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Isis distrugge Palmira pensando all'Apocalisse e punta su ROMA

Ultimo Aggiornamento: 18/11/2015 23:18
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  L'Isis distrugge Palmira, pensando all'Apocalisse


di Stefano Magni26-08-2015



L'Isis mina le fondamenta di Baalshamin

 

Foto di propaganda dell’Isis, in circolazione da ieri, provano quel che si sta dicendo da giorni: il tempio di Baalshamin, a Palmira, 2000 anni di storia nelle sue pietre, è stato fatto saltare in aria dai jihadisti.

Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco, protesta contro il tentativo sistematico di “privare il popolo siriano della sua cultura, storia e identità”. Secondo la Bokova, l’Isis sta compiendo in Iraq e in Siria, la “più vasta opera di distruzione di opere d’arte dai tempi della Seconda Guerra Mondiale”. L’Unesco considera l’azione del movimento armato jihadista come un “crimine di guerra”. La dichiarazione della Bokova rende l’idea delle dimensioni del crimine. Dopo la devastazione dei siti archeologici di Mosul e Ninive, in Iraq, anche la presa di Palmira e la decapitazione dello storico direttore del suo museo, Khaled Asaad, facevano presagire che il peggio dovesse ancora iniziare. Ed effettivamente è iniziato. Tuttavia, la sistematica opera di cancellazione delle tracce di civiltà non-islamiche, cristianesimo incluso, compiuta dall’Isis ha una “marcia in più” rispetto alle distruzioni belliche. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, il più sanguinoso e devastante conflitto contemporaneo, il grosso dei danni è stato inflitto come effetto collaterale delle operazioni militari, in territorio nemico.

Le distruzioni dei bombardamenti a tappeto, compresa quella del monastero di Montecassino da parte dell’aviazione statunitense, il bombardamento di Dresda da parte di quella britannica, la precedente distruzione di Coventry da parte di quella tedesca, non miravano specificamente alla cancellazione di una civiltà e delle sue tracce, ma a sconfiggere un nemico in armi o a seminare il terrore fra i civili nelle sue retrovie. L’Isis, al contrario, distrugge ciò che è già nelle sue mani, a popolazione già assoggettata e nemico già sconfitto. Non è semplicemente un “crimine di guerra”, ma un crimine commesso nel dopo-guerra, un metodo di governo.

Gli opinionisti più anticlericali cedono spesso alla tentazione di tracciare paralleli impossibili con il cristianesimo medioevale e moderno, con i libri all’indice, la trasformazione in chiese delle moschee e l'uso dei templi romani come “cave di marmo e pietra” per la costruzione delle cattedrali, attribuito a una presunta volontà cristiana di cancellare il paganesimo. L'intento è quello di veicolare il messaggio che "tutte le religioni distruggono". Ma è un ragionamento smentito da un semplice dato di fatto: l’Italia, patria della Chiesa, ospita tuttora il maggior numero di siti inclusi nella lista dei patrimoni dell'umanità. Se si scorre la lista dei 26 paesi che ospitano il maggior numero dei patrimoni Unesco, tutti, ad eccezione di Cina, India, Giappone, Iran, Turchia e Corea del Sud, hanno una storia e una cultura cristiane. Nemmeno in Messico, dove pure i conquistadores spagnoli non andavano per il sottile, sono state distrutte le vestigia degli imperi pre-coloniali.

Se nel cristianesimo (e nel cattolicesimo, dopo la riforma protestante) vi fosse stato un reale intento di cancellazione dell'arte non cristiana, nel 2015 dopo Cristo non avremmo più un'arte classica da ammirare, non avremmo il Colosseo né il Pantheon, solo per restare a Roma, non avremmo più la letteratura classica, che fu invece riscoperta e diffusa nel Medioevo cristiano e citata a piene mani da Dante nella Divina Commedia. E nelle terre delle Crociate, fra Siria, Libano e l’attuale Israele, non vi sarebbe più traccia di quel mondo pagano su cui ora si accanisce l’Isis con tanto zelo. Si può rivolgere l'accusa all'islam nel suo complesso?
Chi punta il dito sulla religione fondata sul Corano può citare due esempi recentissimi: la distruzione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, da parte dei Talebani e ora l’annientamento delle vestigia mesopotamiche, greche e romane da parte del Califfato. Entrambe le azioni, condannate da tutto il mondo, sono state giustificate con motivazioni puramente religiose: la necessità di sconfiggere ogni forma di “idolatria”, l’implementazione letterale del divieto di rappresentare uomini con statue e dipinti. Ma se tutto l’islam fosse (o fosse stato, nel corso degli ultimi 1400 anni) come quello voluto da Al Baghdadi, a quest’ora l’Isis non avrebbe più nulla da distruggere. Tutto il Nord Africa, i Balcani, il Medio Oriente e l’Asia meridionale, sarebbero deserti culturali.
Il fatto che siano tutte terre ricchissime di storia e archeologia, che Palmira (prima della guerra) fosse una delle maggiori attrazioni turistiche del mondo, così come lo sono tuttora le piramidi d’Egitto, dimostra che non tutto l’islam vuole cancellare le tracce delle civiltà non islamiche, ma solo una parte di esso. 

Quel che il Califfato sta compiendo in Iraq e in Siria è semmai paragonabile alle azioni di regimi atei del recente passato. Ricorda abbastanza le azioni di annientamento culturale sotto i regimi comunisti, in Europa così come in Asia orientale. Come nei casi precedenti, anche il Califfato saccheggia, perché non disdegna il valore economico dei beni di cui viene in possesso. Ma in generale ostenta la distruzione, la cancellazione dell’arte non conforme alla sua ideologia religiosa, quale strumento di propaganda. “La completa distruzione di un tempio pagano” è la didascalia delle foto che documentano la demolizione di Baalshamin.

Cosa accomuna lo Stato Islamico ai precedenti regimi totalitari?

La sua forma di governo, prima di tutto: i totalitarismi mirano a fare l’uomo nuovo, indottrinandolo e cambiando drasticamente l’ambiente sociale e culturale che lo circonda. Atei o teocratici che siano, i regimi totalitari tracciano una riga sul passato e ricominciano da un ipotetico “anno zero” un’utopia che intendono costruire. Lo Stato Islamico è l’utopia musulmana, che intende saltare tutte le tappe intermedie. Sarebbe culturalmente scorretto definirlo “non-islamico”, come tendono a fare i musulmani più moderati, perché ogni singola azione è costantemente giustificata alla luce del Corano. Il professor Bernard Haykel, docente di studi mediorientali di Princeton, di origine libanese, uno dei maggiori esperti del Califfato, parla di “assidua e ossessiva serietà” dell’Isis nella lettura e nell’applicazione del Corano. Ma è comunque manifestazione rara dell'islam, poiché è applicato qui e ora, non solo nell’anima ma nella realtà, nella società e nella politica, nel modo di vivere e in quello di fare la guerra.

Cosa fa, realmente, la differenza? L'ossessione per l'Apocalisse imminente. Come nel caso dei regimi totalitari più fanatici, anche gli uomini dello Stato Islamico credono che l’Apocalisse sia questione di poco. Non un evento che avverrà nelle prossime generazioni, come anche un jihadista come Bin Laden riteneva che fosse, ma un futuro prossimo che si realizzerà “entro un anno, al massimo”, come ha affermato Al Adnani, portavoce del Califfato.
In vista dello scontro finale con le forze del male, che avverrà a Dabiq, località della Siria settentrionale già nelle mani dell’Isis, gli jihadisti si preparano con una purificazione totale. Non solo interiore, effettuata con una continua ripetizione del giuramento di fedeltà all’islam, ma anche con una preparazione “sociale”, purificando l’ambiente esterno, fatto di musulmani “apostati” e di “infedeli”.

L’analogia con gli altri totalitarismi, soprattutto quelli comunisti, è impressionante. Benché materialisti, Lenin, Mao e Pol Pot avevano una loro visione secolarizzata dell’“apocalisse”, della fine dei tempi, del giudizio finale e del paradiso (in terra, nel loro caso): la rivoluzione mondiale e il conseguente trionfo del proletariato, eventi considerati entrambi inevitabili. Per Lenin la rivoluzione mondiale era imminente e ciò spiega la vasta e rapida opera di distruzione del mondo ortodosso russo, molto più intensa sotto il suo regime che non sotto i suoi successori, Stalin incluso.
Mao diede un’accelerazione ulteriore alla cancellazione delle religioni e del mondo feudale e contadino cinese, con le sue millenarie tradizioni: credeva che la rivoluzione mondiale fosse realizzabile in pochi decenni. Pol Pot accelerò i tempi di Mao: non solo annientò le tracce del mondo borghese, ma tutti quei cambogiani che non erano "adatti" alla nuova società, arrivando a ucciderne due milioni e mezzo (un terzo dell’intera popolazione) in soli tre anni.
Per Pol Pot, la rivoluzione mondiale doveva essere realizzata subito, a partire dal Sud Est asiatico, senza fasi intermedie. L’analogia calza per il regime di Al Baghdadi, che pensa all’Apocalisse subito, senza attese, senza fasi intermedie. Ancor più che Pol Pot, l’autoproclamato Califfo non accetta neppure contatti diplomatici con altri Stati, non intende avere alcun rappresentante all’Onu, non vuole nemmeno parlare di confini, perché si tratterebbe di riconoscere una fase di “normalizzazione” intermedia che frenerebbe la corsa verso la resa dei conti finale.
Quanti morti abbia già provocato la sua ideologia, in un territorio che conta circa 8 milioni di abitanti, non è ancora dato saperlo. Quante distruzioni, invece, lo sappiamo già: l’esplosione del tempio di Baalshamin è lì sotto gli occhi di tutti.







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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18/11/2015 18:30
 
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  I quattro castighi di Dio
 
di Angela Pellicciari18-11-2015

Isis

 

Sabato notte, in seminario dove stavo facendo un corso su Agostino, quasi fuori dal mondo perché senza radio e televisione, ho vissuto alcune ore di angoscia. Mi capita spesso di dormire poco e male ma in quel caso non si trattava di insonnia: si trattava di angoscia. Mi sono messa a pregare, ho fatto il mattutino, e ho letto la lettura prevista dal breviario per quella notte: il profeta Ezechiele, capitolo 14, versetti 12-23. 

In quel passo, attraverso il suo profeta, Dio manda a dire al popolo di Israele: “Figlio dell’uomo, se una terra pecca contro di me e si rende infedele, io stendo la mano sopra di essa, le tolgo la riserva del pane, le mando contro la fame e stermino uomini e bestie”; “Quando manderò contro Gerusalemme i miei quattro tremendi castighi: la spada, la fame, le bestie feroci e la peste, per estirpare da essa uomini e bestie, ecco, vi sarà un resto che si metterà in salvo con i figli e le figlie”.
La mattina ho saputo cosa era successo a Parigi durante la notte e ho capito il perché mi era capitato di vegliare. 

Le profezie di Ezechiele contro il popolo infedele e contro i falsi profeti che predicono la pace in nome di Dio, senza che questi li abbia inviati, sono agghiaccianti. E si sono avverate. Basta pensare a come è stata ridotta Gerusalemme dai romani. 

Da quando esiste, l’islam punta alla conquista di Roma. Perché Roma significa il mondo e loro il mondo lo vogliono conquistato al vero Dio. Finora non sono stati capaci di trasformare San Pietro in una stalla, come era quasi riuscito a fare Maometto IV inviando contro l’Occidente un esercito poderoso al comando di Kara Mustafà.
All’ultimo momento, alla vigilia della resa, l’11 settembre 1683, Vienna, ultimo baluardo sulla strada di Roma, non era caduta grazie all’intercessione di Maria impetrata dal santo cappuccino Marco D’Aviano e dalla preghiera di tanti uomini e donne terrorizzati. Finora i popoli cristiani, nell’ora del pericolo, si sono sempre rivolti con digiuni, preghiere, rosari ed elemosine, alla misericordia divina e alla protezione della Vergine.

Oggi cosa facciamo? Ce lo hanno detto in tutte le salse che a Roma stanno arrivando. Come ci prepariamo? I nostri profeti, come ai tempi di Ezechiele, hanno profetizzato e profetizzano pace. Ci vergogniamo della croce e proibiamo ai nostri figli di vedere quadri che la raffigurino, portando la nostra apostasia al limite della follia. Eppure se ci sono una città e una nazione che hanno ricevuto un’infinità di grazie da Dio, per la presenza a Roma del suo vicario, questi siamo noi. 

Oggi di profeti Giona non se ne vede traccia. Chi chiama a conversione? Chi si pente della schifosa apostasia in cui siamo immersi? Chi invita a prendere le armi della fede – le uniche che contino - scongiurando Dio di avere misericordia di noi, dei nostri figli, della nostra storia, della nostra civiltà che è stata bellissima?




«Dio non è come Allah: alcuni dei suoi seguaci teorizzano la violenza»

L'arcivescovo di Ferrara non usa mezzi termini: «Nessuna pietà per chi non aderisce al credo musulmano. Noi cristiani siamo più tolleranti»



Parole chiare quelle di Sua Eccellenza Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara e Comacchio. Non c'era da dubitarne. La scorsa estate, alla vigilia di Ferragosto, festa dell'Assunta durante la quale si sarebbe pregato per la pace in Medio Oriente, Negri aveva fatto affiggere sulla facciata dell'arcivescovado il simbolo dei cristiani perseguitati dagli islamisti iracheni.

Il marchio rappresentava «l'iniziale della parola Nassarah (Nazzareno), il termine con cui il Corano individua i seguaci di Gesù di Nazareth - che viene imposto dalle milizie dell'autoproclamatosi califfo al-Baghdadi agli infedeli-cristiani per i quali non c'è posto nello Stato islamico dell'Iraq e del Levante a meno che si convertano».

In questa intervista l'arcivescovo di Ferrara ha accettato di parlare delle radici religiose della violenza che ha insanguinato le strade di Parigi.

In questi giorni si ripetono accuse nei confronti delle religioni come fossero tutte causa di violenza, morte e carneficine. È corretto o sono necessari dei distinguo?

«Sono più che necessari. Per la conoscenza che ho delle grandi religioni occidentali e asiatiche, la violenza non è nelle teorie ma è un fatto comportamentale. Più facilmente, come ha mostrato la storia del Novecento, è l'ideologia condita di ateismo, a produrre violenza. Perché si vuole piegare al proprio credo chi lo rifiuta. Fatta questa precisazione, l'unica religione che tematizza la violenza come direttiva teorica e pratica è l'Islam. Ma qui si apre un'altra riflessione. Nella sua essenza l'Islam è un'ideologia di origine teocratica, che rende quindi la religione strumento del regno».

Una religione che divide il mondo in fedeli e infedeli?

«Alle religioni nelle quali la violenza è teorizzata e indicata come atto pratico ci si deve opporre con nettezza».

Anche i cristiani, storicamente, sono stati violenti usando la fede come strumento di dominio.

«Questo è un fatto storico. I cristiani hanno potuto essere violenti, anche se non credo nelle dimensioni nelle quali viene spesso narrato, perché hanno assunto le modalità di espressione e di comportamento del loro tempo. Di suo, il cristianesimo non è violento».

Quindi tra Allah e Dio c'è differenza in rapporto all'uso della violenza.

«La violenza nell'Islam ha tutt'altra natura perché è intollerante verso chi non aderisce al credo musulmano. Noi cristiani siamo esortati dalla tradizione della Chiesa e dal magistero papale a non far prevalere i nostri istinti sulla dottrina».

Non crede all'esistenza dell'Islam moderato?

«Credo nella natura umana animata, secondo sant'Agostino, dal desiderio di bellezza, verità, bontà. Più che nel prevalere dell'Islam moderato confido nell'emergere di questo umanesimo comune a tutti: cristiani, musulmani e appartenenti a tutte le confessioni religiose. La ricerca di questa bontà e benevolenza è la base per un rapporto corretto e ragionevole anche con l'Islam».

Anche di fronte alla sacralità della vita ci sono atteggiamenti diversi?

«I cristiani rintracciano le ragioni del rispetto della vita in questo umanesimo. Spero che prevalga anche tra i musulmani rispetto a certe formulazioni ideologiche che ritroviamo nell'Islam».

Perché sui simboli religiosi cristiani si può scherzare mentre Maometto non può essere fatto oggetto di ironia?

«Se per ironia s'intende la consapevolezza della differenza tra dottrina e modalità con cui viene conosciuta e comunicata, ben venga. Senza ironia la vita diventa insopportabile. Se invece significa disprezzo per i contenuti della fede, allora non ci sto. Nella cultura islamica non esiste la possibilità di ironizzare su certi eccessi dei credenti. Invece, nel mondo cattolico l'autoironia dei cristiani è segno di adesione matura».






[Modificato da Caterina63 18/11/2015 23:18]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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18/11/2015 18:33
 
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  La minaccia ISIS sull'Europa. Ora tocca a Roma


di Massimo Introvigne
18-11-2015


Dabiq, la copertina dedicata a Roma

Nella miriade di commenti che hanno seguito la tragedia di Parigi, manca spesso una risposta convincente alla domanda: perché lo hanno fatto? «Perché ci odiano» o «perché hanno un’ideologia di morte» risponde al quesito sul piano psicologico ma non su quello politico e strategico. Anche chi odia e ha un’ideologia criminale sceglie i suoi obiettivi in funzione di una strategia.

Per rispondere a questa domanda, è necessaria una brevissima storia delle divisioni all’interno del terrorista ultra-fondamentalista islamico. Nella sua incarnazione moderna, questo nasce nel 1981 con l’attentato al presidente egiziano Sadat. L’attentato è un successo sul piano militare – i terroristi riescono a uccidere un leader protetto da un imponente apparato di sicurezza – ma un fallimento sul piano politico. Non ne segue, come gli attentatori avevano sperato, una rivoluzione islamica in Egitto, ma l’arresto e l’impiccagione dei principali leader fondamentalisti, nella sostanziale indifferenza della popolazione. Dopo il 1981 il fondamentalismo propriamente detto sceglie di puntare al potere attraverso la lenta islamizzazione della società, la richiesta di democrazia e le elezioni. Se ne separa l’ultra-fondamentalismo, guidato in Egitto da Ayman al-Zawahiri, l’attuale leader di al-Qa’ida, che vuole invece continuare sulla via del terrorismo e degli attentati.

Ma anche l’ultra-fondamentalismo ha le sue divisioni. In Palestina Hamas – che è anche un’organizzazione politica, capace di vincere elezioni e governare – continua a organizzare attentati, ma sostiene che l’attenzione dell’intero islam radicale dovrebbe concentrarsi su Israele e sul colpire obiettivi israeliani. Quella contro Israele per Hamas non è una battaglia fra le tante, ma la madre di tutte le battaglie. Per al-Qa’ida, invece, il terrorismo ha successo se sposa una pluralità di cause – dalle rivendicazioni di indipendenza del Kashmir alla lotta dei fondamentalisti algerini contro il governo laico di Algeri – e colpisce in tutto il mondo. Di qui una frattura fra al-Qa’ida e Hamas, che non si è mai ricomposta.

La seconda divisione avviene dopo l’11 settembre 2001 e i successivi attentati di Madrid (2004) e Londra (2005). Anche qui si tratta di successi militari, ma con esiti politici ambigui. Ci sono ormai sufficienti documenti per sapere qual era lo scopo cui secondo bin Laden dovevano servire questi attentati. La sua tesi era che i governi laicisti o «falsamente» musulmani del Medio Oriente stanno in piedi solo perché sostenuti dall’Occidente. Se il burattinaio occidentale taglia i fili, i burattini – cioè i governi del Medio Oriente – cadono rapidamente. Gli attentati dovevano servire a convincere gli occidentali che occuparsi del Medio Oriente non era salutare, spaventando l’opinione pubblica e creando una pressione sui governi che li avrebbe indotti a ritirarsi da ogni intervento nei Paesi arabi.

Bin Laden aveva studiato a Londra, dove frequentava gli stadi di calcio – era tifoso dell’Arsenal – ma rifiutava sdegnosamente di andare al cinema. Se avesse visto qualche western, avrebbe capito che il calcolo poteva funzionare – e funzionò – per qualche Paese europeo, ma non per gli Stati Uniti. Quando si sentono attaccati, gli Stati Uniti reagiscono. Dopo l’11 settembre reagiscono in modo confuso, commettendo molti errori, ma certamente disarticolano le basi di al-Qa’ida in Afghanistan e, con il prosieguo della presidenza Bush, iniziano a occuparsi del Medio Oriente non di meno, ma di più. Di qui critiche in al-Qa’ida alle strategie di bin Laden, e la nascita di un’opposizione interna.

Le opposizioni a bin Laden trovano un punto di coagulo nella figura di Abu Musab al-Zarqawi, leader di al-Qa’ida in Iraq. Non solo Zarqawi considera di scarsa utilità gli attentati in Occidente, ma accusa bin Laden di accordi sottobanco con l’Iran sciita e la Siria di Assad, che è un alauita (cioè appartiene a un’eresia sciita), dal suo punto di vista inaccettabili perché non considera gli sciiti autentici musulmani. Quando si imbatte in sciiti, Zarqawi li uccide senza pietà. Il conflitto fra Zarqawi e al-Qa’ida è così forte che, quando il primo è ucciso dagli americani nel 2006, sono in molti a pensare che le informazioni su dove trovarlo siano arrivate ai servizi statunitensi – tramite quelli pakistani – dallo stesso bin Laden.

Di qui un risentimento mai sopito fra i partigiani di Zarqawi e al-Qa’ida, che esplode nel febbraio 2014 quando l’ISIS – che riunisce sostanzialmente chi in Iraq e Siria si considera erede di Zarqawi – si separa da al-Qa’ida. L’attuale ISIS e al-Qa’ida avevano però condiviso un percorso comune dal 2011, l’anno della morte di bin Laden, al 2014, nel corso del quale era emersa l’idea dell’opportunità di non limitarsi al terrorismo ma puntare a costituire veri e propri Stati, certo non riconosciuti dalla comunità internazionale, che battessero moneta, riscuotessero tasse, avessero le loro scuole, polizie e ospedali. Solo che al-Qa’ida pensava a piccoli «emirati» leggeri, diffusi a macchia di leopardo nell’intero mondo islamico, dal Mali alla Somalia e dallo Yemen ai territori tribali fra Afghanistan e Pakistan, mentre l’ISIS ha deciso di puntare a un unico grande califfato.

Sia al-Qa’ida sia l’ISIS organizzano anche attentati in Occidente. Talora collaborano, come nel caso di Charlie Hebdo, e del resto i successi dell’ISIS stanno mettendo in forte difficoltà al-Qa’ida. Le informazioni secondo cui una riunificazione fra i due movimenti – ma stavolta con l’ISIS in posizione egemone – è oggi una possibilità concreta probabilmente non sono false. Concettualmente, però, gli scopi sono diversi. Al-Qa’ida pensa ancora di potere destabilizzare con gli attentati i governi occidentali, confondendo e turbando la loro politica estera. È ancora riuscita a colpire negli Stati Uniti, attivando «lupi solitari», in genere militari statunitensi di religione islamica, che hanno aperto il fuoco all’improvviso facendo un certo numero di morti, com’è avvenuto nel 2009 nelle sparatorie di Little Rock e Fort Hood.

L’ISIS persegue una strategia diversa. Non è nato con lo scopo primario di destabilizzare l’Occidente, ma di costruire un califfato in Oriente e in Africa. Per questo ha bisogno di volontari, che costituiscono il nerbo del suo esercito. Dopo l’episodio di Charlie Hebdo, non solo gli analisti ma le stesse pubblicazioni dell’ISIS hanno messo in chiaro a che cosa servono quel genere di attentati. Sono spot pubblicitari per il reclutamento di nuovi militanti che partano dall’Occidente e vadano a combattere in Siria e in Iraq. E sono spot che funzionano: secondo alcune valutazioni, i combattenti partiti dalla Francia per arruolarsi nell’ISIS sono più di ottocento.

Se questo era vero per Charlie Hebdo, nei mesi passati dall’attacco al giornale satirico francese nel gennaio 2015 ai nuovi attentati di Parigi di novembre 2015 qualche cosa è cambiato. Lo spot pubblicitario per reclutare giovani estremisti disposti a partire per le terre del califfato rimane il primo motivo degli attentati. Ma se ne aggiungono altri due, anche qui chiaramente illustrati nella letteratura dell’ISIS, che tra l’altro è scritta da persone di buona cultura. Lo stesso califfo al-Baghdadi non è un contadino, ma un accademico con uno, o secondo altrui due, dottorati universitari.

Il secondo obiettivo è creare il caos in alcuni Paesi identificati come «a rischio» per l’incapacità della polizia di controllare periferie e banlieues dove non osa neppure avventurarsi e dove ci sono tanti musulmani. Il caos costringerà la polizia a occuparsi d’altro e a non ostacolare il reclutamento dell’ISIS. E in una società in preda al caos il reclutamento diventerà anche più facile. Lo spiega un opuscolo pubblicato nel mese di luglio 2015 dall’ISIS, «Gang musulmane». Il testo studia il fenomeno delle gang criminali in certi quartieri delle grandi città occidentali. Ben lungi dall’opporsi alle gang, sostiene l’ISIS, gli estremisti musulmani devono salutare il fenomeno con favore, infiltrare quelle esistenti e crearne di proprie, «gang musulmane» appunto, mantenendo e aumentando il tasso di violenza e di caos che regna nelle banlieues.

Il terzo obiettivo riguarda l’Italia. L’opuscolo «Gang musulmane» si conclude con un capitolo dal titolo «L’offensiva verso Roma». L’ISIS ricorda che Roma è il centro simbolico dell’Europa e dell’Occidente e che il califfato sarà preso sul serio anche da chi tra i musulmani oggi lo considera un fenomeno marginale o criminale solo quando sarà riuscito a colpire Roma. L’opuscolo rimanda a un libro pubblicato dall’ISIS nel febbraio 2015, «Bandiere nere su Roma». Le obiezioni di chi considera questa letteratura provocatoria e non autentica non sembrano convincenti. Lo stile è quello delle consuete pubblicazioni dell’ISIS.

«Bandiere nere su Roma» fissa un obiettivo ambizioso, non solo l’attacco terroristico – quella è solo una prima fase – ma la conquista di Roma. Naturalmente perché questo obiettivo, militarmente impossibile, diventi teologicamente realistico occorre rifarsi a detti di Muhammad e a interpretazioni del Corano. Ma c’è anche tanta sociologia e tanta geopolitica: si citano dati sulla diminuzione dei cattolici praticanti in Italia e sul numero di musulmani immigrati, e si spiega come una volta conquistata la Libia e magari anche la Tunisia lanciare missili sull’Italia diventerà concretamente possibile. L’ISIS sa che in Italia non ci sono le banlieues, ma spiega che c’è però un estremismo di sinistra, che può diventare un alleato e ispirare le «terze generazioni» musulmane. Pensa anche che l’Occidente sarà costretto a occuparsi poco dell’ISIS, o perfino a concludere un’alleanza non dichiarata con il radicalismo islamico, perché sarà impegnato in uno scontro con la Russia, che molti governi occidentali considerano il nemico principale.

Come si vede, un’analisi che unisce elementi apocalittici di carattere religioso a considerazioni geopolitiche di una certa raffinatezza. Una prospettiva che non esclude arretramenti o sconfitte in Iraq e Siria, anche se ripete il «teorema bin Laden» secondo cui i governi democratici non possono vincere guerre perché, se i soldati cominciano a morire, chi governa perde le elezioni. È un problema che né al-Qa’ida né l’ISIS evidentemente hanno e che continua a indurre Europa e Stati Uniti a non impegnare in Medio Oriente quelle truppe di terra che sole potrebbero sconfiggere il califfato – i droni e gli aerei non bastano. Ma anche se fosse sconfitto in Iraq e in Siria il califfato ha già un Piano B: si delocalizzerebbe in Africa e aspirerebbe a minacciare l’Europa.

«Bandiere nere su Roma» contiene anche due indicazioni concrete. La prima è che la fase di attacco a Roma dovrà andare dal 2015 al 2020, quando potrebbero essere mature le condizioni per una vera e propria guerra. E la seconda è l’importanza di Bologna come «porta» simbolica verso Roma. L’ISIS non ha dimenticato, anzi ha studiato, la strage di Bologna del 1980 e il suo impatto sull’Italia e attira l’attenzione sulla città emiliana, «le sue strade e le sue ferrovie», come obiettivi. L’ISIS legge poco? Al contrario, legge anche il politologo italiano Gianfranco Pasquino, di cui cita la frase: «Se vuoi creare il caos in Italia lo fai passando da Bologna». Servizi italiani avvisati, mezzi salvati. Ma solo mezzi: l’intelligence e la prevenzione devono fare il resto, senza dimenticare la necessità politica e culturale di mantenere un dialogo con la grande maggioranza di musulmani italiani che non amano affatto l’ISIS e che un atteggiamento anti-islamico generalizzato e ottuso finirebbe per regalare agli estremisti.

L'OFFENSIVA DEL CALIFFATO di Stefano Magni
- I QUATTRO CASTIGHI DI DIO, di Angela Pellicciari

 





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