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Convegno sul Vaticano II .... tanto per capirci qualcosa....

Ultimo Aggiornamento: 27/08/2015 12:54
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  Convegno sul Vaticano II - 16-18 dicembre 2010 - Testi e interventi





Convegno di Roma sul Concilio. P. Serafino Lanzetta, La recezione teologica del Vaticano II - Status quaestionis

 
Non è il testo integrale della Relazione di p. Lanzetta, ma è più di un semplice estratto, perché mi sembra troppo importante per chi con appassionato interesse sta acquisendo queste autorevoli e approfondite riflessioni.
 
Già durante l'ascolto ed ora, nel ripercorrerlo e meditarlo con gioia e gratitudine, questo lavoro mi ha aperto molti nuovi 'usci' e piste di riflessione per meglio comprendere e inquadrare le complesse e tormentate vicende di pensiero e d'azione che hanno attraversato la nostra Chiesa nell'ultimo cinquantennio. Lo ritengo una tappa ineludibile per il proseguimento del percorso, così bene sintetizzato dalle parole di p. Lanzetta: «Il nostro convegno non è chiuso con la fine dei lavori. Anzi ora si apre il dibattito, che ci auguriamo possa essere proficuo per una presa sul serio di tutte le problematiche legate al Concilio Vaticano II. Ne parliamo perché si dilegui finalmente quella coltre di silenzio irrispettoso, che spesso ha affossato la fede in nome del Concilio. Vogliamo riscoprire la fede e così il vero Concilio: ciò che veramente quest’assise guidata dallo Spirito Santo voleva essere per il bene della Chiesa. Solo questo abbiamo a cuore».

Il Vaticano II: un concilio e i teologi

Senza dubbio i teologi ebbero al Concilio Vaticano II un ruolo notevolissimo. Battista Mondin asserisce questo dato con forte rilievo:
«A far emergere i teologi in tutta la loro grandezza fu il Concilio, del quale essi furono i principali artefici e protagonisti. La loro presenza al Vaticano II fu massiccia. I periti ufficiali e privati erano più di duecento. Come i Vescovi anche i teologi provenivano da tutte le parti del mondo, e questo contribuì a dare al pensiero “teologico” del Concilio quella cattolicità che gli consentì di superare gli orizzonti ristretti della teologia curiale. L’apporto dei teologi ai lavori del Concilio fu sostanziale, costante e decisivo: i loro pareri furono continuamente ascoltati e le loro proposte accolte. A loro fu affidata la stesura di tutti i testi conciliari che poi furono approvati dai padri. In definitiva si può dire che la teologia del Vaticano II è quella dei teologi che vi hanno partecipato (Parente, Colombo, Congar, Daniélou, Rahner, Ratzinger, Chenu ecc.) […] Il Concilio rappresenta la felice conclusione del grande rinnovamento che aveva avuto luogo nella teologia cattolica dopo la seconda guerra mondiale».
Per R. Laurentin, il problema fondamentale da risolvere nella teologia post-conciliare, in ragione delle istanze del Concilio è la teologia, atrofizzatasi, in quanto lentamente aveva perso il contatto con le fonti della Rivelazione e con la vita, ed era diventata una collezione di un sistema di tesi.
«Il rimedio – dice – veniva dai teologi stessi che lavoravano accanitamente nell’ombra. Il Vaticano II ha dato un riconoscimento di diritto alle acquisizioni di questa corrente che assume in un solo movimento le fonti rivelate e la realtà vivente della salvezza».
In questa conferenza, ci proponiamo di verificare l’apporto dei teologi al Vaticano II. Escludiamo comunque che il Concilio sia risolvibile nel dato teologico, di elevata enfasi o di critica: il Concilio è magistero della Chiesa. È innegabile però il grande ruolo della teologia al Vaticano II, sia in riferimento ai teologi che furono periti e che guidarono le discussioni e in qualche modo le stesse votazioni, sia per il notevole impatto del Concilio nella ricezione teologica post-conciliare. In questa sede, ci limiteremo ad individuare e a studiare sei posizioni, da noi ritenute tipiche e in qualche modo riaffioranti nelle numerose indagini teologiche sul nostro tema. Non pretendiamo così di esaurire lo status questionis del problema, ma unicamente di offrire dei modelli di riferimento ermeneutico molto rilevanti, nel Concilio e dopo, in modo da poter anche derivare degli elementi-chiave per una nostra riflessione finale. Abbiamo scelto sei posizioni teologiche, in modo che si veda, da un lato l’apporto dei teologi-periti, dall’altro la recezione del dato conciliare.
 
1. Card. Pietro Parente (1891-1986): il Concilio per una Weltanschauung cristiana

In una conferenza tenuta nel 1961 sull’imminente Concilio Ecumenico, Mons. Parente, allora assessore della S. Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, tratteggiò gli auspici del Santo Padre Giovanni XXIII, auspici volti a far risplendere di nuova bellezza il volto della Chiesa e più che di un punto o dell’altro della dottrina e della disciplina, trattavasi di ridare valore e sostanza al vivere umano e cristiano (Disc. 14 nov. 1960). Dopo aver tracciato una veloce panoramica sui 20 Concili Ecumenici precedenti, Mons. Parente si soffermò anche sulle finalità e le prospettive del prossimo Concilio,
«condizionate dalla profonda analisi della realtà del mondo moderno. Una guerra brutale e un dopoguerra snervante hanno seminato negli uomini scetticismo e disprezzo per ogni ideologia o istituzione del passato e un senso avventuroso di novità in tutti i settori dello scibile e della vita. In tal modo è scossa la fiducia nella Chiesa, nella verità, anche rivelata, nella legge morale, nella vecchia struttura sociale. Di questo stato d’animo in subbuglio si è avvantaggiata un’ideologia materialistica concretata in una struttura politico-sociale, in cui i valori spirituali sono sostituiti dalla tecnica […]».
Ad una Weltanschauung materialistica e ateistica, a giudizio di P. Parente, il Concilio avrebbe dovuto opporre una «Weltanschauung cristiana opposta a quella materialistica, perché l’umanità divisa e smarrita riprenda la via del suo vero progresso e del fine supremo, a cui l’ha destinata la Somma Sapienza e il Primo Amore».

In un altro saggio, a vent’anni dalla chiusura dell’assise conciliare, scriverà Parente:
«La causa determinante di un Concilio generalmente è una crisi o della Chiesa o del mondo o di ambedue. Il Vaticano II risponde alle esigenze di una crisi interna alla Chiesa e di una crisi del mondo moderno».
Il Cardinale Parente vede il Vaticano II come approfondimento teologico della dottrina cristiana, precisando che le distorsioni della dottrina del Concilio non sono del Concilio ma di una certa teologia nuova, i cui prodromi sono riconducibili agli anni ’40 del 1900.
Così affronta le dottrine conciliari, che si presterebbero all’equivoco, ma che ad un’interpretazione autentica, sia teologica che magisteriale, rientrano nel loro giusto ordine.

a. Il Vaticano II non avalla il cambiamento della sostanza dei dogmi

I documenti del Concilio non autorizzano e non portano in sé all’affermazione di uno sviluppo dogmatico inteso come mutazione sostanziale del dogma e della fede.
«Ora questa affermazione è arbitraria – dice Parente, in riferimento a questo problematica –, perché il Concilio riafferma tutto il contenuto essenziale della dottrina cristiana fondata sulla Rivelazione divina e maturata per secoli, sotto l’azione dei Padri e dei Teologi, sotto l’azione dello Spirito santo e il controllo vigile del Magistero della Chiesa».
L’identità e la perennità del sacro Deposito sono espresse chiaramente nella Dei Verbum (nn. 7-8). Qui si asserisce l’origine divina della Rivelazione la divina, l’ispirazione dei libri sacri, e la necessità di trasmetterla fedelmente. Il n. 8 di DV parla di un progresso della Rivelazione, richiamandosi a S. Vicenzo di Lerins, citato dal Vaticano I. Così dice DV 8:
«Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio».
Da queste parole, spiega Parente nessun lettore saggio e attento potrebbe ricavarne un’ammissione di una evoluzione intrinseca della verità rivelata e delle stesse formule dogmatiche. Eppure, scrive Parente,
 
«certi Teologi progressisti sostengono che il Vaticano II ha riabilitato l’evoluzione del domma, già condannato al tempo del Modernismo sotto Pio X. […] In conclusione possiamo affermare che le deviazioni post-conciliari sono abusi di lettori disattenti e poco leali, che cercano di giustificare con l’autorità del Concilio i loro errori e le loro incontrollate tendenze. Questo abuso di nota anche per altri punti del Concilio, che a prima vista colpiscono come assoluta novità in contrasto con la Tradizione; ma un’attenta riflessione rimette le cose a posto».
b. La singolarità della Religione cattolica
Anche su questo dato il Concilio presenta delle affermazioni che si prestano a discussioni, specialmente di fronte al carattere singolare della religione cattolica, di cui noi in ragione della Rivelazione divina riteniamo che sia l’unica religione salvifica,
«con diritto divino a guadagnare tutta l’umanità al Regno di Dio e al Vangelo che ne è il codice. Questo giusto sentimento determinò nel Medioevo linguaggio, uso e atteggiamenti, che oggi urtano le coscienze; si pensi alla frase “Cattolicesimo religione di Stato”, con la conseguenza che la Chiesa godeva di ogni privilegio, mentre le altre religioni erano “tollerate” senza facoltà di pubblica professione».
Parente, fa notare, che il soggetto della religione è l’uomo cosciente e libero, che ha diritto di pensare e di scegliere autonomamente il proprio credo, salvo il rispetto dell’ordine sociale e della pubblica moralità. Così il Concilio mette in evidenza un dato oggi irrinunciabile che è la libertà religiosa e la libertà di coscienza. «Gli abusi dell’Inquisizione non si possono giustificare solo col ricorso al diritto divino dell’unica Religione vera, senza considerare la psicologia umana, in cui domina la religione e la libertà».

c. La collegialità

Un altro dato, che al dire di Parente desta scandalo tra i conservatori, è la collegialità, la quale «sarebbe una novità disastrosa che colpisce il Primato del Romano Pontefice!». Invece Parente, che questo tema lo conosceva molto bene, in quanto anche relatore in sede di Commissione dottrinale risponde semplicemente col dire che essa nel suo senso più genuino fu voluta dallo stesso Cristo che fondò il Collegio apostolico con Pietro e gli altri apostoli come membri, i quali partecipano, subordinatamente a Pietro, tutta la Sacra Potestà di Cristo. Il Primato di Pietro non è un dispotismo ma un primato paterno d’amore e di realizzazione della comunione. Il Sacro Romano Impero con la figura di un Imperatore che impersonava tutto il potere del mondo occidentale influì certamente sulla Chiesa, creando una sorta di assolutismo del Romano Pontefice. Questa ecclesiologia, alquanto mortificata durò fino a Pio XII, che nella Mystici corporis, richiamava l’autentica natura della Chiesa e la sua compagine soprannaturale. Il Vaticano II, mentre confermò la dottrina del Vaticano I sull’infallibilità del Pontefice, ne ammorbidì l’assolutismo – per una ragione teologica – facendo luce sulla dottrina della collegialità, richiamando direttamente il concetto di gerarchia intesa come principio sacro della comunione ecclesiale di tutto il popolo di Dio. In questo modo il Concilio favorisce anche l’approfondimento teologico del ruolo dei laici nella Chiesa e la loro partecipazione liturgico-sacramentale alla vita e alla missione della Chiesa, in ragione del loro sacerdozio comune. Così il Vaticano II, richiamandosi direttamente all’esempio di Cristo, mette in luce il concetto di servizio dell’Autorità per edificare la comunione di tutte le membra.

d. Ecumenismo e missionarietà
Il Concilio sul piano ecumenico e missionario tiene ferma la dottrina dell’unicità della Chiesa di Cristo che è la Chiesa Cattolica. Al contempo, però, richiama la necessità di non condannare e rigettare i fratelli da essa separati ma ad instaurare un dialogo con loro al fine di edificare l’unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa. I separati appartengono a Cristo, sono anch’essi sue membra (anche se non in modo pieno).
«Pertanto non solo la S. Sede, ma ogni Chiesa particolare, ogni cristiano deve sentire il dovere, anzi il bisogno, di partecipare al movimento ecumenico e missionario per guadagnare tutti alla vera Fede e al Cuore di Cristo».
Il Concilio voleva essere una fucina di responsabilità missionaria per i fratelli da salvare. Un gesto divino per una Chiesa più viva e più consapevole della sua missione unica e santificatrice per realizzare nel mondo il Regno di Dio

2. Karl Rahner (1904-1984): il Concilio, «l’inizio dell’inizio»
K. Rahner fu un teologo molto influente in tutto il ‘900 teologico ed ebbe un ruolo di grande importanza nel Concilio. Prima, nel 1961, fu nominato solo consultore della Commissione della disciplina e dei sacramenti, poi durante il Concilio fu perito e teologo del Card. König.
Nella conferenza di Rahner tenuta in occasione della solenne cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II nell’Herkules-Saal a Monaco di Baviera (12 dicembre 1965), Rahner anzitutto esalta il ruolo del «consiglio episcopale» e dice:
«è […] difficile prevedere se oggi il principio sinodale-collegiale della Chiesa assumerà anche in futuro esattamente la figura concreta di questo o di precedenti concili, trovando in essa la sua efficace realizzazione, o se invece il consiglio episcopale di recente istituzione riuscirà, qualora non si limiti ad un’azione puramente consultiva, a fare proprie le funzioni e le forme, tanto complesse da non essere quasi ormai più tecnicamente controllabili, dei concili del passato, diventando, nella sua essenza teologica, un vero e proprio concilio, tenuto anzi con frequenza maggiore».
Così Rahner chiarisce anche il suo pensiero teologico del Concilio in relazione alla fede:
«Fu un concilio tenuto nella libertà e nell’amore. Certo in quella libertà che in tutti i Padri si sapeva legata all’inviolabile credo a Dio, a Cristo, alla sua grazia e con ciò ai dogmi che la Chiesa ha fino ad oggi proclamati perennemente validi e, nello stesso tempo, storicamente evolventisi nella concezione della fede. Fu però un concilio nella libertà».
Libertà è per Rahner la capacità che il Concilio ha dato a tutti di sostenere la propria tesi e di arrivare così all’unità (ai consensi) ma nel rispetto della libertà, e tutto questo considerando il Concilio «alla luce della storia dello spirito». Infatti,
«Dappertutto, persino nel campo della teologia, si può ai giorni nostri avere la deprimente impressione che la libertà non abbia la sufficiente consistenza e che ogni opera grande di pensiero e di azione si debba conquistare con la forza».
Rahner riconosce che il primato della libertà teologica dovette trionfare sulle scelte già determinate e sugli stessi schemi e risultati delle commissioni preparatorie. Si volle un concilio ecumenico che Rahner definisce «della liturgia e delle missioni».I temi che stavano più a cuore al Concilio, dopo un’attenta cernita, sono elencati dal Nostro in questo modo:
«[…] il principio sinodale della Chiesa, l’importanza dell’elemento carismatico in essa, la comunità locale come Chiesa, la possibilità di salvezza dei non cristiani, la “gerarchia” di importanza anche tra le verità definite, la Scrittura al cui servizio stanno la Chiesa e il suo magistero, il sacerdozio universale, il pluralismo delle varie teologie con pari diritto all’interno dell’unica Chiesa, la personale libertà di fede, l’importanza e l’esistenza di una teologia storico-critica, la infondatezza di una teoria secondo la quale esisterebbero nella Chiesa una morale ed una santità di pregio diverso collocate su due piani differenti, il rilievo dato al servizio di Dio nella parola, ecc.».
Ciò che ha fatto il Concilio rimane per Rahner solo «l’inizio dell’inizio». Questo inizio dell’inizio, che è letto da Rahner anche come «nuovo cominciamento» della Chiesa, è inteso da Rahner in questo modo:
«che Cristo e la Chiesa incontrino veramente il tempo di oggi e di domani. Dunque inizio dell’inizio per una Chiesa della grazia di Dio liberamente concessa, per una Chiesa del nostro Signore e Salvatore, del Verbo di Dio, della fratellanza, della speranza, della carità umile […]».
Resta tutto da fare in una Chiesa che col Concilio ha voluto dare un nuovo inizio. Resta da trasformare in forma concreta le direttive sulla liturgia, da istituire i diaconi permanenti, da riformare il Codice di Diritto Canonico, iniziare il dialogo ecumenico con coraggio e speranza, il dialogo con l’ateismo e con il bisogno impellente di fede nel mondo di oggi, ecc. C’è bisogno, però, più d’ogni altra cosa di «una teologia degna del Vaticano II e degli impegni da esso indicati», affinché diventi più dinamica e più acuta per penetrare le profondità di Dio e del tempo. Rahner così si fa promotore anche delle nuove esigenze che attenderanno al teologia post-conciliare:
«[…] parlare di Dio e del suo essere al centro dell’esistenza umana con parole realmente comprensibili agli uomini di oggi e di domani; annunciare Cristo nella visione evolutiva che si ha oggi del mondo, di modo che la parola dell’uomo-Dio, dell’incarnazione del Logos eterno in Gesù di Nazareth, non risuoni come un mito al quale non è più possibile prestare seriamente fede; determinare il rapporto tra i progetti e le ideologie dell’uomo circa il suo futuro e l’escatologia cristiana; impedire, nell’eschaton della redenzione già avvenuta, che l’uomo ricada nella condizione interiore di colui che era vissuto nell’AT, nel continuo timore cioè di restare, dopo la morte, lontano dal Dio della vita; capire come l’amore a Dio e al prossimo formino sempre, ma presto anche in maniera affatto nuova, una assoluta unità […]».
Pertanto anche i compiti che attendono la Chiesa sono diversi. Il prossimo futuro, infatti,
«non domanderà alla Chiesa la precisione particolareggiata dei suoi ordinamenti costituzionali, la strutturazione più attraente della liturgia, nemmeno, in primo luogo, dottrine di più precisa distinzione nella teologia della controversia di fronte alla dottrina dei non-cattolici, né un governo più o meno perfetto della curia romana. Il prossimo futuro domanderà invece se la Chiesa è in grado di testimoniare la vicinanza, che guida e appaga, di quel mistero ineffabile al quale diamo il nome di Dio […]».
Sempre alla luce di questa libertà che è come il cuore della teologia di Rahner, bisogna leggere la sua riformulazione della teologia pastorale, intesa come teologia della prassi, teologia anche politica e perciò «principio organizzativo intrinseco ed estrinseco di tutta la teologia». La pastorale in quanto scienza della ragion pratica, ovvero della libertà, ha una priorità rispetto al dogma. Scrive Rahner:
«Se si riconosce alla ragione pratica (ragione non emozionalità o arbitrio, al quale viene dato il nome di libertà!) una priorità, per il fatto che essa è la sussistenza riflessa di quell’azione che significa salvezza e che si concepisce solo e totalmente in se stessa, non in base a qualcos’altro, allora si può conferire alla T.P., intesa come la rappresentante dell’autoriflessione di questa ragion pratica nella chiesa, una priorità nella teologia globale. Questo non dovrebbe in sé meravigliare. Si dovrà pur riconoscere all’amore libero (e alla speranza) una certa proprietà nei confronti della fede dogmatica».

3. René Laurentin: un Concilio tra limiti, ambiguità e speranze
Un altro testimone scelto per verificare l’impatto del Vaticano II negli immediati anni post-conciliari, è il mariologo francese R. Laurentin, prima membro della Commissione preparatoria del Concilio e poi perito dei lavori conciliari. Un anno dopo la chiusura del Concilio, Laurentin traccia un bilancio dell’eredità pastorale e dottrinale lasciata ai posteri dal Concilio. Questi, nota un paradosso:
«Il Vaticano II, Concilio pastorale, è diventato paradossalmente il Concilio di un rinnovamento dottrinale. I teologi vi hanno trovato un’udienza senza precedenti. “Concilio degli esperti si è detto fin dalla prima sessione, con una nota critica giustificata per ciò che c’era di eccessivo: ma il fatto aveva una sua giustificazione».
La giustificazione ravvisata da Laurentin, in una necessaria revisione della teologia e in un suo aggiornamento, si amplia nel suo bilancio, fino a mettere in evidenza, i limiti del Concilio, i silenzi e le indecisioni, le incompletezze e le ambiguità e finalmente i compiti che spettano alla Chiesa post-conciliare. Tra i limiti, Laurentin ravvisa soprattutto le mancate decisioni in materie scottanti come:

1) i matrimoni misti: ....
2) La regolamentazione delle nascite, ...
3) Il problema del celibato dei sacerdoti, .....
[...]

Di qui Laurentin arriva al dato più scottante, con parresia e parole chiare, delle «incompletezze e ambiguità» di alcuni documenti conciliari. Quest’ambiguità è al dire di Laurentin, «quella della vita in via di sviluppo» che però «non toccano il Concilio ma costituiscono un rischio per molti cristiani»
Tra queste bisogna annoverare:
1) l’ambiguità dell’ecumenismo segnalata anche da O. Cullmann: «Quando ritorneremo nelle nostre file, dovremo combattere, soprattutto tra i laici la falsa sentimentalità ecumenica». Per Laurentin questa ambiguità non è del Vaticano II ma è «uno dei rischi della sua rapida espansione post-conciliare. Bisogna anche mettere sull’avviso contro un trionfalismo ecumenico […]
2) Un’altra ambiguità è l’aggiornamento, anche denunciato da Cullmann. Alcuni, infatti, lo leggono come adattamento al mondo moderno, mentre il Concilio vuole rischiarare l’attività umana con la luce del Vangelo. I rischi, afferma il Nostro, «sono legati all’ambiguità del termine “mondo”, che ha formato oggetto di esame da parte del Concilio».
3) Oltre a queste due, c’è n’è un’altra«che ha toccato il Concilio stesso: quella legata al termine “pastorale”». Riportiamo una citazione più lunga, per lasciare a Laurentin descrivere questo punto, che anche a nostro giudizio, riveste un nodo storico e teologico molto serio:
«Questo aggettivo (pastorale) lanciato da Giovanni XXIII ebbe fortuna. Esso risponde indubbiamente ad un’intuizione profonda: il bisogno di restaurare il legame tra vita e verità, tra dottrina e salvezza. Il suo uso però restò vago e prammatico nel corso della prima sessione. Ma con la seconda sessione alcuni caddero nell’errore di considerare il termine “pastorale” come contrario a “dottrinale”; così la “collegialità” gerarchica e l’amore matrimoniale appartenevano al campo “pastorale”, non a quello “dottrinale”. Si voleva trovare in tal modo una via di soluzione alle opposte tendenze: il campo pastorale sfuggiva all’esigenza di rigore proprio della dottrina: sarebbero bastati termini e parole approssimative. Fin dall’inizio della sessione il cardinale Silva si meravigliò che tale principio avesse trovato posto perfino nella spiegazione ufficiale degli emendamenti dello Schema 13. La rottura tra teologia e vita fu una delle deficienze più gravi di questi ultimi secoli. Sarebbe illusione voler rimediare a questo fatto, creando un tipo di vita zeppo di dottrina: illusione più dannosa della prima».
A parere di Laurentin, il Vaticano II è posto tra Scilla e Cariddi: tra il timore di affrontare i problemi e gli abusi della libertà; la libertà di ricerca proclamata dal Concilio ha sempre con sé i suoi rischi. Si è parlato molto delle vessazioni subite da teologi progressisti, meno invece si è parlato del proliferare di cripto-eresie di destra e di sinistra, come i funghi che si scoprono a volte nelle parti più oscure. Infatti, «se le restrizioni e le chiusure suscitano segrete rivolte, anche la libertà mal compresa può sprigionare forze negative: la superficialità, l’eresia, lo scandalo». Pertanto, dice Laurentin, «il Vaticano II, che è un concilio di ritorno alle fonti, deve conservare il contatto con tutta la Tradizione». Ci sono degli aggiornamenti, certo, ma sono stati letti e fatti alla luce dell’apertura a Dio e del desiderio di arrivare al mondo, prendendo atto dei mutamenti così accelerati che lo segnavano. La Chiesa ha riconosciuto l’autonomia dei valori terrestri e l’autenticità del progresso umano. Così, «il Vaticano II, senza abbandonare l’esigenza di assoluto che ispirava il Sillabo, ne ha superato lo spirito di sfiducia e la rigidità».
 
Certo se dal Concilio la Chiesa è uscita perdendo un certo tipo di sicurezza, ha sviluppato il senso della ricerca, liberandosi anche dal verbalismo. Ha ritrovato il senso dell’essenziale, ovvero il disegno del Padre. Ha infine ritrovato posto il “grande sconosciuto”, lo Spirito Santo, che a dire di Laurentin, mentre era stato riconosciuto nei primi secoli per la sua preminenza nella Chiesa, aveva poi perso la sua importanza fino ad essere dimenticato. Il Vaticano II, «apparirà – a giudizio del mariologo francese –, davanti alla storia, come prima tappa della riscoperta dello Spirito Santo».
 
L’avvenire della Chiesa, dunque, dovrà essere segnato dalla messa in atto di queste iniziative pastorali-dogmatiche, in modo da avere realmente una Chiesa post-conciliare, di cui Laurentin disegna il modello, nel vescovo post-conciliare, il laico, il sacerdote, e infine la teologia post-conciliare, ancora ai primi balbetti ma promettente data la mole di rinnovamento proposta dal Concilio. Così il Concilio deve essere come una “creazione continuata”, cercando di stabilire con UR 12 quell’ordine o gerarchia delle verità in ragione al loro rapporto col fondamento della fede e mettendo meglio in evidenza il suggerimento proposto inizialmente da Giovanni XXIII, di distinguere tra “sostanza” e “formulazione” della dottrina della fede, ma non trattato né dal Pontefice né dal Concilio. In chiusura, per il mariologo francese, tutto il Concilio è, per così dire, nel post-concilio.

4. Hans Küng: il Concilio via alla riunificazione

Küng rappresenta per i lavori conciliari e per la sua emblematica posizione di rottura, un autore molto interessante, la cui disamina mette in evidenza la portata di un’ermeneutica che, quando separata dal contesto vivente della Chiesa, ovvero isolata in un lavoro solitario del teologo, porta ad una necessaria rottura con il Soggetto-Chiesa. Küng ha ormai celebrato questa rottura con la Chiesa, in ragione, a suo modo di vedere, soprattutto dei tradimenti del Concilio da parte dello stesso Magistero.
 
Küng ebbe un ruolo molto importante al Concilio come perito e poi come teologo per l’applicazione del post-concilio. Uno dei temi da lui più approfonditi e visto come speranza per una vera unità della Chiesa con i protestanti è stato quello ecumenico. È interessante riportare la testimonianza del Card. W. Kasper, che fu suo assistente alla cattedra di teologia fondamentale:
«All’inizio c’erano molte cose che affascinavano di Hans Küng: il suo modo giovanile e fresco di porsi, la sua visione spontanea e non convenzionale della chiesa e anche molte idee riformatrici. Il suo libro Concilio e riunificazione, divenuto rapidamente un bestseller, dava espressione alle attese che molti riponevano nel Concilio; esso divenne anche una sorta di catalizzatore, sul quale molti spiriti si dividevano. Anche il mio maestro Geiselmann corrugava la fronte».
Un tema fontale ed imprescindibile per capire anche la posizione ecumenica molto speranzosa quanto frettolosa di Küng, è quello della Tradizione della Chiesa, nel contesto della discussione che fu affrontata nella Commissione dottrinale per la formazione dello Schema che porterà alla promulgazione poi della Dei Verbum, schema che aveva evitato di riproporre il problema della duplicità delle fonti della Rivelazione. Un autorevole studioso del problema, che le tesi di Küng presuppongono, è J. R. Geiselmann. Questi sosteneva, riprendendo il tema tridentino e l’accusa di Lutero alla Tradizione (accusa piuttosto al ministero nella Chiesa), che il Concilio Vaticano II abbandonò la tesi del partim (parte della rivelazione contenuta nelle Scritture e parte nella Tradizione) per accontentarsi della sua particella et. Da qui Geiselmann deriva che l’idea della duplicità delle fonti della Rivelazione fu abbandonata dal Vaticano II o per lo meno non espressamente definita. Così deriva la sua idea, secondo cui, in fondo anche un cattolico può approdare senza problemi alla concezione della sufficienza materiale della Scrittura (tutte le verità rivelate sono contenute nella Scrittura) e che sempre come cattolico si può sostenere che la Scrittura ci consegna in maniera sufficiente la Tradizione. In questo modo però scompare il concetto cattolico di Tradizione come canale della Rivelazione e conoscibilità della stessa insieme alla Scrittura. Si può subito immaginare l’esultanza e i consensi che una tale tesi riscontrò tra coloro che si affaticavano per un sereno dialogo col protestantesimo, offrendo possibilità del tutto nuove ad un nuovo incontro tra cattolici e cristiani evangelici in particolare. Tra i Padri conciliari si segnalò particolarmente il Card. Döpfner, che in Concilio disse che la Sacra Scrittura e la Sacra Teologia non erano da venerare con la medesima pietà.
 
Küng si era messo in questa scia; rinuncerà in modo sempre più marcato al concetto cattolico di Tradizione, considerando gli interventi della Chiesa semplicemente come un riflesso di un determinato momento storico, e così svuoterà dall’interno il contenuto normativo della Tradizione. Questo suo incedere teologico, inaugurerà un nuovo modo di prospettare il movimento ecumenico, quale chiamata all’unità: imperativo del Vaticano II.
 
Questo modo nuovo ad esempio si vede già nel suo libro – che al dire del Card. Kasper fu un vero bestseller in questo senso, che trascese di molto anche le aspettative di Geiselmann –, sul Concilio e l’unità (della Chiesa?): qui il rinnovamento del Concilio è visto come chiamata all’unità (sottotitolo suggeritogli da K. Barth). Küng si chiede: «Come possiamo incontrarci cattolici e protestanti»? E risponde indicando la via inaugurata da Giovanni XXIII, ovvero quella del «rinnovamento interno della Chiesa in vista del ritorno all’unità». Questo per Küng significa: «Non un semplice, inefficace richiamo a rientrare nell’unità della nostra Chiesa»; «Non semplicemente conversioni individuali»; «Non soltanto una riforma morale», perché la divisione della Chiesa non appartiene all’ordine dei vizi capitali e quindi ai vizi eterni dell’umanità, ma siccome è avvenuta storicamente «[…] può quindi – ben diversamente dai vizi capitali – aver fine con la grazia di Dio». Ecco dunque che per Küng il rinnovamento deve avvenire nella Chiesa cattolica, che partendo dalla sua essenza originaria (come diceva Barth), attui poi il vero spirito del Vangelo. E così sintetizza in modo emblematico il suo pensiero riguardante questo necessario rinnovamento:
«La protesta dei protestanti contro la Chiesa cattolica deve, nella misura in cui essa possa essere giustificata, poter perdere il suo oggetto, per opera della Chiesa cattolica stessa. La Chiesa cattolica, è vero, in quanto Chiesa di uomini e di uomini peccatori, rimane sino alla fine dei tempi Ecclesia reformanda».
Così Küng in definitiva vede il suo programma di rinnovamento: la Riforma protestante è quella giusta ed umana aspirazione alla riforma, che dà alla Chiesa cattolica il modello di un vero ritorno al Vangelo, e noi cattolici ritornando al Vangelo, in questa logica storico/storicista della riforma, ritorniamo all’unità con i protestanti. Ma si potrebbe chiedere: un’unità dove? In quale Chiesa? Di quale unità, in fondo, Küng sta parlando? Col passare degli anni, però, dagli osanna entusiasti a Giovanni XXIII, come traspare nella prefazione di questo libro, che lo animava a galoppare l’onda del rinnovamento conciliare e del nuovo ecumenismo,, passerà ad una contestazione qualificata del Magistero, e accuserà la Chiesa di aver tradito il Concilio.














Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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