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Analisi puntuale di Padre Scalese senza peli sulla lingua

Ultimo Aggiornamento: 07/12/2016 15:30
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02/11/2016 22:51
 
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Revanscismi ecclesiastici


 



Venerdí scorso, 28 ottobre, il bollettino quotidiano della Sala stampa della Santa Sede riportava la notizia della nomina dei nuovi membri della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (CCDDS). Gli osservatori hanno fatto notare che si è trattato di un caso piú unico che raro di completo azzeramento di un dicastero della Curia Romana. Praticamente, della vecchia guardia è rimasto soltanto il Prefetto, il Card. Robert Sarah. Qualcuno è arrivato al punto di parlare di “purga”, come quelle di staliniana memoria. Ora è ovvio che ciascun Papa si circonda dei collaboratori che preferisce; non è la prima volta che nelle congregazioni romane avvengono avvicendamenti in base alla sensibilità del Pontefice pro-tempore. Era stato Benedetto XVI che nel 2005 aveva sostituito Mons. Domenico Sorrentino con Mons. Malcolm Ranjith nella carica di Segretario della CCDDS, e nel 2007 aveva rimosso Mons. Piero Marini come Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, mettendo al suo posto Mons. Guido Marini. Non si vede perché Papa Francesco non dovrebbe godere della stessa libertà di intervento sui dicasteri vaticani, avendo oltretutto ricevuto, nelle riunioni pre-conclave, una specie di “mandato” dal Collegio cardinalizio di riformare la Curia (si veda il significativo accenno a questo proposito fatto da Papa Francesco nell’intervista rilasciata alla Civiltà Cattolica nel numero del 28 ottobre 2016, p. 5). Il problema, a mio avviso, non è la legittimità dell’intervento (che nessuno contesta), ma le sue modalità di attuazione.
 

Finora i Papi, sia nella scelta dei Vescovi sia nella nomina dei propri collaboratori nella Curia Romana, avevano certamente seguito una loro “politica”, ma lo avevano sempre fatto tenendo conto anche delle tendenze diverse dalla propria. Non so se anche nelle sacre stanze vigesse una sorta di “manuale Cencelli” (espressione in genere utilizzata in senso dispregiativo, come sinonimo di lottizzazione e spartizione di potere, ma che in qualche modo rappresentava un tentativo, sia pure limitato e discutibile, di dare voce a diverse correnti politiche). In ogni caso ci si sforzava di mantenere nelle nomine un certo equilibrio, in modo che fossero rappresentative delle diverse “anime” della Chiesa. Pensiamo a Giovanni Paolo II: è piú che evidente che durante il suo pontificato abbia favorito un ricambio dell’episcopato mondiale in senso, diciamo cosí, “conservatore” (si pensi, per esempio, alle nomine negli Stati Uniti, nei Paesi Bassi, in Austria o in Svizzera); ma Giovanni Paolo II è anche il Papa che ha nominato Carlo Maria Martini Arcivescovo di Milano e lo ha poi elevato alla porpora, nonostante che l’ex-Rettore di Biblico e Gregoriana non potesse essere considerato propriamente un “wojtyliano” (al punto di essere successivamente reputato da alcuni come una sorta di “antipapa”). Ebbene, si ha l’impressione che questa attenzione alla “rappresentanza delle minoranze” (chiamiamola cosí per intenderci) sia completamente scomparsa. Si direbbe che anche nella Chiesa si sia diffusa la tendenza che in Italia ha avuto il sopravvento col passaggio dalla prima alla seconda repubblica: mentre nella prima repubblica ci si preoccupava di dare spazio anche alla minoranza parlamentare (per esempio, lasciandole la presidenza di una delle due camere), ora chi vince le elezioni fa en plein. Si ha davvero l’impressione che un certo schieramento, che era uscito sconfitto dal Concilio (si tratta di una mia rilettura dell’evento conciliare, che meriterebbe forse un approfondimento, ma non è questo il momento) e che durante i pontificati che si erano succeduti nell’ultimo cinquantennio si era sentito a poco a poco sempre piú emarginato, con il nuovo pontificato si stia prendendo la “rivincita” sui propri “nemici” (lo facevo già notare in un post dello scorso febbraio). La cosa potrebbe essere anche comprensibile, se non fosse per il modo, diciamo cosí, “invasivo” in cui lo si sta facendo. Lo si era già visto nell’ultima infornata di Cardinali: era piú che evidente l’esclusiva provenienza ideologica dei designati. Ora lo stesso si sta ripetendo con le nuove nomine alla CCDDS. Sembrerebbe che quanti per cinquant’anni avevano visto frustrate le loro aspirazioni, una volta raggiunto il potere si vogliano togliere lo sfizio di infierire sugli avversari: “Abbiamo vinto! Non c’è piú nessuno spazio per voi”. La storia insegna che quando, dopo aver vinto, si è voluto stravincere e umiliare il nemico sconfitto, le conseguenze sono state disastrose (si pensi alla prima guerra mondiale).
 
Ma, a parte queste considerazioni “morali”, c’è da pensare anche alle conseguenze pratiche che potrebbero avere queste nomine. Che cosa succederà ora alla CCDDS? Da una parte c’è il Prefetto, che ha una visione liturgica “benedettiana” (il cui obiettivo principale consiste nell’attuazione della cosiddetta “riforma della riforma”), e dall’altra i membri della Congregazione, che si oppongono risolutamente a quella visione e a qualsiasi, seppur minimo, tentativo di revisione della riforma liturgica post-conciliare. A meno che la sostituzione di tutti i membri del dicastero non sia stata voluta per costringere il Prefetto alle dimissioni (il Card. Sarah però non mi sembra il tipo che si lasci intimidire o si arrenda facilmente), si creerà inevitabilmente una situazione di stallo: un muro contro muro senza possibilità di mediazione. Personalmente sono sempre stato convinto che la verità non sia mai tutta da una parte e il torto tutto dall’altra; ritengo che l’utilità degli organismi collegiali stia proprio nella molteplicità delle voci ivi rappresentate: ciascuno dà il proprio contributo e poi l’autorità media e fa la sintesi fra le diverse posizioni. In questo modo invece non si fa altro che creare nuove tensioni e divisioni, radicalizzare le posizioni ed esacerbare gli animi. E ciò va contro quello che è il ruolo proprio dell’autorità:
Optimum autem regimen multitudinis est ut regatur per unum: quod patet ex fine regiminis, qui est pax; pax enim et unitas subditorum est finis regentis [= “la migliore forma di governo è quella in cui il popolo è governato da uno solo; il che risulta evidente se si considera qual è il fine proprio dell’autorità, cioè la pace; infatti la pace e l’unità dei sudditi sono lo scopo di chi governa”] (San Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, l. IV, c. 76).
Non mi sembra che queste siano le migliori premesse per una eventuale riforma della Curia Romana e, men che meno, per un autentico rinnovamento della Chiesa. A che serve preoccuparsi dell’unità con i cristiani separati, quando poi si creano nuove divisioni all’interno della Chiesa cattolica? A che serve parlare di “Chiesa aperta, comprensiva” (intervista di Papa Francesco al quotidiano La Nacion, 28 giugno 2016), quando poi le scelte che vengono fatte sono tutte a senso unico e alle “opposizioni” non si lascia alcuno spazio? A che serve stigmatizzare la tendenza a «privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi» (Evangelii gaudium, n. 223), quando poi si dà l’impressione che il “nuovo corso” si risolva esclusivamente nell’occupazione di tutti gli spazi di potere a disposizione?





giovedì 24 novembre 2016 - Dalla sapienza all’ideologia

 

Domenica scorsa, 20 novembre, in concomitanza con la chiusura del Giubileo straordinario della misericordia, Papa Francesco ha firmato la lettera apostolica Misericordia et misera. Ciò che di questo documento ha destato maggiore scalpore è stata la concessione a tutti i sacerdoti della «facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto» (n. 12), facoltà che era stata già concessa all’inizio del Giubileo, limitatamente alla durata dello stesso (qui). Nessuno vuole mettere in discussione la legittimità di tale disposizione, che rientra senz’alcun dubbio tra le facoltà della suprema autorità della Chiesa e che anzi può portare un po’ di uniformità e semplificazione nella “giungla” normativa finora esistente (disposizioni diverse da una diocesi all’altra; sacerdoti autorizzati e sacerdoti non autorizzati ad assolvere; religiosi col privilegio di rimettere le censure; ecc.), che poteva creare solo confusione nei fedeli. Mi siano però permesse un paio di osservazioni.
 

1. In simili situazioni ci si aspetterebbe una maggior chiarezza e precisione. La frase «concedo d’ora innanzi a tutti i sacerdoti, in forza del loro ministero, la facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto» non mi sembra che brilli per rigore giuridico. È vero che si tratta di un documento pastorale e non di un trattato di diritto canonico; ma non credo che “pastorale” sia sinonimo di superficialità e approssimazione. Innanzi tutto, che significa «in forza del loro ministero»? Questa facoltà concessa dal Papa prescinde dalla facoltà che ogni sacerdote deve ricevere dall’Ordinario del luogo per poter assolvere validamente i peccati (can. 966, § 1) o è subordinata ad essa? In secondo luogo, non si fa alcun cenno alla scomunica latae sententiae prevista dal can. 1398. Si dirà: Ma è sottinteso! la concessione si riferisce proprio all’assoluzione dalla scomunica. Ma allora perché non dirlo? perché parlare solo di peccato? Forse per farsi capire meglio dai non addetti ai lavori? Per me, usando questo pressappochismo, si crea solo confusione. Tanto è vero che nella conferenza stampa di presentazione della lettera c’è voluta la domanda di un giornalista per chiarire che «ci sarà una riforma del Codice per recepire la norma dettata ora dal Papa, ma la scomunica non cade: cambia la via per esserne liberati. Fino ad ora occorreva rivolgersi a un confessore autorizzato dal vescovo a tale compito, che generalmente era il penitenziere della Cattedrale, ora si potrà avere l’assoluzione da ogni sacerdote e con l’assoluzione sarà tolta la scomunica» (qui). In questo caso almeno la risposta è stata chiara; anche se viene da chiedersi che senso abbia una scomunica rimessa ordinariamente da qualsiasi sacerdote…
 
2. Ma, a parte questo aspetto formale, ciò che lascia un tantino perplessi è l’opportunità della nuova disciplina. Va detto che Papa Francesco è stato assolutamente chiaro e deciso nel riaffermare la gravità del peccato di aborto: «Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente» (Misericordia et misera, n. 12). Ma, almeno a stare a quanto hanno riportato i giornali (basta dare un’occhiata alla foto con cui si apre questo post), non sembra che il messaggio sia giunto a destinazione: si direbbe che la decisione del Papa abbia piuttosto portato a una banalizzazione dell’aborto. Come al solito, i giornalisti si sono dimostrati alquanto superficiali; ma se loro hanno capito in questo modo, che cosa capirà la gente comune, che da loro dipende per essere informata? Credo che, a questo proposito, sia quanto mai opportuna una riflessione. 
 
Quando si vuol comunicare un messaggio, il piú delle volte le parole, per quanto chiare esse possano essere, non bastano; occorre che siano accompagnate da “segni” (che possono essere gesti, esempi, divieti, punizioni, ecc.). Questo è particolarmente evidente in campo pedagogico: una educazione che si limiti alle “prediche” difficilmente riesce a produrre risultati efficaci. I genitori, se vogliono che i loro figli non imparino a dire le parolacce, devono innanzi tutto dare loro l’esempio, non dicendole; e poi, alla prima parolaccia che sentono, devono immediatamente mollare un bel ceffone, se davvero vogliono che i loro figli capiscano una volta per tutte che le parolacce non vanno dette. La Chiesa, che è una grande pedagoga, ha sempre usato questo metodo educativo; fa specie che, proprio ora che tanto si parla di “conversione pastorale”, ci si dimentichi di certe ovvietà. 
 
Facciamo un paio di esempi. Fino a non molti anni fa la Messa si diceva in latino. Perché? Forse perché la Chiesa voleva che i fedeli non capissero nulla o perché preferiva l’uso di un linguaggio misterioso e quasi magico? No; ma solo perché voleva che si capisse che i sacramenti agiscono ex opere operato, vale a dire sono intrinsecamente efficaci, a prescindere dalla nostra comprensione. Una volta era proibita la comunione sotto le due specie. Perché, visto che Gesú aveva istituito l’Eucaristia usando sia il pane che il vino? Semplicemente perché bisognava comprendere che in ciascuna specie era presente tutto Cristo (corpo, sangue, anima e divinità). A questo proposito, può essere assai utile la lettura dei nn. 10-15 del proemio dell’Ordinamento generale del Messale Romano.
 
Ebbene, sembrerebbe che la Chiesa odierna abbia perso questa sapienza che l’aveva sempre contraddistinta nel corso dei secoli. La Chiesa dei nostri giorni sembra aver l’allergia per qualsiasi manifestazione di severità, quasi che la severità sia incompatibile con la bontà, dimenticando che essa è invece uno degli elementi essenziali del processo formativo. Si dirà che oggi l’urgenza è quella di mostrare agli uomini la misericordia di Dio. Non sarò certo io a contestare tale affermazione: sono profondamente convinto che Dio abbia suscitato santi come Suor Faustina Kowalska e Papa Giovanni Paolo II proprio per far conoscere al mondo il mistero della sua misericordia. Ma la misericordia divina non è una clemenza low cost: tutto ciò che è a buon mercato rischia di perdere valore agli occhi degli uomini. Un bambino non prende sul serio un educatore troppo indulgente. Chi sta nella scuola sa che gli alunni non hanno né stima né rispetto per i professori “troppo buoni”.
 
Persa la sua antica sapienza, la Chiesa odierna cerca di rimpiazzarla con l’ideologia. Papa Francesco è sempre stato attento a questo pericolo. Nella sua intervista a La Civiltà Cattolica (n. 3918, 19 settembre 2013) aveva detto:
Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante (pp. 469-470).
Ora, nell’intervista rilasciata nei giorni scorsi ad Avvenire (16 novembre 2016) ha riaffermato:
Con la Lumen gentium [la Chiesa] è risalita alle sorgenti della sua natura, al Vangelo. Questo sposta l’asse della concezione cristiana da un certo legalismo, che può essere ideologico, alla Persona di Dio che si è fatto misericordia nell’incarnazione del Figlio.
Ma qualche giorno prima, l’11 novembre, come ricordavo in un recente post, in una delle sue meditazioni mattutine in Santa Marta aveva dovuto ammettere che anche l’amore può trasformarsi in ideologia. Anche la misericordia, aggiungo io, può essere ideologizzata. 
 
“Ideologia” non significa qualcosa di per sé falso: in genere si tratta di una “verità impazzita”, vale a dire una verità slegata dal suo contesto, una verità parziale sconnessa dalla rete delle altre verità parziali con cui è in rapporto e assolutizzata. La giustizia e l’uguaglianza non sono forse valori apprezzabili? Eppure, isolate da altri valori altrettanto importanti, quali ad esempio la libertà e il legittimo pluralismo, si sono trasformate in una crudele ideologia. 
 
Una verità si trasforma in ideologia soprattutto quando perde il suo contatto con la realtà, quando si dimentica dei limiti e dei condizionamenti che caratterizzano la condizione umana. Messa di fronte alla realtà, l’ideologia non ha l’umiltà di adattarsi ad essa, ma pretende che sia la realtà a doversi adeguare. Robespierre aveva certamente dei grandi ideali; ma, una volta constatato che la rivoluzione non era stata capace di realizzarli, non trovò di meglio che far ricorso alla ghigliottina. Questo, Papa Bergoglio lo sa bene, essendo convinto che «la realtà è piú importante dell’idea». In Evangelii gaudium ha affermato che «l’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci» (n. 232). Aggiungo io: l’idea, staccata dalla realtà, diventa ideologia. E questo può avvenire anche nella Chiesa, anche con le cose piú sante che essa è chiamata a proporre e dispensare. Ciò accade quando un aspetto della sua predicazione viene “decontestualizzato” (= isolato dall’insieme dei dogmi) e assolutizzato, quasi che il resto non avesse piú alcuna importanza; oppure quando ci si dimentica della realtà, delle persone concrete con cui si ha a che fare. 
 
Ebbene, anche l’estensione a tutti i sacerdoti della facoltà di assoluzione dell’aborto, con la sua pretesa di evidenziare un grande valore (la misericordia di Dio), ma trascurando il fatto che i fedeli possono aver bisogno anche di una censura per rendersi conto della gravità del peccato, potrebbe essere il segno di una progressiva ideologizzazione della Chiesa.





[Modificato da Caterina63 24/11/2016 16:14]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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