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Pratica di Amar Gesù Cristo di sant'Alfonso Maria de Liguori

Ultimo Aggiornamento: 22/03/2016 11:29
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22/03/2016 11:17
 
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CAPITOLO XII


Caritas non irritatur.


Chi ama Gesù Cristo
non mai si adira col prossimo.


1. La virtù di non adirarsi nelle cose contrarie che avvengono è figlia della mansuetudine. Degli atti appartenenti alla mansuetudine già ne abbiam dette più cose ne' capi antecedenti; ma perchè questa è una virtù che continuamente dee esercitarsi da chi vive in mezzo agli uomini, ne diremo qui alcune altre cose più particolari e più utili alla pratica.

2. L'umiltà e la mansuetudine furono le virtù care a Gesù Cristo, onde disse a' suoi discepoli che ciò avessero appreso da lui, l'essere umili e mansueti: Hoc discite a me, quia mitis sum et humilis corde (Matth. XI, 29). Il nostro Redentore fu chiamato agnello, Ecce Agnus Dei (Io. I, 29), sì per ragion del sagrificio che di lui avea da farsi sulla croce per soddisfare i nostri peccati, sì per ragion della mansuetudine ch'egli dimostrò in tutta la sua vita e specialmente in tempo della sua Passione. Quando in casa di Caifas ricevè lo schiaffo da quel ministro che nello stesso tempo lo trattò da temerario dicendogli: Sic respondes pontifici? (Io. XVIII, 22), Gesù altro non rispose che queste parole: Si male locutus sum, testimonium perhibe de malo, si autem bene, quid me caedis? (Io. XVIII, 23). Questa mansuetudine poi seguì ad esercitarla sino alla morte: stando in croce, mentre tutti lo schernivano e bestemmiavano, egli altro non faceva che pregare l'Eterno Padre a perdonarli: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt (Luc. XXIII, 34).

3. Oh come son cari a Gesù Cristo i cuori mansueti che nel ricevere gli affronti, le derisioni, le calunnie, le persecuzioni, ed anche le battiture e le ferite, non si adirano con chi l'ingiuria o percuote! Mansuetorum semper tibi placuit deprecatio (Iudith. IX, 16). Le preghiere de' mansueti son sempre gradite a Dio, viene a dire che sono sempre esaudite. A' mansueti sta con modo speciale promesso il paradiso: Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram (Matth. V, 4). Diceva il P. Alvarez che il paradiso è la patria dei disprezzati, perseguitati e calpestati; sì, perchè a costoro, non già a' superbi che sono onorati e stimati dal mondo, sta riserbato il possesso di quel regno eterno. Scrisse Davide che i mansueti non solo otterranno l'eterna beatitudine, ma anche in questa vita godranno una gran pace: Mansueti... haereditabunt terram, et delectabuntur in multitudine pacis (Ps. XXXVI, 11). Sì, perchè i santi non conservano rancore con chi gli maltratta, ma l'amano più di prima; ed il Signore, in premio della loro pazienza, accresce loro la pace interna. Dicea S. Teresa: «Colle persone che diceano male di me parmi ch'io ponessi in loro un nuovo amore». Onde poi la sagra Ruota scrisse della santa: Offensiones ipsi amoris escam ministrabant: le offese le porgevano materia di più amare chi più l'offendeva. Una tal mansuetudine però non può aversi se non da chi è dotato d'una grande umiltà e basso concetto di sè, per cui crede di meritare ogni disprezzo; e perciò all'incontro i superbi son sempre iracondi e vendicativi, perchè han concetto di se stessi e stimansi degni di ogni onore.

4. Beati mortui qui in Domino moriuntur (Apoc. XIV, 13). Bisogna dunque morir nel Signore per esser beato e per cominciare a godere la beatitudine sin da questa vita: s'intende quella beatitudine che può aversi prima di andare in cielo, quale certamente è molto minore di quella del cielo, ma è tale che supera tutti i piaceri sensibili di questa vita: Et pax Dei quae exsuperat omnem sensum custodiat corda vestra, così scrisse l'Apostolo a' suoi discepoli (Philip. IV, 7). Ma per giungere ad ottener questa pace, anche in mezzo agli affronti ed alle calunnie, bisogna esser morto al Signore.

Il morto, per quanto è maltrattato e calpestato dagli altri, niente si risente; e così il mansueto, come morto che più non vede nè sente, dee soffrire tutti i disprezzi che gli son fatti. Chi ama di cuore Gesù Cristo a ciò ben arriva, poichè, tutto uniformato alla di lui volontà, riceve con quella stessa pace ed animo eguale così le cose prospere come le avverse, così le consolazioni come le afflizioni, così le ingiurie come le cortesie. Così facea l'Apostolo, onde poi dicea: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (II Cor. VII, 4). — Oh felice chi giunge a questo grado di virtù! Egli gode una continua pace, la quale è un bene che avanza tutti gli altri beni di questo mondo. Dicea S. Francesco di Sales: «Che vale tutto il mondo in paragone della pace del cuore?» Ed in verità, a che servono tutte le ricchezze, tutti gli onori del mondo a chi vive inquieto e non ha il cuore in pace?

5. In somma per istarcene sempre uniti con Gesù Cristo, bisogna che facciamo tutto con tranquillità, senza inquietarci di alcuna avversità che incontriamo. Non in commotione Dominus (III Reg. XIX, 11): il Signore non abita ne' cuori turbati.

Udiamo i belli documenti che su questa materia ci dà il maestro della mansuetudine, S. Francesco di Sales: «Non vi mettete mai in collera nè le aprite mai la porta per qualunque pretesto, perchè entrata ch'è una volta in noi, non è più in nostra mano, quando vogliamo, il discacciarla nè il moderarla. I rimedi perciò sono: 1º Rigettarla subito con divertire altrove la mente, e senza dir parola. 2º Ad imitazione degli apostoli allorchè videro il mare in tempesta, ricorrere a Dio a cui s'appartiene di mettere il cuore in pace. 3º Se vedrete che la collera per vostra debolezza ha posto già il piede nel vostro spirito, in tal caso fatevi forza per rimettervi in calma, e poi procurate di praticare atti di umiltà e di dolcezza verso la persona contra cui vi sentite adirato; ma tutto ciò bisogna farlo con soavità e senza violenza, poichè molto importa il non inasprir le piaghe». Ed a tal proposito diceva il santo ch'egli ebbe da faticare in sua vita a superare due passioni che più lo predominavano, cioè la collera e l'amore: per superar la passione della collera confessava d'aver dovuto faticare per 22 anni affin di soggiogarla; in quanto poi alla passione dell'amore, avea procurato di mutare oggetto lasciando le creature e rivolgendo tutti gli affetti suoi a Dio. E così il santo si acquistò una pace interna sì grande che la dimostrava anche da fuori, facendosi vedere quasi sempre con volto sereno e colla bocca a riso.

6. Unde bella, nisi ex concupiscentiis vestris? (Iac. IV, 1). Quando alcuno per qualche incontro si sente agitato dalla collera, allora gli sembra di trovar sollievo e pace se dà sfogo all'ira cogli atti o almen colle parole; ma no, s'inganna, perchè dopo aver fatto quello sfogo si troverà molto più turbato di prima. Chi vuol conservarsi in una continua pace si guardi dallo star mai di mal umore. E quando si accorge di esser preso da mal umore, procuri di scacciarlo subito e non farlo dormire la notte seco, disviandosi con leggere qualche libro, col cantare qualche canzoncina divota o col discorrere di fatti ameni con alcuno amico.

Dice lo Spirito Santo: Ira in sinu stulti requiescit (Eccl. VII, 10). La collera nel cuore degli stolti che poco amano Gesù Cristo vi trova alloggio per lungo tempo; ma nel cuore degli amanti di Gesù Cristo, se mai vi entra di soppiatto, presto ne vien discacciata, e non vi dimora. — Un'anima che ama di cuore il Redentore non si trova mai di malo umore, perchè non volendo ella altro che quel che vuole Iddio, ha sempre tutto quel che vuole, e perciò si ritrova sempre tranquilla e sempre eguale a se stessa. Il divino volere la rasserena in tutte le avversità che le accadono: e quindi è ch'ella esercita una mansuetudine universale con tutti. Ma questa mansuetudine non si può ottenere senza un amor grande a Gesù Cristo. Si vede infatti che noi non mai siamo più mansueti e dolci cogli altri, se non quando proviamo maggior tenerezza verso Gesù Cristo.

7. Ma perchè questa tenerezza non sempre la proviamo, bisogna che nell'orazione mentale ci apparecchiamo a soffrire gl'incontri che mai ci possono avvenire. Così han fatto i santi, e si son trovati poi pronti a ricevere con pazienza e mansuetudine le ingiurie, gli schiaffi e le ferite. In quel tempo che ci troviamo insultati dal prossimo, se non ci troviamo preparati più volte da prima, difficilmente saremo atti a discernere quel che dobbiamo fare per non farci vincere dall'ira. Allora la passione ci farà vedere esser ragionevole che rintuzziamo con audacia l'audacia di chi ci maltratta a torto: ma scrive S. Gio. Grisostomo che non è mezzo giusto di spegnere il fuoco acceso nell'animo del prossimo col fuoco d'una risposta risentita, ma è causa di più accenderlo: Igne non potest ignis exstingui (Chrysost. Hom. 98 in Gen.). — Dirà taluno: Ma non è ragione di usar cortesia e dolcezza con un temerario che senza ragione ti offende. Ma risponde S. Francesco di Sales: «Bisogna usar mansuetudine non solo colla ragione, ma contra la ragione».

8. Allora bisogna procurar di rispondere con qualche parola benigna, e questa è la via di spegnere il fuoco: Responsio mollis frangit iram (Prov. XV, 1). Ma quando l'animo sta disturbato, il miglior espediente sarà allora il tacere. Scrive S. Bernardo: Turbatus prae ira oculus rectum non videt (Lib. 2. De cons. cap. 11). L'occhio quando è offuscato dallo sdegno non vede più quel ch'è giusto e quel ch'è ingiusto; la passione è come un velo che ci si pone davanti gli occhi e non ci fa più discernere il dritto dal torto, onde bisogna fare il patto che S. Francesco di Sales avea fatto colla sua lingua: «Io ho fatto il patto, egli scrisse, colla mia lingua, di non parlare quando è turbato il cuore».

9. Ma certe volte par che sia necessario il reprimere con parole aspre alcuno insolente. Disse Davide: Irascimini et nolite peccare (Ps. IV, 5). Dunque talvolta è lecito l'adirarsi, purchè si faccia senza colpa. Ma qui sta il punto. Speculativamente parlando alle volte sembra spediente il parlare o rispondere con asprezza ad alcuni per farli ravvedere; ma in pratica è molto difficile che ciò riesca senza nostra colpa; onde la via sicura è quella di ammonire o di rispondere sempre con dolcezza e stare attento a non mai risentirsi. Dicea S. Francesco di Sales: «Io non mi son mai risentito che appresso non me ne sia pentito». E quando in quell'incontro ci sentiamo ancor noi riscaldati, come ho detto di sovra, la via più sicura è di tacere, riserbando l'ammonizione o la risposta a tempo più opportuno, quando il cuore più non fuma.

10. Questa mansuetudine dobbiamo specialmente esercitarla poi quando siamo corretti da' nostri superiori o dagli amici. Scrive S. Francesco di Sales: «Il gradir le riprensioni fa vedere che uno ama le virtù contrarie a quei difetti de' quali vien ripreso, e perciò questo è un gran segno che profitta nella perfezione». Inoltre bisogna che usiamo la mansuetudine ancora con noi stessi. Il demonio ci fa vedere che sia cosa lodevole l'adirarci con noi quando commettiamo qualche difetto; ma no, ella è opera del nemico che cerca di tenerci inquieti, acciocchè non siamo atti a far niente di bene. Dicea S. Francesco di Sales: «Tenete per certo che tutti quei pensieri che ci danno inquietudine non sono da Dio ch'è principe di pace, ma provengono o dal demonio o dall'amor proprio, o dalla stima che facciamo di noi stessi. Questi sono i tre fonti da cui nascono tutti i nostri disturbi. E perciò quando ci vengono pensieri che c'inquietano, bisogna subito rigettarli e disprezzarli».

11. Inoltre ci è sommamente necessaria la mansuetudine quando dobbiamo far qualche riprensione agli altri. Le correzioni fatte con zelo amaro fanno spesso più danno che utile, specialmente quando colui che dee esser corretto sta turbato; allora bisogna trattenersi a correggerlo, ed aspettar il tempo che in esso siasi sedato il bollore dell'ira. E così anche bisogna che noi ci asteniamo di correggere altri quando stiamo di mal umore, perchè allora l'ammonizione riuscirà sempre fatta con asprezza, e 'l reo, vedendosi ripreso in tal modo, farà poco conto dell'ammonizione come fatta per passione. Ciò corre per quel che spetta al bene del prossimo, ma per quel che si appartiene al nostro profitto, facciamo vedere che amiamo Gesù Cristo sopportando con pace ed allegrezza i maltrattamenti, le ingiurie e i disprezzi.

Affetti e preghiere.

Gesù mio disprezzato, o amore, o gioia dell'anima mia, voi col vostro esempio avete renduti troppo amabili i disprezzi a' vostri amanti. Io vi prometto da ogg'innanzi di soffrire ogni affronto per amor di voi che siete stato in questa terra così vilipeso dagli uomini per amor mio. Datemi voi la forza di eseguirlo. Fatemi conoscere e fatemi operar tutto ciò che volete da me.

Mio Dio e mio tutto, io non voglio cercare altro bene fuori di voi che siete un bene infinito. Voi che avete tanta cura del mio profitto fate ch'io non abbia altra cura che di darvi gusto. Fate che tutti i miei pensieri s'impieghino sempre a fuggire ogni vostra offesa ed a trovar modo di piacervi in ogni cosa. Allontanate da me ogni occasione che mi diverte dal vostro amore. Io mi spoglio della mia libertà e la consagro tutta al vostro divino beneplacito.

V'amo, bontà infinita, v'amo, diletto mio, o Verbo Incarnato, io v'amo più di me stesso. Abbiate pietà di me e guaritemi da tutte le piaghe che patisce l'anima mia per l'offese che vi ha fatte. Io tutto mi abbandono nelle vostre braccia, o Gesù mio: io voglio esser tutto vostro, voglio soffrire ogni cosa per vostro amore, e da voi non voglio altro che voi.

Vergine santa e madre mia Maria, io v'amo, ed in voi confido, soccorretemi colla vostra potente intercessione.







CAPITOLO XIII

Caritas non cogitat malum,
non gaudet super iniquitatem,
congaudet autem veritati.

Chi ama Gesù Cristo non vuol altro
se non quel che vuole Gesù Cristo.


1. La carità va sempre unita colla verità, onde la carità conoscendo che Dio è l'unico e vero bene, perciò abborrisce l'iniquità che si oppone alla divina volontà, e di altro non si compiace, se non di quello che vuole Iddio. Quindi è che l'anima che ama Dio poco si cura di quel che gli altri dicono di lei, e solo attende a fare quel che piace a Dio. Dicea il B. Errico Susone: «Quegli veramente sta bene con Dio, il quale si studia di soddisfare alla verità, e poi nulla stima in qualunque modo sia trattato o riputato dagli uomini».

2. Già di sovra più volte abbiam detto che tutta la santità e perfezione di un'anima consiste nel negare se stessa e nel seguire la volontà di Dio; ma qui cade il parlarne più di proposito. Questo dunque dee esser tutto il nostro studio, se vogliamo farci santi, il non seguir mai la propria volontà, ma sempre quella di Dio; poichè la sostanza di tutti i precetti e consigli divini si ristringe in fare e patire quel che vuole Dio e come lo vuole Dio. Preghiamo pertanto il Signore che ci doni la santa libertà di spirito: la libertà di spirito ci fa abbracciare ogni cosa che piace a Gesù Cristo, non ostante qualunque ripugnanza dell'amor proprio o di rispetto umano. L'amore di Gesù Cristo mette i suoi amanti in una totale indifferenza, per cui tutto loro è uguale, il dolce e l'amaro: niente vogliono di quel che piace a se stessi, e tutto vogliono quel che piace a Dio; colla stessa pace s'impiegano nelle cose grandi che nelle picciole, nelle cose piacevoli che nelle dispiacevoli: basta loro di piacere a Dio.

3. Dice S. Agostino: Ama et fac quod vis, ama Dio, e fa quel che vuoi. Chi ama veramente Iddio non va cercando altro che il gusto di Dio, ed in ciò solo trova il suo contento, in dar gusto a Dio. Scrive S. Teresa: «Chi non cerca se non la contentezza del suo diletto è contento di tutto ciò che il diletto appaga. Questa forza ha l'amore quando è perfetto, fa egli dimenticar la persona d'ogni proprio vantaggio e soddisfazione, e fa tutto rivolgere il di lei pensiero in dar gusto al suo diletto e in cercare come possa per sè e per altri onorarlo. Oh Signore, che tutto il danno ci viene dal non tenere gli occhi fissi in voi! Se non mirassimo che a camminare, presto giungeressimo; ma cadiamo ed inciampiamo mille volte ed anche erriamo la via per non mirare attentamente il vero cammino». Ecco pertanto quale dee esser l'unico scopo di tutti i nostri pensieri, delle azioni, de' desideri e delle nostre preghiere, il gusto di Dio; e questo ha da essere il nostro cammino alla perfezione, l'andare appresso alla volontà di Dio.

4. Iddio vuole che ognuno di noi l'ami con tutto il cuore: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo (Matth. XXII, 37). Quell'anima ama Gesù Cristo con tutto il suo cuore, la quale gli dice di vero cuore quel che gli disse l'Apostolo: Domine, quid me vis facere? (Act. IX, 6): Signore, fatemi sapere quel che volete da me, ch'io tutto voglio farlo. Ed intendiamo, che quando noi vogliamo ciò che vuole Dio allora vogliamo il nostro maggior bene; perchè certamente Iddio non vuole che il meglio per noi. Dicea S. Vincenzo de' Paoli: «La conformità al divino volere è il tesoro del cristiano ed il rimedio per tutti i mali; poichè ella contiene l'annegazione di sè e l'unione con Dio e tutte le virtù». Ecco in somma ove sta tutta la perfezione:Domine, quid me vis facere? Ci promette Gesù Cristo: Et capillus de capite vestro non peribit (Luc. XXI, 18). Viene a dire che il Signore ci paga ogni buon pensiero che abbiamo di dargli gusto ed ogni tribolazione che abbracceremo con pace uniformandoci alla sua santa volontà. Dicea S. Teresa: «Il Signore non manda mai un travaglio senza pagarlo con qualche favore, sempre che noi l'accettiamo con rassegnazione».

5. Ma la nostra uniformità al divino volere ha da essere intiera senza riserba, e costante senza rivocazione. Qui consiste il sommo della perfezione, ed a ciò, replico, debbono tendere tutte le nostre operazioni, tutti i desideri e tutte le nostre orazioni. — Alcune anime di orazione leggendo le estasi e i ratti di S. Teresa, di S. Filippo Neri e di altri santi, s'invogliano di giungere ad avere queste unioni soprannaturali. Tali desideri debbono discacciarsi, perchè son contrari all'umiltà; se vogliamo farci santi dobbiamo desiderare la vera unione con Dio ch'è l'unire totalmente la nostra volontà con quella di Dio. Scrive S. Teresa: «S'ingannano quei che credono che l'unione con Dio consiste in estasi, ratti e godimenti di lui. Ella non consiste in altro che nel soggettare la nostra volontà alla volontà di Dio; ed allora questa soggezione è perfetta, quando la volontà nostra si trova staccata da tutto, ed unicamente unita a quella di Dio, sì che ogni suo movimento sia il solo volere di Dio. Questa è la vera ed essenziale unione che sempre ho desiderata e continuamente chiedo al Signore». E poi soggiunge: «Oh quanti siamo che diciamo questo e parci di non volere altro che questo; ma, miseri noi, quanto pochi ci arriviamo!» E questa è la verità: molti diciamo: Signore, vi dono tutta la mia volontà, non voglio altro se non quel che volete voi; ma quando poi ci avvengono le cose contrarie, non sappiamo quietarci colla divina volontà. E qui ne nasce quel lamentarci di aver mala fortuna in questo mondo, e 'l dire che tutte le disgrazie son le nostre, e di fare una vita infelice.

6. Se noi stessimo uniti colla divina volontà in tutte le avversità, ci faressimo certamente santi, e saressimo i più felici del mondo. Questa dunque dee essere tutta la nostra attenzione, di tenere unita la nostra volontà a quella di Dio in tutte le cose che ci succedono, o piacevoli o dispiacevoli. — Ci avverte lo Spirito Santo: Non ventiles te in omnem ventum (Eccli. V, 11). Taluni fanno come le banderuole che si voltano secondo tira il vento; se il vento è prospero, com'essi desiderano, si vedono tutti allegri e mansueti; ma se il vento è contrario, che le cose non avvengono come vorrebbero, si vedono tutti mesti ed impazienti; e perciò non si fanno santi, e fanno una vita infelice, perchè in questa vita assai più sono le cose avverse che le prospere ad accaderci. Dicea S. Doroteo che il ricevere dalle mani di Dio tutte le cose, comunque vengano, è un gran mezzo per conservarsi in una continua pace e tranquillità di cuore. E perciò narra il santo che gli antichi padri dell'eremo non erano mai veduti adirati e malinconici, perchè quanto loro accadeva tutto lo prendeano allegramente dalle mani di Dio.

Oh beato chi vive tutto unito ed abbandonato nel divino volere! Egli non si gonfia per gli successi felici nè si abbatte per gli avversi, sapendo che tutti vengono dalla stessa mano di Dio; la sola volontà di Dio è la regola del suo volere; e perciò non fa altro se non quello che vuole Dio, e non vuole altro se non quello che fa Iddio. Non s'impegna a far molte cose, ma solo a far perfettamente ciò che intende esser gusto di Dio. Quindi antepone le più picciole obbligazioni del suo stato alle azioni più grandi e gloriose, vedendo che in queste vi può aver parte l'amor proprio, ma in quelle vi è certamente la volontà di Dio.

7. Sicchè allora noi sarem beati, se riceveremo da Dio tutte le cose ch'egli dispone, con perfetta uniformità al suo divino volere, senza badare se sono uniformi o contrarie al nostro genio. Dicea la santa madre di Chantal: «Quando sarà che noi gusteremo la dolcezza della divina volontà in tutto ciò che ci avviene, non considerando altro che il divino beneplacito dal quale è certo che, con eguale amore e per lo nostro meglio, ci vengono compartite così le avversità che le prosperità? Quando sarà che ci abbandoneremo affatto nelle braccia del nostro amorisissimo Padre celeste lasciando a lui la cura delle nostre persone e de' nostri affari, non riserbando per noi che il solo desiderio di piacere a Dio?» — Diceano gli amici del P. S. Vincenzo de' Paoli allorchè viveva: «Il signor Vincenzo è sempre Vincenzo». E voleano dire che il santo in ogni evento, prospero o avverso, si vedea sempre colla faccia serena, sempre eguale a se stesso: poichè, vivendo tutto abbandonato in Dio, di niente temeva e nulla altro volea, se non quello che piaceva a Dio. Scrive S. Teresa: «In questo santo abbandonamento si genera quella bella libertà di spirito che hanno i perfetti, in cui trovasi tutta la felicità che in questa vita si può desiderare: poichè di nulla temendo e nulla volendo o bramando delle cose del mondo, tutto possedono».

8. Molti all'incontro si formano la santità secondo la loro inclinazione: chi è malinconico, nel viver solitario: altri ch'è faccendiere, in predicare e trattar paci: altri che ha genio aspro, in far penitenze e macerazioni: altri ch'è di genio liberale, in far limosine: altri in far molte orazioni vocali: altri in visitar santuari; e qui fan consistere tutta la loro santità. Le opere esterne son frutti dell'amore a Gesù Cristo, ma il vero amore consiste nell'uniformarci in tutto alla volontà di Dio, ed in conseguenza in negare noi stessi ed eleggere quello che più piace a Dio, e solo perchè se lo merita.

9. Altri vogliono servire a Dio, ma in quello impiego, in quel luogo, con quei compagni o altre circostanze, altrimenti o lasciano l'opera o la fanno di mala voglia. Costoro non sono liberi di spirito, ma schiavi dell'amor proprio, e perciò poco meritano anche in ciò che fanno; ed all'incontro vivono sempre inquieti, perchè stando attaccati alla propria volontà, riesce poi loro grave il giogo di Gesù Cristo. I veri amanti di Gesù Cristo amano solo quel che piace a Gesù Cristo, e solo perchè piace a Gesù Cristo; e quando lo vuole e dove lo vuole e nel modo che lo vuole Gesù Cristo: o che voglia esso impiegarli in affari onorevoli o in faccende umili e vili, o in una vita di comparsa nel mondo o nascosta e negletta. Ciò importa il puro amore di Gesù Cristo; ed in ciò dobbiamo affaticarci combattendo contra gli appetiti dell'amor proprio che vorrebbe vederci occupati in quelle opere solamente che son gloriose o di nostra inclinazione. Ed a che serve l'esser in questo mondo il più onorato, il più ricco, il più grande senza la volontà di Dio? Diceva il B. Errico Susone: «Io vorrei più presto essere una vile bestiuola della terra colla volontà di Dio, che un serafino del cielo colla volontà mia».

10. Dice Gesù Cristo: Molti mi diranno: Signore, in nome tuo abbiamo discacciati i demoni e fatte gran cose: Domine, nonne in nomine tuo prophetavimus, et in nomine tuo daemonia eiecimus, et in nomine tuo virtutes multas fecimus? (Matth. VII, 22). Ma il Signore lor risponderà:Numquam novi vos; discedite a me qui operamini iniquitatem (Ibid. 23): Andate via, io non vi ho conosciuti mai per miei discepoli, mentre voi avete voluto più presto seguire il vostro genio che il mio volere. E ciò va detto specialmente per quei sacerdoti operari che si affaticano per la salute e perfezione degli altri, ed essi intanto se ne vivono sempre nel pantano delle loro imperfezioni.

La perfezione consiste: 1º in un vero disprezzo di se stesso; 2º in una total mortificazione de' propri appetiti; 3º in una conformità perfetta alla volontà di Dio; chi manca in una di queste virtù è fuori della via della perfezione. Perciò diceva un gran servo di Dio esser meglio nelle nostre azioni proporci il solo fine di fare la volontà di Dio che la gloria di Dio; perchè facendo la volontà di Dio, noi anche procuriamo la sua gloria; ma proponendoci la gloria di Dio, spesso c'inganniamo, facendo la volontà propria sotto il pretesto della gloria di Dio. Scrive S. Francesco di Sales: «Son molti quei che dicono al Signore: Io mi do tutto a voi senza riserva; ma pochi sono quei che abbracciano la pratica di questo abbandonamento. Questo consiste in una certa indifferenza a ricevere ogni sorta di accidenti, siccome arrivano, secondo l'ordine della divina provvidenza, tanto l'afflizioni quanto le consolazioni, così i dispregi e gli obbrobri come l'onore e la gloria».

11. Nel patire adunque, e nell'abbracciare con allegrezza le cose dispiacenti e contrarie al nostro amor proprio, si conosce chi veramente ama Gesù Cristo. Dice Tommaso da Kempis che non può chiamarsi degno amante chi non è apparecchiato a patire ogni cosa per l'amato ed a seguire in tutto la volontà dell'amato: Qui non est paratus omnia pati et ad voluntatem stare dilecti non est dignus amator appellari. All'incontro, diceva il P. Baldassarre Alvarez che chi si rassegna con pace ne' travagli al divino volere, «corre a Dio per le poste». E la santa madre Teresa scrisse: «E qual maggiore acquisto può esservi, che aver qualche testimonianza che diamo gusto a Dio?» Ed io soggiungo che noi non possiamo avere testimonianza più certa di dar gusto a Dio, che abbracciando con pace le croci che Dio ci manda. Gradisce il Signore che noi lo ringraziamo de' benefici che ci fa in questa terra, ma dice il P. Giovanni d'Avila, che «vale più un Benedetto sia Dio nelle cose avverse che seimila ringraziamenti nelle cose prospere».

12. E bisogna qui avvertire che non solo dobbiamo ricevere con rassegnazione le cose avverse che ci vengono direttamente da Dio, come sono le infermità, il poco talento, le perdite accidentali delle robe; ma anche quelle che ci vengono indirettamente da Dio, ma direttamente dagli uomini, come sono le persecuzioni, i furti, le ingiurie; perchè in verità tutte ci vengono da Dio. Un giorno Davide fu vilipeso da un suo vassallo chiamato Semei che lo maltrattò non solo colle ingiurie, ma anche colle pietre. Uno volea tagliar la testa a quel temerario, ma Davide rispose: Dimitte eum ut maledicat; Dominus enim praecepit ei ut malediceret David (II Reg. XVI, 10). Disse: Lasciatelo dire, perchè il Signore gli ha imposto che così mi maledica: cioè, s'intende, Iddio si avvale di costui per castigare i miei peccati, e perciò permette ch'egli così m'ingiurii.

13. Dicea per tanto S. Maria Maddalena de' Pazzi che tutte le nostre orazioni non debbono indirizzarsi ad altro fine che ad ottenere da Dio la grazia di seguire in tutto la sua santa volontà. Certe anime golose di gusti spirituali nell'orazione non van cercando altro che di aver sentimenti piacevoli e teneri per deliziarsi; ma l'anime forti e che han vero desiderio di esser tutte di Dio non cercano a Dio altro che luce per intendere la sua volontà e forza per adempirla perfettamente. — Per giungere alla purità dell'amore è necessario sottomettere in tutto la nostra volontà a quella di Dio. «Non crediate mai, dicea S. Francesco di Sales, di essere arrivati alla purità che dovete avere, finchè la vostra volontà non sia del tutto, anche nelle cose più ripugnanti, allegramente sottomessa a quella di Dio». Poichè, come dice S. Teresa, «il dono della nostra volontà a Dio lo tira ad unirsi colla nostra bassezza». Ma ciò non potrà mai ottenersi, se non per mezzo dell'orazione mentale e di continue preghiere fatte alla sua divina maestà, e senza un vero desiderio di esser tutti di Gesù Cristo senza riserba.

14. O Cuore amabilissimo del mio divin Salvatore, Cuore innamorato degli uomini, mentre ci amate con tanta tenerezza; Cuore in somma degno di regnare e possedere tutti i nostri cuori, oh potessi io fare intendere a tutti l'amore che voi loro portate e le finezze che usate con quelle anime che vi amano senza riserba! Deh gradite, Gesù amor mio, l'offerta e 'l sagrificio che vi fo oggi di tutta la mia volontà! Fatemi intendere quel che volete da me, ch'io tutto voglio farlo colla grazia vostra.

Dell'ubbidienza.

15. Ma per sapere poi ed accertare nelle nostre azioni che cosa voglia Dio da noi, quale è il mezzo più sicuro? Non vi è mezzo più sicuro e più certo che attender l'ubbidienza de' nostri superiori o direttori. Dicea S. Vincenzo de' Paoli: «La volontà di Dio non si eseguisce mai meglio che facendo l'ubbidienza de' superiori». Dice lo Spirito Santo: Melior est obedientia quam victimae (Eccl. IV, 17). Piace più a Dio il sagrificio che gli facciamo della propria volontà soggettandola all'ubbidienza, che tutti gli altri sagrifici che possiamo offerirgli; poichè nelle altre cose, come nelle limosine, astinenze, macerazioni e simili, noi diamo a Dio le cose nostre, ma nel donargli la volontà gli doniamo noi stessi: nel donargli i nostri beni, le nostre mortificazioni, gli diamo parte, ma nel donargli la nostra volontà gli diamo tutto. Onde quando diciamo a Dio: «Signore, fatemi intendere per mezzo dell'ubbidienza ciò che volete da me, ch'io tutto voglio farlo», non abbiamo più che offerirgli.

16. Chi dunque si è dedicato all'ubbidienza bisogna che si distacchi in tutto dalla propria opinione. «Ognuno per altro, dice S. Francesco di Sales, ha delle opinioni proprie, ma ciò non si oppone alla virtù; quello che si oppone alla virtù è l'attaccamento che noi abbiamo alle nostre opinioni». Ma oimè che questo attaccamento è la cosa più dura a lasciare; e perciò vi sono tanto poche anime che si danno tutte a Dio, perchè poche si sottomettono in tutto all'ubbidienza. Vi sono taluni che talmente stanno attaccati alla propria volontà, che quando vien loro imposta qualche ubbidienza, ancorchè quella cosa sia di loro genio, nondimeno, perchè l'han da fare per ubbidienza, vi perdono l'affetto e la voglia di farla, mentre non trovano gusto in altro che in fare quel che loro detta la propria volontà. Ma non fanno così i santi; essi non trovano pace se non in quelle operazioni che loro impone l'ubbidienza. La santa madre Giovanna di Chantal un giorno di ricreazione disse alle sue figlie che avessero impiegata quella giornata in ciò che loro piaceva. Venuta la sera andarono esse a pregarla istantemente che non avesse più data loro quella licenza, perchè non aveano provato giorno di maggior fastidio che quello in cui si erano vedute sciolte dall'ubbidienza.

17. È un inganno il pensare che qualunque altra opera possa essere migliore di quella che c'impone l'ubbidienza. Dice S. Francesco di Sales: «Il lasciare l'impiego dove ci mette l'ubbidienza per unirsi con Dio coll'orazione, colla lettura o col raccoglimento, sarebbe un ritirarsi da Dio per unirsi al suo amor proprio». Aggiunge S. Teresa che chi fa qualche opera, benchè spirituale, ma contra l'ubbidienza, opera certamente per istigazione del demonio, non già per ispirazione divina, come forse si lusinga; perchè, dice la santa, «Le ispirazioni di Dio tutte vanno unite coll'ubbidienza». Quindi ella scrive in altro luogo: «Iddio da un'anima che sta risoluta di amarlo non vuol altro che ubbidisca». «Vale più un'opera fatta per ubbidienza, scrive il P. Rodriguez, che ogni altra che noi possiam pensare. Vale più l'alzar da terra una paglia per ubbidienza, che una lunga orazione ed una disciplina a sangue fatta di proprio arbitrio». Perciò diceva S. Maria Maddalena de' Pazzi ch'ella desiderava più di stare in qualche esercizio di ubbidienza che in orazione, poichè «nell'ubbidienza, diceva, io sto sicura della volontà di Dio, ma non sono così sicura stando in ogni altro esercizio». E secondo tutt'i maestri di spirito è meglio lasciare qualche esercizio divoto per ubbidienza, che adempirlo senza l'ubbidienza. Rivelò Maria SS. a S. Brigida che chi lascia per ubbidienza una mortificazione fa doppio guadagno, mentre già ottiene il merito della mortificazione, volendola fare, ed ottiene di più il merito dell'ubbidienza per cui la lascia. Un giorno il celebre P. Francesco Arias andò a vedere il Ven. P. Giovanni d'Avila suo caro amico, e lo trovò cogitabondo e mesto; l'interrogò della causa, e 'l P. Giovanni rispose così: «O beati voi, che vivete sotto l'ubbidienza e state certi di fare quel che vuole Dio. Parlando di me, chi mi assicura che sia più grato a Dio l'andare per li villaggi istruendo i poveri contadini o pure star fisso in un confessionario a sentir le confessioni di ognuno che viene? Ma chi vive sotto l'ubbidienza sta sicuro che quanto fa per ubbidire tutto è secondo la volontà di Dio, anzi è la cosa che più gradisce a Dio». Serva ciò per consolazione di tutti coloro che vivono sotto l'ubbidienza.

18. Per esser poi perfetta l'ubbidienza, bisogna ubbidire colla volontà e col giudizio. Ubbidir colla volontà viene a dire ubbidir di buona voglia e non a forza, come fanno i schiavi. L'ubbidir poi col giudizio, importa l'uniformare il nostro giudizio a quello del superiore, senza mettere ad esame quel che ci viene imposto e come ci viene imposto. Onde diceva S. Maria Maddalena de' Pazzi: «La perfetta ubbidienza richiede un'anima senza giudizio». Dicea parimente S. Filippo Neri che per bene ubbidire non basta fare quello che l'ubbidienza comanda, ma bisogna farlo senza discorso, tenendo per certo che quel che ci viene comandato è per noi la cosa più perfetta che possiamo fare, ancorchè il contrario fosse migliore avanti a Dio.

19. E ciò corre non solo per li religiosi, ma anche per gli secolari che vivono sotto l'ubbidienza de' loro padri spirituali. Essi fansi loro assegnar dal direttore tutte le regole con cui debbono portarsi negli esercizi così spirituali come temporali, e così vanno sempre sicuri di fare il meglio. Dicea S. Filippo Neri: «Quei che desiderano far profitto nella via di Dio si sottomettano ad un confessore dotto, al quale ubbidiscano in luogo di Dio. Chi fa così si assicura di non render conto a Dio delle azioni che fa». Dicea di più: «Che al confessore si avesse fede, perchè il Signore non lo lascerebbe errare: che non vi è cosa più sicura che tagli i lacci del demonio che fare la volontà altrui nel bene: e che non v'è cosa più pericolosa che volersi reggere di proprio parere» (Vita, lib. I. cap. 20). Parimente S. Francesco di Sales (Introd. cap. 4) parlando della direzione del padre spirituale per camminar sicuro nella via di Dio, scrisse: «Questo è l'avvertimento degli avvertimenti: per quanto voi cerchiate, dice il divoto Avila, voi non troverete mai così sicuramente la volontà di Dio, quanto per lo cammino di questa umile ubbidienza tanto raccomandata e praticata da tutti gli antichi divoti». Lo stesso dicono S. Bernardo, S. Bernardino da Siena, S. Antonino, S. Giovanni della Croce, S. Teresa, Giovan Gersone e tutti i teologi e maestri di spirito; e 'l dubitar di tal verità, scrisse S. Giovanni della Croce, è presso che dubitar della fede. «Il non appagarsi, sono parole del santo, di ciò che dice il confessore è superbia e mancamento di fede» (Tratt. delle spine, t. 3. coll. 4. § 2. n. 8). Onde fra le massime di S. Francesco di Sales vi sono queste due che molto consolano l'anime scrupolose: 1º Non si è perduto mai un vero ubbidiente; 2º Conviene contentarsi saper dal padre spirituale che si cammina bene, senza cercarne la cognizione.

Insegnano molti dottori, il Gersone, S. Antonino, il Gaetano, il Navarro, il Sanchez, il Bonacina, il Corduba, il Castropalao, ed i Salmaticesi con altri (Tratt. 20. cap. 7, n. 10), che lo scrupoloso è tenuto sotto obbligo grave ad operare contra gli scrupoli, quando si può temere che per causa di tali scrupoli abbia a patirne un grave danno nell'anima o nel corpo con perdere la sanità o la mente; e perciò gli scrupolosi debbono avere maggiore scrupolo a non ubbidire al confessore che ad operare contra lo scrupolo.

Ecco dunque, per concludere tutte le cose dette in questo capo, dove consiste tutta la somma della nostra salute e perfezione: 1º In negare noi stessi; 2º In seguir la volontà di Dio; 3º In pregarlo sempre che ci dia la forza di adempire l'uno e l'altro.

Affetti e preghiere.

Quid... mihi est in caelo? et a te quid volui super terram?... Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXXII, 25, 26). Amato mio Redentore, o amabile infinito, giacchè voi siete sceso dal cielo per donarvi tutto a me, che altro vogl'io andar cercando nella terra e nel cielo fuori di voi che siete il sommo bene, l'unico bene degno di essere amato? Voi dunque siate l'unico signore del mio cuore, voi possedetelo tutto; e l'anima mia solo voi ami, a voi solo ubbidisca e cerchi di piacere. Si godano pure gli altri le ricchezze di questo mondo, io voi solo voglio: voi siete e sarete la mia ricchezza in questa vita e nell'eternità. Vi dono dunque, Gesù mio, intieramente il mio cuore e tutta la mia volontà. Ella vi è stata ribelle un tempo, ma ora tutta ve la consagro. Domine, quid me vis facere? (Act. IX, 6). Ditemi quel che volete da me e datemi l'aiuto, ch'io tutto voglio farlo. Disponete di me e delle cose mie come vi piace; io tutto accetto ed in tutto mi rassegno.

O amore degno d'infinito amore, voi mi avete amato fino a morire per me, io v'amo con tutto il cuore, v'amo più di me stesso, e nelle vostre mani abbandono l'anima mia. Oggi rinunzio ad ogni affetto mondano, mi licenzio da tutto il creato e mi do tutto a voi; voi accettatemi per li meriti della vostra Passione, e rendetemi fedele sino alla morte.

Gesù mio, Gesù mio, da oggi avanti voglio vivere solo a voi, non voglio altro amare che voi, non voglio altro cercare che di fare la vostra volontà. Assistetemi colla vostra grazia.

Ed aiutatemi voi colla vostra protezione, o speranza mia, Maria.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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