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Convegno sul Vaticano II .... tanto per capirci qualcosa....

Ultimo Aggiornamento: 27/08/2015 12:54
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10/08/2015 21:12
 
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  5. Card. Leo Scheffczyk (1920-2005): aspetti della Chiesa nella crisi
Leo Scheffczyk, dogmatico tedesco, amico e collega di J. Ratzinger, elevato alla porpora cardinalizia per i meriti teologici, è un testimone della teologia di non poco conto, in ragione – come gli riconosce J. Ratzinger nella presentazione alla sua opera italiana che esamineremo –, della «sua conoscenza straordinaria delle fonti, del suo sguardo acuto per i problemi e i compiti del presente, come anche della sua profonda fedeltà, radicata nella fede, al Magistero».
Per Scheffczyk il problema della crisi post-conciliare è riconducibile ad una crisi ecclesiologica, ovvero ad una ricerca sulla “Chiesa” ritenuta per diverse ragioni già esaurita, in un’epoca di forte irrazionalismo del post-moderno che contiene in sé gli elementi del post-cristiano. Così,
«ignorando questa situazione – scrive – e considerando la fraternizzazione avventata e non critica del cristianesimo con lo spirito del tempo, è facile prevedere che anche all’interno della chiesa si introducano le tendenze dell’irrazionalismo postmoderno, quali una religiosità vaga e una presunzione gnostica, coinvolgendola così nell’intreccio della “lieve cospirazione”».
Queste riflessioni sono formulate dall’autore,
«nel bel mezzo di un fermento rivoluzionario, alla comprensione di ciò che nella chiesa è permanente […]. Il possibile rischio è che in un prossimo futuro possano ritornare attuali le tragiche parole dell’epoca dei disordini ariani: “Geme l’orbe terrestre e si meraviglia di essere divenuto ariano”. Tutti i cristiani veramente preoccupati per la Chiesa dovrebbero trovare nel Concilio Vaticano II un punto d’incontro».
Scheffczyk, nel suo saggio sugli Aspetti della Chiesa nella crisiPer la scelta di un Concilio autentico, come suonerebbe una traduzione più letterale del suo volume sugli aspetti della crisi post-conciliare, si concentra sul tema “Chiesa”, tratteggiando una teologia rinnovata alla luce del Vaticano II ma senza tradire o adulterare il dato dogmatico acquisito dalla Tradizione e dalla precedente riflessione teologica. La crisi è per Scheffczyk una crisi della Chiesa in quanto mistero. Può sembrare strano, dato l’accento ecclesiologico posto nello sviluppo post-conciliare, eppure il vero nodo teologico è riconducibile, per il nostro cardinale, allo smarrimento di un concetto metafisico di partecipazione del mistero-Chiesa. Le passioni antiecclesiali della fine dell’‘800 e del ‘900, provocate in gran parte dal protestantesimo liberale, quali le rivendicazioni di democratizzazione, di abbandono dell’autorità, di libertà dai dogmi, di liberalità e di parità – quasi tutte accolte dalla Chiesa evangelica – continuano a sfidare il concetto cattolico di Chiesa. Per il protestantesimo un dato è certo, dice il Nostro: «Si può reagire alla crisi non con cambiamenti esteriori, bensì solo attraverso un mutamento interiore del nucleo di fede». E così i dissidi interni al protestantesimo e il calo esteriore sono molto più estesi e perniciosi di quelli presenti nella Chiesa cattolica. In ambito cattolico, invece, dice Scheffczyk ,
«la vera cesura nello sviluppo della coscienza della chiesa ha avuto luogo dopo il Concilio Vaticano II, alle cui legittime aspirazioni di riforma si sovrapposero tendenze di una ristrutturazione pensata in altri termini. Esse si ripercuotono oggi sia nell’ambito evangelico che in quello cattolico e si rendono visibili in primo luogo negli aspetti esteriori».
Un dato però è certo: la dottrina ecclesiologica del Vaticano II è da leggersi come progresso e continuità. La Lumen gentium designa la Chiesa come mysterium, ricollegandosi così chiaramente alla Tradizione. La Chiesa è mistero del Dio Unitrino, diventando in Lui segno della vita divina tra gli uomini. Di qui si passa ad un’altra definizione della Chiesa: «La Chiesa è sacramento, definizione questa ancorata alla Tradizione, ma trasportata qui in una nuova dimensione». Lumen gentium 1 dice che la Chiesa è «in Cristo come il sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Questa formula, fa notare Scheffczyk, con la quale la Chiesa è designata come «l’indissolubile sacramento dell’unità» è presente già in Cipriano di Cartagine († 258), secondo il quale la formula è da riferirsi
«all’unità interna della chiesa e significa soprattutto l’unità con il legittimo vescovo. Per questo coloro che non sono inclusi in questa unità sono “al di fuori della Chiesa”. Rivolgendosi agli eretici, Cipriano sottolinea in questo contesto che l’unità con la chiesa è necessaria per la salvezza delle anime».
Così Scheffczyk, fa notare che, nonostante il Concilio non citi la formula classica di Cipriano «al di fuori della Chiesa non c’è salvezza», tuttavia permane nel Vaticano II la stessa immagine di Chiesa, in cui si evidenziano i tratti sacramentali dell’unicità, della necessità di salvezza e della pienezza di salvezza in Cristo e nello Spirito Santo. Questa è «l’unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica» (LG 8).

Questo concetto di Chiesa-sacramento permette al Concilio di passare adagio dal sacramento Cristo al sacramento Chiesa, la cui radice cristologica più profonda è
«l’immagine del corpo di Cristo. […] Pio XII riconobbe in esso la “definizione più significativa e più divina della sostanza della Chiesa”. Anche il Concilio Vaticano II tiene in grande stima questa immagine, quando considera la chiesa “per una non debole analogia… paragonata al mistero del Verbo incarnato” (LG 8)».
In questo modo il Concilio non porta nessuna innovazione formale nel pensiero ecclesiale. Ha dato solo ad un’idea biblica e fondata nella Tradizione, un ulteriore riconoscimento. Infatti già il Vaticano I aveva definito la Chiesa come «il segno innalzato tra i popoli», facendo riferimento ad Is 11,12. Quindi «riconoscendo alla chiesa questo suo carattere di segno si garantisce la diversità tra Cristo e la chiesa e si riconosce quest’ultima come realtà che esiste a partire dalla sua relazione con Cristo». La Chiesa è «di fronte» a Cristo e non si identifica con Lui. Il rapporto giusto Cristo-Chiesa è fondamentale per capire anche la portata salvifica di Cristo nella Chiesa e sempre attraverso la Chiesa. Cristo ha fondato la sua Chiesa e la conserva nell’essere. È presente nella sua Chiesa ma la sua presenza non «si esaurisce nella Chiesa, ma resta al di sopra: Cristo abita nella chiesa e ne è superiore allo stesso tempo; la Chiesa è compresa da Cristo, mentre essa non lo può contenere in modo completo». In questo senso la Chiesa è sempre strumento e organo di Cristo.

Accanto al concetto di «sacramento», il Concilio utilizza anche il concetto di «popolo» per designare la Chiesa. Questa immagine profondamente biblica, esprime il dato secondo cui la Chiesa è una comunione vivente di fratelli e sorelle esprimendo la sua natura comunionale, dinamica e storica. Certamente la missione di questo popolo di Dio non è di ordine politico o sociale, ma dice Gaudium et spes 42 «il fine […] che le ha prefisso (Cristo) è di ordine religioso». Non sono mancate però le interpretazioni politiche e sociali di questo lemma Chiesa-popolo. Principiando dall’odierno concetto di popolo come emerso dal Romanticismo, lo si è collegato allo spirito del popolo, alla sovranità popolare, al popolo come forza primitiva che determina il diritto e gli usi. Così qualcuno ha gridato: «noi siamo il popolo», «wir sind die Kirche». Ma, nota Scheffczyk,
«il Concilio non offre alcun fondamento a questa interpretazione, poiché esso comprende nell’immagine del popolo la comunità sacramentale del “corpo di Cristo”, che è composto non solo di “popolo”, bensì di un capo e di un organismo sacramentale composto di membra. Nel frattempo, nell’era postconciliare, in cui si vorrebbe proseguire il concilio solo secondo il suo “spirito”, senza attenersi al senso e al contenuto espressi da esso, il concetto di “Popolo di Dio” è stato ripetutamente mal compreso e interpretato secondo un modello democratico».
Un altro concetto centrale dell’ecclesiologia conciliare è il concetto di communio, purtroppo anch’esso divenuto equivoco e contraddittorio nel post-concilio. Questo non svaluta però il suo retto significato attribuitogli dal Vaticano II, secondo il quale, «sono incorporati veramente nella società della Chiesa coloro che… sono congiunti a Cristo mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione» (LG 14). Qui la comunione è nel suo insieme trinitaria e gerarchica (ha cioè un’origine sacra) e perciò è una comunione gerarchica o una gerarchia per la comunione della Chiesa.

Infine, Leo Scheffczyk, appura la continuità della Tradizione in altri due dati dell’ecclesiologia conciliare: il fatto che la Chiesa Cattolica sia l’unica Chiesa di Cristo e il fatto che fuori della Chiesa non c’è salvezza. Si tratta di due problemi diversi, uno ecumenico e l’altro riguardante il dialogo interreligioso.
 
Il Vaticano II non parla mai di una restaurazione dell’unità della Chiesa, ma solo dei cristiani. Se si dovesse restaurare l’unità della Chiesa in sé, significherebbe che Cristo ha ritirato, per così dire, da essa la sua incarnazione e smentirebbe la sua promessa di restare in essa fino alla fine dei tempi. Il problema più delicato che è stato posto è come mai il Concilio per designare l’unica vera Chiesa si sia richiamato al concetto di sussistenza: la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica (cf. LG 8) e non che essa è la Chiesa cattolica. Qui si vede l’apertura teologica al concetto di ecumenismo e si vuole radicarlo in una teologia degli elementa Ecclesiae. Ci sono certamente elementi ecclesiali presenti anche in altre comunità cristiane o Chiesa particolari separate da Roma, ma dice Scheffczyk,
«“ecclesialità” non è ancora “chiesa”, come (per fare un esempio) le caratteristiche e le connotazioni particolari di un popolo non formano ancora uno Stato, anche se per uno Stato esse rivestono un grande significato».
È da pensare, perciò, in modo corretto l’unità e la molteplicità, il mistero della Chiesa universale (precedente in modo ontologico e cronologico) e quello delle Chiese particolari. L’unità della Chiesa precede la molteplicità: è la sua misura e il suo scopo. La molteplicità, infatti, «non coinvolge l’essenza, bensì le modalità esteriori; non la sostanza, bensì la forma, non la verità bensì la sua espressione (come la teologia e la devozione) […]».
 
L’altro dato importante, ma anch’esso fortemente e volutamente frainteso è il dialogo interreligioso e la salvezza dei non cristiani che non può realizzarsi se non nella Chiesa e mediante la Chiesa. Anzitutto Scheffczyk appura che la dottrina del Concilio non rinnega l’assioma classico di origine patristica secondo cui «al di fuori della Chiesa non vi è salvezza», che del resto è comprensibile solo a partire dalle condizioni storiche del periodo in cui ha avuto origine. Sin da Origine e Cipriano, fa notare Scheffczyk, era diretto contro le divisioni e le lacerazioni della Chiesa e si voleva contestare alle Chiese particolari il diritto di presentarsi come organizzazioni salvifiche accanto all’unica vera Chiesa. Però, dice il Nostro,
«persino nei Padri della chiesa, giudici rigorosi, che sostennero questo principio non mancano accenni ai “santi nascosti” del paganesimo e alle possibilità di salvezza dei non cristiani, poiché la grazia viene offerta ad ogni uomo e ogni uomo di buona volontà può riconoscerla».
Anche un altro dato è da tener ben presente: il fatto che la Chiesa abbia condannato la frase giansenistica secondo cui «fuori della Chiesa non c’è grazia». Quindi dice Scheffczyk,
«la chiesa […] anche ripetendo fino a ieri il principio tradizionale, non contesta in alcun modo la possibilità di salvezza per coloro che ne sono al di fuori, così come essa, d’altro canto (è importante osservare questo), non garantisce al singolo cristiano la salvezza sulla base della sua appartenenza alla chiesa».
Pertanto non è il Concilio ad avallare le nuove interpretazioni secondo cui tutte le religioni, essendo fatti obiettivi, sarebbero vie di salvezza e basterebbe che ognuno si sforzasse di essere ciò che è: un bravo musulmano, un bravo induista, ecc. Ad esempio Küng, vuole che le religioni si impegnino «alla ricerca comune della verità». è vero che il Concilio,
«non chiarisce le difficili questioni riguardanti il rapporto del cristianesimo con le altre religioni. Ma vi è una decisione fondamentale le cui conseguenze è bene osservare. […] con l’avvenimento di Cristo è oggettivamente successo qualcosa (comprensibile solo nella fede del cristiano), che equivale a una critica fondamentale, ad un aumento e (sia in senso negativo che positivo) a un’“abolizione” delle religioni nella pienezza di Cristo» E poiché i raggi di verità presenti in qualche modo nelle religioni, «sono ora raccolti nella chiesa donata da Cristo, l’azione del donare la grazia al di fuori della chiesa non avviene senza la chiesa e neppure al di fuori di essa. La chiesa rimane il sacramento universale di salvezza dal quale proviene la grazia e verso cui la grazia si dirige».
6. La Scuola bolognese: il Concilio come “evento storico”

Un grande ruolo nell’ermeneutica e nella recezione del Concilio ha svolto la Scuola di Bologna, fondata da G. Dossetti con la creazione di un Istituto di Scienze Religiose, guidato da G. Alberigo, direttore della poderosa Storia del Concilio Vaticano II, raccolta in 5 volumi. Opera di respiro internazionale, i cui criteri ermeneutici del Concilio sono riconducibili anzitutto alla storicità stessa del Concilio, categoria che permette di vedere il Vaticano II come “evento” con una grande partecipazione e amplificazione mass-mediatica. Dalla storicità si coglie bene poi l’impronta pastorale-ecumenica fontale dell’evento conciliare e questo permette in definitiva di esaminare in maniera trasversale, con una notevole opera di cesello, anche gli aspetti più reconditi del Concilio. Questi aspetti non si esauriscono nella celebrazione dell’evento in quanto tale, ma in ragione di uno spirito, il Concilio si può leggere come una legge della “conciliarità” – tema dominante nella lettura bolognese dell’ermeneutica conciliare – sempre presente, in modo che il Vaticano II sia anche in futuro quello che voleva essere nel passato. Questo ad esempio lo vediamo nella disamina storica che fa Alberigo a quarant’anni dalla celebrazione del Vaticano II e al termine della pubblicazione dei 5 volumi della storia del Vaticano II. Scrive Alberigo: «La storicizzazione del Vaticano II apre la possibilità di una “svolta ermeneutica”». Alberigo, nota anche che «non è improprio ritenere i movimenti della prima metà del XX secolo (liturgico, ecumenico, biblico, per la promozione del laicato) un autentico “preconcilio”. Come all’opposto, ha avuto effetti “ritardanti” la diffidenza post-modernista nei confronti della ricerca teologica».
 
Comunque la lettura del Vaticano II come evento è necessaria per superare il momento problematico della celebrazione dell’evento e della sua recezione, della diatriba tra dottrina e pastorale. Scrive sempre Alberigo nell’introduzione al primo volume della Storia del Vaticano II:
«Attardarsi in una visione del concilio come la somma di centinaia di pagine di conclusioni – frequentemente prolisse, talora caduche – ha sinora frenato la percezione del suo significato più fecondo di impulso alla comunità dei credenti a accettare il confronto inquietante con la Parola di Dio e con il mistero della storia degli uomini… È sempre più attuale riconoscere la priorità dell’evento conciliare anche rispetto alle sue decisioni, che non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso. La carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con l’Evangelo, l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini, che hanno caratterizzato il Vaticano II, non sono aspetti folkloristici o comunque marginali e transeunti. Al contrario, questo è lo spirito dell’evento conciliare, al quale la sana e corretta ermeneutica delle sue decisioni non può che fare riferimento».
Il post-concilio deve essere il momento della storicizzazione del Concilio, la quale si risolve operando appunto «una storicizzazione del Vaticano II non per allontanarlo, relegandolo nel passato, ma per agevolare il superamento della fase controversistica della sua recezione da parte delle Chiese». Ciò sarà possibile solo nella misura in cui si farà affiorare «lo spirito e la dialettica che hanno caratterizzato l’assemblea». Questa disamina, al dire di Alberigo, è interessante perché fa emergere «un gap, tra l’evento conciliare come fatto collettivo e le decisioni finali dall’assemblea». Questo ancora una volta sottolinea che «l’evento conciliare sia irriducibile alcorpus, pure molto ampio delle decisioni: la collegialità conciliare ha avuto una densità molto maggiore di quella enunciata in Lumen gentium. Le costituzioni e i decreti non rispecchiano tutte le virtualità che si sono espresse durante la vita del Concilio». Così si apre la possibilità di una ricerca trasversale che porti
«alla luce la presenza ricorrente e spesso determinante dei fattori cruciali dello spirito conciliare: il rinnovamento liturgico ed ecclesiologico, al di là dei limiti delle due costituzioni corrispondenti; l’ansia ecumenica, più ricca ed articolata di quanto non dica il decreto Unitatis redintegratio; la riscoperta della Parola di Dio, che non emerge solo da Dei Verbum; l’irrinunciabilità della libertà religiosa, che i padri conciliari hanno progressivamente acquisito, anzitutto come dimensione del loro statuto cristiano».
Per la Scuola bolognese, il criterio della pastoralità del Concilio è indispensabile per distinguere un livello delle forme contingenti e storiche e un livello dei principi di fede, senza tuttavia che i due livelli appaiano in discontinuità tra loro, per il fatto che il lavoro del teologo e del magistero prende l’avvio da quello dello storico e l’apparente storicità contingente delle forme pastorali, sarebbe suffragata da un lato dalla gerarchia delle verità di UR 11 e dall’altro da un nucleo dottrinale che nel suo interno rimane comunque lo stesso pur nel divenire frammentario. La fede qui è subordinata alla storia; altrettanto le dichiarazioni del magistero, ormai non più proponibili come condanne ma, le stesse condanne di prima, superabili in ragione della loro storicità e della nuova pastoralità.
 
Pastoralità, poi, è in un certo modo, sinonimo di ecumenicità. Infatti, a dire di C. Theobald,
«i rappresentanti del segretariato per l’unità, il card. Bea, mons. Smedt e mons. Volk, che la momento cristallizzano l’opinione di tutti coloro che si oppongono agli schemi preparatori, colgono il legame interno tra la forma pastorale e la forma ecumenica dei documenti conciliari da comporre».
La visione pastorale della Scuola bolognese che riesce a saldare in unità l’evento con la dottrina, ovvero il dato di fede con la sua comunicabilità è riconducibile, crediamo, a questa espressione di Theobald:
«[…] si tratta veramente, nel rapporto tra tradizione e Scrittura, di un problema di verità o di punti contenuti nel “deposito”? La dottrina non è piuttosto un modo di porre, in contesti diversi, delle condizioni perché all’interno della tradizione stessa l’evento cherigmatico o pastorale possa avvenire realmente e in tutte le sue dimensioni? È sicuramente a questo che aveva mirato Giovanni XXIII parlando della “forma pastorale della dottrina o del magistero”».
Sul versante della storicità del Vaticano II si colloca anche B. Forte. Questi definisce il Vaticano II «il Concilio della storia», nel senso che,
«il Vaticano II ha avviato una “storia del Concilio”, un itinerario di ricezione attraverso il quale la promessa risuonata nell’evento conciliare potesse prender corpo nella vita degli uomini».
In questo modo il Vaticano II assume la «storia nell’autocoscienza della fede», mettendola in rapporto alla verità. Il documento più importante del Vaticano II è per Forte la Dei Verbum,
«il più incisivo contributo che la riflessione magisteriale abbia dato al problema della mediazione storica della rivelazione. Il superamento della dottrina delle due fonti, Scrittura e Tradizione, in quella dell’unica traditio Verbi ex fide in fidem, che ha il suo momento normativo nella parola registrata nel testo sacro, ma che vive in permanente novità di racconto e di interpretazione sotto l’azione dello Spirito Santo nel tempo…».
Sulla linea della pastoralità intesa come storicità, si colloca pure il vescovo testimone del Concilio, uno di più giovani partecipanti al Vaticano II, L. Bettazzi. Proprio in ragione della pastoralità del Concilio, si può superare, in qualche modo, quella discontinuità provocata, invece, dai precedenti concili in quanto dogmatici. Il Vaticano II sarebbe sempre attuale/storico perché pastorale.

Rilievi conclusivi

A questo punto del nostro itinerario teologico, che ci ha portato a verificare alcune posizioni sul Concilio Vaticano II, da noi scelte perché ritenute alquanto esemplari, possiamo ora ricavare dallo studio d’insieme del problema alcuni elementi-chiave. Questi elementi, a nostro giudizio, sottolineano, da un lato la complessità del dato teologico che si presenta nel suo insieme quale “Concilio Vaticano II”, dall’altro, riescono a far emergere i nodi delle problematiche che via via si sono presentate, riassumibili in tre posizioni: 1) Il Vaticano II è intrinsecamente compromesso? 2) Il Vaticano II nasconde una carenza metafisica fondamentale? 3) Gli asserti teologico-fondamentali quali chiavi per interpretare il Concilio.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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