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Credo la remissione dei peccati - del card. Piacenza e dal Magistero

Ultimo Aggiornamento: 15/08/2015 22:39
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  San Giovanni Rotondo, 25 novembre 2013

Relazione di apertura:

“Credo la remissione dei peccati”

Card. Mauro Piacenza

Penitenziere Maggiore

 

L’espressione “Credo la remissione dei peccati” si incontra, come è noto, nel Simbolo degli Apostoli, un’antica professione di fede, di origine romana, che la tradizione vede legata all’annuncio degli Apostoli stessi, e che ha raggiunto la sua formulazione definitiva – secondo il parere di autorevoli studiosi – già nel II secolo, anche se lievissime variazioni nel testo possono essere avvenute fino all’epoca carolingia. Nella sua radice, però, il Simbolo degli Apostoli rappresenta una straordinaria forma di professione della fede, che tramanda l’essenziale della dottrina affidata da Cristo ai Dodici. Può giovare qui ricordare che nel 1968 – anno simbolo di un’epoca segnata, oltre che da elementi interessanti, anche da sbandamenti e confusioni a livello dottrinale – l’allora giovane professore di teologia Joseph Ratzinger, decise di impostare le sue lezioni accademiche sulla fede cristiana seguendo proprio il Simbolo degli Apostoli. Come è noto, tali lezioni furono poi pubblicate e ne risultò il celebre libro Introduzione al cristianesimo, un testo che a tutt’oggi non ha perduto di smalto e di attualità.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che l’espressione “Credo la remissione dei peccati”, essendo inserita nel terzo articolo del Simbolo, «lega la fede nel perdono dei peccati alla fede nello Spirito Santo, ma anche alla fede nella Chiesa e nella Comunione dei Santi» (CCC 976). Basti al riguardo ricordare che Cristo effuse il dono dello Spirito Santo sugli Apostoli vincolando tale effusione alla remissione delle colpe commesse dagli uomini: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23). Queste parole di Cristo Signore uniscono indissolubilmente l’azione divina del rimettere i peccati al munus apostolico, dalla Tradizione chiamato «potere delle chiavi». Precisa ancora il Catechismo che il ministero della riconciliazione cristiana «non viene compiuto dagli Apostoli e dai loro successori solamente annunciando agli uomini il perdono di Dio meritato per noi da Cristo e chiamandoli alla conversione e alla fede, ma anche comunicando loro la remissione dei peccati per mezzo del Battesimo e riconciliandoli con Dio e con la Chiesa grazie al potere delle chiavi ricevuto da Cristo» (n. 981). Sant’Agostino, interprete autorevole della Scrittura e custode sicuro della Tradizione apostolica, così scrive:

La Chiesa ha ricevuto le chiavi del Regno dei cieli, affinché in essa si compia la remissione dei peccati per mezzo del sangue di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo. In questa Chiesa, l’anima che era morta a causa dei peccati rinasce per vivere con Cristo, la cui grazia ci ha salvati (Sermones 214, 11).

La prima e principale forma di remissione dei peccati ad opera dello Spirito Santo, nella Santa Chiesa, è pertanto senza dubbio il Battesimo. Il Credo Niceno-Costantinopolitano, infatti, afferma: «Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati». Il motivo di fondo di tale professione di fede sta nel fatto che Gesù ha legato la remissione dei peccati innanzitutto alla fede ed al Battesimo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,15-16). L’espressione di fede del Simbolo degli Apostoli “Credo la remissione dei peccati” va, di conseguenza, letta in connessione in primo luogo con il santo Battesimo. In questa sede, tuttavia, ci soffermeremo a riflettere sull’altro modo principale in cui lo Spirito Santo rimette i peccati nella Chiesa: ossia attraverso il sacramento della Riconciliazione e Penitenza.

In effetti, Battesimo e Penitenza sono intimamente connessi, al punto tale che quest’ultima è stata spesso indicata quale “secondo Battesimo” o anche “Penitenza seconda”, con riferimento alla prima Penitenza, quella battesimale. Tale ripetizione penitenziale, come è evidente, non significa in alcun modo una duplicazione del sacramento battesimale, bensì una rinnovata offerta di quella purificazione che abbiamo ricevuto in quel giorno in cui siamo rinati dall’acqua e dallo Spirito Santo. Sia detto, per inciso, che il giorno del Battesimo è importante come e ancor più del giorno del nostro compleanno: motivo per cui, in un paio di occasioni, Papa Francesco ha chiesto ai fedeli se conoscessero il giorno in cui erano stati battezzati. Si tratta di un richiamo utile per tutti noi.

Il teologo Joseph Ratzinger, commentando questo articolo del Simbolo nel menzionato volume, ha scritto a suo tempo che

L’asserita remissione dei peccati allude [...] all’altro sacramento che [assieme all’Eucaristia] fonda la Chiesa, cioè al Battesimo; ma molto presto lo sguardo comincia a dirigersi anche qui al sacramento della Penitenza. Ovviamente, sta qui in primissimo piano il Battesimo come grande sacramento della remissione [...]. Solo poco a poco, ci si dovette lasciare insegnare da una dolorosa esperienza come il cristiano, anche dopo battezzato, abbia pur sempre bisogno di perdono (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo Apostolico, Queriniana, Brescia 1969, p. 276).

 

Notiamo la continuità tra queste annotazioni dell’allora giovane teologo Ratzinger con le parole pronunciate da Papa Francesco in occasione di una recente Udienza. Ha detto il Sommo Pontefice:

Al Battesimo è legata la nostra fede nella remissione dei peccati. Il Sacramento della Penitenza o Confessione è, infatti, come un “secondo Battesimo”, che rimanda sempre al primo per consolidarlo e rinnovarlo. In questo senso il giorno del nostro Battesimo è il punto di partenza di un cammino bellissimo, un cammino verso Dio che dura tutta la vita, un cammino di conversione che è continuamente sostenuto dal Sacramento della Penitenza.

Con lo stile pastoralmente concreto che lo contraddistingue il Papa ha poi proseguito:

Pensate a questo: quando noi andiamo a confessarci delle nostre debolezze, dei nostri peccati, andiamo a chiedere il perdono di Gesù, ma andiamo pure a rinnovare il Battesimo con questo perdono. E questo è bello, è come festeggiare il giorno del Battesimo in ogni Confessione. [...] Non mi posso battezzare più volte, ma posso confessarmi e rinnovare così la grazia del Battesimo. È come se io facessi un secondo Battesimo. Il Signore Gesù è tanto buono e mai si stanca di perdonarci. Anche quando la porta che il Battesimo ci ha aperto per entrare nella Chiesa si chiude un po’, a causa delle nostre debolezze e per i nostri peccati, la Confessione la riapre, proprio perché è come un secondo Battesimo che ci perdona tutto e ci illumina per andare avanti con la luce del Signore (Francesco, Udienza generale, 13.11.2013).

 

Confermati da questi insegnamenti del Successore di Pietro, volgiamo dunque la nostra riflessione verso il sacramento della Confessione, modo al tempo stesso quotidiano e straordinario attraverso il quale il Signore ci riconcilia con Sé e noi possiamo vivere in concreto la nostra fede nella remissione dei peccati.

Prima di ogni altra considerazione, è opportuno ricordare che questa Terza Settimana Internazionale della Riconciliazione si inaugura all’indomani della solenne chiusura dell’Anno della Fede, intuizione profetica di Benedetto XVI, pienamente confermata e portata a compimento da Papa Francesco. Tale contesto non è di scarso valore anche per il tema del presente intervento. Basterà osservare che l’espressione del Simbolo, qui oggetto di analisi, si apre con la parola “Credo”. In effetti, la remissione dei peccati è oggetto di fede, è materia di fede. Se è vero – come è vero – che la fede è sempre ed inscindibilmente fede personale e fede dottrinale, fides qua e fides quae creditur, anche la remissione dei peccati deve essere creduta secondo questa duplice accezione del termine. La remissione dei peccati è dunque esperienza di fede dell’essere perdonati da Dio e implica, d’altro canto, dei chiari contenuti dottrinali, dai quali derivano importanti conseguenze sia a livello morale, che canonico e pastorale.

Il primo elemento è quello della fede personale. La remissione dei peccati è e deve essere per ciascuno di noi un’esperienza di fede vissuta. Il lasciarsi perdonare da Dio, il lasciarsi amare dall’amore divino che purifica, è dimensione fondamentale del nostro essere cristiani e, in particolare, dell’essere sacerdoti.
È bene dire sin d’ora che un sacerdote che non si lascia riconciliare con Dio difficilmente potrà essere un buon riconciliatore degli uomini con Dio. Fatta salva, come è indubbio, la validità dei sacramenti che egli celebra in persona Christi, la cui efficacia non dipende dalla sua santità ma dal sacro ministero ricevuto, resta vero che la storia della Chiesa presenta tante straordinarie figure sacerdotali che hanno avuto la capacità di indirizzare le anime a Cristo proprio perché da Cristo si lasciavano continuamente ispirare, nel dialogo della preghiera, nelle opere della penitenza e della carità, ma anche nel contatto con la misericordia del Cuore di Gesù, particolarmente ricevendo l’assoluzione sacramentale dei propri peccati. Tutti i grandi santi confessori – ricordiamo a mo’ di puro esempio il Curato d’Ars, san Leopoldo Mandić, san Pio da Pietrelcina – curavano attentamente anche il proprio stato di salute spirituale, ricorrendo non di rado essi stessi al confessionale, per mondarsi dalle colpe – nel loro caso di certo molto lievi – che pure avvertivano come un ostacolo, sia nel loro rapporto con Dio, che riguardo all’efficacia del loro essere guide per gli altri verso Dio.

A questo proposito, gioverà riprendere alcuni passaggi del Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, recentemente riedito, in forma aggiornata ed ampliata, dalla Congregazione per il Clero:

Il sacerdote deve praticare, con gioia e dedizione, il ministero della formazione delle coscienze, del perdono e della pace. Occorre, pertanto, che egli sappia identificarsi, in un certo senso, con questo sacramento e, assumendo l’atteggiamento di Cristo, sappia chinarsi con misericordia, come buon samaritano, sull’umanità ferita, facendo trasparire la novità cristiana della dimensione medicinale della penitenza, che è in vista della guarigione e del perdono. (n. 70)  

 

Se ci domandiamo in quale modo il sacerdote possa «identificarsi» con questo sacramento, la risposta si incontra poco più avanti nello stesso Direttorio:

Come ogni fedele, anche il presbitero ha necessità di confessare i propri peccati e le proprie debolezze. Egli è il primo a sapere che la pratica di questo sacramento lo rafforza nella fede e nella carità verso Dio e i fratelli. Per trovarsi nelle migliori condizioni di mostrare con efficacia la bellezza della Penitenza, è essenziale che il ministro del sacramento offra una testimonianza personale precedendo gli altri fedeli nel fare l’esperienza del perdono. Ciò costituisce anche la prima condizione per la rivalutazione pastorale del sacramento della Riconciliazione: nella confessione frequente, il presbitero impara a comprendere gli altri, e – seguendo l’esempio dei Santi – viene spinto a «rimetterlo al centro delle preoccupazioni pastorali» (Benedetto XVI, 16.06.2009). In questo senso, è buona cosa che i fedeli sappiano e vedano che anche i loro sacerdoti si confessano con regolarità. (n. 72)

Queste indicazioni del Direttorio si fondano sulla tradizione magisteriale e spirituale di sempre, espressa, ad esempio, in queste parole del beato Giovanni Paolo II, di imminente canonizzazione:

Tutta l’esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato da autentica fede e devozione, al sacramento della Penitenza. In un prete che non si confessasse più, o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la comunità di cui egli è pastore (Reconciliatio et Poenitentia, n. 31).




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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  Questi richiami non sono solo di carattere disciplinare o spirituale: essi si radicano nella più attenta considerazione di fede, quindi dogmatica, del mistero della remissione dei peccati. Il perdono delle colpe degli uomini, infatti, si colloca al centro della dottrina soteriologica rivelata dalla Scrittura e dalla Tradizione Apostolica, in particolare per quanto attiene al tema dell’espiazione e del merito di Cristo. La Lettera agli Ebrei (cf. capp. 9–10) raccorda la ritualità cultuale del Tempio di Gerusalemme con il sacrificio della croce di Gesù, notando diversi aspetti paralleli, ma anche e soprattutto facendo risaltare le differenze, dovute al rapporto tipologico tra i due Testamenti, che implica continuità ma anche superamento di ciò che è incompleto e provvisorio, in favore di quanto è perfetto e definitivo. La liturgia dello Yom Kippur, del grande Giorno dell’Espiazione previsto dal calendario ebraico e celebrato ritualmente nel Tempio gerosolimitano, presenta – secondo l’autore di Ebrei – notevoli affinità con la morte di croce di Cristo. In particolare l’affinità è teologica, più che rituale, perché in entrambi i casi il fulcro dell’azione consiste nei concetti teologici di sacrificio e di espiazione, ossia di purificazione dal peccato.

La liturgia del Tempio intendeva garantire, una volta l’anno e in modo solenne, il lavacro rituale dei peccati commessi dal popolo. Allo scopo, all’immolazione della vittima e all’allontanamento nel deserto del capro espiatorio o emissario, come previsto dal Libro del Levitico (cf. cap. 16), faceva seguito l’ingresso del sommo sacerdote davanti alla Presenza divina, nel Sancta Sanctorum – unica occasione in cui al sommo sacerdote era consentito pronunciare il Nome divino, costituito dal tetragramma rivelato a Mosè e usualmente reso con «Io sono Colui che sono» (Es 3,14-15). Entrando nel santuario, come si ricorda, il sommo sacerdote recava con sé il sangue della vittima e ne aspergeva il kapporet, ossia il propiziatorio, come veniva chiamato il coperchio dell’arca. La radice ebraica delle parole kippùr (espiazione) e kapporèt(propiziatorio) raccoglie i significati di “perdonare” e anche di “coprire”. La connessione è piuttosto evidente. Come la parte superiore dell’arca fungeva anche da coperchio di essa, per il fatto che venisse aspersa dal sangue purificatore della vittima poteva a buon titolo essere chiamata anche propiziatorio, dato che il sangue versato in sacrificio rendeva di nuovo Dio propizio al popolo – finalità, questa, che appartiene ai significati anche puramente antropologici dei riti sacrificali di qualunque religione.

Dio, dunque, attraverso quel rito, copriva i peccati compiuti dagli israeliti nell’arco dell’intero anno, il che vuol dire che purificava il popolo dal peccato, rendendolo di nuovo puro. Tale rito, però, doveva essere ripetuto di anno in anno. La Lettera agli Ebrei nota, al riguardo, che il sacrificio di Cristo in croce è avvenuto, al contrario, una sola volta. Esso è infatti sovrabbondantemente efficace per purificare i peccati non solo di un anno, né solo di un popolo particolare quale era Israele. Il vero sacrificio di Cristo possiede l’efficacia di purificare gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Questo innanzitutto perché Cristo – come avvisa il Prologo della medesima Lettera – non è solo uomo, ma è la divina irradiazione della gloria del Padre e la divina impronta della sua sostanza (cf. Eb 1,3). Ciò che avviene nella carne di Cristo, dunque, non è opera solo umana, ma opera del Dio-uomo. In secondo luogo, continua Ebrei, Gesù non è entrato in un santuario terreno, fatto da mani d’uomo, che è solo figura di quello vero. Cristo, morto e risorto, è entrato nel santuario celeste, recando con Sé i meriti della sua Passione e assidendosi alla destra della Maestà del Padre. Che le cose stiano esattamente in questi termini lo insegna, infine, ancora una volta la stessa Lettera, precisando che Cristo è penetrato nel santuario celeste non portando il sangue altrui, ma il proprio: questo vuol dire che Cristo è asceso al Cielo dove offre perpetuamente al Padre il frutto del suo sacrificio redentore.

È da notare che la Lettera agli Ebrei, nel parlare del sacrificio compiuto da Gesù, riconosce in Lui il vero sommo sacerdote della nostra fede e attesta che Cristo diventò Sommo Sacerdote per espiare (verbo greco hilàskestai) i peccati del popolo (Eb 2,17). Per comprendere appieno la portata di questo termine greco, converrà richiamare altri brani del Nuovo Testamento, provenienti dal Corpus Johanneum e da quello Paulinum. San Giovanni, nella sua Prima Lettera, utilizza il termine greco hilasmòs, per indicare Cristo in quanto Egli è vittima di espiazione. Scrive l’Apostolo:

[Cristo] è vittima di espiazione [hilasmòs] per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. (1Gv 2,2)

Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione [hilasmòs] per i nostri peccati. (1Gv 4,10)

Dal canto suo, san Paolo dice di Gesù: «È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione [hilastèrion], per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati» (Rm 3,25). È da notare che i termini greci usati dai due Apostoli (hilasmòs hilastèrion) fanno riferimento alla radice ebraica da cui provengono le voci kippùr kapporèt. In particolare, il greco hilastèrion traduce l’ebraicokapporèt, che – come si è detto – indica il propiziatorio, ossia il coperchio dell’arca. Paolo e Giovanni, in conclusione, si trovano perfettamente concordi con la Lettera agli Ebrei, vedendo in Cristo l’unico vero strumento di espiazione per i peccati di tutto il mondo.

A questo riguardo, non sarà fuori luogo sottolineare ancora il carattere universale della redenzione di Cristo, unico Salvatore del genere umano, che comporta, tra l’altro, il fatto che anche la remissione dei peccati può essere universale, ossia totale, come pure implica che Cristo è capace di redimerci da ogni colpa, sia dal peccato originale, sia da quelli attuali. Ciò viene espresso da sant’Agostino in questi termini:

 

Da Adamo, nel quale tutti peccammo, non abbiamo tratto tutti i nostri peccati, ma solo quello originale; viceversa da Cristo, nel quale veniamo tutti giustificati, non riceviamo solo la remissione del peccato originale, bensì anche di tutti gli altri che abbiamo aggiunti a quello. Perciò non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo [Rm 5,16]Il giudizio infatti può condurre alla condanna anche per un solo peccato se non viene rimesso, cioè per il peccato originale; la grazia al contrario conduce alla giustificazione rimettendo molti peccati, cioè non solo quello originale, ma anche tutti gli altri (De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, 13, 16).

 

Attraverso questi brevi richiami biblici e patristici, ho voluto fare cenno alla radice teologica profonda di quanto professiamo quando diciamo “Credo la remissione dei peccati”: tale remissione, perdono o purificazione si fonda innanzitutto e principalmente sul merito redentore di Cristo e non in una qualsivoglia – per quanto lodevole – iniziativa umana.

Il sacramento della Penitenza, come da sempre insegna la Madre Chiesa, non consiste principalmente in un colloquio tra sacerdote e fedele (anche se c’è un ampio spazio di paternità da poter e da dover esercitare in confessionale).
La Confessione sacramentale è, però, innanzitutto rinnovamento dell’efficacia del sacrificio di Cristo
per un’anima che, pentita, invoca il perdono divino.

Nel sollevare la mano benedicente e nel pronunciare la prescritta formula di assoluzione, il sacerdote non fa altro che prestare il suo corpo e la sua voce al Signore stesso, il quale irrora l’anima del penitente con i meriti del suo preziosissimo Sangue espiatorio: quel Sangue che – assieme all’acqua, simbolo battesimale – sgorgò dal suo sacro costato in croce. È in quest’ottica profondamente teologica, oserei dire misterica, che va soprattutto compresa la Penitenza sacramentale: essa non è lavoro di routine, né tantomeno consulenza psicologica. La Confessione è mistero della fede, è segno sacramentale in cui lo Spirito Santo rende sempre di nuovo attuali le parole di Cristo: «a chi rimetterete i peccati saranno rimessi», e quindi ratifica nel profondo la nostra professione di fede: “Credo la remissione dei peccati”.

 

Ritorniamo ora di nuovo sull’insegnamento del Catechismo della Chiesa Cattolica con cui abbiamo iniziato queste riflessioni. Il brano prima citato ricorda che l’espressione “Credo la remissione dei peccati” «lega la fede nel perdono dei peccati alla fede nello Spirito Santo, ma anche alla fede nella Chiesa e nella Comunione dei Santi» (CCC 976).
Sul legame tra la remissione dei peccati e lo Spirito Santo (il Quale attualizza in ogni tempo l’opera di Cristo), nonché sulla relazione con il tema della fede, si è detto sin qui. Ora è bene fare qualche accenno al terzo aspetto menzionato dalCatechismo: la dimensione ecclesiale della remissione dei peccati. Riflessioni di particolare profondità sono state offerte in proposito dal Dottore Comune, san Tommaso d’Aquino, in una breve opera che l’Angelico ha dedicato espressamente al Simbolo degli Apostoli. Nell’articolo 10 della Expositio in Symbolum Apostolorum, san Tommaso commenta la nostra proposizione: “Credo la remissione dei peccati”, offrendo le seguenti considerazioni:

Come in un organismo vivente l’attività di un membro torna a vantaggio dell’insieme, qualcosa di simile accade nel Corpo Mistico che è la Chiesa. Il bene compiuto da uno, si comunica agli altri fedeli; infatti «pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,5). Sicché, tra le altre verità di fede, gli apostoli ci hanno tramandato questa, della «comunione dei santi», ossia la comunanza nei beni spirituali. Cristo è il Capo; la Chiesa ne costituisce il Mistico Organismo, secondo l’espressione paolina: «[Egli] è il Capo di tutta la Chiesa, la quale è il suo Corpo» (Ef 1,22-23) e quanto di bene c’è in Lui, si diffonde nei cristiani mediante i sacramenti. Agisce in essi l’efficacia del sacrificio di Gesù, la grazia in remissione dei peccati.

Come si noterà, in questo brano emerge un collegamento importante, tra quanto abbiamo prima annotato riferendoci alla Lettera agli Ebrei, e l’aspetto ecclesiologico della Comunione dei Santi nel Corpo Mistico, richiamato dalCatechismo. San Tommaso, in altre parole, offre una chiara fondazione dogmatica del rapporto tra la remissione dei peccati ad opera di Cristo e la funzione svolta dalla Chiesa, Corpo Mistico del Signore, in questa azione risanante di Gesù.

Continua l’Angelico:

I cristiani partecipano non solo all’efficacia del sacrificio di Cristo, ma ai suoi meriti, e addirittura partecipano dei meriti dei santi; tali meriti si propagano in tutti coloro che vivono nella grazia, dal momento che formiamo assieme il Corpo Mistico di Cristo. Ne deriva che, vivendo nella carità, ciascuno di noi partecipa della sia pur minima opera virtuosa che si compia nel mondo. [...] In forza della comunione tra i santi, i meriti di Gesù sono distribuiti a ciascun fedele, e così i nostri meriti personali (Expositio in Symbolum Apostolorum, art. 10).

In base a queste osservazioni, comprendiamo che il carattere ecclesiale della remissione dei peccati ha anche un ulteriore risvolto positivo: quello di inserire l’uomo perdonato in una comunità vastissima e mirabile, nella quale vige una misteriosa comunione di beni spirituali (Communio Sanctorum). Non solo si riceve il perdono dei peccati per via ecclesiale, ma anche dal perdono dei peccati si è confermati in tale via e se ne colgono i frutti spirituali. Leggendo questo commento di Tommaso, viene alla mente anche l’affermazione di Paul Claudel, citata in un volume del cardinale Henri de Lubac, che esprime in termini vivi gli effetti positivi per noi dell’essere in grazia di Dio, e di conseguenza in vera comunione con la Chiesa. Scriveva Claudel:

Noi non disponiamo solamente delle nostre forze per amare, comprendere e servire Dio […]. Tutta la creazione visibile e invisibile, tutta la storia, tutto il passato, tutto il presente e l’avvenire, tutta la natura, tutto il tesoro dei Santi moltiplicati dalla grazia, tutto è a nostra disposizione, tutto questo è il nostro prodigioso bagaglio. Tutti i Santi, tutti gli Angeli sono con noi. Noi possiamo servirci dell’intelligenza di San Tommaso, del braccio di San Michele e del cuore di Giovanna d’Arco e di Caterina di Siena e di tutte quelle risorse nascoste che noi dobbiamo semplicemente toccare perché esse entrino in azione» (Paul Claudel interroge le Cantique des cantiques, cit. da H. de Lubac, Méditations sur l’Église, Oeuvres complètes, tome VIII, Cerf, Paris 2003, p. 207).

 

È davvero importante, da parte nostra, considerare questi aspetti profondi di fede, che esprimono la vera essenza della riconciliazione dell’uomo con Dio e del sacramento della Penitenza che la sancisce oggettivamente. Solo se manteniamo simile sguardo di fede la nostra “arte del confessare” sarà all’altezza di quanto il Signore, la Chiesa e le anime si attendono dal sacramento del perdono, e da noi che, indegnamente e umilmente, lo amministriamo dietro mandato di Cristo. Questa visione “dall’alto” è l’unica che garantisce alla nostra pastorale del confessionale di non scadere in annoiata routine, ma di rimanere sempre giovane e viva, spinta dall’amore per l’onore di Dio e dallo zelo per la salvezza delle anime. È in quest’ottica che appare opportuno qui offrire anche alcune riflessioni concrete sulla pratica del confessare.

In primo luogo, va ricordata la necessità di conoscere bene, anzi persino di studiare i praenotanda dei libri liturgici: in questo caso, del Rito della Penitenza. Vi si trovano non solo le indicazioni per la corretta e valida celebrazione del sacramento, ma anche numerosi spunti biblici e teologici, che possono sostenere il nostro sguardo di fede nell’amministrare il sacramento. Se è concesso ricorrere ad un paragone, diremmo che sarebbe poco ragionevole affidarsi, nel dover affrontare una causa, ad un avvocato che non conoscesse bene il codice delle leggi; allo stesso modo, sembra inammissibile che noi, ministri di Dio e della Chiesa, possiamo celebrare i sacramenti senza conoscere bene le leggi liturgiche che li regolano e la teologia che ne spiega senso e dinamiche.

In secondo luogo, ancora con riferimento privilegiato all’appena concluso Anno della Fede, è necessario ricordare che il confessionale non è il luogo per esperimenti in campo dottrinale. Sebbene l’esperienza insegni che esistono casi particolari in cui è necessaria una vera “arte del confessare” da parte del sacerdote, per coniugare la verità rivelata con le situazioni concrete, resta fermo che di coniugazione deve trattarsi, non di obliterazione della dottrina in favore delle problematiche esistenziali. Il sacerdote, anche in confessionale come in altri ambiti del suo ministero, non parla a nome proprio, ma a nome di Cristo e della Chiesa, di cui egli è umile ministro. Come sappiamo, la parola ministro, dal latino minister, indica il servo, colui che è a servizio.

Se comprendiamo di essere servitori di Cristo e della Chiesa, se abbiamo coscienza di essere umili lavoratori nella vigna del Signore, capiremo ugualmente che non siamo chiamati a reinventare la dottrina e la morale, ma al contrario siamo onerati dal dovere di orientare le coscienze alla luce di esse. Non possiamo nascondere che, ai nostri giorni, questo punto va molto enfatizzato. Sono purtroppo innumerevoli i casi di fedeli che lamentano divergenze di vedute e di consiglio, e non su aspetti marginali o discrezionali della vita morale, da parte di diversi sacerdoti presso i quali si sono recati per confessarsi. Alcuni fedeli, con la vivacità tipica del parlare schietto, attestano di aver ricevuto quattro pareri diversi da quattro confessori interrogati sul medesimo caso morale.

Altri fedeli avvertono in qualche caso persino scandalo per essere stati incoraggiati a continuare in una certa condotta di vita, nonostante essa fosse palesemente contraria alla verità del Vangelo.
Non è il caso, in questo contesto, di riferire esempi concreti di tutto ciò, i quali però non mancano, anzi sono piuttosto numerosi.
Se va lodato lo zelo di tantissimi sacerdoti che, anche a costo di sacrificio personale, spendono molte ore in confessionale, alla luce del primato della fede non possiamo neppure chiudere gli occhi sul danno spirituale che arrecano quei sacerdoti che si arrogano il diritto di sostituirsi al Magistero nella determinazione della dottrina e della morale, particolarmente nel momento della Confessione, in cui chiaramente gli animi dei fedeli sono esposti a maggiore sensibilità, tanto spirituale quanto psicologica.


In caso di dubbio da parte del sacerdote, su quale sia la dottrina ecclesiale riguardante un particolare caso morale, o sul modo corretto di applicare tale dottrina in situazioni speciali, appare meglio rimandare il penitente ad un futuro colloquio, in vista del quale il sacerdote potrà prendere le informazioni necessarie a ben indirizzare la persona, piuttosto che rispondere secondo un’opinione personale, anche se sul momento apparisse ragionevole o secondo il buon senso. Non dobbiamo, infatti, guidare le anime col semplice buon senso umano – che pure serve e serve assai – ma alla luce delle esigenze superiori del Vangelo di Cristo. Non possiamo tradire i penitenti che hanno il diritto di essere guidati, indirizzati secondo il Cuore del Buon Pastore.

Queste osservazioni sulla rigorosa fedeltà all’essenza stessa del sacramento si applicano anche alla ritualità celebrativa del medesimo. Il già citato Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, al n. 71 ricorda:

Ogni sacerdote si atterrà alla normativa ecclesiale che difende e promuove il valore della confessione individuale, integra accusa dei peccati nel colloquio diretto con il confessore. «La confessione individuale e integra e l’assoluzione costituiscono l’unico modo ordinario con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa», e perciò, «tutti coloro cui è demandata in forza dell’ufficio la cura delle anime, sono tenuti all’obbligo di provvedere che siano ascoltate le confessioni dei fedeli a loro affidati» (Giovanni Paolo II, Misericordia Dei, n. 3). Senz’altro, le assoluzioni sacramentali impartite in forma collettiva, senza che siano osservate le norme stabilite, sono da considerare come gravi abusi.

Da queste indicazioni conseguirà anche l’esortazione a rendersi disponibili al massimo per ascoltare le singole confessioni dei fedeli. È altamente auspicabile che ogni giorno vi sia un sacerdote che segga in confessionale, possibilmente anche ad orari stabiliti, in modo che i fedeli possano vederlo lì, in attesa delle anime da riconciliare con Dio. L’esperienza insegna che i fedeli «si recano volentieri a ricevere questo sacramento laddove sanno e vedono che vi sono sacerdoti disponibili. Inoltre, non si trascuri la possibilità di facilitare ai singoli fedeli il ricorso al sacramento della Riconciliazione e Penitenza anche durante la celebrazione della Santa Messa» (Direttorio, n. 71), come indicato espressamente dal Papa Giovanni Paolo II, al n. 2 della Lettera Apostolica Misericordia Dei.

Concludendo queste osservazioni e riflessioni sull’articolo del Simbolo Apostolico “Credo la remissione dei peccati”, possiamo riaccogliere e ripetere la preghiera di affidamento che il beato Giovanni Paolo II volle redigere a conclusione dell’Esortazione Apostolica Reconciliatio et Poenitentia. In quella preghiera, il canonizzando Pontefice si esprimeva in prima persona, invocando il Dio che è ricco di misericordia. Riascoltiamo le sue accorate parole, mantenendo la loro forma espressiva originaria: ci sembrerà, così, di sentire di nuovo la voce di quel Santo Pontefice, che ancora oggi invita la Chiesa alla penitenza ed alla riconciliazione, frutto della remissione dei peccati operata da Cristo:

 

Affido al Padre, 
ricco di misericordia, 
affido al Figlio di Dio, 
fatto uomo come nostro redentore 
e riconciliatore, 
affido allo Spirito Santo, 
sorgente di unità e di pace, 
questo mio appello di padre e di pastore 
alla penitenza e alla riconciliazione. 
Voglia la Trinità santissima e adorabile 
far germinare nella Chiesa e nel mondo 
il piccolo seme, che in quest’ora 
consegno alla terra generosa 
di tanti cuori umani.

Perché ne provengano 
in un giorno non lontano copiosi frutti, 
vi invito tutti a rivolgervi con me 
al cuore di Cristo, 
segno eloquente 
della divina misericordia, 
«propiziazione per i nostri peccati», 
«nostra pace e riconciliazione», 
per attingervi la spinta interiore 
verso la detestazione del peccato 
e la conversione a Dio, 
e trovarvi la benignità divina 
che risponde amorosamente 
al pentimento umano.

Vi invito pure a rivolgervi con me 
al cuore immacolato di Maria, 
Madre di Gesù, 
nella quale «si è operata 
la riconciliazione di Dio 
con l’umanità [...], 
si è compiuta l'opera della riconciliazione, 
perché ella ha ricevuto da Dio 
la pienezza della grazia 
in virtù del sacrificio redentore di Cristo». 
In verità, Maria è diventata 
«l’alleata di Dio», 
in virtù della sua maternità divina, 
nell’opera della riconciliazione.

Alle mani di questa Madre, 
il cui «fiat» segnò l'inizio 
di quella «pienezza dei tempi», 
nella quale fu attuata da Cristo 
la riconciliazione dell’uomo con Dio, 
e al suo cuore immacolato 
 – al quale abbiamo ripetutamente affidato 
l'intera umanità, 
turbata dal peccato 
e straziata da tante tensioni e conflitti 
– affido ora in special modo questa intenzione: 
che, per la sua intercessione, 
l'umanità stessa scopra e percorra 
la via della penitenza, l’unica che 
potrà condurla alla piena riconciliazione.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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15/08/2015 22:30
 
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Convegno per i Nuovi Vescovi


organizzato dalla Congregazione per i Vescovi


 Relazione sul Tribunale della Penitenzieria Apostolica


del Card. Mauro Piacenza - Penitenziere Maggiore


<< C'è più gioia in Cielo per un peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7).      


Carissimi Confratelli nell’Episcopato, è con profonda gioia che vi incontro oggi, partecipando alla vostra legittima trepidazione per gli inizi del Ministero Apostolico a voi affidato e, nel contempo, assicurandovi il mio orante sostegno nella comunione dell’unico Collegio Apostolico, del quale siamo Successori.


Fra tutte le informazioni che in questo Corso state accogliendo, quelle riguardanti la Penitenzieria Apostolica sono forse, ma solo apparentemente,  le meno immediatamente “pratiche” e devono essere, per volontà di Dio e della Chiesa, anche le più “soprannaturali”. La stessa esistenza della Penitenzieria richiama con forza quella dimensione redentiva che, unitamente al mistero dell’Incarnazione, è elemento centrale della nostra fede cristiana. Prescindendo da essa, sarebbe incomprensibile non solo la Morte e Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, ma la stessa esistenza della Chiesa e, in essa, della successione apostolica.


Se in questi primi mesi di esercizio del ministero apostolico, avete già  dovuto far fronte a tante questioni molto pratiche ed amministrative, tutto ciò è affrontabile solo avendo fisso lo sguardo su Gesù e, conseguentemente, sul valore soprannaturale del ministero a noi affidato e sull’efficacia salvifica degli atti ministeriali che, in forza della ordinazione episcopale, siamo chiamati a compiere. Tra essi, l’annuncio del Vangelo e la celebrazione dei Sacramenti rappresentano il vertice insuperabile di quella manifestazione della salvezza, che, iniziata con l’Incarnazione, ha avuto il suo vertice nella Risurrezione e la sua attualizzazione nella Pentecoste.


Siamo i Successori del Collegio Apostolico radunato nel Cenacolo con Maria! Siamo i portatori, nel mondo di oggi, per quanto esso possa apparire talvolta distante da Dio e da Gesù Cristo, del medesimo Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo, che ci abilita a compiere, in comunione con la Chiesa, gli stessi atti del nostro Redentore.


Dal giorno in cui avete preso possesso delle vostre rispettive Chiese particolari, in migliaia di Sante Messe si è pregato per le vostre persone, come la Prece eucaristica prevede. Questo dato non è semplicemente un elemento accessorio della celebrazione, ma deve essere letto nella sua autentica natura di costante e sacramentale comunione ecclesiale, nella quale l’intero Popolo, unito ai sacerdoti, innalza quotidianamente a Dio preghiere per il proprio Pastore, chiamato a rappresentare Cristo Capo nella sua Chiesa.


Lo stesso Papa Francesco ce lo ricorda, nel costante invito a pregare per lui: il ministero apostolico affonda le proprie radici nella personale dimensione orante e nella stabile comunione ecclesiale sincronica e diacronica, che, sola, ne garantisce verità ed efficacia.


Tutti noi sappiamo bene, carissimi Confratelli, come, nel nostro ministero, “molte cose si vedono” e sono – o possono apparire – importanti, gratificanti, anche legittimamente utili alla vita della Chiesa. Tuttavia, molte di più sono quelle che non si vedono, che rimangono nel segreto del cuore del Vescovo e nella sua personale relazione con Dio e con i singoli fedeli. Il ministero pubblico ecclesiale non è certo da confondere con il ministero pubblicizzato dai media! Esso è piuttosto il legittimo esercizio della Libertas Ecclesiae, che, sempre nei secoli, ha rivendicato, di fronte a qualunque potere mondano, la libertà di rendere culto al proprio Signore e l’autonomia nello stabilire tutto quanto è di pertinenza del Culto e della propria missione soprannaturale.


Elemento essenziale della nostra missione è, ce lo ha affidato Nostro Signore, quello della Riconciliazione dei peccatori con Dio. Di essa, il Vescovo è il primo ministro, tanto che a lui compete – come sapete – di concedere ai sacerdoti, incardinati o presenti nella propria circoscrizione ecclesiastica, le necessarie facoltà per ascoltare le Confessioni dei fedeli e concedere validamente l’assoluzione. Potremmo dire che, almeno a livello spirituale, ordinariamente tutta la misericordia che, sacramentalmente e ogni giorno, si riversa sulla terra, passa attraverso il Collegio Apostolico e che, nelle vostre Chiese particolari, essa passa attraverso di voi, attraverso le vostre persone ed il vostro ministero, attraverso la responsabilità personale che avete di fronte a Dio per la porzione di popolo che Egli vi ha affidata.


Quale grande responsabilità ha, dunque, il Vescovo, ma anche quale grande possibilità di bene per le anime è rappresentata dall’esercizio del suo ministero!


In quest’ottica e in questa prospettiva eminentemente pastorale di esercizio della misericordia, deve essere collocato il ruolo che il Papa affida alla Penitenzieria Apostolica; un compito molto particolare, perché riguardante il foro interno.


Potremmo affermare che la Penitenzieria svolge un servizio esclusivamente spirituale, collegato immediatamente con lo scopo ultimo dell’intera esistenza ecclesiale: la salus animarum. Scopo della Penitenzieria è quello di agevolare il più possibile i fedeli nel cammino di riconciliazione con Dio e con la Chiesa, nella consapevolezza che la Riconciliazione, realizzata da Cristo e attuata dallo Spirito Santo,  ordinariamente passa attraverso la mediazione ecclesiale, poiché la Chiesa stessa agisce, nel tempo e nella storia, esclusivamente come Corpo unito e in dipendenza dal suo Capo, Gesù Cristo Signore.


In un’epoca, nella quale tutto viene spettacolarizzato e sembra affermarsi quasi un ben strano diritto – che poi diritto non è - a sapere tutto di tutti, l’esistenza del Foro interno e della Penitenzieria richiama con forza, sia il diritto umano e naturale alla legittima riservatezza e preservazione della buona fama, sia il necessario, costante recupero di quello sguardo soprannaturale sulle cose di Dio e della Chiesa, senza del quale il nostro ministero e l’intero agire ecclesiale corrono sempre il rischio di ridursi a mero funzionalismo mondano. E giudicare una realtà non partendo da ciò che essa è, ma dalla sua utilità o funzione, significa, di fatto, abbandonare – almeno praticamente – ogni prospettiva metafisica, autoriducendosi ad uno sguardo sulla realtà assimilabile ad una delle visioni oggi maggiormente diffuse, tutte riducibili a forme differenti di relativismo e tutte fondamentalmente a-metafisiche.


Conoscere l’esistenza ed il compito della Penitenzieria ed istruire, in modo reiterato e puntuale i propri sacerdoti su questi aspetti importanti del ministero della Riconciliazione, rappresenta un non trascurabile compito del Vescovo, anche se l’assolvere ad esso non porterà immediate gratificazioni, perché sarà visto unicamente da Dio e dai Suoi Angeli. Guai a noi e all’opera pastorale se curassimo in modo preponderante solo quello che può trovare facile risonanza mediatica! Bisogna stare bene attenti perché la tentazione può essere fortissima.


 


Secondo una definizione classica, il Foro interno è il complesso dei rapporti tra il fedele e Dio, nei quali interviene la mediazione della Chiesa, non per regolare direttamente le conseguenze sociali di tali rapporti, ma per provvedere al bene soprannaturale del fedele, in ordine alla sua amicizia con Dio, cioè allo stato di grazia e, quindi, in ordine alla vita eterna.


Oltre al Foro interno sacramentale, esiste anche un Foro interno non sacramentale, che è dato dalla manifestazione della propria coscienza che il fedele può fare alla Chiesa, al di fuori della Confessione ma, non di meno, nel segreto; l’esempio classico è quello della direzione spirituale posta in essere con atti distinti e separati dalla Confessione sacramentale; oppure della manifestazione di coscienza fatta dai religiosi ai loro Superiori o della richiesta di consulenza, o di segnalazione su fatti gravi ai legittimi Superiori ecclesiastici, con il reciproco impegno alla segretezza.


La Penitenzieria Apostolica si configura ecclesiasticamente come un Tribunale, poiché in essa si è chiamati a “giudicare” i singoli casi di coscienza. Tuttavia, essa ha specifiche caratteristiche, che ne determinano la differenza rispetto agli altri Tribunali della Chiesa. Tali caratteristiche sinteticamente sono: l’assoluta riservatezza, l’assenza di contenzioso e la celerità.


La Penitenzieria svolge le sue funzioni esclusivamente tramite i confessori. In tal senso tratta materie della massimo riserbo. Ciò non vieta ad alcun fedele la possibilità di ricorrere alla Penitenzieria in modo diretto. Comunque è bene che i ricorsi siano fatti da un sacerdote confessore, a garanzia sia della maggiore esattezza dottrinale dell’esposto, sia dell’obiettività e dell’imparzialità del giudizio, sia infine per poter fornire alla stessa Penitenzieria maggiori dati circostanziati per un più preciso giudizio. Elemento costitutivo della riservatezza è la tutela assoluta dell’anonimato dei penitenti; pertanto, mai un ricorso deve includere il loro nome, né dati che possano, direttamente o indirettamente, condurre ad essi. Gli stessi rescritti della Penitenzieria devono sempre essere distrutti dopo averne data lettura al penitente, che ha sempre e comunque il diritto a non essere riconosciuto. Occorre porre sempre il penitente nelle condizioni per lui meno disagevoli.


La celerità con cui agisce la Penitenzieria è determinata dall’importanza delle materie da essa trattate per la salvezza delle anime. Tale dato non consente di ritardare risposte e decisioni. Ordinariamente, la Penitenzieria risponde nell’arco di ventiquattro ore dal ricevimento del caso.


Non si tratta qui di “efficienza mondana”, o di “straordinario dominio della burocrazia”, ma del tentativo semplice e reale di tradurre, anche attraverso la celerità di una risposta, quella doverosa sollecitudine che tutti i pastori sono chiamati ad avere per le proprie pecore e che, in particolare, la Sede di Pietro desidera poter sempre manifestare. La gravità del peccato e lo splendore della divina misericordia inducono ad agire senza frapporre indugio. “Caritas Christi urget nos”!


Le competenze della Penitenzieria Apostolica sono precisate dagli Artt. 117 e 118 della Costituzione Apostolica Pastor Bonus di San Giovanni Paolo II e si estendono a tutto ciò che attiene il Foro interno sacramentale e non sacramentale. Nel Foro interno, questo Dicastero elargisce grazie, assoluzioni, dispense, commutazioni, sanazioni e condonazioni, tutto sempre in casi individuali concreti di Foro interno, mentre la soluzione di casi dottrinali e disciplinari sub specie universalitatis appartiene, di norma, alla Congregazione per la Dottrina della Fede.


La Penitenzieria ha inoltre competenza sui Penitenzieri delle Basiliche Papali, detti Penitenzieri Minori e, infine, su tutto ciò che riguarda la concessione delle Indulgenze. È da constatare, per questo ultimo aspetto, come negli ultimi due decenni ci sia stato un notevole incremento, a livello mondiale, di richiesta di indulgenze. Da ogni parte del mondo, migliaia di Comunità, con il consenso del proprio Ordinario, chiedono di poter attingere al Tesoro della Chiesa e che, alle consuete e note condizioni, venga loro elargita la remissione di tutte le pene dovute per i peccati commessi.


Come ogni Dicastero della Curia Romana, anche la Penitenzieria ha una sua struttura interna, che speriamo essere semplice ed efficace. Vi è il Cardinale Penitenziere Maggiore, nel quale si concentrano tutte le attribuzioni del Dicastero e al quale il Papa affida, nel Foro interno, il pieno esercizio del potere delle Chiavi; a lui compete la nomina e la concessione delle facoltà ai penitenzieri minori, che prestano servizio nelle quattro Basiliche papali di San Pietro, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e S.Paolo fuori le mura, e per il superiore bene delle anime (“suprema lex”), rimane in carica, unico tra i Capi Dicastero, anche durante la vacanza della Sede Apostolica.


Vi è poi il cosiddetto Consiglio del Cardinale (denominato Segnatura della Penitenzieria Apostolica), composto dal Reggente e da altri cinque Prelati: il Teologo, il Canonista e tre consiglieri esperti in Teologia morale e in Diritto canonico.


Per quanto riguarda le competenze della Penitenzieria Apostolica, tutti sapete come nella Chiesa vi siano alcuni delitti che vengono puniti con censure aventi la particolarità di poter essere assolte in Foro interno. Nel Codice del 1983, ne vengono menzionati cinque, che sono puniti con la scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica:


-         La profanazione delle Sacre Specie Eucaristiche (cfr. can. 1367 CIC);


-         La violazione diretta del sigillo sacramentale (cfr. can. 1388 §1 CIC);


-         L’assoluzione del complice da un peccato contro il sesto comandamento del Decalogo (cfr. can. 1378 CIC);


-         L’aggressione fisica alla persona del Romano Pontefice (cfr. can. 1370 §1 CIC);


-         La consacrazione di un Vescovo, senza mandato pontificio (cfr. 1382 CIC).


Se i summenzionati delitti non sono stati oggetto di una sentenza giudiziaria o di una dichiarazione, essi vengono trattati in Foro interno dalla Penitenzieria Apostolica.


Rispetto ai primi tre delitti, possiamo fare alcune considerazioni anche di ordine eminentemente pastorale.


Per quanto riguarda la profanazione delle Specie Eucaristiche, sappiamo che il primo Liturgo di ogni Chiesa particolare è il Vescovo e che su di lui grava l’onere di vigilare con amorevole attenzione sul culto divino che si celebra sul territorio della propria circoscrizione ecclesiastica e, in particolare, su quel vertice della Liturgia rappresentato dalla celebrazione della Santa Messa e dalla conseguente attenta distribuzione e sicura custodia delle Specie Eucaristiche consacrate.


In un contesto in molti luoghi purtroppo gravemente secolarizzato, non sembra affatto fuori luogo, proprio per prevenire determinati delitti, un’attenta catechesi al riguardo della Presenza reale di N.S.Gesù Cristo nelle Sacre Specie e in ogni frammento di esse e, ove fosse giudicato utile, anche una differenziazione locale delle disposizioni liturgiche e disciplinari.


La profanazione delle Specie Eucaristiche è un delitto gravissimo, col quale si offende direttamente Dio, Sommo Bene. Consiste nella ritenzione indebita, delle Specie eucaristiche, con fini sacrileghi, superstiziosi o osceni, e, più in generale, in qualsiasi azione volontaria di disprezzo verso il Santissimo Sacramento, sia individualmente sia in presenza di altre persone.


Si tratta di un grave delitto purtroppo più frequente di quanto si possa immaginare. In alcuni casi la profanazione è commessa da un singolo fedele in modo occulto, mentre molte profanazioni vengono commesse durante riti satanici, nelle modalità più svariate.


La Penitenzieria agisce nel Foro interno sacramentale, quando, purtroppo, il delitto è già stato compiuto, mentre è compito dei Vescovi prevenire, educare i propri sacerdoti alla massima attenzione circa la cura dovuta al Santissimo Sacramento.


La catechesi eucaristica al popolo, associata al culto divino esercitato secondo le norme della Chiesa e ad una profonda pietà eucaristica, rappresenta la via di prevenzione fondamentale per evitare che si giunga al delitto di profanazione. Esemplare deve essere, in tal senso, la Liturgia nella Chiesa Cattedrale e nei Santuari presenti sul territorio della circoscrizione ecclesiastica che deve non soltanto rifulgere per l’attenta quanto motivata e mai formalistica osservanza delle norme  ma anche per l’attenzione prestata al Santissimo Sacramento, alla sua distribuzione nelle grandi celebrazioni, alla sua custodia e reposizione pubblica e alla doverosa purificazione dei vasi sacri. Se i Sacerdoti vedranno che nella Chiesa Cattedrale questi aspetti sono massimamente considerati e curati, saranno facilitati a considerarli e a curarli con altrettanta attenzione nelle proprie parrocchie e, gradualmente, ma efficacemente, educheranno il Popolo alla medesima attenzione, frutto di amore.


Per commettere un delitto di profanazione delle sacre Specie Eucaristiche, è necessario che ci sia il cosiddetto animus profanandi, cioè una vera intenzione sacrilega e, nel caso in cui, la persona che commette l’atto sia legata ad una setta satanica, è necessario che abbia deciso di interrompere tutti i rapporti con essa, per poter venire assolta.


Un altro delitto, che riguarda in modo specifico, l’esercizio del ministero è la violazione diretta del sigillo sacramentale. Anche essa è un delitto punito con la scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica, secondo il can. 1388 §1 del CIC. E’ doveroso riconoscere che ordinariamente i Sacerdoti sono molto prudenti in materia di sigillo sacramentale per cui i casi di violazione diretta sono molto rari.


Si tratta di un delitto che può essere commesso unicamente da un Sacerdote che ha agito come confessore, anche nel caso in cui non abbia potuto impartire l’assoluzione sacramentale. Perché il delitto si compia è necessario che la violazione sia diretta, cioè che il confessore abbia rivelato in maniera dolosa un peccato ascoltato in confessione e l’identità del penitente che si è confessato. I due elementi devono coesistere contemporaneamente perché si possa parlare di violazione diretta. È chiaro che la pena è intimamente legata alla tutela dei fedeli e dei loro  diritti, oltre che della santità del Sacramento della Riconciliazione, unico mezzo, attraverso il quale i fedeli ottengono, ordinariamente, il perdono dei loro peccati. Anche in tale ambito è importantissimo il ruolo del Vescovo nella formazione iniziale e permanente dei suoi sacerdoti, ricordando le norme universali della Chiesa, sia liturgico-sacramentali, sia morali e ribadendo in ogni occasione opportuna, l’assoluta inviolabilità del sigillo sacramentale, che non ammette eccezioni, né dispense e che permane anche dopo la morte del penitente.


A questo punto mi preme dare rilievo all’importanza tutta particolare del Sacramento della Riconciliazione per i sacerdoti: sia come penitenti che come confessori. Essi, prima di essere ministri della divina misericordia mai devono dimenticare la necessità di ricorrere personalmente al confessore. Solo un autentico penitente, che custodisce il vero senso del peccato e della gioia della Riconciliazione, sarà un buon confessore. La crisi del Sacramento della Riconciliazione è, in realtà, ben lo sappiamo, una più generale e radicale crisi di fede, mancanza di comprensione e fiducia nel mistero della Chiesa, mediatrice di grazia, e, non di rado, mancanza di esperienza personale e stabile di riconciliazione e di misericordia.


Non penso di esagerare nell’affermare che la qualità del servizio pastorale di un presbiterio, e quindi la vitalità stessa di una Diocesi, dipendano in misura non irrilevante dalla pratica umile e fedele della Confessione sacramentale personale dei sacerdoti e della loro generosa e sistematica disponibilità ad ascoltare le confessioni. Anche in questo, il Vescovo è chiamato ad essere “Episcopo”, cioè a vigilare, con paterna discrezione e sollecita carità sulla regolare e frequente vita sacramentale dei suoi sacerdoti e alla loro dedizione pastorale a tale ministero fondamentale. Tutto ciò si riverbera come zelo pastorale nel senso più ampio della parola, sul “da mihi animas, cetera tolle”. In parole semplici e schiette vorrei dire che senza frequentazione del confessionale da parte di tutte le categorie del popolo di Dio l’impresa di nuova evangelizzazione, che ci deve mobilitare tutti, sarebbe solo uno slogan ma non una realtà!


Ci sono poi i casi di ricorso alla Penitenzieria per assoluzione del complice. Tale delitto non è da confondere con la “cosiddetta sollicitatio ad turpia”. Tale “assoluzione”, eccetto che in pericolo di morte, è sempre illecita ed invalida. La Chiesa tutela, per mezzo della scomunica, la santità del Sacramento della Penitenza e cerca l’effettiva conversione dei peccatori. Se la assoluzione del complice in questa materia fosse valida, il peccato rischierebbe di convertirsi in tristissima routine.


Non costituisce attenuante il fatto che sia il penitente a domandare di essere assolto, soprattutto perché, trattandosi di laici, spesso non sanno che il confessore è privo della facoltà e assolverebbe invalidamente. Se in tale materia, si cade nel Foro esterno, la competenza allora è della Congregazione per la Dottrina della Fede; se si permane nel Foro interno, vi è l’esclusiva competenza della Penitenzieria Apostolica.


Oltre ai citati casi di aggressione fisica alla persona del Romano Pontefice e di ordinazione episcopale senza mandato - che però ordinariamente sono delitti pubblici - è stato introdotto, di recente, il delitto di attentata Ordinazione di un fedele di sesso femminile, anche esso punito con la scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica. Come per gli altri delitti, esso è riservato alla Congregazione per la Dottrina della Fede in Foro esterno, e alla Penitenzieria Apostolica in Foro interno. Nella scomunica incorrono sia il ministro coinvolto, sia coloro che tentano di ricevere l’Ordine sacro. L’ordinazione è comunque del tutto invalida.


È necessario, nel nostro ministero apostolico, come vedete cari Confratelli, curare la formazione iniziale e permanente dei nostri sacerdoti, che sono i primi ad incontrarsi con il mistero del peccato, nell’esercizio ordinario della Riconciliazione sacramentale e, nel contempo, hanno bisogno di sapere che il Vescovo e la Chiesa sono con loro, nel prudente discernimento, che i menzionati casi continuamente richiedono.


È necessario istruire i sacerdoti sul dovere di farsi carico personalmente dei ricorsi alla Penitenzieria, anche per la doverosa segretezza che questi richiedono. Ciascun sacerdote dovrebbe essere in grado di scrivere una normale e semplice lettera, contenente i dati fondamentali del delitto commesso, senza mai citare il penitente, e le circostanze nel quale esso è stato commesso, per permettere alla Penitenzieria di esprimere un giudizio medicinale adeguato e favorire, così, la piena riconciliazione del penitente.


La Penitenzieria ha anche competenza sui casi occulti di irregolarità nella ricezione dell’Ordine sacro, per esempio per i fedeli che abbiano compiuto il delitto di omicidio, o di aborto, prima di ricevere l’Ordine sacro, o abbiano cooperato direttamente e positivamente a tali crimini. È necessario che i direttori spirituali dei Seminari siano adeguatamente istruiti, al riguardo, sul modo corretto di effettuare il ricorso in Foro interno. Infine – ed anche su questo è bene istruire i Sacerdoti – la Penitenzieria ha competenza sulla dispensa, riduzione, o commutazione di oneri di Sante Messe che gravano sulle persone fisiche dei sacerdoti, mentre quelle gravanti su enti morali, sono gestite dalla Congregazione per il Clero.


Altre facoltà e competenze sono adeguatamente presentate sul sito del Tribunale e, talvolta, data l’ampiezza della materia trattata, sono necessariamente specifiche. Ciò che mi pare comunque opportuno sottolineare, in questa sede, può essere sintetizzato in due nuclei essenziali.


Innanzitutto il costante sguardo soprannaturale da avere sul nostro ministero apostolico e su quello dei sacerdoti, nostri primi collaboratori. Investire energie positive nella Chiesa, per incrementare la visione soprannaturale è sempre la strada migliore da percorrere per permettere a ciascuno di non ripiegarsi su di sé, ma di avere sempre davanti agli occhi la dimensione il più possibile adeguata del ministero del quale Cristo ci ha resi partecipi: che è una dimensione salvifica universale e raggiunge qualsiasi periferia.


Il secondo fuoco dell’elisse che ho cercato di tracciare in questa conversazione riguarda, permettetemi di ricordarlo, la cura per i sacerdoti. Non una cura generica ed impersonale, ma la reale e concreta disponibilità ad essere per loro come padri, fratelli, amici, chiamati ad accompagnarli realmente nel delicato esercizio del ministero, rispettando la loro adulta e legittima autonomia e sempre sostenendo, innanzitutto con l’esempio personale e la profonda carità pastorale, anche le loro vicende quotidiane.


La Vergine Rifugio dei peccatori e Madre di misericordia, che al cospetto di Cristo e in Cristo, tutto sempre vede, ci accompagni e ci protegga nel fedele esercizio del ministero che la Chiesa ci ha affidato e nell’offerta quotidiana dell’intera nostra esistenza per l’unico scopo per il quale vale davvero la pena di vivere: la gloria di Cristo che rifulge nella salvezza delle anime, cioè in quegli uomini e in quelle donne che dicono “sì” alla Sua salvatrice Potestà e si aprono alla effusione del suo amore misericordioso!


[Modificato da Caterina63 15/08/2015 22:34]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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15/08/2015 22:39
 
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"OGNI CONFESSIONE È UNA PENTECOSTE"

LETTERA DEL CARD. MAURO PIACENZA, PENITENZIERE MAGGIORE,

A TUTTI I CONFRATELLI CONFESSORI E A TUTTI I PENITENTI,  IN OCCASIONE DELLA PENTECOSTE 2014

 

 Carissimi,

         raccolti spiritualmente nel Cenacolo insieme con la Beata Vergine Maria, in intensa comunione ecclesiale, riviviamo il mistero della “Pasqua rossa”, la discesa dell’Eterno Spirito di Amore, che vivifica la Chiesa e incessantemente la rinnova mediante il dono di grazia con il quale il Signore ci ha consacrati al suo servizio: il sigillo battesimale e sacerdotale.

         Poiché il Sacramento della misericordia costituisce come la “porta” mediante la quale, più potentemente, lo Spirito soffia nella storia e ne orienta il corso, desidero inviare a tutti i confratelli che esercitano il ministero di confessori e a tutti i penitenti un particolare pensiero per la solennità di Pentecoste ed assicurarli che ogni giorno sono nella mia preghiera.

Ben sappiamo che la nostra vita nuova affonda le radici nella missione dello Spirito Santo e così pure la stessa identità della Chiesa e la vitalità della sua missione. Nel grande “abbraccio” della Pentecoste, la persona stessa di Gesù, Risorto e Asceso al cielo, si fa presente, fino alla fine dei tempi, in tutti  suoi discepoli e, attraverso di loro, per opera del medesimo Spirito, si dilata in un eterno respiro di misericordia. Per questa opera divina la realtà della Persona e dell’Amore salvifico di Cristo non rimane “lontana”, come qualcosa da imitare, ma fondamentalmente inaccessibile, o come un “modello ideale” a cui rifarsi senza però poterlo mai raggiungere; al contrario diventa la radice stessa del nostro essere, la nuova realtà nella quale viviamo, quella potenza d’Amore dalla quale siamo ora “abitati” e che domanda, durante il pellegrinaggio terreno, di poter agire nel mondo anche attraverso di noi.

         Sappiamo bene che tutto ciò, valido ed attuale per ogni fedele, in forza del Battesimo, riguarda in particolare i Sacerdoti, poiché essi, sono stati introdotti, non per loro merito ma per grazia, ad un tale “livello d’essere”, ad una tale intimità con il Signore, da divenire partecipi dell’Amore del suo Cuore, della sua stessa opera di salvezza, tanto che, attraverso di essi, accade ora realmente, per i fratelli, l’incontro con Cristo. I sacerdoti sono stati costituiti ministri della divina misericordia, quindi servi del Dio d’Amore e compassione di Gesù.

         Per questa ragione il Sacerdote, oggetto di misericordia, non potrà che essere sempre, “uomo della misericordia”.

         Il suo nuovo essere lo testimonia e l’esercizio fedele quanto appassionato, del ministero ne diventa memoria continua.

         Per essere esperti di misericordia, sarà sufficiente essere “in ascolto” dell’opera dello Spirito in noi e nei fedeli; “in ascolto” del dono della Pentecoste, che ci ha tutti consacrati nel Battesimo, e i Confessori nell’ordinazione sacerdotale, e che ci “rinnova” per mezzo di ogni celebrazione dei Sacramenti; in modo del tutto particolare, nel Sacramento della Riconciliazione.

         Questo Sacramento, infatti, costituisce una esperienza sempre nuova dello Spirito Santo in azione, sia per il sacerdote che per il penitente.

         Per il penitente, perché il perdono sacramentale rappresenta una vera e propria “Pentecoste per l’anima”, che viene illuminata dalla sua luce divina, purificata dal sangue dell’Agnello immolato e adornata di ogni dono di grazia, a cominciare dalla rinnovata, piena comunione con Gesù. E per il sacerdote in quanto, profondamente unito a Cristo, termine vivo di ogni accusa dell’uomo peccatore, apprende ogni volta di più, il pensiero stesso di Cristo, nel correggere, valutare, guarire e, mentre pronuncia le parole dell’assoluzione, sente ravvivarsi nel cuore, per opera dello Spirito, il sigillo sacramentale e la personale immedesimazione con il Buon Pastore! Quale Amore ci viene mostrato!

         Chiediamo alla Beata Vergine Maria, Sposa dello Spirito Santo e Madre del Redentore, di insegnarci a custodire e a fare memoria di queste realtà, perché sempre più, possa ravvivarsi e splendere il fuoco della Pentecoste, che è fuoco d’Amore, fuoco di misericordia.




LECTIO MAGISTRALIS, CONVEGNO PER CONFESSORI

Card. Mauro Piacenza, Arcidiocesi di Augsburg
 

 

«Misericordia e verità si incontreranno:

Il Sacramento della Riconciliazione»

 Carissimi Confratelli,

          è per me fonte di particolare gioia intervenire in questo vostro Convegno per confessori, in qualità di Penitenziere Maggiore di Santa Romana Chiesa, ma, soprattutto, come vescovo e come sacerdote, che ha sempre visto nella dimensione sacramentale il cardine irrinunciabile del ministero ordinato, esercitando il quale, unitamente all’annuncio del Regno, si può essere certi di compiere la missione per la quale il Signore ci ha costituiti.

         In un tempo come il nostro, così particolarmente esposto ad una radicale desacralizzazione, che alcuni chiamano “post-modernità”, altri “demitizzazione”, altri ancora “secolarizzazione”, ma che, in definitiva, pare risolversi, da qualunque parte la si guardi, con un radicale indebolimento della ragione e, perciò, della fede, risulta particolarmente profetico il vostro volervi impegnare, per approfondire le dimensioni teologiche, giuridiche e pastorali del ministero di confessori, che Cristo, attraverso la Chiesa, vi ha affidato e sempre, continuamente vi affida.

         Anche Papa Francesco, nel suo ministero, ci ricorda continuamente come la misericordia rappresenti, insieme alla verità, uno dei cardini dello stesso annuncio cristiano, tanto da essere “luoghi identificativi” della stessa identità divina: Dio è Misericordia; Dio è Verità.

         Desidero pertanto proporvi questa mia riflessione suddividendola in nuclei tematici, attraversati da una domanda capitale per l’esistenza umana, la ragione, la fede e la spiritualità. Domanda che prendo in prestito dal più grande esperto del rapporto tra grazia e libertà, e quindi tra misericordia e verità, che è Sant’Agostino. Egli, ad un certo punto, si domanda: «Quid animo satis?» (che cosa basta all’animo umano?), intendendo, con tale espressione, significare in modo sintetico tutta la portata della domanda che l’uomo è, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, ma sempre con la stabile intuizione di un “oltre”, di una ulteriorità, alla quale è misteriosamente chiamato e verso la quale l’impatto con la realtà lo rimanda costantemente.

         Vorrei che, nei  passaggi che proporrò alla comune riflessione, per ciascuno di noi confessori e per ogni penitente, ci fosse sempre, in filigrana, come il riverbero di questa ineludibile domanda: «Quid animo satis?», capace di ricondurre costantemente la riflessione all’essenza dell’io ed alla definitività di risposta, che l’incontro con la misericordia e la verità dischiude alla ricerca umana.

 1. Misericordia e verità: due segni ineludibili

         Laddove il Salmo 85, da cui prende spunto il titolo della nostra riflessione, annuncia: “Misericordia e verità si incontreranno”, si allude ad una realtà nuova, non costruita da mani d’uomo, desiderabile, profondamente attesa, ma realizzata unicamente in forza del dono di Dio.

         In tal senso, misericordia e verità sono segni eloquenti di una possibile, reale risposta alla domanda Quid animo satis?. Solo la misericordia e la verità bastano al cuore dell’uomo, sapendo che esse altro non sono, se non nomi dell’amore, di quell’unico Amore, che si è manifestato, si è fatto carne ed ha offerto Se stesso per noi.

         Il cuore dell’uomo è fatto, innanzitutto, per la misericordia. è fatto per essere oggetto di misericordia, cioè, per non restare prigioniero del proprio limite e del proprio male, ma anche per essere soggetto di misericordia, cioè per esercitare una inaudita sovranità su se stesso e sulle proprie passioni, capace di autentico perdono, di nuovo abbraccio all’altro, non determinato dal limite di alcuno.

         Vivere la misericordia significa, antropologicamente, sentire sulla propria esistenza una promessa di bene e di vita. Le parole “Io ti perdono”, coincidono, in certo modo con quelle: “Io voglio che tu esista, è bene che tu esista” e ciò non solo per se stessi, ma anche per il mondo. Tale passaggio, proprio perché il perdono ha una sua dimensione costitutivamente relazionale, è di fatto impossibile prescindendo da quello che la tradizione sacramentale chiama il pentimento. La disposizione a rivedere il proprio giudizio ed il proprio modo di vivere, l'umile ammissione della propria colpa, l'ardente desiderio di cambiamento, sia nei rapporti tra gli uomini, sia nel rapporto con Dio, costituiscono il presupposto perché l'offerta reale e costante della misericordia diventi oggettivamente “misericordia in atto”.

         Non si tratta in alcun caso di umiliare l'altro per concedere sovranamente la misericordia. Dio non fa così e gli uomini non possono fare così. Semplicemente, un cuore non disposto ad esaminare se stesso e a rivedere il proprio cammino, non è un cuore disposto ad accogliere la misericordia, cioè ad accettare quella radicale dipendenza, per la quale la propria esistenza è in relazione con altro da se stessi. E ciò non solo ai primordi della storia, o della propria storia biologica, ma in ogni istante presente dell’esistenza.

         In tal senso, la misericordia è come un segno supremo. Ogni volta che c’è un atto di misericordia tra gli uomini ed ogni volta che è celebrato il Sacramento della Misericordia divina, è affermata la dignità dell’uomo, è annunciata la scelta definitiva di Dio che, per l’uomo, ha mandato il Suo Figlio; nella misericordia è come ricostituita l’alleanza tra l’uomo e Dio, e, in essa, quella dignità perduta, o variamente opacizzata, che rende l’uomo stesso incapace di amare, stimare e gioire per se stesso e per i fratelli.

         La stessa difficoltà psicologica a perdonare fino in fondo se stessi, di cui tutti possiamo fare esperienza, è eco di quella radicale relazionalità della misericordia, per la quale ciascuno ha bisogno che un altro affermi la propria esistenza.

         Anche se filosoficamente “ridotti” ad un irragionevole relativismo concettuale, siamo e rimaniamo esistenzialmente realisti: possiamo giungere alla certezza di essere amati, solo se un altro ci ama! L’esperienza della misericordia, implorata da un altro, è il misterioso e reale segno di quella gratuità agapica, che vede nell’autodonazione del Figlio dell’uomo il suo vertice, compiuto e sempre rinnovato.

         La misericordia è così, nello stesso tempo, il supremo segno umano ed il supremo segno divino, ed ha in Cristo, Crocifisso e Risorto, vero Dio e vero Uomo, la sua piena realizzazione.

         Come i grandi mistici ci insegnano, guardando al Crocifisso, è possibile cogliere qualcosa dell’infinito Amore di cui siamo stati fatti oggetto, dell’amore al quale siamo chiamati, della speranza, che attraverso il Crocifisso, si dilata per ciascuno di noi: una speranza eterna, carica di misericordia, che ci dona certezza sul futuro in forza del fatto che la misericordia è “oggi” una Persona presente.

         Inoltre il cuore dell’uomo è fatto per la verità. Per la verità fuori di sé e per la verità in sé e di sé. A tal riguardo, si chiede Sant’Agostino: «Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem? - che cosa l’animo umano desidera più fortemente se non la verità?» (S. Agostino, Com. in Ioan., XXVI, 5).

         In tal senso, è doveroso riconoscere come il primato della coscienza, ricordato con forza dal Beato John Henri Newman, esattamente nel modo in cui egli intende tale primato, corrisponde misteriosamente al primato della verità, come esigenza costitutiva dell’uomo, che non accetta di essere giustificato arbitrariamente da una menzogna, nè da una autorità estrinseca a sé, ma ha bisogno che la misericordia sia proclamata da un “altro”, fuori di sé, che sia in profonda sintonia con la verità di ciò che egli è e di ciò che egli spera.

         Non è un caso se lo stesso Gesù abbia proclamato il valore liberante della verità - «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» Gv 8,32 - e, nell’ottica del paradosso tipicamente cristiano, Egli stesso si è identificato con la Verità. Pur nella drammatica negazione della verità oggettiva, che vive questo nostro tempo, pur nell’oblio di ogni remoto afflato metafisico, da quel privilegiato osservatorio che è il confessionale possiamo quotidianamente scorgere il bisogno drammatico di verità, presente nel cuore di ciascun uomo, bisogno insopprimibile ed ineliminabile, perché posto da Dio stesso nel cuore dell’uomo quando disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. […] A immagine di Dio lo creò» (Gen 1,26-27).

         L’uomo ha bisogno di verità perché è creato da un Dio che è verità, ed il suo bisogno di Dio si riverbera come segno eloquentissimo in quel bisogno di verità che determina gran parte dell’agire umano.

         Se a livello filosofico e speculativo, sembra quasi archiviato il tema della verità, esso emerge in tutta la sua forza non appena si paragona l’idea con la realtà. Nessuno accetta di vivere un amore non vero, relazioni finte, rapporti professionali alterati. Tutti, in ogni ambito il Signore ci ponga a vivere, abbiamo un estremo bisogno di verità, verità in noi, verità nell’altro, verità nell’ambiente nel quale viviamo.

         Il segno della verità greca, o ellenistica, tuttavia è come superato, o meglio integrato e completato, nel nuovo concetto di verità proposto dal cristianesimo. Per il cristianesimo la verità è una Persona; è Gesù di Nazareth, verità fatta carne, resasi visibile, toccabile e udibile; ed è proprio in questo straordinario equilibrio tra Logos e carne, tra ragione e realtà, tra Spirito e materia, che è possibile intravvedere il nuovo concetto di verità introdotto dal cristianesimo nella storia degli uomini.

         La verità non è più un’idea astratta, alla quale tirannicamente adeguarsi, nè un oggetto estrinseco, che possa autonomamente esistere nella personale consapevolezza, prescindendo dal concreto incontro con un soggetto consapevole. La verità è frutto sempre di un incontro; la verità è il rinnovarsi dell’incontro con se stessi, con l’altro e con il mistero; è il segno supremo dato all’uomo, insieme alla misericordia, per credere che sia possibile vivere un bene autentico, un amore autentico, che non dipenda dai propri meriti, o dalle proprie capacità, ma che sia un semplice arrendersi alla misericordia e alla verità. Un arrendersi ad una misericordia vera e ad una verità misericordiosa, o, se si preferisce, ad una misericordia che rivela all’uomo la verità di sé e ad una verità, che si rivela come misericordia.

         Se nell’annuncio cristiano, nella catechesi, nella formazione permanente del clero e dei laici, se nella celebrazione del Sacramento della Riconciliazione, siamo capaci di recuperare il segno eloquente che misericordia e verità rappresentano, ciò ci permetterà di intercettare le corde più profonde e vibranti dell’essere e dell’agire degli uomini, non solo del nostro tempo, ma di ogni tempo; si riaprirà così un dialogo forse troppo frettolosamente chiuso, riscoprendo il profondo valore umanizzante e, nel contempo, divinizzante, della verità e della misericordia, a condizione che esse siano intese non come conquiste, ma come doni, gratuitamente elargiti nella persona di Gesù.

 2. Misericordia e verità: reciproco inveramento nel Sacramento della Riconciliazione

     Proprio perché misericordia e verità non sono principalmente ideali a cui conformarsi, o idee platoniche da contemplare, ma, per il mistero dell’Incarnazione, sono divenuti fatti, avvenimenti toccabili, visibili, udibili nell’incontro personale con Cristo, Logos fatto carne, è possibile affermare che quanto accade nel Sacramento della Riconciliazione sia, in un certo modo, l’incontro supremo con la misericordia offerta da Dio all’uomo e con la verità dell’uomo e del suo rapporto con Dio, che egli è chiamato a riconoscere. In questo senso, tre paiono le caratteristiche della misericordia e della verità, vivibili ed incontrabili nel Sacramento della Riconciliazione: la coessenzialità, l’oggettività e la relazionalità.

 2.1 Coessenzialità

         Nel cristianesimo, è sempre frutto di una visione parziale la contrapposizione tra misericordia e verità. Tanto meno è concepibile una accentuazione sulla misericordia a discapito della verità, o, al contrario, una sottolineatura della verità, che non sia misericordia.

         Non di rado, questa polarizzazione, che appartiene alla continua tensione, determinata dal mistero dell’Incarnazione, che ha una sua certa legittimità qualora rimanga nei limiti del “et et” e non decada mai rovinosamente nel non-cattolico “aut aut”, ha una sua traduzione pratica nella contrapposizione artificiale tra dottrina e pastorale.

         Tutte le volte in cui si contrappone l’agire pastorale alla dottrina, un cosiddetto agire pastorale carico di misericordia ad una presunta dottrina foriera di una verità fredda e non misericordiosa, ci si rivela come prigionieri di uno schema precristiano, nel quale la verità e la radicale novità del Verbo fatto uomo non sono ancora sufficientemente e adeguatamente assimilati.

         è questo il vero scandalo del cristianesimo. E dopo duemila anni esso appare ancora intatto in tutta la sua forza dirompente e pretesa veritativa, rispetto ad ogni filosofia o spiritualità umana.

         Nel Cristianesimo, misericordia e verità sono coessenziali, inseparabili, perfino non adeguatamente distinguibili; potremmo dire, parafrasando Calcedonia, che misericordia e verità sono unite senza confusione, e distinte senza separazione.

         Non è cristiana una misericordia priva di verità, che non tenga conto della realtà, dei fatti, delle persone e delle loro azioni. Sarebbe una misericordia non rispettosa della dignità dell’uomo, sempre capace di compiere scelte guidate dalla ragione e dalla libertà; una tale misericordia sarebbe una spugna che cancella la storia, che cancella cioè il reale luogo teologico dell’Incarnazione.

         Nel contempo non è cristiana una verità priva di misericordia, cioè non in relazione alla persona, alla sua storia, al suo concreto vissuto e al giudizio della sua coscienza, formata ed informata. Una tale verità, per chi la brandisse anche vigorosamente, non apparterrebbe al reale deposito della fede cristiana, poiché sconfinerebbe in un idea astratta, dal sapore più platonico, o hegeliano, che autenticamente personale e cristiano. Il cristiano sa che la verità è una Persona, Gesù di Nazareth, che ha agito, attraverso gesti e parole, che si inveravano reciprocamente nella progressiva ed efficace automanifestazione che Dio ha fatto di Sé.

         In questo equilibrio e in questa unità tra gesti e parole, è come significata la complementarità tra l’auto-consegna, che Dio fa di Sè all’uomo, in un dialogo autentico, e ciò che Egli rivela di Sè, chiamando l’uomo a prestare un obbediente atto di fede. Non è quindi mai possibile staccare l’elemento dottrinale da quello relazionale, né quello relazionale può prescindere dal termine della relazione, così come Egli ha voluto rivelarsi. In questo senso, in ogni atto sacramentale e, a causa del coinvolgimento psicologico del penitente, particolarmente nel Sacramento della Riconciliazione, è sempre necessario ricordare che la Chiesa annuncia tutto ciò che essa è - dimensione della misericordia - e tutto ciò che essa crede - dimensione veritativa (cfr. Dei Verbum, 8) -, in maniera assolutamente non separabile.

 2.2 Oggettività

         La dimensione storica del Cristianesimo, con la conseguente e determinante importanza della “fattualità” degli avvenimenti riguardanti la Persona di Gesù di Nazareth, aggancia la nostra fede ad una costitutiva dimensione oggettiva, prescindendo dalla quale non si potrebbe più nemmeno parlare di fede cristiana.

         Se a questo dato si aggiunge che misericordia e verità sono realtà da interpretare innanzitutto in maniera personale e, solo successivamente se ne può intravedere la pur legittima dimensione concettuale, allora appare come ineludibile la dimensione oggettiva sia della misericordia, sia della verità.

         Tale oggettività è, per di più, inverata dalla stessa esperienza antropologica universale.

         La misericordia, infatti, ha costruttivamente bisogno di un “Tu” che ne permetta l’esperienza. Né a livello umano, né sul piano religioso, è possibile l’esperienza dell’auto-giustificazione, se non a prezzo della menzogna.

         Analogamente, se la verità fosse soltanto una conquista del soggetto e se le risposte alle domande dell’uomo fossero già presenti in lui, non permarrebbe quella drammatica e costante dimensione che chiamiamo domanda esistenziale.

         Il Quid animo satis? postula che la risposta sia fuori dall’animo umano, oggettiva, incontrabile come qualcosa che improvvisamente accade e che straordinariamente corrisponde al desiderio e alle domande del cuore.

         In tal senso, il buon confessore è sempre chiamato ad essere consapevole che, nella coessenzialità di misericordia e verità, egli è chiamato a quel delicato e attento servizio alla persona, che deve condurre alla disponibilità a riconoscere una verità oggettiva fuori di sé, perché data, rivelata, come condizione per una autentica, oggettiva esperienza di misericordia.

         La riduzione della verità ad opinione e della misericordia a sentimento mortificano non solo la Rivelazione divina e la sua dimensione costitutivamente relazionale, ma anche l’intelligenza e, perciò, la dignità umana, che proprio partendo dalla dimensione della domanda, della ricerca di significato e della radicale apertura al bisogno di amore ricevuto e donato, chiedono che tali esperienze siano reali, storiche, oggettive.

 2.3 Relazionalità

         La coessenzialità e l’oggettività di misericordia e verità conducono al riconoscimento della loro reciproca relazionalità. è come se, dopo Gesù Cristo, non ci potesse essere una reale esperienza di misericordia, prescindendo dalla verità e, per contro, una reale esperienza di verità, prescindendo dalla misericordia.

         Nel Sacramento della Riconciliazione, questa esperienza di reciprocità, si attualizza nelle stesse condizioni indicate dalla Chiesa come “atti del penitente”. è possibile l’abbraccio della misericordia divina, solo partendo da una verità su di sé, sugli atti compiuti e sulle conseguenze dei medesimi. E tale verità non è mai solo quella soggettivamente percepita, ma anche quella che emerge dall’oggettivo confronto con la verità rivelata ed autorevolmente insegnata dall’ininterrotto magistero ecclesiale.

         Si può essere certi di essere realmente amati, solo quando la verità di sé è totalmente abbracciata. L’autentica esperienza della misericordia e dell’amore dipendono  dalla verità di sé e dei propri atti.

         In maniera simmetrica e complementare, Dio si è rivelato proprio con il volto della misericordia. Egli, suprema Verità del mondo e della storia, ha voluto entrare nella vicenda umana con Volto umano, di Bambino, pronto ad offrire Se stesso per gli uomini, affinché potessero credere all’Amore che Dio ha per loro.

         Il mistero dell’Incarnazione e della morte e Risurrezione sono, in tal senso, la risposta definitiva di Dio alla menzogna della caduta originale; la verità di un Dio incarnato, morto e risorto risponde definitivamente alla menzogna di un uomo prigioniero della tentazione di essere come Dio, per paura di non essere amato.

         Per tale ragione, la verità cristiana non è mai uno scettro da brandire contro l’altro, ma è un umile servizio alla verità del suo essere ed un salutare richiamo all’unico autentico rapporto, che può condurre l’uomo al compimento di sé: il rapporto con Dio.

         è possibile fare autentica esperienza di Dio come verità solo nell’abbraccio della divina misericordia, un abbraccio carico di tenerezza e di compassione, che domanda sempre di essere accolto, vissuto in quell’abbandono di fede fiduciale, di fides qua creditur, inseparabile dalla fede come conoscenza, fides quae creditur.

         Misericordia e verità sono sperimentabili, dunque, solo nella loro reciproca relazionalità; per questo il Salmo dice: «misericordia e verità si incontreranno!».

         Dove si incontreranno? In quale modo si incontreranno? Esse si incontrano in Gesù Cristo e il “modo” è l’Incarnazione.

         Quid animo satis? Che cosa basta al cuore umano?

         Solo la misericordia e la verità, coessenziali, oggettive ed in relazione in Gesù Cristo, possono bastare al cuore dell’uomo.

         Solo Cristo basta al cuore dell’uomo, perché solo in Lui le domande profonde di ciascuno trovano adeguata risposta.

         Nel Sacramento della Riconciliazione, celebrata e ricevuta, tale esperienza, antropologicamente universale e radicalmente soprannaturale, accade e riaccade ogni volta che dalla misericordia divina sentiamo pronunciare quel giudizio di verità, che coincide con le parole: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”.

        In tal senso, la celebrazione del Sacramento della Riconciliazione è realmente l’esercizio dell’Opus misericordiae. è il luogo in cui il desiderio umano di misericordia e di verità può trovare il proprio compimento; compimento che, proprio per il modo in cui si manifesta, in una Persona viva, eccede radicalmente anche la più grande delle speranze umane. Dio, verità e misericordia, si è reso visibile, toccabile e udibile; Egli ricostruisce l’uomo nella sua primordiale dignità filiale e lo rende partecipe di quella medesima vita divina che Egli stesso intende donare, inviando il proprio Figlio.

         Tutto questo è “a portata di mano”, o meglio “a portata di uomo” grazie alla Chiesa, Sacramento universale di Salvezza, e alla struttura stessa del cristianesimo, che è irrinunciabilmente sacramentale. Non solo un segno che indica il mistero, ma un Sacramento nel quale mistero e segno coincidono; un segno accessibile che porta con sé la partecipazione piena al mistero.

         Carissimi Confratelli, tutto questo accade ogni volta che entriamo in confessionale! Di tutto questo siamo responsabili; questo grande miracolo si palesa ai nostri occhi e, per questa ragione, lodiamo e glorifichiamo Dio, ogni volta che ci è dato, nel nostro limite e nella nostra carne, di ripetere, per i nostri fratelli, le parole di Cristo: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”.

         Ci sostenga, in questo cammino di fedeltà, di verità e misericordia, la Beata Vergine Maria, Regina degli Apostoli, Rifugio dei peccatori, Madre di misericordia. Colei che ha generato nel suo grembo la Verità fatta carne, che L’ha amata come nessun altro e L’ha umilmente seguita. Sia per ciascun confessore modello di misericordia e di verità, di amore e di giustizia, di fedeltà e di tenerezza, perché alla dimensione petrina del ministero non manchi mai quella mariana, e la dimensione mariana sia sempre guidata e sostenuta dalla coessenzialità, dall’oggettività e dalla relazionalità della Verità che è Cristo.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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