più isolati» (p. 318).

Il suo esempio, la sua coerenza spirituale e intellettuale, in questo tempo di smarrimento e sconcerto religioso ed etico, donano quell’entusiasmo e quel vigore che, inevitabilmente, riconducono a Paolo di Tarso. Nella Breve apologia della Chiesa di sempre (Ichthys, 2007) l’autore, che scrisse anche una magnifica Teologia della Storia (Borla, 1967), ricordò ciò che santa Teresina di Lisieux affermò sul letto dell’agonia: «Vorrei vivere ai tempi dell’anticristo» (p. 153) per poterlo combattere con la verità, quella verità che di giorno in giorno è sempre più soffocata. Grazie a maestri come il domenicano Roger-Thomas Calmel, i cui ragionamenti sono roccia e le cui parole sono rifugio, il Tabernacolo continua ad essere adorato, seppure nelle tenebre. (Cristina Siccardi)

Il Cenacolo, Beato Angelico
 

In preparazione del Convegno internazionale di sabato 22 aprile ("Fare chiarezza - A un anno dalla Amoris Laetitia"), pubblichiamo alcuni articoli che affrontano i punti nodali alla base delle opposte interpretazioni che si danno dell'Amoris Laetitia, soprattutto per ciò che riguarda le situazioni irregolari.

Iniziamo da una prima riflessione sull'Eucarestia, il sacramento maggiormente incompreso e messo in discussione, vedi la possibilità per i divorziati risposati di accedervi.

di padre Riccardo Barile O.P.

«(Voi mariti e mogli) non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera» (1Cor 7,3). A partire da qui, san Gerolamo († 420) - notoriamente un “patito” della verginità e della vedovanza, tanto che i suoi avversari lo accusavano di intrattenere più amicizie femminili che maschili (all’epoca era un’accusa; oggi potrebbe essere un complimento di... non essere quello che in idioma felsineo si definisce un “busone”!) - San Gerolamo, dicevo, a partire da qui prosegue: «Che cosa è più grande: pregare o ricevere il corpo di Cristo? Certamente ricevere il corpo di Cristo. Ma se ciò che è di meno (= pregare) è impedito dall’unione carnale, ciò che è di più (= ricevere il corpo di Cristo) ne sarà molto di più impedito» (Lettera 49,15 A Pammachio; cf anche Contro Gioviniano I,7). 

Mai sostenuta in documenti magisteriali di primaria importanza, l’idea e la conseguente prassi che l’accostarsi all’Eucaristia comportasse al meglio l’astensione dai rapporti coniugali in quel giorno o in un lasso di giorni precedenti, divenne un fiume carsico di notevole consistenza, ribadita anche in un lettera da un pastore mite come san Gregorio Magno († 604). Questo “consiglio” fu “anche” uno dei fattori che nella tarda antichità e nel Medioevo contribuì a diradare la pratica della comunione. Con molta attenuazione e con eleganza secentesca francese, anzi savoiarda, è presente ancora in san Francesco di Sales († 1622), che consiglia a una buona signora (e al di lei marito): «È cosa poco conveniente, benché non sia un grande peccato, chiedere la soddisfazione del debito coniugale nel giorno in cui si è fatta la comunione; ma non è sconveniente, anzi direi che è meritorio, renderlo» (Filotea II,20).

Certo che a leggere questi testi l’impressione è di trovarsi in un mondo e in una Chiesa alla rovescia rispetto alle problematiche attuali: altro che comunione ai divorziati risposati e ai conviventi! Ma di che cosa di trattava? Di Vangelo o di cultura?

Per rispondere è utile un salto al 1847. Giuseppe Verdi a Parigi rincontrò stabilmente la prima interprete femminile del Nabucco, Giuseppina Strepponi, ed iniziò con lei una relazione “coniugale” stabile trasferendosi a Busseto, dove però la coppia fu oggetto di critiche e disapprovazioni, soprattutto per la Strepponi, già madre a seguito di due libere relazioni. Tutto si attenuò un poco quando i due si sposarono il 20 agosto 1859 non a Busseto ma in una cittadina della Savoia. La valutazione negativa e scandalosa da dove nasceva? Dalla mentalità cattolica? Forse in gran parte, ma non totalmente.

Un secolo dopo, nel 1946 Nilde Iotti iniziò una relazione stabile con Palmiro Togliatti, regolarmente sposato e che dunque abbandonò la moglie. Il che non fu ben visto da una parte di quelli che allora contavano nel Partito comunista italiano. Ma non si può presupporre che le riserve partissero dalla fedeltà al Vangelo e alla dottrina della Chiesa: erano chiaramente riserve culturali o morali/culturali.

Pochi anni dopo, il 18 aprile 1963 a Milano nella clinica Mangiagalli nacque Massimiliano, figlio “naturale” di Mina e dell’attore Corrado Pani “sposato”. Qui le reazioni furono diverse: mentre alcuni giornali condannarono non la nascita ma la relazione che l’aveva originata e mentre la televisione di stato diradò la presenza di Mina sul piccolo schermo casalingo, una parte crescente di opinione pubblica dimostrò invece una benevola solidarietà e approvazione non dando rilevanza alla relazione “illecita”, tanto che Mina commenterà più tardi: «La gente non si è lasciata condizionare da questo fatto, l’ha superato». Ciò che non era capitato nei due esempi precedenti.

Oltre a Mina si potrebbero portare tanti altri esempi, comunque più o meno dagli anni ’60 cominciò a imporsi un movimento teso a sdoganare da vincoli morali e sociali il rapporto affettivo tra uomo e donna, lasciandolo esclusivamente alla loro scelta. Oggi questo processo è culminato tracimando da uomo/donna ed estendendosi anche a uomo/uomo, donna/donna, adulto/bambino e financo a uomo/animale.

Prima che un problema morale è un problema di cultura e quindi di percezione. La gente “media” percepisce una differenza più o meno giuridica tra chi è sposato in chiesa o in comune e chi non lo è, ma percepisce sempre meno la valenza morale di questi vincoli. Anche il buon fedele che viene in chiesa, se non è oggetto di una catechesi attenta e aggiornata, rischia di restare culturalmente indifferente a fronte dei diversi tipi di vincolo, che, sia nel linguaggio come nella prassi, sono legittimati senza discriminazioni di sorta. Questa è una novità pastorale che esige una precisa reazione al momento in cui la Chiesa incontra le persone.

Ma torniamo all’Eucaristia, ricordando l’Eucaristia da poco celebrata lo scorso Giovedì Santo, all’inizio del triduo pasquale. Quella Eucaristia ha rimandato più di altre alla memoria del Cenacolo, l’Ultima Cena e la prima Eucaristia di Gesù. In essa ci fu un protagonista - Gesù -, ma anche due estremi di partecipanti: da una parte i discepoli preparati e dall’altra Giuda. Così nella prima Eucaristia ci fu la prima comunione “santa” e la prima comunione “sacrilega” e peccaminosa: lo abbiamo mai notato?

Che la comunione di Giuda fosse peccaminosa e sacrilega va da sé e non esige altre spiegazioni. Che la comunione dei restanti discepoli fosse preceduta da una preparazione (peraltro estesa anche a Giuda) da parte di Cristo, lo si evince dal fatto che furono chiamati a seguire per alcuni anni il Maestro nella sua predicazione e fatti oggetto più di una volta di insegnamenti rivolti direttamente a loro. Ma risulta anche dalla lavanda dei piedi, a patto di comprenderla nella sua pienezza. Un certo numero di santi padri - e sant’Ambrogio ne è un testimone autorevole - per la lavanda dei piedi parlavano di “exemplum humilitatis” ma anche di “mysterium sanctificationis”.

Ora ciò che è presente e divulgato nella pastorale attuale è l’esempio di umiltà, cioè il servizio di Gesù e di riflesso dei futuri pastori della Chiesa e di tutti i cristiani. Ciò è vero ma non è tutta la verità. Gv 13,6-10 spiega che lasciarsi lavare i piedi da Gesù è condizione per aver parte con Lui; soprattutto parla di purezza, di purificazione, del fatto che non tutti i presenti sono puri. Per cui la lavanda dei piedi è anche da parte di Gesù un mistero di santificazione, con il quale purifica i discepoli in vista di prendere parte all’Eucaristia. Così una tradizione - oggi scarsamente divulgata nella pastorale spicciola - ha visto nella lavanda dei piedi la figura del Battesimo e delle successive purificazioni per accedere all’Eucaristia.

È determinante che già da parte di Gesù e già nella prima Eucaristia siano presenti la messa in guardia da una comunione sacrilega e il rifiuto di prendere la gente “così come è”, insieme all’offerta di un cammino di purificazione necessario per arrivare all’Eucaristia.

Perché non pensare tutto questo anche in relazione alla mentalità presente circa i rapporti affettivi tra uomo e donna dei quali abbiamo parlato e anche in relazione a tutto il resto del messaggio cristiano, compresa, in questa luce, la parte di verità di 1Cor 7,3, di san Gerolamo, di san Francesco di Sales ecc.?

La Chiesa deve certamente partire dalla gente così come è, ma non può ammetterla all’Eucaristia “così come è”, “così come pensa”, “così come vive”. La Chiesa portando all’Eucaristia non può limitarsi a lavare i piedi nel senso di servire il mondo (degli uomini) offrendo la salvezza, ma deve anche lavare i piedi nel senso di purificare il mondo da ciò che impedisce di arrivare alla Eucaristia.


[Modificato da Caterina63 19/04/2017 10:14]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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