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Convegno sul Vaticano II .... tanto per capirci qualcosa....

Ultimo Aggiornamento: 27/08/2015 12:54
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10/08/2015 21:13
 
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  1. Il Vaticano II è un “testo compromesso”?

Il tema si fa alquanto delicato e scottante, anche se abbiamo visto che anche Laurentin non ha timore di denunciare le imprecisioni dei documenti del Concilio. Un caso alquanto singolare e certamente privo di sospetti è quello di O. H. Pesch che – a dire il vero in modo alquanto pungente e sarcastico – accusa il Concilio di essere un testo compromesso: «Non di rado – dice – in casi estremi si ha a che fare con “il compromesso del pluralismo contraddittorio”». Per pluralismo contraddittorio Pesch intende ad esempio il fatto che, gli schemi, molto spesso, erano formulati come un do ut des: se accetti il mio testo io approvo il tuo. Questo si presenta nelle votazioni in sede di Commissione, per quanto riguarda, ad esempio, la collegialità episcopale: prima si fanno delle grosse aperture, poi per una minoranza conservatrice, si fanno dei passi indietro, moltiplicando i riferimenti alla potestas del Romano Pontefice: questo lo si appura, al dire di Pesch, soprattutto nel risultato finale.
 
A Pesch, su questo dato, risponde P. Hünermann, che critica questa posizione estrema per il fatto che i documenti del Concilio non sono da vedere come documenti di una costituzione umana e civile. La possibilità di parlare di “pluralismo contraddittorio” applicata a Lumen gentium, esisterebbe «solo se si partisse da un testo conciliare che possedesse, a motivo del genere, la forma di giudizio o di legge». Per Hünermann, in linea con l’idea della Scuola di Bologna, bisogna valutare rettamente il genere dei testi del Concilio soprattutto nel loro processo ricettivo, tenendo conto della genesi e dello svolgimento del Concilio. Il Vaticano II, infatti, si inserisce nella tradizione di Trento e del Vaticano I, ma a differenza di questi, non fa delimitazioni in termini di definizioni. Il senso del Vaticano II, di natura pastorale, è da vedersi soprattutto nella volontà dei Pontefici, e in particolare nel lavoro della prima sessione. Questo faciliterà il fatto che si recepisca «il corpus dei testi del Vaticano II come norma durevole. Solo se il testo del Concilio non adempie a delle funzioni una volta e basta, ma lo si consulta continuamente per i problemi del momento e per la loro elaborazione, allora veramente si afferma il suo carattere». Per Hünermann, comunque, «si potrà indicare il genere dei testi del concilio Vaticano II come “costituzione della vita ecclesiale di fede” o, in breve, come “costituente della fede”».
 
Così, ci chiediamo, si risolverebbe il problema del “pluralismo contraddittorio”? Crediamo di no, per il fatto che i documenti di un concilio in genere non costituiscono la fede, la esprimono, la definiscono in modo solenne. Potrebbero costituirla solo in un ambito dogmaticamente pastorale, visto da un’angolatura storica come vuole la Scuola bolognese. Ma il Concilio non fu questo, né vorrebbe esserlo.
 
Crediamo, anche, che un certo pluralismo contraddittorio appaia ed era inevitabile per diverse ragioni, innervate però tutte nella mancanza di chiarezza dei confini tra ciò che è pastorale e ciò che è dogmatico. Le due dimensioni dell’unica teologia sono equivalenti? Si distinguono? L’una è subordinata all’altra? Pertanto, non si potrebbe dare una risposta esaustiva alla domanda formulata e neppure si potrebbe verificare a livello teologico la continuità/discontinuità delle dottrine del Concilio con la Tradizione della Chiesa, senza richiamarsi ad altri due livelli, che indicheremo di seguito.

2. Il Vaticano II come problema metafisico: un problema di sostanza e di forma?
Il problema “Vaticano II”, più che un “pluralismo contraddittorio”, è quello di una non chiara precisazione della sua natura e di conseguenza del tenore dei suoi documenti, nella cui ottica, sono da leggere le cosiddette “aperture” o meglio approfondimenti teologico-magisteriali. Se rimane fermo che la natura del Concilio è pastorale (non nel senso storicista inteso da Rahner: attingere i presupposti teologici dalla prassi e dalla scienze profane, ma nel senso teologico inteso dal Magistero) e che il tenore del Magistero è autentico ordinario, infallibile solo nella misura in cui reitera i dati già definiti o definitive tenenda della Tradizione, allora i miglioramenti e gli approfondimenti del Concilio, che potrebbero dar adito anche a dei regressi a causa della rottura teologica, sono da verificare alla luce del sano metodo teologico. La teologia che illumina il Magistero dovrebbe verificare lo status di questi approfondimenti e fornire al Magistero un criterio per un pronunciamento (magari anche ordinario) volto a dissipare tutti gli equivoci accumulatisi. Il Magistero in tal modo, potrebbe dire in modo autorevole che solo la continuità è l’ermeneutica giusta da applicare al Concilio e che le innovazioni sono da leggersi in questa continuità della Tradizione, le cui discontinuità non sono dogmatiche (nel senso che feriscano il dogma o lo cambino; più che altro lo spiegano o tentano di spiegarlo) ma teologiche. Nel Vaticano II come rapporto diadico di “concilio-mistero” non si insinua il modernismo. Sarebbe blasfemo il solo pensarlo. Questo magari era presente in alcuni periti e teologi, ma il Concilio è cattolico, convocato e approvato dal Romano Pontefice, i suoi documenti rimangono, natura sui, un insegnamento magisteriale obbligante.

3. Alcuni principi teologico-fondamentali nel Vaticano II

Per ultimo, è necessario individuare alcuni principi, che potremmo definire teologico-fondamentali, enunciati dal Concilio, dalla cui applicazione e lettura, dipende, in gran parte, la visione d’insieme del Vaticano II, come Concilio (evento/celebrazione solenne) e, di conseguenza, la giusta/errata interpretazione delle dottrine conciliari. A nostro giudizio, questi principi potrebbero essere riassunti in tre: 3.1 pastoralità/aggiornamento; 3.2 la distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione; 3.3 il principio “gerarchia delle verità”. Esaminiamoli brevemente, per sottolinearne la cogenza, auspicando il conforto di altri studi di approfondimento.

3.1 La pastoralità del Concilio intesa come aggiornamento e viceversa
Nell’intenzione di Giovanni XXIII il Concilio doveva provocare un aggiornamento, inteso come apertura al mondo e quindi come modo per dire al mondo, hic et nunc la fede della Chiesa. Si volle un modo pastorale d’approccio per far sì che si scegliessero i mezzi più adeguati ed anche il linguaggio della modernità, quando necessario, per parlare all’uomo di oggi, profondamente diverso da quello del Vaticano I, per le nuove condizioni storiche e anche teologiche. Al Concilio si intrecciano e si ingarbugliano due livelli: la fede doveva progredire, ma il Concilio non voleva assumere un carattere dogmatico, perché sarebbe stato anacronistico. Il progresso doveva essere visto come un aggiornamento ma l’aggiornamento non doveva essere dogmatico (come definizione di nuovi dogmi) bensì pastorale ma riguardante propriamente la dottrina. Era chiaro che si arrivasse all’aggiornamento della dottrina: una pastorale ha come cuore la dottrina, ma il Concilio voleva procedere in modo pastorale, ovvero con un magistero ordinario autentico. Lasciando in una sorta di wavering generale i lemmi implicati, e utilizzando nel complesso un linguaggio piuttosto discorsivo e non metafisico, presto “pastorale” è divenuto per Rahner il metro della teologia in quanto tale, sicché sussumendo da un’antropologia profana e da una rivelazione intesa come storia le categorie teologiche, la teologia stessa, nel suo insieme diventa pastorale, e la pastorale non deriverà più dalla teoria teologica, bensì dalla prassi. Qui il mondo con la sua concupiscenza entra nella dogmatica e la trasforma.

3.2. La distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione (sostanza e forma?)
Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura dell’11 ottobre 1962 aveva detto:
«Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto».
Il Pontefice qui invita la teologia a distinguere tra sostanza della fede e suo rivestimento; tra sostanza e forma esteriore o apparente. Si tratta di un problema di linguaggio? Il pontefice ci dice che bisogna adottare una nuova filosofia del linguaggio per superare il momento fatidico dell’in sé e di ciò che viene espresso, passando per le maglie di un forte soggettivismo di colui che dice e quindi già di una sua interpretazione? Crediamo che Giovanni XXIII non si riferisse ad un problema di linguaggio, ma in modo molto semplice volesse dire a tutti che la sostanza della fede non cambia, ma può esser meglio adattato ai tempi il linguaggio per comunicare la fede. Infatti UR 11 dirà:
«[…] la fede cattolica va spiegata, con maggior profondità ed esattezza, con un modo di esposizione e un linguaggio che possano essere compresi anche dai fratelli separati».
La teologia stava già da tempo coniando un nuovo linguaggio, accantonando per lo più quello metafisico-scolastico, per fare posto a quello più moderno, che diventerà poi, in alcuni teologi, l’adottare una filosofia esistenzialista e fenomenica. Questo principio, dunque, si è prestato a svariate letture, anche contraddittorie: da una teologia rinnovata basata sulle fonti del sapere rivelato, ad una teologia rinnovata, diventata pluralista in ragione del pluralismo filosofico, ebbra nel recepire il dato della modernità e senza troppe remore circa la sua fedeltà alla Rivelazione di Dio. Gran parte della teologia è divenuta un’antropologia. La Chiesa si è mondanizzata, secolarizzata. Sembra strano, ma il grimaldello è stato in gran parte la teologia: quella che in larga misura ha fatto il Concilio.

3.3. La gerarchia delle verità (UR 11) o piuttosto analogia delle verità?
Qui si entra in un discorso molto delicato. Il principio della gerarchia delle verità è enunciato da UR 11 che dice:
«Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana».
Il testo, letto nel contesto teologico ormai acquisito da così lungo tempo, si protende più verso un’analogia delle verità che verso una subordinazione di alcune verità ad altre fino a farle scomparire. Le verità rivelate hanno tutte pari dignità perché ci sono dette per la nostra salvezza e tutte promanano dall’unico Autore, Dio. Gerarchia o ordine, dovrebbe essere qui letto nel suo senso etimologico originario come origine sacra delle verità da Dio e nel loro rapporto analogico col fondamento della fede che è lo stesso Dio rivelantesi come verità, distinguendo tra fides qua e fides quem. A nessuno che legge il Concilio nella Chiesa e in linea con la sua Tradizione, verrebbe in mente di strumentalizzare le verità di fede, riconoscendone alcune – normalmente quelle che non piacciono al teologo – inferiori e di secondaria importanza rispetto ad altre. Questo però è stato fatto. Si pensi ad esempio ad H. Küng che vede in questo principio il punto di partenza per un dialogo ecumenico volto non più al ritorno dei fratelli separati nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ma ad una conversione di tutti principiando dal dato storico inequivocabile di una giusta e motivata istanza portata dalla Riforma: quella di una spiritualizzazione e conversione della Chiesa. Un mero andare verso gli altri. Anche la Scuola bolognese vede in questo principio il punto di partenza per una mentalità veramente “conciliare”, che metta tutti insieme, diventata presto un programma politico, o forse già lo era.
 
Come si deve leggere dunque il principio della gerarchizzazione delle verità? Siamo al punto di partenza. Ma questo evidenzia che, se non si fa una lettura vera e teologica, nel senso alto di questa parola, di questi principi-primi del Vaticano II, tutto il resto facilmente risulta falsato. Risulterebbe, pertanto, veramente utile per i fedeli e per i teologi, un documento (metafisico) dogmatico del Magistero, per spiegare la retta origine e la retta interpretazione di questi principi, così da orientare poi il Popolo di Dio e i maestri della fede in primis, in una lettura corretta del Concilio, facendo vedere, in modo autentico, che l’unica ermeneutica giusta, che porta frutti, è quella della continuità e del progresso nella verità dell’unica Traditio Ecclesiae. È vero che il Magistero si è già pronunciato per dirimere i vari errori di interpretazione attestatisi, talvolta, proprio sui temi a cui abbiamo fatto riferimento. Questo però ancora non risolve il problema, per il fatto che, col prevalere di una certa visione di “conciliarità”, facilmente si è passati, in larga parte, ad un “neo-conciliarismo”: ci si continua ad appellare al Concilio e si dimentica, scorrettamente appunto, che il Magistero non si è congelato col Concilio. Il Papa è al di sopra del Concilio e pertanto solo lui può indicare in modo definitivamente dirimente quale è la giusta ermeneutica del Vaticano II.

p. Serafino M. Lanzetta, FI





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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