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Esortazione Apostolica Amoris Laetitia

Ultimo Aggiornamento: 06/05/2016 21:03
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02/04/2016 11:54
 
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Sinodo sulla famiglia
 

L'esortazione apostolica di papa Francesco che raccoglie le indicazioni del doppio Sinodo sulla famiglia si chiama "Amor Laetitia" e sarà presentata il prossimo 8 aprile.
Ma intanto una lettera del segretario del Sinodo, cardinale Baldisseri, anticipa gli assi portanti dell'atteso documento: le due Relatio finali, il magistero di Paolo VI e Giovanni Paolo II, le catechesi di papa Francesco e una parte pastorale in cui saranno contenute le vere novità, soprattutto sui divorziati risposati.

di Lorenzo Bertocchi


Ci siamo, venerdì 8 aprile alle 11.30 sarà “Amor laetitia”. Questo il titolo della tanto attesa esortazione post-sinodale che farà sintesi del lungo cammino di discernimento sulla famiglia. Il documento, che come sappiamo si prospetta corposo (200 pagine), verrà presentato nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede.

Dalle indiscrezioni di cui è a conoscenza la Nuova Bussola Quotidiana nei giorni scorsi una lettera a firma del cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo, è stata inviata a vescovi e cardinali per dare orientamenti in merito alla presentazione del documento a livello locale. Nell'invitare i vescovi a organizzare incontri per spiegare al popolo cristiano il contenuto dell'esortazione, il cardinale Baldisseri anticipa gli assi portanti del documento pontificio. 

Sarebbero dunque quattro gli elementi che sono alla base di "Amor Laetitia". Innanzitutto ampi riferimenti saranno riservati ai documenti finali delle due assemblee sinodali, specialmente la Relatio finale 2015. E già qui c'è una piccola curiosità, visto che finora la Relatio del primo Sinodo si considerava superata dal Sinodo successivo. L'attenzione è dunque su cosa sarà recuperato delle conclusioni del primo Sinodo.

Sono poi annunciate citazioni dal Magistero dei predecessori di Papa Francesco, e si fa riferimento ai due grandi documenti oggetto di discussione durante il cammino sinodale, vale a dire Humanae Vitae di Paolo VI e Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II.

Possiamo dire che nulla cambierà rispetto all’enciclica “profetica”, per usare le parole dello stesso Francesco, di Paolo VI; mentre probabilmente si approfondirà in chiave di rinnovato approccio pastorale quanto indicato da Familiaris Consortio, soprattutto a proposito del discernimento da attuarsi per le coppie di divorziati risposati. Un rimando è previsto anche all'ampio magistero di Giovanni Paolo II sull'amore umano (la "teologia del corpo"). Un terzo riferimento di “Amor laetitia” saranno le belle catechesi di Papa Francesco sulla famiglia.

Da ultimo - e qui soprattutto si appunterà l'attenzione generale -  vi saranno parti nuove, quelle che dovrebbero, si dice, completare il quadro. Ovvero delle indicazioni pastorali di cui la lettera del cardinale Baldisseri annuncia la presenza ma non dà indicazioni sul contenuto.

America, la nota testata dei gesuiti degli Stati Uniti, che ha sempre seguito con molta attenzione l'argomento, giovedì twittava con solerzia che «il Papa dovrebbe ribadire l’insegnamento tradizionale del matrimonio e sottolineare l’importanza della preparazione al matrimonio. E, in questo Anno della Misericordia, aprire porte nell’approccio pastorale della chiesa ai divorziati risposati cattolici e sulla questione dell’omosessualità in famiglia».

Forse questa potrebbe essere la giusta fotografia di “Amor laetitia”: nessun cambiamento dottrinale, novità pastorali. Peraltro questo è stato anche uno dei mantra di maggior successo ripetuti durante il cammino sinodale: la dottrina non si tocca, ma si cambia “solo” l’approccio pastorale. 

Inoltre è interessante notare che la presentazione del testo in Sala Stampa è stata affidata, oltre che al Segretario generale del Sinodo, all'arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn. Quest’ultimo durante il cammino sinodale è stato certamente un valente sponsor delle innovazioni pastorali. Anzi era andato un po’ oltre, specialmente con la richiesta di riconoscere i “semi di verità” presenti anche nelle varie coppie “irregolari” (omosessuali compresi), in analogia a quanto indicato in Lumen Gentium 8 per quanto riguarda elementi di santificazione e verità presenti fuori dai confini visibili della Chiesa Cattolica. «Chi siamo noi per giudicare e dire che non ci sono elementi di verità e di santificazione in [queste relazioni]?», disse Schönborn nel 2014.

L’arcivescovo di Vienna era anche un membro di quel Circolo Germanicus che nel Sinodo ordinario dell’ottobre 2015 disegnò quella che molti definirono come la quadratura del cerchio. Una soluzione ritenuta di compromesso tra due tesi contrapposte, specialmente a proposito dell’accesso all’Eucaristia per le coppie di divorziati risposati. Un compromesso che, secondo altri, sarebbe funzionale all’apertura di porte pastorali che dovrebbero condurre ad una sorta di cammino penitenziale affidato in ultima istanza al vescovo locale. Sarà questa la principale “novità” dell’esortazione?

Venerdì scopriremo “Amor laetitia”, vedremo quindi quali saranno le parti nuove che certamente ci saranno, e che molto probabilmente non si limiteranno a ribadire quanto già detto dai predecessori di Papa Francesco.



 

Amoris Laetitia. Papa: misericordia e integrazione per tutte le famiglie

Il Papa tra le famiglie - OSS_ROM

Il Papa tra le famiglie - OSS_ROM

08/04/2016 

Misericordia e integrazione: questo il nucleo dell’Esortazione apostolica post-sinodale “Amoris Laetitia – La gioia dell’amore”, siglata da Papa Francesco il 19 marzo e diffusa oggi. Suddiviso in nove capitoli, il documento è dedicato all’amore nella famiglia. In particolare, il Pontefice sottolinea l’importanza e la bellezza della famiglia basata sul matrimonio indissolubile tra uomo e donna, ma guarda anche, con realismo, alle fragilità che vivono alcune persone, come i divorziati risposati, ed incoraggia i pastori al discernimento. In un chirografo che accompagna l’Esortazione inviata ai Vescovi, il Papa sottolinea che “Amoris Laetitia” è “per il bene di il bene di tutte le famiglie e di tutte le persone, giovani e anziane” ed invoca la protezione della Santa Famiglia di Nazareth. L’Esortazione raccoglie i risultati dei due Sinodi sulla famiglia, svoltisi nel 2014 e nel 2015. Il servizio di Isabella Piro: 

Cap. 1 La Parola di Dio in famiglia e il dramma dei profughi
Misericordia e integrazione: Amoris Laetitia ruota attorno a questi due assi che ne rappresentano l’architrave. Il Papa ricorda che “l’unità di dottrina e di prassi” è ferma e necessaria alla Chiesa, ma sottolinea anche che, in base alle culture, alle tradizioni, alle sfide dei singoli Paesi, alcuni aspetti della dottrina possono essere interpretati “in diversi modi”. Il primo capitolo del documento, dedicato alla Parola di Dio, ribadisce la bellezza della coppia formata da uomo e donna, “creati ad immagine e somiglianza di Dio”; richiama l’importanza del dialogo, dell’unione, della tenerezza in famiglia, definita non come ideale astratto, ma “compito artigianale”. Ma non vengono dimenticati alcuni drammi, tra cui la disoccupazione, e “le tante famiglie di profughi rifiutati ed inermi” che vivono “una quotidianità fatta di fatiche e di incubi”.

Cap. 2 La realtà e le sfide della famiglia. La grande prova delle persecuzioni
Poi, lo sguardo del Papa si allarga sulla realtà odierna, e insieme al Sinodo, tenendo “i piedi per terra”, ricorda le tante sfide delle famiglie oggi: individualismo, cultura del provvisorio, mentalità antinatalista che – scrive Francesco – “la Chiesa rigetta con tutte le sue forze”; emergenza abitativa; pornografia; abusi sui minori, “ancora più scandalosi” quando avvengono in famiglia, a scuola e nelle istituzioni cristiane. Francesco cita anche le migrazioni, la “grande prova” della persecuzione dei cristiani e delle minoranze soprattutto in Medio Oriente; la “decostruzione giuridica della famiglia” che mira ad “equiparare semplicisticamente al matrimonio” le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso. Cosa impossibile, scrive il Papa, perché “nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita assicura il futuro della società”.

Ideologia gender è  “inquietante”
Francesco ricorda poi “il codardo degrado” della violenza sulle donne, la strumentalizzazione del corpo femminile, la pratica dell’utero in affitto, e definisce “inquietante” che alcune ideologie, come quella del “gender” cerchino di imporre “un pensiero unico” anche nell’educazione dei bambini. Davanti a tutto questo, però – è il monito del Papa – i cristiani “non possono rinunciare” a proporre il matrimonio “per essere alla moda” o per un complesso di inferiorità. Al contrario, lontani dalla “denuncia retorica” e dalle “trappole di lamenti auto-difensivi”, essi devono prospettare il sacramento matrimoniale secondo una pastorale “positiva, accogliente” che sappia “indicare strade di felicità”, restando vicina alle persone fragili.

Matrimonio non è un ideale astratto. Chiesa faccia salutare autocritica
Troppe volte, infatti – afferma il Papa con una “salutare autocritica” – il matrimonio cristiano è stato presentato puntando solo sul dovere della procreazione o su questioni dottrinali e bioetiche, finendo per sembrare “un peso”, un ideale astratto, piuttosto che “un cammino di crescita e di realizzazione”. Ma i cristiani - nota Francesco – sono chiamati a “formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle”, così come faceva Gesù che proponeva un ideale esigente, ma restava anche vicino alle persone fragili.

Cap. 3 La vocazione della famiglia e l’inalienabile diritto alla vita
In quest’ottica, l’indissolubilità del matrimonio non va intesa come “un giogo”, e il sacramento non come “una ‘cosa’, un rito vuoto, una convenzione sociale”, bensì “un dono per la santificazione e la salvezza degli sposi”. Quanto alle “situazioni difficili ed alle famiglie ferite”, il Papa sottolinea che i pastori, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere, perché “il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”. Se da una parte, dunque, bisogna “esprimere con chiarezza la dottrina”, dall’altra occorre evitare giudizi che non tengano conto della complessità delle diverse situazioni e della sofferenza dei singoli. Francesco ribadisce, poi, con forza, il “grande valore della vita umana” e “l’inalienabile diritto alla vita del nascituro”, sottolineando anche l’obbligo morale all’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari, il diritto alla morte naturale e il fermo rifiuto alla pena capitale.

Cap. 4 L’amore nel matrimonio è amore di amicizia
Ma qual è, allora, l’amore che si vive nel matrimonio? Francesco lo definisce “l’amore di amicizia”, ovvero quello che unisce l’esclusività indissolubile del sacramento alla ricerca del bene dell’altro, alla reciprocità, alla tenerezza tipiche di una grande amicizia. In questo senso, “l’amore di amicizia si chiama carità”, perché “ci apre gli occhi e ci permette di vedere, al di là di tutto, quanto vale un essere umano”. In quest’ottica, il Pontefice sottolinea anche l’importanza della vita sessuale tra i coniugi, “regalo meraviglioso”, “linguaggio interpersonale” che guarda “al valore sacro ed inviolabile dell’altro”. La dimensione erotica dell’amore coniugale, dunque, non potrà mai intendersi come “un male permesso o un peso da sopportare”, bensì come “un dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi”. Per questo, Amoris Laetitia rifiuta “qualsiasi forma di sottomissione sessuale” e ribadisce, con Paolo VI, che “un atto coniugale imposto al coniuge…non è un vero atto d’amore”.

Cap. 5 L’amore diventa fecondo. Ogni figlio ha diritto a madre e padre
Soffermandosi, quindi, sulla generazione e l’accoglienza della vita all’interno della famiglia, il Papa sottolinea il valore dell’embrione “dall’istante in cui viene concepito”, perché “ogni bambino sta da sempre nel cuore di Dio”. Di qui, l’esortazione a non vedere nel figlio “un complemento o una soluzione per un’aspirazione personale”, bensì “un essere umano con un valore immenso”, del quale va rispettata la dignità, “la necessità ed il diritto naturale ad avere una madre ed un padre”, che insegnano “il valore della reciprocità e dell’incontro”.

La famiglia esca da se stessa per rendere ‘domestico’ il mondo
Al contempo, il Papa incoraggia le coppie che non possono avere figli e ricorda loro che la maternità “si esprime in diversi modi”, ad esempio nell’adozione. Di qui, il richiamo a facilitare la legislazione sulle procedure adottive e di affido, sempre nell’interesse del bambino e contrastando, con le dovute leggi, il traffico di minori. Quindi, Francesco sottolinea che ovunque c’è bisogno di “una robusta iniezione di spirito familiare”, ed incoraggia le famiglie ad uscire da se stesse, trasformandosi in “luogo di integrazione e punto di unione tra pubblico e privato”. Perché ogni famiglia – è il monito del Papa – è chiamata ad instaurare la cultura dell’incontro e a rendere ‘domestico’ il mondo. Per questo, il Papa lancia “un serio avvertimento”: chi si accosta all’Eucaristia senza lasciarsi spingere all’impegno verso i poveri ed i sofferenti, riceve questo sacramento “indegnamente”.

Cap. 6 Alcune prospettive pastorali. Accompagnare gli sposi da vicino
A metà dell’Amoris Laetitia, il Papa riprende, in modo sostanziale, i temi sinodali. Ad esempio richiama: la necessità di una formazione più adeguata per i presbiteri e gli operatori della pastorale familiare; il bisogno di guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio, perché “imparare ad amare qualcuno non è una cosa che si improvvisa”; l’importanza di accompagnare gli sposi nei primi anni di matrimonio, affinché non si fermi la loro “danza con occhi meravigliati verso la speranza” e siano generosi nella comunicazione della vita, guardando al contempo ad una “pianificazione familiare giusta”, basata sui metodi naturali e sul consenso reciproco; la necessità di una pastorale familiare missionaria che segua le coppie da vicino e non sia solo una “fabbrica di corsi” per piccole élites.

Preoccupante l’aumento dei divorzi. I figli non siano ostaggi
Oggi, crisi di ogni genere minano la storia delle famiglie – dice il Papa – ma ogni crisi “nasconde una buona notizia che occorre saper ascoltare affinando l’udito del cuore”. Di qui, l’incoraggiamento a perdonare e sentirsi perdonati per rafforzare l’amore familiare, e l’auspicio che la Chiesa sappia accompagnare tali situazione in modo “vicino e realistico”. Certo: nella nostra epoca esistono drammi come il divorzio “che è un male” – sottolinea l’Esortazione – e che cresce in modo “molto preoccupante”. Bisogna, allora, prevenire tali fenomeni, soprattutto tutelando i figli, affinché non ne diventino “ostaggi”. Senza dimenticare che, di fronte a violenze, sfruttamento e prepotenze, la separazione è inevitabile e “moralmente necessaria”.

Divorziati risposati non si sentano scomunicati
Quanto a separati, divorziati e divorziati risposati, l’Amoris Laetitia ribadisce quanto già espresso dai due Sinodi: occorre discernimento ed attenzione, soprattutto verso coloro che hanno subito ingiustamente la scelta del coniuge. Nello specifico, i divorziati non risposati vanno incoraggiati ad accostarsi all’Eucaristia, “cibo che sostiene”, mentre i divorziati risposati non devono sentirsi scomunicati e vanno accompagnati con “grande rispetto”, perché prendersi cura di loro all’interno della comunità cristiana non significa indebolire l’indissolubilità del matrimonio, ma esprimere la carità.

Rispetto per omosessuali, ma nessuna analogia tra matrimonio e unione gay
L’Esortazione ricorda poi le “situazione complesse” come quelle dei matrimonio con disparità di culto, “luogo privilegiato di dialogo interreligioso”, purché nel rispetto della “libertà religiosa”. Riguardo alle famiglie con persone di tendenza omosessuale, si ribadisce la necessità di rispettare la loro dignità, senza marchi di “ingiusta discriminazione”. Al contempo, si sottolinea che “non esiste alcun fondamento” per assimilare o stabilire analogie “neppure remote” tra le unioni omosessuali ed il matrimonio secondo il disegno di Dio. E su questo punto, è “inaccettabile” che la Chiesa subisca “pressioni”. Particolarmente preziosa, poi, è la parte finale del capitolo, dedicata all’accompagnamento pastorale da offrire alle famiglie colpite dalla morte di un loro caro.

Cap. 7 Rafforzare l’educazione dei figli, diritto-dovere dei genitori
Ampio, poi, il capitolo dedicato all’educazione dei figli, “dovere gravissimo” e “diritto primario” dei genitori. Cinque i punti essenziali indicati dall’Esortazione: educazione non come controllo, ma come “promozione di libertà responsabili che nei punti di incrocio sappiano scegliere con buon senso e intelligenza”. Educazione come insegnamento alla “capacità di attendere”, fattore “importantissimo” nel mondo attuale dominato dalla “velocità digitale” e dal vizio del “tutto e subito”. Educazione come incontro educativo tra genitori e figli, anche per evitare “l’autismo tecnologico” di molti minori scollegati dal mondo reale ed esposti alle manipolazioni egoistiche esterne.

Educazione sessuale sia educazione all’amore e al sano pudore
Il Papa dice, poi, sì all’educazione sessuale, da intendere come “educazione all’amore” da impartire “nel momento appropriato e nel modo adatto”, insegnando anche quel “sano pudore” che impedisce di trasformare le persone in puro oggetto. A tal proposito, Francesco critica l’espressione “sesso sicuro” che vira al negativo “la naturale finalità procreativa della sessualità” e sembra trasformare un eventuale figlio in “un nemico dal quale proteggersi”. Infine, la trasmissione della fede, perché la famiglia deve continuare ad essere il luogo in cui si insegna a coglierne le ragioni e la bellezza. I genitori siano, dunque, soggetti attivi della catechesi, non imponendo, ma proponendo l'esperienza spirituale alla libertà dei figli.

Cap. 8 Accompagnare, discernere e integrare le fragilità
Riprendendo, quindi, uno dei temi centrali del dibattito sinodale, il Papa si sofferma sulle famiglie che vivono situazioni di fragilità ed afferma, in primo luogo, che “non ci si deve aspettare dall’Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi”. Pertanto, i pastori dovranno promuovere il matrimonio cristiano sacramentale, unione esclusiva, libera e fedele tra uomo e donna; ma dovranno anche accogliere, accompagnare ed integrare con misericordia le fragilità di molti fedeli, perché la Chiesa deve essere come “un ospedale da campo”. “Non ci capiti di sbagliare strada – scrive Francesco – La strada della Chiesa è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione”, quella che non condanna eternamente nessuno, ma effonde la misericordia di Dio “a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero”, perché la logica del Vangelo dice che “nessuno può essere condannato per sempre”.

No a norma canonica generale, ma discernimento responsabile caso per caso
Integrare tutti, dunque – raccomanda l’Esortazione – anche i divorziati risposati che possono partecipare alla vita della comunità ad esempio attraverso impegni sociali o riunioni di preghiera. E riflettere su quali delle attuali esclusioni liturgiche e pastorali possano essere superate con “un adeguato discernimento”, affinché i divorziati risposati non si sentano “scomunicati”. “Non esistono semplici ricette – ribadisce il Papa – Si può soltanto incoraggiare ad un discernimento responsabile dei casi particolari, perché “il grado di responsabilità non è uguale per tutti”.

Eucaristia non è premio per i perfetti, ma alimento per i deboli
In due note a pie’ di pagina, poi, il Papa si sofferma sulla disciplina sacramentale per i divorziati risposati: nella prima nota afferma che il discernimento pastorale può riconoscere che, in una situazione particolare, “non c’è colpa grave” e che quindi “gli effetti di una norma non necessariamente devono essere gli stessi” di altri casi. Nella seconda nota, Francesco sottolinea che “in certi casi” l’aiuto della Chiesa per le situazioni difficili “potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti”, perché “il confessionale non deve essere una sala di tortura” e “l’Eucaristia non è un premio per i perfetti, ma un alimento per i deboli”.

Esame di coscienza per divorziati risposati. Leggi morali non sono pietre
Per i divorziati risposati, risulta comunque utile “fare un esame di coscienza” ed avere un colloquio con un sacerdote in foro interno, ovvero in confessione, per aiutare la formazione di “un giudizio corretto” sulla situazione. Essenziale, però – sottolinea il Pontefice – è la garanzia delle condizioni di “umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa”, per evitare “messaggi sbagliati”, come se la Chiesa sostenesse “una doppia morale” o i sacramenti fossero un privilegio da ottenere “in cambio di favori”. Perché è vero che “è meschino” considerare l’agire di una persona solo in base ad una norma ed è vero che le leggi morali non possono essere “pietre” lanciate contro la vita dei fedeli. Però la Chiesa non deve rinunciare “in nessun modo” a proporre l’ideale pieno del matrimonio. Anzi: oggi è più importante una pastorale del consolidamento, piuttosto che del fallimento, matrimoniale.

Chi pone condizioni alla misericordia di Dio annacqua il Vangelo
L’ideale evangelico, allora, non va sminuito, ma bisogna anche assumere “la logica della compassione verso le persone fragili”. Non giudicare, non condannare, non escludere nessuno, ma vivere di misericordia, “architrave della Chiesa” che non è dogana, ma casa paterna in cui ciascuno ha un posto con la sua vita faticosa. E questo, in fondo, è “il primato della carità” che non pone condizioni alla misericordia di Dio “annacquando il Vangelo”, che non giudica le famiglie ferite con superiorità, in base ad una “morale fredda da scrivania”, sedendo sulla cattedra di Mosè con cuore chiuso, ma si dispone a comprendere, perdonare, accompagnare, integrare.

Cap. 9 Spiritualità coniugale e familiare. Cristo illumina i giorni amari
Nell’ultimo capitolo, Amoris Laetitia invita a vivere la preghiera in famiglia, perché Cristo “unifica ed illumina” la vita familiare anche “nei giorni amari”, trasformando le difficoltà e le sofferenze in “offerta d’amore”. Per questo, il Papa esorta a non considerare la famiglia come “una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre”, bensì come uno sviluppo graduale della capacità di amare di ciascuno. “Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare!” è l’invito conclusivo di Francesco che incoraggia le famiglie del mondo a non “perdere la speranza”.






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[Modificato da Caterina63 08/04/2016 13:40]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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08/04/2016 13:58
 
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  È stata pubblicata l'8 aprile l'esortazione apostolica post-sinodale sull'amore nella famiglia Amoris laetitia, formalmente datata 19  marzo 2016, Festa di San Giuseppe, che fa seguito ai due Sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015 e consta di nove capitoli, 325 paragrafi e 264 pagine complessive. Prima di provare a presentare questo testo enciclopedico, va premessa obbligatoriamente un'osservazione. 


Il Papa stesso all'inizio del documento mette in guardia controtutte le «lettura generale affrettata» e ogni commento che non parta da un esame attento dell'intero documento. Un esame, evidentemente, impossibile a caldo. Nello stesso tempo è evidente che testate quotidiane come la nostra non possono esimersi dal presentare subito il testo ai lettori. Quella che propongo dunque è una presentazione, spero fedele, della semplice “architettura” del documento, che privilegia la struttura generale sugli aspetti particolari. Non è, in nessun modo, un commento, né ovviamente presenta le mie opinioni o reazioni al testo, che tutti dovremo approfondire e digerire nei prossimi giorni. Se posso dare un consiglio, è proprio quello di leggere con calma l'intero documento, che ha fra l'altro numerosi passaggi dotati di una loro bellezza anche letteraria. 


Il fatto che la Sala stampa della Santa Sede abbia fornito anche una sintesi è una cortesia per igiornalisti. Ma si rivelerà un boomerang se i cronisti leggeranno, o peggio commenteranno, solo la sintesi senza accedere al testo completo, che tra l'altro interviene su temi di grande attualità - uno per tutti: le leggi che riconoscono le unioni civili fra persone dello stesso sesso sostanzialmente equiparandole al matrimonio, che sono condannate senza ambiguità - di cui nel riassunto sintetico non si trova nessuna menzione. Trattandosi di fare emergere l'architettura del testo, occorre seguire la sua divisione in nove capitoli. 


Una premessa indica che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risoltecon interventi del magistero», e precisa che «nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano». E il Papa mette in guardia sia contro il «desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento», sia contro «l’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da ìalcune riflessioni teologiche».


Il primo capitolo presenta alcuni insegnamenti sull'amore familiare tratti dalla Sacra Scrittura. Il Papa nota che, proprio all'inizio della Bibbia e contro ogni prospettiva gnostica, è rivendicata la bontà della differenza sessuale fra l'uomo e la donna. «Sorprendentemente, l’“immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”». Francesco segue poi la traccia del Salmo 128, commentandolo passo passo. Più in generale, il capitolo nota che la Scrittura è una storia di famiglie, con le loro gioie e i loro dolori. 


Lo sguardo della Parola di Dio sulla famiglia è molto realistico. «Non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio anche per le famiglie che sono in crisi o attraversano qualche dolore, e indica loro la meta del cammino». La Scrittura esalta la bellezza dell'amore sponsale e la gioia dei figli, ma presenta anche «un sentiero di sofferenza e di sangue» che la famiglia deve attraversare nella storia, e che spesso riesce a superare grazie a «una virtù piuttosto ignorata in questi tempi di relazioni frenetiche e superficiali: la tenerezza».


Nel secondo capitolo, dalle vette del messaggio biblico il Papa scende ai «piedi per terra» della realtàattuale, che vede l'istituzione familiare ampiamente in crisi, anche se non va sottovalutata la sua capacità di resistere e va evitata una cultura della lamentela sterile. Il Papa cita fra le cause della crisi l'accelerazione del «ritmo di vita attuale» - un tema caro ai sociologi che studiano il tempo - e l'individualismo che induce molti giovani a diffidare del matrimonio e della famiglia o ad averne paura. Ma «come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di  inferiorità di fronte al degrado morale e umano». Tra le conseguenze della crisi, il Papa ricorda la rottura dell'unità familiare spesso causata dalle migrazioni, la mentalità antinatalista, l'aborto, l'eutanasia, la fecondazione artificiale, la pornografia, la droga, l'abuso dei minori, la trascuratezza verso i disabili e gli anziani, la violenza sulle donne di cui molti parlano evitando però di denunciare le sue forme costituite dalla «pratica dell’“utero in  affitto” o la strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell’attuale cultura mediatica».


«Contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto» sono «inaccettabili anche in luoghi con altotasso di natalità, ma è da rilevare che i politici le incoraggiano anche in alcuni Paesi che soffrono il dramma di un tasso  di natalità molto basso». Per le autorità, questo è «agire in un modo contraddittorio e venendo meno al proprio dovere». Dura la condanna anche di «un’ideologia, genericamente chiamata gender, che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia». Ed è grave quando la teoria del gender cerca di «imporsi come un pensiero unico che determina anche l’educazione dei bambini». Occorre evitare la tentazione di «non riconoscere più la decadenza culturale» o di rinunciare a denunciarla. D'alto canto, è difficile far comprendere, specie ai giovani, la bellezza dell'amore familiare «solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla Grazia».


Il terzo capitolo presenta il Magistero della Chiesa sulla famiglia. Un'ampia sintesi rivendica ilcarattere profetico e sempre attuale dell'enciclica Humanae vitae del Beato Paolo VI è dei testi di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ribadisce che la Chiesa non può in alcun modo rinunciare ad annunciare la sua dottrina secondo cui il matrimonio è indissolubile, perché «nella stessa natura dell’amore coniugale vi è l’apertura al definitivo». Questo non toglie che forme di impegno positivo almeno potenziali possano essere riscontrate - ma al fine di accompagnarle verso la «conversione» e dove possibile verso «il sacramento del matrimonio» - anche tra coloro che vivono forme di convivenza diverse da quella matrimoniale.«Mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione».


Il quarto capitolo è un inno all'amore matrimoniale, fatto di pazienza, amabilità, tenerezza, fiducia,perdono. Non manca un accenno alle gioie della bella tavola e della buona cucina, con una citazione del film prediletto dal Papa, «Il pranzo di Babette». Dal Concilio Vaticano II e dal ricco Magistero di papa Wojtyla sul corpo umano si ricava l'insegnamento secondo cui il matrimonio non si riduce alle sue componenti affettive e sessuali, tuttavia queste non vanno sottovalutate, ma vanno anzi valorizzate. Se «non possiamo ignorare che molte volte la sessualità si spersonalizza ed anche si colma di patologie», in generale «in nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi». 


Verginità e celibato sacerdotale non negano questo insegnamento, ma con la loro specialetestimonianza, che non è per tutti, lo rafforzano. Il Papa accenna pure alla «trasformazione dell’amore» negli anziani, quando «il prolungarsi della vita fa sì che si verifichi qualcosa che non era comune in altri tempi: la relazione intima e la reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni». «L'aspetto fisico muta, ma questo non è un motivo perché l’attrazione amorosa venga  meno. Ci si innamora di una persona intera con una identità propria, non solo di un corpo, sebbene tale corpo, al di là del logorio del tempo, non finisca mai di esprimere in qualche modo quell’identità personale che ha conquistato il cuore».


Il quinto capitolo presenta la fecondità dell'amore: la bellezza della gravidanza, della nascita, dellerelazioni familiari che si estendono ai nonni, ai fratelli, alle sorelle, agli zii e si allargano ad abbracciare nella solidarietà politica ed ecclesiale i più poveri e i più bisognosi. Si fa anche cenno al fatto che la nostra è spesso una «società senza padri», che ha assoluto bisogno di ritrovare il senso sia dell'essere padre sia dell'essere figlio. 


Nel sesto capitolo il Papa affronta il problema della pastorale familiare, rilevando come spesso isacerdoti non abbiamo una preparazione sufficiente per fare fronte alle sfide che si pongono alla famiglia nel XXI secolo. Se sono poco preparati i sacerdoti, e va quindi migliorata la formazione sul punto nei seminari, anche i laici e i fidanzati arrivano spesso mal preparati al matrimonio, a causa della cattiva qualità dei corsi prematrimoniali nelle parrocchie, che andranno dunque rivisti e riformati. I sacerdoti dovranno anche imparare ad accompagnare i primi anni di matrimonio, spesso difficili, i vedovi, e le persone separate o divorziate. Dopo avere sottolineato l'importanza della recente riforma della procedura canonica per il riconoscimento della nullità matrimoniale, il Papa invita a ribadire anzitutto che «il divorzio è un male, ed è molto preoccupante la crescita del numero dei divorzi». 


Nello stesso tempo, «ai divorziati che vivono una nuova unione, è importante far sentire che sonoparte della Chiesa, che “non sono scomunicati” e non sono trattati come tali, perché formano sempre la comunione ecclesiale. Queste situazioni esigono un attento discernimento e un accompagnamento di grande rispetto, evitando ogni linguaggio e atteggiamento che li faccia sentire discriminati e promovendo la loro partecipazione alla vita della comunità», mai però a scapito della «testimonianza circa l'indissolubilità matrimoniale», cui la Chiesa non può rinunciare. Un rapido cenno è dedicato alle persone omosessuali, che vanno accolte, come insegna il «Catechismo della Chiesa cattolica» con «rispetto, compassione e delicatezza». 


Quanto però al riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali, il Papa fa sue integralmente leconclusioni del Sinodo del 2015. «Circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia ed è inaccettabile che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso».


Il settimo capitolo è dedicato all'educazione. Ribadisce i principi della dottrina sociale della Chiesa inmateria di libertà di educazione e presenta elementi di pedagogia per fare fonte alla crisi educativa attuale. Afferma che la Chiesa oggi accetta l'educazione sessuale, purché non abbia come risultato quello di «banalizzare e impoverire la sessualità» e si colleghi a una integrale «educazione all'amore». È sbagliato educare al «sesso sicuro» insegnando a usare gli anticoncezionali, perché così si promuove «un atteggiamento negativo verso la naturale finalità procreativa della sessualità, come se un eventuale figlio fosse un nemico dal quale doversi proteggere. Così si promuove l’aggressività narcisistica invece dell’accoglienza».


Il capitolo ottavo era certamente molto atteso, perché è quello che riguarda le situazioni di fragilità - in particolare quelle dei divorziati risposati - e il loro statuto nella Chiesa. Deludendo certamente qualche aspettativa giornalistica, il Papa afferma che non ci si doveva aspettare «da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi». Si possono ammettere alla comunione, in alcuni casi, i divorziati risposati? Il Pontefice risponde appunto di non volere promulgare una «nuova normativa». Vescovi e sacerdoti dovranno ribadire le «norme generali» per cui il matrimonio è indissolubile e il divorzio è sempre un male. 


Nello stesso tempo è loro affidato «un responsabile discernimento personale e pastorale dei casiparticolari». «I divorziati che vivono una nuova unione possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento» dei singoli casi, dove colpe, responsabilità e «circostanze attenuanti» possono essere molto diverse. Il discernimento «dovrebbe riconoscere che, poiché il “grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi», e questo - precisa una nota a piè di pagina - «nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave».


Francesco invita «i fedeli che stanno vivendo situazioni complesse ad accostarsi con fiducia a uncolloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Non sempre troveranno in essi una conferma delle proprie idee e dei propri desideri, ma sicuramente riceveranno una luce che permetterà loro di comprendere meglio quello che sta succedendo e potranno scoprire un cammino di maturazione personale». Ai pastori, il Papa raccomanda la «logica della misericordia», la quale considera che, «pur conoscendo  bene la norma», «in determinate circostanze le persone trovano grandi  difficoltà ad agire in modo diverso. […] Il discernimento  pastorale,  pur tenendo conto della coscienza rettamente  formata delle persone, deve farsi carico di queste  situazioni».


Infine, il nono capitolo presenta la spiritualità coniugale e familiare, e riafferma con forza che lacondizione matrimoniale non è un ostacolo e neppure una via minore alla santità.«Coloro che hanno desideri spirituali profondi non devono sentire che la famiglia li allontana dalla crescita nella vita dello Spirito, ma che è un percorso che il Signore utilizza per portarli ai vertici dell’unione mistica». La preghiera conclusiva del lungo documento è un esempio di questa spiritualità.


   


 

Per il brano che segue, diciamo: BRAVO Marco TOSATTI!!!   è il concentrato più serio ed equilibrato per presentare un inutile testo di 200 pagine.... e visto che c'è prima la Laudato sì, il Papa poteva RISPARMIARE TUTTI QUESTI ALBERI 

MARCO TOSATTI 08/04/2016
Much ado about nothing, o quasi? Sui temi scottanti che hanno appassionato giornali e monsignori negli ultimi due Sinodi, quello del 2014 e quello del 2015, abbiamo l’impressione che l’imponente e dettagliatissima esortazione post-sinodale abbia in buona sostanza lasciato le cose come stavano prima del clamore della battaglia.

Ci riferiamo alla questione delle relazioni omosessuali, in primo luogo, e poi a quella dei divorziati risposati e l’accesso ai sacramenti.

Vi ricordate la “Relatio post Disceptationem”, nell’ottobre 2014, quella scritta soprattutto dall’arcivescovo Forte, e disconosciuta come propria dal card. Erdö?

Scriveva, al n. 51: “La questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica integrando la dimensione sessuale: si presenta quindi come un’importante sfida educativa. La Chiesa peraltro afferma che le unioni fra persone dello stesso sesso non possono essere equiparate al matrimonio fra uomo e donna. Non è nemmeno accettabile che si vogliano esercitare pressioni sull’atteggiamento dei pastori o che organismi internazionali condizionino aiuti finanziari all’introduzione di normative ispirate all’ideologia del gender. Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners. (Grassetto nostro). Inoltre, la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli”.

La parte in grassetto fu letta come un primo passo per orientare la Chiesa a riconoscere qualche forma di unione fra persone dello stesso sesso.

Amoris Laetitia ribadisce, come peraltro la Chiesa già fa, che “ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione» e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza”.

E poi continua: “Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che <circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia>; ed è inaccettabile <che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso>.

Per quanto riguarda i divorziati risposati e l’accesso ai sacramenti è da notare con quanta ampiezza e calore si ribadisca che anch’essi fanno parte della Chiesa; che è quanto peraltro era già detto dai Papi precedenti.

In particolare, il Pontefice fa questa esortazione: “Per quanto riguarda il “discernimento” circa le situazioni “irregolari” il Papa osserva: “sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione” (AL 296). E continua: “Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità̀ ecclesiale, perché́ si senta oggetto di una misericordia ‘immeritata, incondizionata e gratuità”. Ancora: “I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale”.

Conclusione: “Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete (...) è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. E’ possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il ‘grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi’, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi”.
Il che accade tutti i giorni, da molto tempo, nella prassi; è esperienza comune di quanti si sono trovati o si trovano in una situazione problematica di questo genere, e si rivolgono a un sacerdote per essere consigliati e accompagnati. E spesso indirizzati ad accostarsi ai sacramenti. Ci sembra però che sia stata abbandonata quella volontà di creare norme generali a favore dell’inclusione che hanno caratterizzato la prima parte del dibattito, in particolare da parte di alcune conferenze episcopali europee, e di alcuni teologi, come il card. Kasper.







Noi ci affidiamo ancora a La Bussola per i consigli di buona lettura


Una famiglia in udienza dal Papa
 

«La peculiarità della Amoris Laetitia va cercata nello slancio pastorale e misericordioso di papa Francesco, nella premura per tutte le famiglie, da accompagnare nella Chiesa, nell’educazione dei figli. Ma per quanto riguarda l’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia non ci sono novità rispetto al passato». Parla il professore José Granados, Vicepreside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia presso l’Università Lateranense.

di Riccardo Cascioli

«La peculiarità della Amoris Laetitia va cercata nello slancio pastorale e misericordioso di papa Francesco, nella premura per tutte le famiglie, da accompagnare nella Chiesa, nell’educazione dei figli. Ma per quanto riguarda l’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia non ci sono novità rispetto al passato». È il giudizio sintetico del professore José Granados, Vicepreside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia presso l’Università Lateranense, dove è anche e professore ordinario di Teologia del matrimonio e della famiglia. Il professor Granados è stato anche nominato dal Papa quale consultore della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi del 2015.

Professor Granados, dopo le tante discussioni in questi due anni e mezzo, era fatale che nell'esortazione, che pure è lunghissima e tratta molti temi, tutti andassero a cercare gli eventuali cambiamenti riguardo la comunione ai divorziati risposati. Malgrado i titoli di molti giornali facciano pensare il contrario, nel testo però questo cambiamento non sembra esserci. Mai si parla di ammissione all'Eucaristia.

La lettura del capitolo ottavo, dove si parla di questo tema, porta alla conclusione che non c’è stato cambiamento riguardo a Familiaris Consortio 84 e Sacramentum Caritatis 29. Infatti, se il Papa volesse introdurre un cambiamento in una disciplina così importante, con radici dottrinali nel Vangelo stesso, sarebbe necessaria una sua affermazione chiara. Ma in nessuna parte del documento troviamo scritto che i divorziati in nuova unione civile possono, almeno in qualche caso, essere ammessi all’Eucaristia senza osservare la possibilità aperta da FC 84 di vivere in continenza. Con il suo slancio pastorale e misericordioso il Papa ha voluto dunque insistere sul fatto che non dobbiamo giudicare questi fratelli e sorelle, perché non conosciamo i condizionamenti, il grado di conoscenza e responsabilità delle persone; dobbiamo invece metterci in cammino con loro per integrarli pienamente nella Chiesa.
D’altra parte il testo cita (al n. 302), approvandolo, un documento del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi dove si spiega molto bene la questione. La Chiesa non ammette queste persone, non per la loro colpevolezza soggettiva, ma perché il loro stato oggettivo di vita è in contraddizione con il sacramento del matrimonio e dell’Eucaristia.
Il problema non è la colpevolezza soggettiva delle persone coinvolte, ma il bene comune della Chiesa, la confessione ecclesiale di fede in Gesù davanti al mondo (che avviene proprio nella pratica sacramentale), e il mantenere chiara la meta ultima a cui conduce il cammino pastorale di misericordia: vivere la vita piena del Vangelo. La norma rimane dunque per ogni caso, ed è una grande luce pastorale per la Chiesa, perché indica la meta verso cui camminare e accompagnare queste persone per condurli alla vita piena di Gesù.

Possiamo dire allora che la «linea Kasper» esce fortemente ridimensionata?

La proposta del cardinale Kasper, possiamo dire, è stata recepita nella sua visione positiva e bella del Vangelo della famiglia. Ma non nel punto concreto che si riferiva alla possibile ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia. Su questo punto non c’è nessuna affermazione chiara del Papa che indichi un cambiamento della disciplina, che quindi rimane in vigore come una luce per guidare la pastorale misericordiosa della Chiesa con queste persone. D’altronde, questa era stata anche la via indicata dal Sinodo: aprire un cammino paziente per integrare le persone pian piano, con sguardo misericordioso, alla pienezza della vita ecclesiale e del Vangelo di Gesù. 

Quali sono allora le novità di questa esortazione apostolica, che lei giudica positive?

C’è soprattutto il grande slancio pastorale e misericordioso di Papa Francesco, che ci invita ad uscire e proclamare il vangelo della famiglia a coloro che sono più lontani. In questo contesto ci offre una bella esposizione di 1Cor 13, l’inno alla carità di San Paolo, per poter sviluppare un’antropologia fondata sulla verità dell’amore, rivelato pienamente in Gesù. C’è inoltre un’insistenza grande sull’accompagnamento delle famiglie, piccole chiese domestiche, nella grande famiglia che è la Chiesa. Indicherei, per ultimo, l’aver guardato direttamente il grande tema dell’educazione dei figli, ampliando così i temi trattati al Sinodo, e aprendo la riflessione su un argomento di grande rilevanza per il futuro, come aveva ormai notato Benedetto XVI nei suoi discorsi sull’educazione.

Le discussioni però e la “guerra delle interpretazioni”, inevitabilmente, si stanno già concentrando sul capitolo 8, dove si prendono in considerazione i casi irregolari. Quali sono, a suo avviso, le parti più problematiche o poco chiare che possono dare adito a interpretazioni contrastanti?

Se si separa il testo dal contesto della discussione sinodale oppure dalla sua continuità con il magistero precedente, certamente ci possono essere interpretazioni sbagliate. Io direi che per interpretare questo capitolo bisogna tenere conto, in primo luogo, della Relatio Finalis dei due Sinodi, citati continuamente nel documento. Il Papa, che tanto insiste sulla sinodalità, ha voluto raccogliere il messaggio del Sinodo, e non andare oltre.
In secondo luogo, è importante sottolineare la continuità con il magistero precedente, specialmente di San Giovanni Paolo II, che Papa Francesco ha chiamato "il Papa della famiglia".

Bisogna in tutte le affermazioni ricordare che il Papa non vuole giustificare il peccato né le situazioni di peccato, ma aiutare la persona perché possa tornare alla vita piena di Gesù. Si tratta di comprendere le persone, di saper guardare i loro problemi, di accettare la difficoltà culturale che c’è per vivere la verità dell’amore... per ricondurli a Gesù e al suo Vangelo. Il Papa insiste che lo sguardo ultimo a cui la Chiesa vuole condurre le persone è la vita piena del Vangelo, il progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia, senza riduzioni della sua grandezza. Penso che con questi criteri si possono evitare molti malintesi.

C'è il rischio di poterci leggere un allentamento dell'oggettività della norma morale, in contrasto con la Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II?

Il Papa ha detto ripetute volte che non voleva cambiare la dottrina. L’Enciclica Veritatis Splendor è un documento dottrinale di alto livello sulla teologia morale, che il Papa dunque non ha voluto negare, né una esortazione apostolica con un intento pastorale sarebbe il luogo per farlo. Questo vuol dire che il testo deve interpretarsi sempre alla luce di Veritatis Splendor. Così, quando il testo afferma che non ci sono norme assolute, non si riferisce certamente alle norme che vietano atti intrinsecamente cattivi, perché affermare che ci siano queste norme è il principale intento di Veritatis Splendor. Inoltre, il documento stesso raccoglie queste norme, quando dice, ad esempio, con forza, al n. 245: “Mai, mai, mai, prendere il figlio come ostaggio”.
Il Papa stesso ha dunque individuato norme assolute come del resto ha già fatto con il divieto di tortura, di appartenenza ad associazioni mafiose, la pedofilia... 

In realtà, se vediamo il contesto, la chiave per capire di quali norme si tratti, è data dal n. 299, dove si parla delle norme disciplinari sui sacramenti che la Chiesa ha autorità per cambiare, come ad esempio il fatto che un divorziato in nuova unione possa essere padrino o madrina di battesimo. A questo, si dice, non si può dare una norma canonica generale, ma s’invita ad un discernimento, che tenga conto se la persona sta facendo un cammino verso la conversione.

C'è chi ha notato l'ambiguità di alcune note, a proposito di disciplina dei sacramenti e di coscienza. Lei cosa ne dice?

Una delle note (351) del documento apre una domanda generale a cui non si offre poi una risposta specifica. Si dice che in certi casi la Chiesa può dare l’aiuto dei sacramenti a chi vive in una situazione di peccato obiettivo, se non è soggettivamente colpevole. È un’affermazione che non si applica dunque direttamente al caso dei divorziati in nuova unione civile. Questo caso è specifico e differente da altre situazioni obiettive di peccato, infatti, perché in esso si vive in contraddizione con un sacramento, come ha insegnato Benedetto XVI in Sacramentum Caritatis 29. Il Papa Francesco, dunque, non specificando di più, non ha neanche cambiato la disciplina stabilita. Sarebbe stato strano, infatti, che egli avesse proposto questo cambiamento così importante in una nota a piede di pagina.  

Lei che ha partecipato al Sinodo, trova che l'esortazione rispecchi fedelmente quanto emerso nel dibattito sinodale o la sensibilità del Papa rispecchia maggiormente la sintonia con una tendenza particolare?

All’inizio del documento (n. 3) il Papa critica, per così dire, due atteggiamenti opposti che possono essere stati presenti al Sinodo: coloro che vogliono cambiamenti a qualsiasi costo senza riflessione, e coloro che vogliono solo applicare normative. Penso che Francesco indichi dunque la chiave di una riflessione ragionata alla luce del Vangelo di Gesù e in fedeltà alla Chiesa (n. 3). In questo senso, più che vedere una sintonia con una tendenza o un’altra, penso che il Papa abbia voluto indicare i criteri, mostrandosi sempre in sintonia con il documento finale del Sinodo, che tante volte egli si accontenta di citare lungamente. Un criterio chiave per leggere il testo è dato appunto dai due documenti sinodali, che il Papa ha voluto accogliere ed esplicitare, in tutto il suo impegno pastorale, senza andare oltre le linee indicate dal Sinodo. 

Mettendo a confronto la Familiaris Consortio e la Amoris Laetitia, quali sono - brevemente - le principali differenze?

Direi che in Amoris Laetitia si vede la preoccupazione molto grande per avvicinarsi ai lontani, per fare tutto il possibile per attirarli verso la vita del Vangelo. Questo era presente anche in Familiaris Consortio, molte volte citata dal documento, ma non con così tanto sviluppo. Ci sono anche sfide nuove a cui Amoris Laetitiarisponde, perché si è aggravata la difficoltà culturale riguardo alla famiglia (penso, ad esempio, all’ideologia di gender). Le linee generali di Familiaris Consortio sono confermate, sviluppate e illuminate: la visione della persona alla luce dell’amore, l’importanza di una cultura della famiglia, il desiderio di partire dal Vangelo per illuminare la situazione odierna...

Il concetto di "bene possibile" e la valorizzazione del bene anche in situazioni oggettivamente sbagliate - che nell'esortazione sono richiamati - sono solo una preoccupazione pedagogica o rischiano di essere gravemente fraintese?

Penso che per rispondere a questa domanda sia importante ricordare il rifiuto esplicito del documento (n. 295) per una gradualità della legge, affermando con Familiaris Consortio 34 la “legge della gradualità”. FC 34 rifiuta che ci siano “vari gradi e varie forme di precetto nella legge divina per uomini e situazioni diverse”. Secondo la “gradualità della legge”, Dio richiederebbe solo gradualmente l’esigenza della legge alle persone con difficoltà per compierla; la legge non obbligherebbe quindi tutti allo stesso modo. La legge della gradualità, invece, assume pedagogicamente il concetto di legge, senza contraddire le sue esigenze normative minimali.
Queste esigenze, infatti, identificano ciò che distrugge i beni essenziali della persona, e hanno così proprio il compito di permettere questa pedagogia. Le affermazioni di questo documento devono capirsi secondo le idee di FC 34, che Amoris Laetitia ha voluto esplicitamente confermare. 

Riguardo alla valorizzazione del bene in situazioni sbagliate il testo certamente farebbe problema se si interpretasse accettando il bene della situazione in se stessa. Queste situazioni (come la convivenza, l’adulterio, ecc) hanno una logica contraria al matrimonio, e quindi sono un ostacolo al cammino verso l’amore.
Ma i testi possono interpretarsi anche come valorizzazione del bene che è nel cuore della persona che vive in quella situazione. La situazione è un ostacolo per l’amore, ma il desiderio di amore pieno che è nel cuore dell’uomo è seminato da Dio ed è buono. Gesù con la samaritana ha usato appunto questo metodo: parlare al desiderio di amore pieno del cuore della donna, per poi fare vedere che la decisione presa da lei (non è il tuo marito) e la situazione in cui si trovava erano un ostacolo per l’amore. 

 

- L'enciclopedia sulla famiglia di papa Francesco, di Massimo Introvigne
- L'analisi: la rivoluzione che non c'èdi Lorenzo Bertocchi






[Modificato da Caterina63 14/04/2016 10:02]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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09/04/2016 12:24
 
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  DUE PARERI DIVERSI, DI DUE SACERDOTI.... li portiamo per sottolineare come e quanto regni la confusione e la divisione nella Chiesa e che MAI ciò era accaduto per un testo pontificio....

Letta nel suo insieme, la "Amoris lætitia" può dare spunto a giudizi complessivamente positivi, anche da parte di analisti che non hanno taciuto le loro critiche a talune impazienze dei due sinodi sulla famiglia.

Uno di questi è Juan José Pérez-Soba, sacerdote della diocesi di Madrid e professore di pastorale familiare nel Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, presso la Pontificia Università del Laterano.

Molti già lo conoscono per l'ampio suo intervento su www.chiesa dello scorso 23 febbraio:

> Sui divorziati risposati il papa frena, i suoi consiglieri no

Ecco qui di seguito un suo primo commento all'esortazione.

*

NON UN CAMBIAMENTO DI DOTTRINA, MA L'INVITO A UN CAMMINO NUOVO

di Juan José Pérez-Soba

È finalmente uscito il documento più atteso del magistero degli ultimi anni, che indubbiamente segna una svolta nel pontificato di Francesco. Incoraggiavano questa attesa le enormi aspettative create attorno ai due sinodi sulla famiglia, oggetto di un grande dibattito all'interno della Chiesa. Abbiamo quindi ora le prime proposte.

La prima è la più evidente: chi aspettava un cambiamento nella dottrina della Chiesa non sarà accontentato e rimarrà deluso. Una premessa ripetuta continuamente era che l'obiettivo dei sinodi era pastorale e non dottrinale; tuttavia, molti non hanno voluto capirlo.

Non solo: chi aspettava che l'esortazione apostolica del Santo Padre andasse più avanti dei sinodi, rimarrà deluso anche lui.

Alcuni sognavano questo dopo aver letto la "Relatio finalis" della XIV assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi, perché non rispondeva a molte delle questioni sollevate nel dibattito precedente. Adesso abbiamo visto che nemmeno il papa ha voluto dare loro risposta. Allo stesso modo che nel sinodo non si faceva menzione in modo esplicito dell'ammissibilità alla comunione o alla confessione nel caso dei divorziati risposati, non la si fa nemmeno qui.
Il papa, nell'esprimere la sua posizione personale, non ha voluto che confermare il sinodo nelle sue stesse espressioni. Questo desiderio è molto chiaro in tutta l'esortazione, dove parecchi paragrafi non sono altro che una citazione dei testi delle due relazioni sinodali, senza nessun commento.

Su un tema che aveva voluto aprire alla discussione all'interno della comunità e sul quale poteva intervenire con la sua autorità, il papa non fa altro che ripetere l'affermazione del sinodo del 2015: “Occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate” ("Amoris lætitia" 299, che cita la "Relatio" del 2015, 84).

La prima conseguenza che si ricava dall'esortazione è che la proposta del cardinale Kasper, già respinta nel sinodo, non è stata accettata. Non c'é nel testo rimando alcuno a una tolleranza ufficiale di un situazione di seconde nozze non sacramentali.  Le condizioni indicate dal cardinale tedesco non sono mai menzionate. La sua richiesta che "dovrebbero valere ed essere pubblicamente dichiarati dei criteri vincolanti”, sulla base di come “nella mia relazione ho cercato di fare”, non è stata accolta.

In definitiva, non si fornisce nessuna ragione oggettiva per la quale un divorziato che vive in una nuova unione possa ricevere i sacramenti al di fuori delle condizioni manifestate nella "Familiaris consortio", n. 84, che nella "Relatio" del 2015 è indicata, al n. 85, come “criterio complessivo, che rimane la base per la valutazione di queste situazioni”. Non la si fornisce in nessun punto del documento. Le semplici allusioni delle note 336 e specialmente 351 rimandano a situazioni di tipo generale, senza far effettivo riferimento ai divorziati risposati.

Allora, cosa troviamo nell'esortazione apostolica?

Prima di tutto, il suo stesso titolo ce lo indica: "Amoris lætitia". Una spinta a prendere sul serio l'amore con la forza della gioia che caratterizza la "Evangelii gaudium". Può sembrare un'interpretazione superficiale, ma risponde al testo e all'intenzione che palpita nell'autore. Il papa stesso dice che in un testo così esteso ci sono parti che si leggeranno in modo diverso (n. 7). L'obiettivo del testo, dunque, non è fare una rivoluzione nella Chiesa, bensì portare avanti una “conversione pastorale misericordiosa” (nn. 201 e 293). Questo è certamente qualcosa di nuovo, di evangelico e senza dubbio di missionario, anche se non è quanto si aspettavano i mass media.

Per questo motivo il papa mette sull'avviso, all'inizio, su quelle che sarebbero due interpretazioni sbagliate perché provenienti da un ambito inutilmente polemico (n. 2): “I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche”.

È un modo per dire che per fare qualsiasi cambiamento bisogna prima riflettere e trovare le basi, e si deve rendere ciò manifesto. La conclusione chiara è che il papa non dà inizio a nessun cambiamento, bensì, come dice lui immediatamente, apre un processo di riflessione all'interno di “un'unità di dottrina e di prassi” (n. 3) aperta alle variabili di culture e tradizioni.

Per capire il valore di novità dei testi si possono distinguere, nell'esortazione, tre parti. Prima tutta una serie di testi che sistematizzano i contributi dei sinodi e seguono praticamente alla lettera le loro indicazioni. Poi i testi che vanno considerati come commenti alle catechesi del papa sulla famiglia e forniscono spunti bellissimi sulla convivenza familiare partendo dal mistero di Dio presente nella famiglia. Infine i testi nei quali il papa parla molto liberamente e in modo nuovo, e che hanno solo pochi rimandi. Ciò si trova specialmente nei capitoli quarto e quinto, che sono i più suoi, dove troviamo le affermazioni più personali, che devono illuminare le altre.

Questo non è quanto vogliono i mass media; ma è quanto il papa vuole offrire alla Chiesa nel processo aperto dal cammino sinodale. In questo contesto, osserviamo che egli cita ampiamente la teologia del corpo di san Giovanni Paolo II, praticamente ignorata nei sinodi. È lì che si trova riaffermata con delicatezza, ma al contempo con fermezza, la "Humanae vitae" come luce necessaria dell'amore coniugale.

Ecco perché tutta la sua dottrina dell'amore non è soltanto una bella riflessione ma anche una grande promessa di una svolta pastorale di dimensione importanti. Il papa dice molto chiaramente qual è il suo proposito (n. 199): “Senza pretendere di presentare qui una pastorale della famiglia, intendo limitarmi solo a raccogliere alcune delle principali sfide pastorali”. In questo senso, è specialmente importante quanto afferma  al n. 211: “La pastorale prematrimoniale e la pastorale matrimoniale devono essere prima di tutto una pastorale del vincolo, dove si apportino elementi che aiutino sia a maturare l’amore sia a superare i momenti duri. Questi apporti non sono unicamente convinzioni dottrinali, e nemmeno possono ridursi alle preziose risorse spirituali che sempre offre la Chiesa, ma devono essere anche percorsi pratici, consigli ben incarnati, strategie prese dall’esperienza, orientamenti psicologici. Tutto ciò configura una pedagogia dell’amore che non può ignorare la sensibilità attuale dei giovani, per poterli mobilitare interiormente”.

Qui si vede il primato di una visione pastorale il cui centro è insegnare ad amare, superando la mera visione dottrinale o le considerazioni spirituali. Il fatto di centrarla sul vincolo indica la necessità di avere come fine primario quella preziosa realtà umana che non può essere ridotta a una considerazione giuridica.

Ecco perché i suoi apporti nuovi sono una riflessione più estesa sulla teoria del "gender" (n. 56) e la necessità di superare un sentimentalismo dell'amore, che richiede un'adeguata educazione sessuale (nn. 280-286), oltre che contribuire con la riflessione più sistematica sulla carità coniugale che si trova nel magistero (nn. 120-122).

Questi sono i fari che devono guidare le azioni che compaiono nel capitolo ottavo e il cui obiettivo è condurre le persone a quella pienezza di vita che l'amore ci dona. Il papa vede tutto questo unito in modo diretto al "kerygma", sul quale ha sempre fondato il suo impulso pastorale (n. 58), come anelito evangelico che accompagna tutto il suo pontificato.

Questa è, veramente, un'intuizione pastorale enorme riguardo alla famiglia perché, come ha detto a Santiago de Cuba il 2 settembre 2015, le famiglie “non sono un problema, sono principalmente un'opportunità” (n. 7). Questa intuizione è essenziale per portare avanti la svolta di una Chiesa più famigliare, autentica “famiglia di famiglie” (n. 87). Richiede la conversione pastorale di un'azione misericordiosa che è la luce che illumina tutto il capitolo ottavo.

Ciò non può essere considerato come secondario, ma bisogna vederlo sempre alla luce della positività dell'amore, per non cadere in una casuistica che il papa rifiuta. E intende questo come una ricerca che non è un cambiamento delle norme, come sperano alcuni. Per dirla con le parole del papa (n. 304): “Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione”.

È qui che egli ci invita a una più profonda riflessione sull'azione pastorale, nella quale la misericordia è parte della sua stessa ragione interna. È un compito ancora da svolgere, e il papa vuole aprire la via. È qui che si compie quello che lui chiede all'inizio (n. 2): “La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza". Le tre chiavi che introducono il capitolo ottavo, “accompagnare, discernere ed integrare”, hanno senso non come azioni separate, bensì guidate dall'amore che dona loro il proprio contenuto.

Senza cambiamenti nella dottrina e nella normativa ecclesiale, il papa apre un processo di maggior comprensione della misericordia nella pastorale della Chiesa. Ma lo fa chiaramente partendo dalla sua precedente riflessione sull'amore, perché la misericordia è un suo frutto (n. 27). È ben consapevole del “vero significato della misericordia, la quale implica il ristabilimento dell’Alleanza” (n. 64). Nella riflessione pastorale non manca di fare riferimento ai documenti precedenti del magistero, che sono principio di interpretazione della portata della sue affermazioni. Fa così con la "Familiaris consortio" e con la dichiarazione sull'ammissibilità alla sacra comunione per i divorziati risposati del pontificio consiglio per i testi legislativi (24 giugno 2000). Riguardo all'azione umana e alla sua razionalità cita ripetutamente san Tommaso d'Aquino e il Catechismo della Chiesa cattolica. Certamente sta tracciando una via in perfetta continuità ecclesiale, ma con un nuovo respiro: quella letizia che unisce questo documento con la "Evangelii gaudium".

Dobbiamo capire bene l'apertura pastorale di questa esortazione per evitare di cadere in interpretazioni ambigue della stessa, che il papa stesso sa bene quali effetti disastrosi potrebbero avere nella pastorale, e per questo motivo sin dall'inizio, come abbiamo letto (n. 2), reclama la necessità di essere chiari.

Questo dipenderà, in larga misura, delle famiglie cristiane, che sono riflesso del vero Vangelo che le unisce.

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NOTA BENE !

Il blog “Settimo cielo” fa da corredo al sito “www.chiesa”, curato anch’esso da Sandro Magister, che offre a un pubblico internazionale notizie, analisi e documenti sulla Chiesa cattolica





LA DOLCE MORTE DELLA CHIESA......

Il colpo più devastante degli ultimi tre anni.

di  Don Elia

Geniale astuzia gesuitica. Se non altro, bisogna dargliene atto. Con l’esortazione apostolica sulla famiglia è riuscito a catturare e calamitare su di sé l’attenzione universale, compresa quella di chi lo detesta. Tutti col fiato sospeso in attesa che scoccasse la fatidica ora. Mai la pubblicazione di un documento del Magistero aveva provocato tanta suspense ed era stato atteso con tanta trepidazione, seppure di segno diverso a seconda degli schieramenti. Che si sia d’accordo o meno, una simile ansia, da sola, ha comunque conferito al documento una risonanza enorme a livello mondiale, fuori e dentro la Chiesa. 
Non c’è che dire: un altro colpo da maestro nella strategia di manipolazione collettiva di cui tutti, nolenti o no, siamo inevitabilmente vittime – forse, come potremo verificare nei prossimi mesi, il colpo più devastante degli ultimi tre anni.

I commenti, in senso favorevole o contrario, saranno d’obbligo e si moltiplicheranno a dismisura su siti e testate di ogni orientamento, continuando a tenere incollato l’interesse di tutti su un testo che, secondo l’ormai collaudata tecnica, non contiene dichiarazioni che contraddicano nettamente il deposito della fede, ma insinua l’eresia sotto forma di mantra ossessivi: accoglienza, inclusione, misericordia, compassione, inculturazione, integrazione, accompagnamento, gradualità, discernimento, coscienza illuminata, superamento di schemi rigidi o sorpassati… 

Chi può contestare una tale esortazione alla (apparente) carità evangelica senza passare per un ottuso e insensibile difensore di dottrine astratte, formulate in modo non più compatibile con la situazione odierna? Se – a quanto si afferma – il matrimonio cristiano (che i nostri genitori, nonni e bisnonni hanno normalmente vissuto, pur con tutti i loro limiti e sforzi) è un ideale cui tendere e non più la vocazione ordinaria del battezzato, elevata e fortificata dalla grazia, chi siamo noi per giudicare famiglie ferite
e situazioni complesse?

VISCIDO E SFUGGENTE

A voler pizzicare il testo su qualche preciso svarione dottrinale, d’altronde, si ha l’ormai consueta impressione di essere alle prese con un oggetto viscido e sfuggente che non si lascia afferrare da nessun lato: non c’è un pensiero articolato e coerente, non c’è uno sviluppo teologico argomentato, ma un’iterazione snervante di ricorrenti temi con variazioni che, in appena trecentoventicinque paragrafi, stronca qualsiasi resistenza mentale e psicologica. 
Il realismo cui insistentemente ci si appella non è quello dell’interazione tra natura e grazia, tipico della tradizione cattolica, ma quello della sociologia e della psicanalisi, che ignorano completamente l’azione della grazia – se non intesa nel significato improprio di conforto psicologico – e considerano la natura esclusivamente nella sua disperata incapacità di correggersi. 
Di conseguenza l’unica soluzione possibile, nell’immancabile ospedale da campo, non è curare le malattie con una terapia adeguata, ma “aiutare a morire” pazienti accolti, integrati e felici di esserlo. 
Che dire? Eutanasia dello spirito…

Frammisti a questa logorroica e interminabile ricetta, espressi in forma ambigua o imprecisa, nel penultimo capitolo (quello decisivo) arrivano infine gli errori formali, quando l’esausto lettore, indottrinato dai trecento paragrafi precedenti, non è più in grado di reagire.

Finalmente qualcosa a cui aggrapparsi per denunciare – ciò che si spera comincino a fare vescovi e cardinali – un’esplicita deviazione dottrinale! L’errore più grave, da cui discendono gli altri, riguarda l’imputabilità morale degli atti umani, che non sempre è piena. Verissimo per singole azioni; peccato che le cosiddette situazioni irregolari siano stati durevoli e condizioni stabili in cui non si può cadere per debolezza o inavvertenza, ragion per cui l’osservazione non è pertinente. Da questo errore di prospettiva deriva l’opinione che non tutti coloro che vivono una situazione coniugale irregolare siano in peccato mortale, privi della grazia santificante e dell’assistenza dello Spirito Santo. Ciò può risultare vero unicamente in presenza dell’ignoranza invincibile: ma è un’ipotesi ammissibile, in questo caso? Nell’eventualità, compito di ogni fedele – e a maggior ragione di ogni sacerdote – è proprio quello di istruire gli ignoranti.

Di conseguenza, affermare che chi è in stato di peccato grave è membro vivo della Chiesa non può non essere falso: il peccato mortale si definisce appunto come morte dell’anima.

Se poi, su questa china, si arriva ad asserire che l’adulterio permanente può essere per il momento «la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (Amoris laetitia, 303), siamo alla bestemmia. 
A rimediare non basta una citazione di san Tommaso, strumentale e strappata al contesto: è il metodo dei Testimoni di Geova.

Non siamo accorati per chi si ingegnerà a tirare il documento da una parte o dall’altra per trovarvi supporto al proprio orientamento (normalista o rivoluzionario); la perfidia peggiore consiste nel fatto che anche le obiezioni, loro malgrado, ne rafforzeranno la ricezione: che se ne parli anche male, purché se ne parli… e più se ne parlerà, più il veleno che contiene penetrerà nelle conversazioni quotidiane, nei dibattiti televisivi, nei progetti pastorali, nella mentalità e nella prassi comuni.

È proprio così che idee inizialmente inaccettabili vengono trasformate in norma; è esattamente la stessa tecnica utilizzata dalle menti occulte del nuovo ordine mondiale, che nel giro di pochissimi anni ha portato la società e gli Stati ad ammettere e premiare le devianze sessuali, prima universalmente e spontaneamente aborrite, e a stigmatizzare come nemico del genere umano chi ancora le denuncia per quello che sono – la più ripugnante forma di degradazione della persona. Ora anche nella Chiesa, con la scusa dell’adattamento ai tempi e mediante la valutazione dei casi particolari, demandata ai singoli chierici, ciò che era inammissibile diverrà obbligatorio – e guai a chi non si adegua.

Se ci avete fatto caso, l’attacco è stato sistematicamente portato contro i Sacramenti che sono i pilastri del vivere sociale e cristiano: il matrimonio, fondamento della famiglia e dell’educazione alla fede e alla vita; la confessione, fattore di discernimento morale e di correzione della condotta individuale; l’Eucaristia, principio di santificazione e vincolo di appartenenza ecclesiale. Il primo è stato demolito con le nuove norme per le cause di nullità; il secondo, svuotato di senso e di valore con le inaudite raccomandazioni ai missionari della misericordia; il terzo, ridotto a mero simbolo con poche battute estemporanee sull’intercomunione con i protestanti. Complimenti: neanche Ario e Lutero erano riusciti a far tanto danno con così pochi mezzi e in così poco tempo. 
Nella hit parade degli eretici il Nostro ha raggiunto la vetta in modo fulmineo.

Distruggendo la fede nei Sacramenti e nella vita soprannaturale, si annienta inevitabilmente anche quella – inseparabile – nei due misteri principali del Credo cristiano: Incarnazione, Passione, morte e Risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo; unità e Trinità di Dio. Anche se l’ordine del catechismo è inverso, qui dobbiamo partire dal fondo: i Sacramenti, infatti, applicano alle anime dei credenti i frutti del mistero salvifico di Cristo, il quale sarebbe stato impossibile se Gesù non fosse il Figlio di Dio, una cosa sola con il Padre nell’unità dello Spirito Santo. 

In ultima analisi, dunque, chi nega l’efficacia della grazia sacramentale nega il Dio della Rivelazione; in altre parole, è apostata e ateo, perché nel suo discorso rimane soltanto l’uomo. Degno erede e continuatore di quel famoso porporato, estintosi per volontaria eutanasia, che da vecchio affermava di non aver ancora capito perché mai il Padre avesse fatto soffrire il Figlio. Gli sarebbe bastato leggere la Bibbia, di cui peraltro passava per maestro.

Ora, se è vero che non si può fare a meno di leggere pur qualcosa della e sull’ultima pubblicazione pontificia, evitiamo di cadere in trappola lasciandocene catturare e intossicare, dimenticando poi di fare le uniche cose effettivamente utili e necessarie nell’attuale frangente storico – quelle che persino l’ambiente tradizionale, ahimé, non pratica abbastanza, rischiando di estenuarsi in sfoghi polemici che, alla fin fine, non cambiano nulla, se non le nostre condizioni emotive.

Preghiamo, offriamo, facciamo penitenza (ma sul serio, non a chiacchiere) e, se abbiamo tempo e voglia di leggere, curiamo la retta fede.

Non lasciamoci rubare la fruizione e il godimento del tesoro che possediamo, perdendo la pace e la serenità di chi conosce la verità e si sforza di viverla con l’aiuto della grazia e il proprio impegno personale.  

Dato che l’atomizzazione dottrinale e pastorale della Chiesa Cattolica, che di fatto è in corso da decenni, è stata ormai formalmente sancita, preghiamo senza sosta per essa, i cui nemici da sempre si adoperano a minarne l’unità allo scopo di dominarla e distruggerla. Divide et impera, nonostante la scarsa preparazione culturale, almeno una cosa l’ha imparata – e l’applica a meraviglia, polverizzando la comunione del Popolo di Dio.

Preghiamo anche gli uni per gli altri onde poter fare un discernimento retto: i sacerdoti in cura d’anime, riguardo alle difficili scelte che saranno obbligati a compiere; i fedeli, riguardo ai comportamenti che dovranno tenere in “comunità” parrocchiali in cui abusi e sacrilegi, se già non lo sono, diverranno prassi corrente. «Il fratello aiutato dal fratello è come una città fortificata» (Pr 18, 19): posso garantire per esperienza personale che il sostegno dell’intercessione altrui permette di sopportare le più gravi prove con un’inspiegabile letizia. 
Il Signore ricompensi con la gioia della fedeltà amorosa a Lui i tanti che pregano per il povero prete che scrive.

Pubblicato da Elia

http://lascuredielia.blogspot.it/2016/04/la-dolce-morte-della-chiesa-geniale.html

(MB: Don Elia è un sacerdote.  e’ un pezzo che vorrei aver scritto io - ha detto Blondet)

 



  L’Esortazione post-sinodale Amoris laetitia: prime riflessioni su un documento catastrofico

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(Roberto de Mattei) Con l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, pubblicata l’8 aprile, Papa Francesco si è ufficialmente pronunciato sui problemi di morale coniugale di cui si discute da due anni.

Nel Concistoro del 20-21 febbraio 2014 Francesco aveva affidato al cardinale Kasper il compito di introdurre il dibattito su questo tema. La tesi del card.  Kasper, secondo cui la Chiesa deve cambiare la sua prassi matrimoniale, ha costituito il leit motiv dei due Sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015 e costituisce oggi il cardine dell’esortazione di Papa Francesco.

Nel corso di questi due anni, illustri cardinali, vescovi, teologi e filosofi sono intervenuti nel dibattito per dimostrare che tra la dottrina e la prassi della Chiesa deve esistere un’intima coerenza. La pastorale infatti si fonda sulla dottrina dogmatica e morale. «Non vi può essere pastorale che sia in disarmonia con le verità della Chiesa e con la sua morale, e in contrasto con le sue leggi, e non sia orientata al raggiungimento dell’ideale della vita cristiana!» ha rilevato il cardinale Velasio De Paolis, nella sua Prolusione al Tribunale Ecclesiastico Umbro del 27 marzo 2014. L’idea di staccare il Magistero da una prassi pastorale, che potrebbe evolvere secondo le circostanze, le mode e le passioni, secondo il cardinale Sarah, «è una forma di eresia, una pericolosa patologia schizofrenica» (La Stampa, 24 febbraio 2015).

Nelle settimane che hanno preceduto l’Esortazione post-sinodale, si sono moltiplicati gli interventi pubblici e privati di cardinali e vescovi presso il Papa, al fine di scongiurare la promulgazione di un documento zeppo di errori, rilevati dai numerosissimi emendamenti che la Congregazione per la Dottrina dalla Fede ha fatto alla bozza. Francesco non è arretrato, ma sembra aver affidato l’ultima riscrittura dell’Esortazione, o almeno di alcuni suoi passaggi chiave, alle mani di teologi di sua fiducia, che hanno tentato di reinterpretare san Tommaso alla luce della dialettica hegeliana. Ne è uscito un testo che non è ambiguo, ma chiaro, nella sua indeterminatezza. La teologia della prassi esclude infatti ogni affermazione dottrinale, lasciando che sia la storia a tracciare la linee di condotta degli atti umani. Per questo, come afferma Francesco, «è comprensibile» che, sul tema cruciale dei divorziati risposati, «(…) non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi» (§300). Se si è convinti che i cristiani, nel loro comportamento, non devono conformarsi a princìpi assoluti, ma porsi in ascolto dei «segni dei tempi», sarebbe contradditorio formulare regole di qualsiasi genere.

Tutti aspettavano la risposta a una domanda di fondo: coloro che, dopo un primo matrimonio, si risposano civilmente, possono accostarsi al sacramento dell’Eucarestia? A questa domanda la Chiesa ha sempre risposto categoricamente di no. I divorziati risposati non possono ricevere la comunione perché la loro condizione di vita contraddice oggettivamente la verità naturale e cristiana sul matrimonio significata e attuata dall’Eucaristia (Familiaris Consortio, § 84).

La risposta dell’Esortazione postsinodale è invece: in linea generale no, ma «in certi casi» sì (§305, nota 351). I divorziati risposati infatti devono essere «integrati» e non esclusi (§299). La loro integrazione «può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate» (§ 299), senza escludere la disciplina sacramentale (§ 336).

Il dato di fatto è questo: la proibizione di accostarsi alla comunione per i divorziati risposati non è più assoluta. Il Papa non autorizza, come regola generale, la comunione ai divorziati, ma neanche la proibisce. «Qui – aveva sottolineato il card. Caffarra contro Kasper – si tocca la dottrina. Inevitabilmente. Si può anche dire che non lo si fa, ma lo si fa. Non solo. Si introduce una consuetudine che a lungo andare determina questa idea nel popolo non solo cristiano: non esiste nessun matrimonio assolutamente indissolubile. E questo è certamente contro la volontà del Signore. Non c’è dubbio alcuno su questo» (Intervista a Il Foglio, 15 marzo 2014).

Per la teologia della prassi non contano le regole, ma i casi concreti. E ciò che non è possibile in astratto, è possibile in concreto. Ma, come bene ha osservato il cardinale Burke: «Se la Chiesa permettesse la ricezione dei sacramenti (anche in un solo caso) a una persona che si trova in un’unione irregolare, significherebbe che o il matrimonio non è indissolubile e così la persona non sta vivendo in uno stato di adulterio, o che la santa comunione non è comunione nel corpo e sangue di Cristo, che invece necessita la retta disposizione della persona, cioè il pentimento di grave peccato e la ferma risoluzione di non peccare più» (Intervista ad Alessandro Gnocchi su Il Foglio, 14 ottobre 2014).

Inoltre l’eccezione è destinata a diventare una regola, perché il criterio dell’accesso alla comunione è lasciato in Amoris laetitia, al “discernimento personale” dei singoli. Il discernimento avviene attraverso «il colloquio col sacerdote, in foro interno» (§300), “caso per caso”. Ma quali saranno i pastori di anime  che oseranno vietare l’accesso all’Eucarestia, se «il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare» (§308) e se bisogna «integrare tutti» (§297), e «valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio» (§292)? I pastori che volessero richiamare i comandamenti della Chiesa, rischierebbero di comportarsi, secondo l’Esortazione, «come controllori della grazia e non come facilitatori» (§310). «Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa “per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite”» (§305).

Questo inedito linguaggio, più duro della durezza di cuore che rimprovera ai “controllori della grazia”, è il tratto distintivo dell’Amoris laetitia che, non a caso, nella conferenza stampa dell’8 aprile, il cardinale Schönborn  ha definito «un evento linguistico». «La mia grande gioia per questo documento», ha detto il cardinale di Vienna, sta nel fatto che esso «coerentemente supera l’artificiosa, esteriore, netta divisione fra regolare e irregolare». Il linguaggio, come sempre, esprime un contenuto. Le situazioni che l’Esortazione post-sinodale definisce «cosiddette irregolari» sono quelle dell’adulterio pubblico e delle convivenze extramatrimoniali. Per la Amoris laetitia esse realizzano l’ideale del matrimonio cristiano, sia pure «in modo parziale e analogo» (§292). «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (§305), «in certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti» (nota 351). 

Secondo la morale cattolica, le circostanze, che costituiscono il contesto in cui si svolge l’azione non possono modificare la qualità morale degli atti, rendendo buona e giusta un’azione intrinsecamente cattiva. Ma la dottrina degli assoluti morali e dell’intrinsece malum è vanificata dalla Amoris laetitia, che si uniforma alla “nuova morale” condannata da Pio XII in numerosi documenti e da Giovanni Paolo II nellaVeritatis Splendor. La morale della situazione lascia alle circostanze e, in ultima analisi, alla coscienza soggettiva dell’uomo, la determinazione di ciò che è bene e ciò che è male. L’unione sessuale extraconiugale non è considerata intrinsecamente illecita, ma, in quanto atto di amore, valutabile secondo le circostanze. Più in generale non esiste il male in sé così come non esiste peccato grave o mortale. L’equiparazione tra persone in stato di grazia (situazioni “regolari”) e persone in stato di peccato permanente (situazioni “irregolari”) non è solo linguistica: ad essa sembra soggiacere la teoria luterana dell’uomo simul iustus et peccator, condannata dal Decreto sulla giustificazione del Concilio di Trento (Denz-H, nn. 1551-1583).

L’Esortazione post-sinodale Amoris laetitia, è molto peggiore della relazione del card. Kasper, contro cui sono state giustamente rivolte tante critiche in libri, articoli, interviste. Il card. Kasper aveva posto alcune domande; l’Esortazione Amoris laetitia, offre la risposta: apre la porta ai divorziati risposati, canonizza la morale della situazione e avvia un processo di normalizzazione di tutte le convivenze more uxorio.

Considerato che il nuovo documento appartiene al Magistero ordinario non infallibile, c’è da augurarsi che sia oggetto di un’analisi critica approfondita, da parte di teologi e Pastori della Chiesa, senza illudersi di poter applicare ad esso l’“ermeneutica della continuità”. 

Se il testo è catastrofico, più catastrofico ancora è il fatto che sia stato firmato dal Vicario di Cristo. Ma per chi ama Cristo e la sua Chiesa, questa è una buona ragione per  parlare, non per tacere. Facciamo nostre dunque le parole di un vescovo coraggioso, mons. Atanasio Schneider: «“Non possumus!”. Io non accetterò un discorso nebuloso né una porta secondaria abilmente occultata per profanare il Sacramento del Matrimonio e dell’Eucaristia. Allo stesso modo, non accetterò che ci si prenda gioco del sesto Comandamento di Dio. Preferisco esser io ridicolizzato e perseguitato piuttosto che accettare testi ambigui e metodi non sinceri. Preferisco la cristallina “immagine di Cristo Verità all’immagine della volpe ornata con pietre preziose” (S. Ireneo), perché “conosco ciò in cui ho creduto”, “Scio cui credidi”» (II Tm 1, 12)» (Rorate Coeli, 2 novembre 2015) (Roberto de Mattei)



[Modificato da Caterina63 10/04/2016 19:25]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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  DOSTOEVSKIJ E LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE. «DIREMO CHE PERMETTIAMO LORO DI PECCARE PERCHÉ LI AMIAMO»

Dostoevskij e la Leggenda del Grande Inquisitore. «Diremo che permettiamo loro di peccare perché li amiamo»

«Amare il prossimo come se stessi (…) è impossibile. Su questa terra siamo legati dalla legge dell’individualità. Il nostro io ci è di ostacolo»

F.M. Dostoevskij


LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE 

Queste poche pagine vogliono essere una riflessione su un capolavoro nel capolavoro. Mi riferisco a La leggenda del Grande Inquisitore che Ivan racconta al fratello Alësa nell’opera di Dostoevskij I fratelli Karamazov.

Il racconto di Ivan

La Leggenda è nota: Gesù Cristo torna sulla terra (per la precisione a Siviglia nel XVI secolo), vi compie miracoli e subito viene acclamato dalle folle come Salvatore, ma prima che la gente lo riconosca come il Cristo, viene arrestato dall’Inquisizione. Nella cella di reclusione, mentre scende a notte, riceve la visita del novantenne capo dell’Inquisizione, che immediatamente Lo riconosce.

Inizia un lungo monologo, in cui il vecchio rimprovera a Gesù di essere tornato sulla terra a rovinare i suoi piani e a mettere in pericolo il suo progetto di pacifica convivenza  tra gli uomini. L’ideale evangelico di libertà – sostiene l’Inquisitore – è troppo duro per la maggior parte degli uomini (non per lui, cui Dio aveva dato le forze necessarie per seguirlo), condannati pertanto da esso alla inevitabile dannazione e dunque all’infelicità. Proprio questa considerazione lo spinse ad abbandonare l’ideale evangelico e a prendere parte al progetto di concedere almeno la felicità terrena ad un’umanità comunque incapace di raggiungere quella eterna.
Questo progetto prevede la trasformazione dell’ideale evangelico in una morale più accessibile all’uomo, fatta di gesti esteriori alla portata di tutti. In questo modo, anche i deboli crederanno di poter raggiungere la felicità eterna, sottometteranno la loro libertà ai precetti della Chiesa e ne riceveranno in cambio una felice speranza nell’aldilà. Ecco allora tutta la terra schiava, illusa ma felice. Questo il progetto dell’Inquisizione: portare in terra la felicità a tutti, dato che quella celeste è al di fuori della portata di molti. Di più l’uomo non può pretendere.

Ora, Cristo tornando a Siviglia rischia di rovinare il progetto: riaffermando il vero ideale evangelico, tutti si renderebbero conto che solo a pochi eletti sono state date le capacità di realizzarlo. Che ne sarebbe allora del resto dell’umanità? Folle disilluse, che tentano invano di uniformarsi al Vangelo e cadono di continuo nel peccato, disperate nel vedersi destinate all’Inferno e all’infelicità. Cristo porterebbe la felicità solo a pochi eletti, l’Inquisizione la mette alla portata di tutti. Certo, seguendo l’Inquisizione l’uomo non raggiungerà il Paradiso, ma non l’avrebbe raggiunto comunque, a causa della propria naturale debolezza. Per lo meno, sarà felice sulla terra.

Per questo, al termine del lungo monologo, l’Inquisitore invita Cristo ad andarsene dalla terra e a non ritornare più.
Cristo bacia l’inquisitore e se ne va’. In silenzio. Così termina la Leggenda.

Chi è il Grande Inquisitore?

Il Grande Inquisitore è un uomo di chiesa, appartiene anzi ai più alti gradi gerarchici di questa chiesa che dice di essere depositaria e diffonditrice del messaggio della salvezza, ma egli non crede in quel Dio, nel cui nome tuttavia parla ed agisce. E non si può certamente dire che l’Inquisitore abbia perduto la fede per la rilassatezza dei costumi. Anzi ha «mangiato anche lui radici nel deserto», anche lui si è «accanito a domare la propria carne per rendersi libero e perfetto» . 

Ma al messaggio della libertà, gli uomini non sono in grado di corrispondere, perché deboli e fragili. Sì, dice ancora il vecchio, «non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso ». Pertanto, con un tragico ribaltamento di prospettiva, egli riterrà di amare gli uomini, togliendo loro il peso della libertà e rendendoli “felici” nel docile appiattimento dello spirito e nella soddisfazione dei bisogni immediati. Un amore questo, che si tinge dei sinistri bagliori dei roghi… è giusto che uno muoia … per il bene di molti.

Il progetto del Grande Inquisitore

L’ampia e tragica pretesa del Grande Inquisitore è quella di “correggere” l’opera di Cristo: «Ma io ho aperto gli occhi, e non ho voluto servir la follia. Ho virato di bordo, e mi sono aggregato alla schiera di quelli che hanno corretto le Tue gesta». Ritenendo impraticabile ai più la strada della libertà indicata da Cristo, nel nome stesso di Lui, mentendo, alla strada impervia della libertà è stata sostituita la strada facile del servilismo felice, permettendo anche di peccare.

«Oh, noi li persuaderemo che allora soltanto essi saranno liberi, quando rinunzieranno alla libertà loro in favore nostro e si sottometteranno a noi… Oh, noi consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso col nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo e che, in quanto al castigo per tali peccati, lo prenderemo su di noi. Così faremo, ed essi ci adoreranno come benefattori che si saranno gravati coi loro peccati dinanzi a Dio.
E per noi non avranno segreti. Permetteremo o vieteremo loro di vivere con le proprie mogli ed amanti, di avere o di non avere figli, – sempre giudicando in base alla loro ubbidienza, – ed essi s’inchineranno con allegrezza e con gioia. Tutti, tutti i più tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi avranno nella nostra decisione una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dovere personalmente e liberamente decidere. E tutti saranno felici, milioni di esseri, salvo un centinaio di migliaia di condottieri. Giacché noi soli, noi che custodiremo il segreto, noi soli saremo infelici
».


Il tragico ateismo del Grande Inquisitore raggiunge il punto culminante e intensivo nell’identificazione con lui, con il Tentatore.
L’identificazione con lo spirito del Tentatore da parte del Grande Inquisitore, «… noi non siamo con Te, siamo con lui: ecco il nostro segreto!», fa sì che questi, nel confronto con Cristo nel buio della prigione Sivigliana, assuma la configurazione dell’Anticristo. Desunte dalla pagina del vangelo matteano (Mt 4, 1-11), le tre tentazioni si rivestono di un progressivo significato di sfida, di fronte all’insuccesso dell’opera di Gesù. Le tre tentazioni indicano l’unica strada da seguire, per raggiungere gli uomini deboli e dominarli nella illusione di una «quieta e umile felicità». Non saranno le pietre a trasformarsi in pane, ma il pane stesso, frutto del lavoro degli uomini, sarà loro sottratto e ridistribuito da chi ha il potere. E il miracolo sarà nell’aver tramutato in pane quel pane che, senza quel dominio che ha tolto la libertà, si sarebbe trasformato in pietra.

[...]

Le ragioni dell’Inquisitore

Il discorso dell’Inquisitore non può essere semplicemente rigettato come figlio di un patto col diavolo, pertanto falso a priori. L’Inquisitore (come dimostra anche la sua vicenda personale) è un uomo che ha preso estremamente sul serio il messaggio evangelico. Infatti, chi potrebbe negare che il comandamento dell’amore è qualcosa di “sovrumano”? L’amore sfugge al controllo della ragione. Si può stabilire intellettualmente che è giusto amare il prossimo, ma una volta fatto questo si è ancora infinitamente distanti dall’amarlo concretamente, dal provare amore per lui. Ancor più evidente è il caso del perdono. Il genitore di un figlio assassinato può ripetersi mille volte che è giusto perdonare (e già questo implica uno sforzo notevole...), ma non è ben più “naturale” (“umano”) che, nei confronti dell’omicida, provi un odio profondo, anziché vedere in lui un fratello?

Nessun ragionamento è in grado, automaticamente, di far nascere il minimo sentimento. Il comandamento dell’amore è al centro del Vangelo, ma l’uomo raramente riesce a “farsi ubbidire” quando comanda a se stesso di amare. Troppo fragile è la volontà umana, troppo debole la voce della ragione. L’Inquisitore sta lì a ricordarci la sproporzione tra le “pretese” di Cristo e le nostre capacità, di qui il rimprovero al “prigioniero” di aver sopravvalutato l’uomo: non siamo abbastanza forti per amare; solo alcuni, cui è stata concessa una grazia particolare, lo possono fare. La Chiesa si occupa degli altri.


[...] 

 






 
FOCUSdi Lorenzo Bertocchi
Amoris Laetitia
 

La castità nei matrimoni di divorziati risposati e loro accesso all'Eucaristia sono i due principali temi che in queste ore fanno discutere sulla base di diverse interpretazioni che si danno della Amoris Laetitia. Ecco una guida per capire cosa c'è in ballo.


Sulle indicazioni per le situazioni familiari irregolari contenute nell'esortazione apostolica Amoris Laetitia (soprattutto nel capitolo 8) si è scatenata in questi giorni una tempesta di interpretazioni. Così, per qualcuno, tutto il documento è finalmente l’approdo ad una “nuova” Chiesa. Lo dicono anche media cattolici, ne parlano diverse personalità del mondo ecclesiale. L’incendio è divampato. Nonostante gli sforzi importanti di leggere il testo nell’unico modo possibile: nella continuità con il Magistero precedente e quindi con il depositum fidei.

Come ha detto il prof. José Granados alla Nuova Bussola,  «se si separa il testo [del capitolo 8, NdA] dal contesto della discussione sinodale oppure dalla sua continuità con il magistero precedente, certamente ci possono essere interpretazioni sbagliate». In “Amoris laetitia” c’è un rinnovato approccio pastorale verso le coppie cosiddette irregolari, e c’è anche il discernimento “caso per caso” in merito all’accesso ai sacramenti per le coppie di divorziati risposati. In questo ambito ci sono tre note al testo dell’esortazione (329, 336 e 351) che in queste ore stanno facendo discutere. Offriamo al lettore alcuni termini del problema, senza la pretesa di risolverli, ma per meglio comprendere.

NOTA 329: VIVERE COME FRATELLO E SORELLA?

La nota riguarda il § 298 di Amoris Laetitia, quello in cui è scritto che le situazioni «molto diverse» in cui si trovano a vivere i «divorziati che vivono una nuova unione (…) non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio ad adeguato discernimento personale e pastorale». Tra queste situazioni la Chiesa riconosce anche quella in cui  «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione».  Questa ultima frase è riportata nel testo dall’esortazione Familiaris Consortio di S. Giovanni Paolo II al n°84.

In questo paragrafo è chiaramente indicato che coloro che si trovano nella situazione suddetta (e che non hanno ottenuto riconoscimento di nullità del precedente matrimonio), per conformarsi al bene devono essere «sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». E cioè, dice ancora il testo di Giovanni Paolo II, che «assumano l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi». Questa è anche la via, indicata dal testo di Papa Wojtyla, di accesso alla riconciliazione nel sacramento della penitenza e, quindi, la possibilità di comunicarsi.

Ma la nota 329 di “Amoris laetitia” finisce in qualche modo per oltrepassare questo insegnamento:

«In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51)»

Da questa nota sembra addirittura che coloro che sono divorziati risposati civilmente, è bene che vivano a tutti gli effetti come coniugi, perché «se mancano alcune espressioni di intimità» si mette in pericolo «la fedeltà» (?) e «il bene dei figli». 

Sono diversi gli elementi che vengono discussi di questa nota 329 e che possono dare luogo a interpretazioni errate rispetto alla natura indissolubile del primo matrimonio (se valido) e all’insegnamento morale della Chiesa:

- la citazione della costituzione conciliare Gaudium et spes 51 risulta disancorata dal contesto originario. InGaudium et spes, infatti, queste parole sono chiaramente riferite ai coniugi e non ai divorziati risposati;

- utilizzando questa citazione sembra che si possa valutare - come in materia morale fanno i proporzionalisti - l’azione morale sulla base delle conseguenze positive e negative dell’azione, finendo così per obliterare ipso facto l’esistenza di assoluti morali o comportamenti intrinsecamente cattivi. In effetti la nota 329 può dare adito a delle interpretazioni che potrebbero negare l’adulterio come azione in sé cattiva. L’unione coniugale tra due persone che coniugi non sono, può quindi essere, in certi casi, un bene?

- In questo caso, come valutare quanto riportato al n°52 dell’enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II laddove insegna che vi sono atti (tra cui l’adulterio) che, appunto, si definiscono «intrinsecamente cattivi», «sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze?».

 

NOTE 336 E 351: ACCESSO AI SACRAMENTI PER DIVORZIATI RISPOSATI

Il contesto in cui vengono inserite le due note è simile, cioè quello di un differente grado di responsabilità del penitente in funzione di condizionamenti e/o fattori attenuanti. In questi casi, dice la nota 336, le conseguenze o gli effetti di una norma non devono essere necessariamente sempre gli stessi. 

«Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale», si legge nella nota, «dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47

In questo caso, pur restando il dubbio in merito a quale disciplina sacramentale faccia riferimento il testo, appare chiaro che ci sia un’apertura pratica, in certi casi, all’accesso ai sacramenti: finché si tratta (per esempio) della confessione e dell’unzione degli infermi, non c’è contrasto tra (da un lato) quanto dice questa nota e (dall’altro) la natura di questi sacramenti e l’insegnamento della Chiesa; ma, se si trattasse dell’eucaristia, invece sì.

La nota 351, invece, ancor più complessa e problematica, si inserisce nel § 305 del testo, laddove si parla del fatto che a causa di «condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio (…) ricevendo a tal scopo l’aiuto della Chiesa». E qui si innesta la nota 351:

«In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44:AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)».

Pertanto, in certi casi, sembra aperta la via dei sacramenti a divorziati risposati civilmente attraverso una non-imputabilità soggettiva riconosciuta, nonostante la presenza di una condizione oggettiva di peccato.

Indichiamo solo alcuni elementi problematici che emergono:

- al confessore sembra essere richiesto di giudicare in modo esatto lo stato soggettivo della coscienza, arrivando di fatto ad esprimere un giudizio sul cuore dell’uomo (cosa che normalmente la Chiesa non ha mai fatto, rimanendo sul piano, appunto, della situazione oggettiva. È il caso di Familiaris consortio che chiedeva, per l’accesso ai sacramenti, di abbracciare la continenza con il proposito di non commettere più quel peccato.);

- qualche commentatore ha citato, per spiegare questa prassi, il principio dell’epicheia tomista (in realtà travisando san Tommaso, ma sarebbe un discorso lungo…), ossia quello per cui sarebbero ammesse eccezioni alla norma. Ma tale principio, caldeggiato anche più volte dal cardinale Kasper, era stato già valutato come non applicabile proprio in casi come quelli dei divorziati risposati che esercitano anche la sessualità, da un documento firmato cardinale Ratzinger, prefetto della Dottrina della Fede. Il principio di epicheia [ed aequitas canonica], si legge in quel documento del 1994, “non possono essere applicate nell'ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L'indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di "diritto divino". La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali - ad esempio nella pastorale dei Sacramenti -, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore.”

- come valutare quindi quanto riportato dall’enciclica Veritatis Splendor a proposito del fatto che “se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla?” (n°81)

Infine, come conciliare queste tre note (329, 336 e 351) con il paragrafo 303 di Amoris laetitia, che dice: «Dato che nella stessa legge [morale] non c’è gradualità (cfr. Familiaris consortio, 34), questo discernimento [quello fatto dal divorziato risposato sulla sua situazione] non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità […] proposte dalla Chiesa»?

 

 

- LA LETTERA: APOLOGIA DEL SEMAFORO ROSSOdi R. Cascioli

Ieri mattina sono uscito di buon’ora per un appuntamento. Ero in ritardo, avevo fretta e il solito semaforo vicino casa era rosso. Conosco bene quel semaforo, ci passo sempre: è inutile, perché all’incrocio c’è perfetta visibilità di tutte le strade e non c’è grande traffico. Così, come altre volte al mattino del sabato quando non c’è movimento, guardo bene da tutte le parti, mi sporgo lentamente nell’incrocio superando la striscia dello stop e osservando bene che nessuno arrivi, poi passo velocemente. Purtroppo ieri mattina cento metri dopo il semaforo c’era nascosta una pattuglia della polizia. Paletta rossa, richiesta di patente e libretto e, nel giro di pochi secondi, multa e decurtazione di punti.

Allora provo a far ragionare il poliziotto che ho di fronte: è vero, dico, sono passato con il rosso, è un’infrazione grave; ma conosco bene quel semaforo, ho guardato attentamente prima di attraversare, e poi sono stato spinto anche dalla fretta perché quell’appuntamento per me è fondamentale e non posso arrivare tardi. «Ma lei ha infranto una legge, sapendo di farlo e volendo farlo - mi risponde il poliziotto – le sue motivazioni non interessano: questo è il fatto oggettivo e a questo stiamo». «È vero, ma lei non mi può giudicare allo stesso modo di un altro che arriva a 100 all’ora senza neanche fermarsi», replico io. Stessi soldi da pagare e stessi punti decurtati, non è giusto, i casi sono ben diversi. 

Il poliziotto mi guarda attento, penso di averlo inchiodato con la mia logica. Ci pensa un po’, poi mi risponde: «Caro signore, io la sto multando non perché giudico le sue intenzioni o il modo in cui ha attraversato l’incrocio, ma semplicemente perché l’ha fatto. Vede, sono sulla strada da molti anni e so benissimo che i motivi per cui si commettono queste infrazioni sono innumerevoli e ci sono tante attenuanti o aggravanti, ma immagini cosa accadrebbe se accettassimo che in alcuni casi si può passare con il rosso (e chi li decide poi?): sarebbe il caos, diventerebbe impossibile far svolgere ordinatamente il traffico e sarebbe un incentivo per chi vuole trasgredire mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti».

A questo punto sono io che accuso il colpo, ma all’improvviso l’illuminazione. Fortunatamente arrivo da due giorni in cui ho letto l'esortazione apostolica Amoris Laetitia, e soprattutto i commenti di noti teologi, li ho tutti con me. Li prendo e spiego al poliziotto: «Vede, la sua teoria è astratta e ideologica perché considera solo la norma oggettiva – che non discuto – ma non tiene conto delle singole persone che passano con il rosso: delle preoccupazioni e delle ansie che li spingono a commettere l’infrazione, della prudenza con cui lo fanno cercando di non recare danno ad alcuno, del fatto che date le condizioni in cui sono questo è il massimo che possono fare anche se l’ideale sarebbe aspettare che scatti il verde». 

Lo vedo barcollare un po’, allora affondo il colpo: «Un conto è riconoscere che c’è stata una infrazione oggettiva, un altro è la mia imputabilità personale. Ad essere sinceri, credo che lei non solo non mi dovrebbe sanzionare, ma dovrebbe apprezzare il modo con cui sono passato con il rosso. E la legge che obbliga di aspettare il verde non verrebbe messa in discussione da questo. Guardi qui», e gli porgo i ritagli di giornale che ho con me. «Non lo dico mica io, ci sono fior di esperti: padre Spadaro sulla Civiltà Cattolica, il priore di Bose Enzo Bianchi, Famiglia Cristiana, Avvenire…. Lo dicono loro, ma è ovvio: non migliorerà certo il traffico continuando a multare tutti quelli che passano con il rosso…». 

Penso di averlo messo alle corde, ma forse ho interpretato male le sue espressioni. Risultato: multa, punti decurtati, e anche una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale. Non riesco a capire il perché ma si era assolutamente convinto che volessi prenderlo per i fondelli.









[Modificato da Caterina63 10/04/2016 19:01]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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10/04/2016 21:16
 
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  «AMORIS LAETITIA», TRA PASTORALE SENZA DOTTRINA E FEDE RIDOTTA A LIQUAME EMOTIVO


Stiamo riducendo la fede a emotività omocentrica dopo aver sostituito la ragione oggettiva col sentimento soggettivo, pertanto, la Fides et ratio di Giovanni Paolo II, oggi è un testo equiparabile a un vecchio trattato di antropologia, perché quel che conta al presente è ciò che “io sento”, di conseguenza ciò che “io voglio”, affinché si realizzi la volontà, se non peggio il capriccio dell’uomo, anziché la volontà di Dio. E di questo noi pagheremo le conseguenze, mentre coloro che oggi tacciono accidiosi, pavidi e omissivi, rischiano di pagare con la dannazione eterna, perché a noi Cristo Dio ha affidata la Chiesa sua Santa Sposa, non un circolino nazional-popolare alla “volemose bene“, non un penoso teatrino nel quale oggi, a plaudire alle nostre gesta, sono coloro che sino a ieri erano i nostri nemici più aggressivi e distruttivi: atei, comunisti, massoni, ultra liberisti …


Autore Padre Ariel
Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

«Il più grande scandalo che può dare la Chiesa non è che in essa ci siano dei peccatori, ma smettere di chiamare per nome la differenza tra il bene e il male e relativizzarla; smettere di spiegare che cosa è il peccato o pretendere di giustificarlo per una maggior misericordia e vicinanza verso il peccatore».

       Card. Gerhard Ludwig Müller, Informe sobre la esperanza

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il Titanic, la “nave inaffondabile” in rotta verso l’iceberg

Tre anni fa scesi dal Titanic con lo spirito di chi dopo aver gridato inutilmente «allarme!» e «invertite la rotta!», decide di abbandonare il piroscafo prima ch’esso finisse a sbattere contro l’iceberg. Resta infatti per me pacifica una cosa: io posso anche rischiare la mia vita per salvare la vita e soprattutto l’anima degli altri, fa parte del mio sacro ministero; non posso però partecipare in alcun modo, cristianamente e moralmente, ad un pianificato suicidio di massa, nemmeno in modo indiretto.

Dopo la collisione del Titanic con l’iceberbg,mentre mi allontanavo a bordo di una scialuppa, udivo alle mie spalle la musica e vedevo a distanza le persone che seguitavano a danzare sulle note dell’orchestra nella sala delle feste, dicendosi gli uni con gli altri: «Non c’è pericolo alcuno, sebbene vi sia stato un “piccolo” incidente, perché questa nave è “inaffondabile”». E queste sono le stesse parole di coloro che nella nostra attuale situazione di sfacelo ecclesiale rassicurano se stessi e gli altri dicendo: «La Chiesa è di Cristo, ed è governata dallo Spirito Santo, quindi ci penserà Lui».

Questa frase l’ho sentita proferire sempre più spesso nel corso degli ultimi tempi, sia da vescovi sia da presbiteri, sebbene nessuno di costoro abbia però risposto ad una mia domanda precisa e inequivoca: «E l’uomo, in particolare noi chiamati a partecipare al Sacerdozio ministeriale di Cristo e scelti come pastori in cura d’anime, quale precisa funzione abbiamo, nell’economia della salvezza? Forse di rimanere sopra il ponte a danzare mentre la nave “inaffondabile“ affonda, certi e sicuri che comunque ci penserà lo Spirito Santo di Dio? Perché è vero, che la Chiesa è sua; è vero che la Chiesa è un corpo di cui Cristo è capo e noi membra vive [cf. I Col 1,18], ma è anche vero che Cristo, la sua Chiesa, ce l’ha affidata, proprio come ha affidato alle nostre mani il sacro mistero del suo Corpo e del suo Sangue, come ci ha affidato la devota custodia dei suoi Sacramenti di grazia, come ci ha affidato il Popolo dei Christi fideles nel grande progetto del mistero della redenzione».
Pertanto, chiunque si ponga in pigra, codarda e impotente attesa che scenda lo Spirito Santo di Dio a toglierci dai guai, dicendo semmai nel mentre a sé stesso «ma chi me lo fa fare, di andarmi a inguaiare», non ha capito nulla dell’essenza del mistero della creazione dell’uomo e della Chiesa voluta da Cristo come Sacramento di salvezza. Pertanto, coloro che ragionano in questi termini, oltre ad essere delle guide cieche [Mt, 15, 14] sono in tutto e per tutto degli atei ecclesiastici messi sul libro paga d’oro del Demonio [cf. Mt 23, 24-39], il quale Demonio oggi ci sta distruggendo non attraverso i nostri peccati di azione ma attraverso i nostri peccati di omissione.

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il Titanic, la “nave inaffondabile” in rotta di collisione con l’iceberb

Che la Chiesa sopravvivrà sino al ritorno del Verbo di Dio alla fine dei tempi, è scritto nel deposito della nostra fede, ma sul deposito della nostra fede non è scritto quale Chiesa troverà il Signore al Suo ritorno. Cosa che ritengo sia stata spiegata in modo esauriente dal suo monito: «E quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terrà?» [cf. Lc 18, 1-8].

Il Verbo di Dio, al suo ritorno alla fine dei tempi, potrebbe infatti trovare una Chiesa svuotata di Cristo e riempita di altro. O stando perlomeno ai fatti questa è la strada verso la quale ci stiamo dirigendo come il Titanic lanciato verso l’iceberg, mentre risuona più che mai quel monito paolino che è lo specchio della nostra realtà contemporanea:

«Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [II Tm 4, 3-4].

Nella mia ultima lectio, sotto il titolo «Il problema del linguaggio dottrinale e la neolingua dei nuovi teologi», ho parlato della perdita del linguaggio teologico, dello stravolgimento delle parole svuotate del proprio vero significato e riempite di altro [vedere QUI].

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il Titanic, la collisione della “nave inaffondabile” con l’iceberg

I documenti del Sommo Pontefice vanno commentati ─ specie se indicativi-direttivi, ancor più se vincolanti ─ con prudente cautela, trattandosi appunto di testi del Successore del Principe degli Apostoli, non di scritti di Jorge Mario Bergoglio. Distinzione quest’ultima che nel corso degli ultimi tre anni non è sempre facile da fare: quando parla Pietro e quando parla Jorge Mario Bergoglio? A chi mi rispondesse che l’uno e l’altro sono la stessa persona non esisterei a replicare che non è così, nella stessa misura in cui io, quando celebro il Sacrificio Eucaristico o amministro Sacramenti, non sono io ma sono “altro”, per l’esattezza sono un alter Christus che inPersona Christi agisce. Ora, se questo vale per me, figuriamoci quanto dovrebbe valere per il Successore di Pietro.

Quelli dottrinali non sono i documenti di tipo politico-amministrativo che escono dalla Segreteria di Stato e nei quali è richiesto a volte un linguaggio ambivalente, fatto di sottintesi tra le righe o che lasciano intendere dietro le righe senza dire le cose in modo aperto e diretto. Uno stile che non è affatto un linguaggio caratteristico della Segreteria di Stato, è un linguaggio espressivo tipico della politica e di tutte le diplomazie internazionali.

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il Titanic, la collisione della “nave inaffondabile” con l’iceberg

Per la prima volta nella storia della Chiesa noi ci troviamo dinanzi a documenti apparentemente chiari che chiari però non sono, poiché intrisi di un linguaggio impreciso, ambiguo, vago e fuorviante, soggetto come tale alle più disparate interpretazioni. L’esortazione post-sinodale è infatti un testo redatto in un linguaggio intriso di sociologismi politici ambivalenti, il tutto ammantato dietro spirito di pastoralità.

Può la Chiesa far teologia e pastorale dopo aver rinunciato al proprio connaturato linguaggio chiaro e preciso, che è il linguaggio dogmatico-metafisico, nato dalla grande scolastica dietro la quale brillano i nomi di molti di quei santi padri e dottori della Chiesa relegati oggi nel dimenticatoi dai nipotini della peggiore Nouvelle thèologie?

Vista per altro verso, credo dobbiamo ringraziare Dio che ha permesso che ci fossero sbattuti in faccia i risultati di cinquant’anni di metodica distruzione e de-costruzione del dogma e della dottrina. Bisogna ringraziare la debolezza del Beato Pontefice Paolo VI che non sciolse la Compagnia di Gesù [vedere articolo di Giovanni Cavalcoli, QUI] e bisogna ringraziare l’allora segretario di Stato Cardinale Agostino Casaroli che convinse Giovanni Paolo II a non procedere allo scioglimento di questa aggregazione che di fatto e senza facile possibilità di smentita ci ha donato Rahner come novello San Tommaso d’Aquino. Ci ha donato Hegel come metro speculativo per affrontare la teologia e per fare teologia. Ci ha donato la teologia della liberazione, la teologia femminista, la teologia indigenista, le commistioni catto-marxiste, il sincretismo religioso, i sociologismi politici al posto della sana dottrina, il catto-protestantesimo, la teologia del popolo, il falso pauperismo di Giuda Iscariota [vedere mia lectio,QUI] …

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Titanic, l’affondamento della “nave inaffondabile

… infine ci hanno regalato un successore di Pietro che queste cose a suo modo le sintetizza tutte, condite con ambiguità ed espressioni infelici proferite sia nei cosiddetti “discorsi a braccio” sia in una omiletica a volte sconcertante [cf. QUI]. Un successore di Pietro che sta ormai inquinando il collegio episcopale con dei propri cloni, con dei propri duplicati, con dei soggetti spesso cimentati nella più indignitosa piaggeria che lo scimmiottano e che cercano di compiacerlo nel frasario, nel modo di porgersi e persino nel modo di vestire. Basti solo dire che di recente, i membri della Curia Romana, si sono dovuti sorbire durante gli esercizi spirituali predicati dal Padre Ermes Ronchi delle gravi eterodossie frutto dello spirito palesemente ruffiano-compiacente di questo predicatore [cf. QUI], il quale è stato proposto e invitato … da chi? Diteci: quali degli “angeli custodi” vicini al Romano Pontefice hanno ideato questo ennesimo “colpo di teatro”? Perché, nessuno dei membri della Curia Romana, mentre il Ronchi proferiva autentiche eresie, ha avuto il virile coraggio di alzarsi in piedi e di venirsene via pur senza proferire mezza parola? 

Eppure io credo che di tutto questo bisogna ringraziare Dio, non avendo altro sistema per implodere e per ricominciare poi a costruire sopra le ceneri di una immane distruzione che ci porterà tra non molto ad una vera e propria tabula rasa.

La cosa che mi spaventa è il fatto che questo processo di “schianto” e di successiva ripresa, non è detto sia veloce. Infatti potrebbero essere necessari 200 anni, prima di tirarsi nuovamente in piedi. In tal caso noi, fedeli al mistero di Pietro roccia edificante della Chiesa [cf. Mt 13, 16-20], fedeli alla sana dottrina e fedeli al magistero perenne, sconteremo il nostro duro purgatorio in terra per poi vedere dal Paradiso la rinascita della Chiesa di Cristo sulla terra …

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il capitano del Titanic prima dell’inabissamento della nave

… e la mia è una visione ottimistica, perché la frase: «Ma quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà ancora fede sulla terra?» [Lc 18,1-8] è un quesito affatto rassicurante. Certo, la frase è monito e al tempo stesso quesito, non è una risposta, né tanto meno una sentenza. Il problema è che la risposta possiamo darla solo noi, creati a immagine e somiglianza del Dio vivente, liberi e dotati di libero arbitrio; una risposta che sarà conseguenza del nostro libero agire e operare, del nostro libero conservare o dissipare, del nostro libero costruire o distruggere …

E non mi risulta che Dio, nella storia dell’umanità, si sia mai messo contro la libertà dell’uomo. È per questo che il monito e l’interrogativo lucano mi inquieta, specie se unito a quanto espresso dal Beato Apostolo Paolo a Timoteo:

«Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [II Tm 4, 3-4].

E oggi, non stiamo forse vivendo nel mondo delle favole propinate da quei cattivi maestri anche noti da sempre come falsi profeti?

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gli orchestrali che sino all’ultimo momento suonarono sul ponte mentre la nave affondava

Credo che coloro che oggi tacciono per non compromettere il proprio posto al sole, o per paura di non avere il proprio posto al sole sul carro del vincitore, domani, quando si troveranno a faccia a faccia con Dio, potrebbero sentirsi rimproverare: «Ti avevo affidata la custodia della mia Santa Sposa, tu l’hai gettata sulla strada come una prostituta». A quel punto scopriranno che il fuoco della Geena esiste veramente; scopriranno che l’Inferno non è, come insegnano certi teologi dalle cattedre delle attuali università pontificie: «Una traduzione allegorica delle paure ancestrali dell’uomo».

Le parole del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede che ho riportato all’inizio, mi hanno particolarmente colpito perché in un mio saggio scritto tra il 2008 e il 2010 e pubblicato poi agli inizi del 2011, enunciavo quello che a mio parere è il diabolico principio di inversione, scrivendo a tal proposito:

[…] il problema che oggi affligge la Chiesa e dal quale a volte pare non si riesca a sortire fuori, tant’è difficile scardinare certi meccanismi, è che il bene diventa male e il male diventa bene, la virtù diventa vizio da scacciare e il vizio virtù da proteggere bene al nostro interno; la sana dottrina diventa eresia e l’eresia sana dottrina, in un mondo ed in una società ecclesiale dove tutto, a volte, pare lecito al di là del bene e del male [E Satana si fece Trino. Roma 2011, testo in ristampa]

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il Titanic, l’annegamento in acque gelide dei passeggeri della “nave inaffondabile

In qualsiasi analisi che sia seria e corretta,ma che soprattutto sia tale, bisogna basarsi sui dati oggettivi e non soggettivi; è necessario procedere con fede e ragione, non con spirito emotivo. Quindi, specie in un documento scritto dal Sommo Pontefice, bisogna cercare tutti gli elementi positivi; e se c’è qualche cosa che non torna sia il buon teologo, sia il buon pastore in cura d’anime, prima di proferire favella deve porsi un serio interrogativo: può essere che io non abbia capito o che io abbia capito male, o che io non sia in grado di capire? Quesiti che sono a dir poco di rigore, dinanzi ad un documento firmato da un uomo che è depositario di una grazia di stato superiore a quella di un vescovo e di un presbitero. Numerosi nella storia della Chiesa sono infatti i documenti criticati, a volte anche malamente aggrediti, che col correre del tempo si sono rivelati profetici. Ecco il motivo per il quale non si può agire attraverso la presunta sapienza, ma attraverso quella sapienza mossa dalla auriga virtù della prudenza. E tutto questo, in sacerdotale e teologica coscienza, io credo di averlo fatto …

e una volta fatto questo, in coscienza mi sento di dire che siamo di fronte a un testo logorroico e vago intriso di espressioni letterarie, poetiche e soprattutto sociologiche. E in dottrina, tutto ciò che è vago e intriso di espressioni letterarie, poetiche e soprattutto sociologiche, può divenire pericolosamente fuorviante, quando la Chiesa rinuncia a un linguaggio preciso racchiuso in quell’invito sempre più inascoltato del Vangelo che ci ammonisce:

«Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» [cf. Mt 5, 37].

titanic affondamento
l’epilogo della “nave inaffondabile

Stiamo riducendo la fede a emotività omocentricadopo aver sostituito la ragione oggettiva col sentimento soggettivo, pertanto, la Fides et ratio di Giovanni Paolo II, oggi è un testo equiparabile a un vecchio trattato di antropologia, perché quel che conta al presente è ciò che “io sento”, di conseguenza ciò che “io voglio”, affinché si realizzi la volontà, se non peggio il capriccio dell’uomo, anziché la volontà di Dio. E di questo noi pagheremo le conseguenze, mentre coloro che oggi tacciono accidiosi, pavidi e omissivi, rischiano di pagare con la dannazione eterna, perché a noi Cristo Dio ha affidata la Chiesa sua Santa Sposa, non un circolino nazional-popolare alla “volemose bene“, non un penoso teatrino nel quale oggi, a plaudire alle nostre gesta, sono coloro che sino a ieri erano i nostri nemici più aggressivi e distruttivi: atei, massoni, comunisti, ultra liberisti … mentre nei devoti fedeli sempre più addolorati e smarriti, pare risuonare l’amorevole confessione di Pietro:

«Disse allora Gesù ai Dodici: «”Forse anche voi volete andarvene?”. Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”» [cf. Gv 6, 67-69].

Dillo, Santo Padre, urlalo ai quattro venti: «tu solo hai parole di vita eterna», delle parole da sempre chiare, precise e mai vaghe e ambigue. Ma per fare questo devi prima cessare di essere l’argentinocentrico Bergoglio e divenire l’universale Sommo Pontefice Francesco, abbandonare il tuo testardo “io provinciale” e immergerti in quell’universale che è porta di accesso all’immutabile eterno, alle sue «parole di vite eterna».

Comunque, sempre e in ogni caso:

ubi Petrusibi Ecclesia 

[trad. “dov’è Pietro, ivi è la Chiesa”]

Sentenza del Santo dottore Ambrogio, Vescovo di Milano

[Expositio in Ps., XL, § 30]





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  I Farisei e il matrimonio

Non ho letto Amoris Laetitia, troppe pagine e troppe note.

Da cattolico, mi basta il Vangelo, e il Magistero millenario della Chiesa. Troppe parole offuscano la verità. La lunghezza del Vangelo, al riguardo, la dice lunga.

Mi dicono che la tesi di Kapser, respinta dai padri sinodali, è rientrata, come se il Sinodo fosse stata solo una parata inutile.

A quel Sinodo abbiamo visto persino relazioni inventate… e tante altre cose piuttosto scandalose. Anche nella Chiesa c’è molto marciume, purtroppo. Anche se ben lustrato e impacchettato.

Mi dicono anche che la tesi di Kasper c’è, ma è in 3 note a piè di pagina. Se così fosse, si può immaginare che a ribaltare il Vangelo e il magistero sulla famiglia di Pio XII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVi, si provi un po’ di vergogna. Si può cambiare il magistero in nota?

Come contributo, riporto solo ciò che scrissi alcuni mesi fa su Gesù e il matrimonio.

Si è letto spesso, di questi tempi, che tra i difensori dell’indissolubilità del matrimonio ci sarebbero molti farisei, i quali sceglierebbero una posizione “rigorista” perché, privi di misericordia, vorrebbero così affermare una loro superiorità morale sul prossimo, chiudendogli così la porta. Una Chiesa “aperta” sarebbe dunque una Chiesa che rifiuta il legalismo farisaico e sancisce una nuova visione della misericordia e, nel caso del matrimonio, della fedeltà e dell’adulterio.

Certamente vi sono, tra coloro che si professano difensori della verità, dei farisei. La verità può, infatti, diventare un idolo, e un manganello da usare contro gli altri.Non lo è quando chi la afferma, lo fa con amore, anzitutto per sé, e convinto che essa vada testimoniata e annunciata, con umiltà, per il bene di tutti (né come un privilegio, né come motivo di orgoglio). Ma a parte i giudizi, spesso temerari, sui motivi che muoverebbero molti padri sinodali a mantenere la dottrina tradizionale rispetto alle tesi di parte degli episcopati dell’Europa del nord, è interessante andare al Vangelo, e osservare davvero il comportamento dei farisei.

Li troviamo intenti a difendere l’indissolubilità matrimoniale, così chiaramente annunciata

da Cristo, nel nome della legge? No, accade l’esatto contrario. I farisei sono proprio gli oppositori della dottrina matrimoniale evangelica. Sono loro che si avvicinano a Gesù e cercano di scalfire la sua chiarezza, domandandogli «se è lecito rimandare la propria moglie per qualsiasi cosa?» (Matteo 19,3). Per la legge di Mosè, infatti, era concesso all’uomo il libello del ripudio, cioè il divorzio e la relativa possibilità di risposarsi. Gesù non entra nella casistica rabbinica, non si perde nei singoli casi, lui che certo li ha presenti, nella sua misericordia, ma ricorda che «in principio non era così»; che Mosè «a cagione della vostra durezza di cuore vi concesse di rimandare le vostre mogli» e che il disegno originario di Dio è che gli sposi siano «una sola carne».

«Ciò che dunque Dio congiunse», afferma Gesù ben sapendo che la sua parola risulterà dura e difficile da capire, «l’uomo non separi». Viene così archiviata la legge di Mosè, che aveva generato una grande casistica (aprendo al discernimento dei rabbini su quale fosse l’elenco possibile delle cause del ripudio) e viene enunciata la nuova legge dell’amore. «Terminata la lezione ai farisei», scrive Giuseppe Ricciotti, nella sua Vita di Gesù, «i discepoli tornano sulla questione dolorosa della moglie, interrogandone privatamente Gesù in casa». Sì, l’indissolubilità non piace tanto neppure a loro, ma Gesù non trova parole diverse, meno chiare, più accomodanti, per evitare che qualcuno esclami: «Se in tal modo è la condizione dell’uomo con la moglie, non conviene sposarsi».

Se tutto questo è vero, per un cattolico rimane una sola possibilità: riconoscere che l’adulterio e lacasistica, amata dai farisei, non hanno spazio nella visione evangelica, di cui la dottrina tradizionale è semplice trascrizione, perché appartengono al regno della legge, su cui i farisei hanno sempre fatto leva per attaccare Gesù. L’unica legge di Cristo, invece, è l’amore, così come Dio lo ha voluto dal principio. Quest’amore, sta qui lo scandalo, per tutti, anche per i discepoli, contempla anche la presenza della croce: ed è per questo che al mondo e a molti uomini di Chiesa la “buona novella” sembra troppo dura, e si vorrebbe introdurre l’eccezione, la casistica, in una religione in cui Dio va sino in fondo, con la sua fedeltà e il suo amore, sino a essere accusato di violare la legge di Mosè; sino a essere messo in croce, perché dice cose incomprensibili, e non vuole ammorbidirle.

Cristo manifesta così la sua misericordia: non venendo incontro alle pretese dei Farisei, né a quelle degli apostoli (alcuni dei quali, sposati, non sono contenti di vedersi togliere la tradizionale possibilità del ripudio), quali esse siano, né agli aggiustamenti che diminuirebbero il numero dei suoi nemici, ma dando tutto il suo cuore all’umanità (misericordia, deriva infatti da miseris cor dare: dare il cuore ai miseri): affinché gli uomini imparino a dare il loro ai propri cari, ai propri figli, alle proprie moglie, ai propri amici.  Se i cristiani annunciano la possibilità di un amore così, annunciano non la legge, ma l’amore di Cristo.

E a quanti ripetono che l’amore indissolubile è un annuncio non realistico, nell’Occidente di oggi, si può ricordare anzitutto che non sembrava realistico neppure duemila anni fa, quando il divorzio e il ripudio, nell’Impero romano, erano la normalità, e in secondo luogo che Cristo non è Machiavelli: non è venuto a spiegarci la “realtà effettuale”, né a ricordarci quanto l’uomo sia debole e fragile (ci arriviamo da soli), ma a indicarci le vette della santità, la via per la felicità. É venuto a dirci: «Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli» (Matteo, 5,48): volava troppo alto anche lui? Ogni annuncio che non ricordi all’uomo questa sua figliolanza con Dio, questa possibilità di grandezza e di amore totale, è un annuncio umano, troppo umano; non è la “buona novella”.

da La Nuova Bussola

  e sarà interessante leggere anche quanto segue:

Un sacerdote risponde

Problemi inerenti all’esercizio della sessualità all’interno del matrimonio

Quesito

Gentile Padre Angelo,
ho scoperto con grande, positiva, meraviglia, la chiarezza, specificità e puntualità dei contenuti da lei divulgati attraverso le sue preziose ed esaurienti risposte ai quesiti di noi miseri peccatori, malgrado la “ruvidezza” degli argomenti trattati. Questa meraviglia scaturisce dal non essere ancora riuscito, all’età di 48 anni, ad avere risposte esaurienti e chiare da parte dei vari sacerdoti, di volta in volta interpellati. Avrà indovinato, la solita etica coniugale! Ebbene sì, alla mia età, dopo le sedute di catechismo pre eucaristico (voglio sottolineare, avvenute durante gli anni sessanta, quando il “Male” era ancora chiamato “Diavolo”), il corso pre matrimoniale e l’attenta lettura del Catechismo della Chiesa Cattolica, ancora avevo le idee piuttosto confuse riguardo al sesto e al nono comandamento.
Dopo la lettura delle risposte ad alcuni quesiti postile, ho certamente le idee più chiare, e di questo la ringrazio infinitamente e devotamente, mentre la incito a proseguire lungo questa strada; forse non immagina (ma credo, invece, meglio di me) quante coppie, all’interno (o meno) del matrimonio, si riducono in una crisi spesso, purtroppo, grave ed irreversibile, anche per essere privi di una guida rassicurante ma, nello stesso tempo, chiara e perentoria.

Desidero premettere che sono cattolico osservante, sposato e con due adorate figlie, un matrimonio basato, dall’origine, su un grande amore giovanile, e dico questo non per promuovermi, ai suoi occhi; se mi presento a lei ancora con “certi” dubbi è ben chiaro che mi sento un peccatore, e di quelli forti; soltanto vorrei le fosse altrettanto chiaro che questa richiesta rappresenta, per me, uno dei molti, reiterati, presidi che ricerco, insieme ai canonici (preghiera, riconciliazione ed eucaristia) per oppormi al male (o al Diavolo!). Aggiungo, se mi permette, una piccola considerazione: dopo tutta la “trafila” sopra accennata, gli sforzi continui svolti, la conseguente amarezza e senso di inadeguatezza e di sconforto, davanti a Dio, per i miei peccati, mi sembra (appena) di aver capito che l’essenza del cammino di un buon credente sia, molto semplicemente, cercare di piacere a Gesù, e di non procurargli dolore, che, peraltro, prova di riflesso, per l’offesa a noi stessi procurataci. E magari vi riuscissi, ma tento, questo lo posso dire, con tutte le energie, anche se con modesti risultati.

Veniamo ai dubbi. Dovrò essere brutale e molto esplicito, anche se mi viene in moderato aiuto la terminologia latina, e questo mio malgrado. Mi scuso anticipatamente.

Mi risulta ancora difficile discernere la liceità o meno di alcune pratiche che, nel mio caso, preludono l’atto coniugale vero e proprio; sarebbe molto facile, per così dire, scremare, ed evitarle a priori, se non fosse  che esse risultano, per me e per mia moglie, oltre che, come detto, difficili da qualificare, quasi imprescindibili dell’atto stesso, e si manifestano con un’attrattiva fortissima, che non saprei meglio definire come diabolica. Da queste ultime parole capirà che tale pratica non è vissuta serenamente.
Mi riferisco al cunnilinctus (per chiarezza, da parte mia nei confronti della zona genitale di mia moglie) ed alla fellatio (da parte di mia moglie nei confronti della mia). Devo precisare che questi atti, quando svolti, non sono condotti all’orgasmo, sono esclusivamente preliminari all’atto coniugale, e funzionali al raggiungimento di uno stato di eccitazione propedeutico a tale atto, eccitazione le cui dinamiche tendono al rallentamento, vuoi per l’età che per il tenore stressante della vita. Talvolta, sono accompagnati da un accenno di masturbazione reciproca.
Collegandomi al successivo quesito, sulla contraccezione, forzosamente e considerandolo un male minore, l’atto coniugale viene completato con il coito interrotto.

Nel mio ragionamento, sono portato a considerare i gesti di cui sopra, in fondo, null’altro che baci e carezze. Il piacere indotto da tali baci, nel contesto di un gioco amoroso in cui tende ad attenuarsi la razionalità ed a prevalere l’istinto, viene pur ricercato, inducendoci vicendevolmente nella condizione di maggiore eccitazione possibile, per meglio soddisfare l’altro, quindi con spirito altruistico, improntato ad amore reciproco (o così crediamo!).
L’atto coniugale (probabilmente fortemente snaturato) così concluso, al contrario delle aspettative, genera però, successivamente, una sensazione di disagio, se non di amarezza, meglio, di non totale appagamento, che non riesco a discernere se sia conseguenza dello sconforto, che sempre accompagna il peccato, piuttosto che della disconoscenza che esso, per la particolarità del nostro caso, vedi il capoverso successivo, non sia, piuttosto, corretto nelle sue modalità. Ciò mi induce, inoltre, a non vivere serenamente il rapporto con Dio e con l’Eucaristia, sentendo il bisogno di dovermi reiteratamente confessare; nello stesso tempo, evidentemente, non riesco a liberarmi, come detto, o dal male in sé o dal dubbio esposto.
Per inciso, da una sua risposta del 01-06-2007, mi sembra di intendere che il sesso orale, come pure la masturbazione reciproca e addirittura il sesso anale, se non portati all’orgasmo, e solo nel caso in cui uno o tutti e due i partner soffrano di frigidità, possono essere considerati preliminari leciti.
Vorrei un chiarimento che possa definitivamente dirimere i dubbi di cui sopra.

Mia moglie, dopo un tumore al seno e la conseguente terapia, è andata in menopausa farmacologia, a 43 anni, quindi precocemente. Per avere una relativa certezza di infecondità dovrà trascorrere ancora più di un anno. Per lei, o meglio per la migliore profilassi delle possibili recidive, una eventuale gravidanza potrebbe essere fortemente controindicata, determinando uno squilibrio ormonale ed una interruzione della terapia ormonale che sta effettuando e che, insieme alla chemioterapia, l’ha condotta, appunto, alla menopausa; infatti tale condizione dovrà essere mantenuta, a detta dei medici, ad ogni costo, come ulteriore ostacolo alle recidive. In questo caso, non sembrando opportuna, né attuabile, l’adozione di un regime di castità completa, né l’adozione di metodi naturali, mancandone le condizioni attuative, vorrei sapere se è lecita una forma di contraccezione e, se si , quale.

Legato a quest’ultimo aspetto, ma non di interesse personale, ormai, vi è, o meglio, vi fù, in me, un forte disagio, nell’accettare la congruenza fra il rispetto del disegno divino, espresso attraverso l’uso dei metodi contraccettivi naturali, e l’intenzionalità di evitare una gravidanza. Le artificiose e spersonalizzanti procedure ad essi legate, l’elaborazione di calcoli e tabelle, a mio avviso, rimarcano, in maniera ancora più incisiva, questo aspetto, appunto, di intenzionalità, di espressione della precisa volontà di raggiungere l’obiettivo di evitare, o, comunque, di rendere improbabile, la formazione di una nuova vita. Come si può, mi chiedo, sentirsi in sintonia con il progetto unitivo-procreativo, connaturato all’unione matrimoniale, a fronte dell’evidenza che il fine contraccettivo viene così esplicitamente perseguito?

Accetto di buon grado, come in confessione, le indicazioni ed i precetti di vita spirituale che riterrà utili.

Per quello che può valere, indegnamente, la ricorderò nelle mie preghiere
La ringrazio molto e la saluto calorosamente.
G.


Risposta del sacerdote

Carissimo G.,
ti ringrazio anzitutto per gli apprezzamenti relativi alle nostre risposte.
La lode in definitiva va al Signore, perché si tratta delle sue vie e perché continua ad assistere la Chiesa nel trasmettere pura la sua dottrina.
Ti sono anche particolarmente vicino per la prova cui è sottoposta la tua vita a motivo della malattia della moglie. Ti assicuro la mia preghiera perché tutto si risolva a maggior gloria di Dio e soddisfazione vostra.

Vengo ora ai problemi cui hai accennato.

1. La Chiesa tiene presente il significato intrinseco dell’atto coniugale che per la sua stessa struttura e finalità è ordinato alla procreazione.
Poiché si tratta di un atto compiuto da persone umane è essenzialmente un atto in cui tutta la persona si raccoglie e si dona. È pertanto un gesto di amore.
Ma rimane gesto di amore solo se conserva tutti i suoi intrinseci significati, e innanzitutto quello di suscitare la vita.
Diversamente diventa un gesto in cui, per dirla secondo il linguaggio comune, “si fa sesso”.

2. Il ricorso ai ritmi naturali di fertilità sia per cercare le nascite sia per distanziarle non è considerato dalla Chiesa un metodo di contraccezione naturale.
Se fosse inteso e praticato così, non vi sarebbe alcuna differenza dalla contraccezione “artificiale” (coito interrotto e altro).
Per questo Giovanni Paolo II ha detto che “l’usufruire dei periodi infecondi nella convivenza coniugale può diventare sorgente di abusi” (5.9.1984) e che “la persona non può mai essere considerata un mezzo per raggiungere uno scopo; mai, soprattutto, un mezzo di “godimento”. Essa è e dev’essere solo il fine di ogni atto. Solo allora corrisponde alla vera dignità della persona” (Gratissimam sane, 12).
Il ricorso ai ritmi naturali è lecito all’interno di un cammino di castità, vale a dire di rispetto di se stessi, dell’altro, del proprio corpo e del disegno divino inscritto nel gesto sessuale.
Pertanto si tratta di uno stile di vita per il quale si vive come alleati della sapienza divina, che anche attraverso quei gesti conduce alla santità.

3. Al contrario la contraccezione snatura l’atto del suo significato, allontana da Dio, rende l’uomo arbitro di se stesso e prigioniero della concupiscenza. Il mancato appagamento trova qui i suoi motivi.
Nell’atto coniugale compiuto invece secondo il progetto di Dio, tutta la persona si raccoglie e si dona nelle sue componenti corporali e spirituali. Ed è proprio questa donazione totale il segreto dell’appagamento.
L’appagamento è legato alla pienezza. Anche a tavola non si è appagati se si mangia poco o si mangia male. Appagamento, contentezza e pienezza vanno di pari passo.
Ugualmente nell’ambito coniugale: la mancata donazione della totalità degli elementi corporali o la mancata donazione del proprio io tolgono qualcosa di essenziale all’atto coniugale. E mancando la donazione totale, viene a mancare anche l’appagamento.

4. Baci e carezze di per sé non toccano l’ambito della sessualità, ma la possono coinvolgere.
Qualora la coinvolgessero e avessero come obiettivo la polluzione o la masturbazione, allora si tratterebbe di atti che assumono la malizia dell’obiettivo perseguito.
Se invece accompagnano l’atto compiuto secondo i disegni di Dio, ne assumono la bontà e la meritorietà.

5. Mi dici che cercate “vicendevolmente la maggiore eccitazione possibile, per meglio soddisfare l’altro, quindi con spirito altruistico, improntato ad amore reciproco (o così crediamo!)”.
In questo, di per sé non c’è alcun male. Il male non è nel piacere o nella sua intensità. Diversamente sarebbe un peccato anche gustare i cibi e le bevande.
Il peccato, e cioè l’offesa a Dio, sta in teoria nel non fidarsi di lui e della sua legge, e in concreto nel profanare il proprio corpo (dicendo proprio intendo anche quello del coniuge, perché ormai “i due sono una cosa sola”) e la propria persona riducendoli da soggetto al quale ci si dona in totalità a oggetto di godimento.
L’altruismo nel dare all’altro il massimo di piacere sarebbe una cosa ottima.
Ma questo altruismo non può costare il degrado dell’altro, la profanazione del suo corpo e della sua persona. Non può costare soprattutto il venir meno dell’alleanza con Dio, il rispetto delle sue sapientissime leggi e in definitiva la perdita del bene più grande: l’unione con Lui.

6. Mi dici anche che “l’atto coniugale (probabilmente fortemente snaturato) così concluso, al contrario delle aspettative, genera però, successivamente, una sensazione di disagio, se non di amarezza, meglio, di non totale appagamento”.
Un nostro visitatore ci ha scritto di recente: “Dopo che ho usato il preservativo mi sento male. Dopo che ho peccato sono peggiore, sono più nervoso, più pigro, più distratto nella preghiera, ecc...”.
Io gli ho risposto: “Sono convintissimo di tutto questo. Come diceva Giovanni Paolo II, il peccato è sempre un atto suicida  e si rivolta contro colui che lo compie con una oscura e potente forza di distruzione (Reconciliatio et paenitentia, 17).
E gli ho ricordato che il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che la purezza libera l’amore umano dall’egoismo e dall’aggressività.

7. Mi dici inoltre che questo ti “induce a non vivere serenamente il rapporto con Dio e con l’Eucaristia, sentendo il bisogno di dovermi reiteratamente confessare”.
Fai bene a confessarti. Non desistere mai di accedere con frequenza a questo sacramento che ridona dignità, pace e soprattutto unione con Dio.

8. Infine mi chiedi se nella tua situazione, e soprattutto nella situazione di tua mogie, sia “lecita una forma di contraccezione e, se sì, quale”.
Giovanni Paolo II il 17.9.1983 ha detto che “la contraccezione è da giudicare oggettivamente così profondamente illecita da non potere mai, per nessuna ragione, essere giustificata”.
E ha aggiunto: “Pensare o dire il contrario, equivale a ritenere che nella vita umana si possano dare situazioni nelle quali sia lecito non riconoscere Dio come Dio”.
La contraccezione non è un male perché è proibita, ma perché è un male in se stessa e fa male spiritualmente e talvolta ha conseguenze negative sotto il profilo e psicologico e biologico.

9. Rimane il cammino di castità, che è un vero cammino di amore.
In proposito Giovanni Paolo II fa detto: “Se la castità coniugale si manifesta dapprima come capacità di resistere alla concupiscenza della carne, in seguito essa gradualmente si rivela quale singolare capacità di percepire, amare e attuare quei significati del ‘linguaggio del corpo’, che rimangono del tutto sconosciuti alla concupiscenza stessa e che progressivamente arricchiscono il dialogo sponsale dei coniugi, purificandolo, approfondendolo ed insieme semplificandolo.
Perciò quell’ascesi della continenza, di cui parla l’enciclica (Humanae Vitae 21), non comporta l’impoverimento delle ‘manifestazioni affettive, anzi le rende più intense spiritualmente, e quindi ne comporta l’arricchimento”(24.10.1984).
Questa castità adesso è richiesta anche a te.
Un documento del magistero della Chiesa ricorda che nella vita di tutti, sia di quanti vivono nel celibato come di quelli che vivono nel matrimonio “di fatto capitano in un modo o nell’altro per periodi di più breve o di più lunga durata, delle situazioni in cui siano indispensabili atti eroici di virtù” (pontificio consiglio per la famiglia, Sessualità umana: verità e significato, 19).
Vedrai che alla fine sarai contento e che quello che ti sembrava impossibile, con l’aiuto del Signore e con la tua buona volontà, è diventato possibile.
Sopratutto vedrai che l’amore per tua moglie sarà più bello, più grande, più puro e più affascinante.

10. Non entro nel discorso dei metodi naturali che possono sembrare artificiosi come quello cui tu alludi. Ma quel metodo ormai è stato perfezionato e potrei dire superato da altri metodi, come ad esempio il Billings o il sintotermico.
Si tratta di metodi che ben lungi dalla contraccezione, che talvolta è davvero artificiosa e umiliante, manifestano che l’uomo, proprio perché è razionale, è capace di suscitare emozioni vere, profonde e durature, al di là del richiamo degli istinti e delle passioni.

Ti ringrazio della fiducia che hai riposto in noi.
Ti ringrazio della preghiera che fai per me. Ci tengo molto.
Ti assicuro la mia e già fin d’ora benedico te e tua moglie.
Padre Angelo


Pubblicato 13.12.2007





[Modificato da Caterina63 11/04/2016 00:19]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/04/2016 22:31
 
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Valorizzare l'adulterio citando (male) san Tommaso
di Luisella Scrosati11-04-2016

San Tommaso d Aquino

Dopo la pubblicazione dell’Enciclica Familiaris Consortio(1981), come anche della Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati del 1994, da più parti si invocò il principio di epicheia per “bypassare” il divieto, ivi presente, relativamente all’ammissione ai sacramenti dei divorziati-risposati, appoggiandosi sul fatto che i casi particolari non possono essere semplicemente dedotti da leggi universali. 

Secondo i contestatori, le posizioni espresse in tali documenti – come per altro quelle chiaramente insegnate da Veritatis Splendor – rappresenterebbero una visione troppo legalista della vita cristiana, che non terrebbe conto della complessità delle situazioni né della misericordia. Analoghe osservazioni le abbiamo udite a più riprese dalle parole del cardinal Kasper, il quale si appellava ad una visione più ampia, più attenta alle situazioni concrete delle persone, più misericordiosa, e in tale contesto il cardinale tedesco ritornava ad indicare nel principio di epicheia la strada da percorrere. Si tratta di considerazioni attraenti, perché ciascuno di noi sente di condividere profondamente una prospettiva che non pone l’uomo per la legge, ma la legge per l’uomo. Nello stesso tempo però bisogna uscire dalla dinamica propria degli slogan e vedere come effettivamente stiano le cose. 

Il documento del 1994 della Congregazione della Dottrina della Fede che stabilisce che «la struttura dell'Esortazione [Familiaris Consortio § 84, relativamente all’impossibilità dell’ammissione all’Eucaristia dei divorziati-risposati che vivono more uxorio, n.d.a.]  e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni», non può essere derubricato facilmente ad opinione né può essere con leggerezza bollato come un’interpretazione legalista e farisaica della morale.

In Amoris Laetitia, specialmente nel capitolo ottavo (Accompagnare, discernere e integrare la fragilità), sembrano riecheggiare le stesse argomentazioni del cardinal Kasper del 20 febbraio 2014. In particolare vale la pena soffermarsi sull’utilizzo problematico del principio di epicheia. Prendiamo il § 304: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano». Quindi il Papa prega di rileggere una considerazione di San Tommaso (Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4.), che richiama indirettamente l’epicheia, poi ripresa dal Papa in questi termini: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione». 

Ma cos’è la tanto invocata epicheia? Essa è una virtù che permette di vivere secondo il bene indicato e protetto dalla legge, laddove questa risulti difettosa a motivo della sua universalità. La legge è infatti per definizione universale: essa punta al bene comune, senza poter tener presente tutta la casistica immaginabile. Possono perciò presentarsi situazioni non previste dal legislatore, nelle quali, per mantenersi fedeli alla mensdella legge (che è il bene), sia necessario agire contrariamente alla sua lettera.

San Tommaso stesso fa un esempio semplice, ma molto chiaro: «La legge stabilisce che la roba lasciata in deposito venga restituita, poiché ciò è giusto nella maggior parte dei casi; capita però talvolta che sia nocivo: p. es., se chi richiede la spada è un pazzo furioso fuori di sé, oppure se uno la richiede per combattere contro la patria» (Summa Theologiae, II-II, q. 120, a. 1). È chiaro: per conseguire il bene comune promosso dalla legge, in questo caso si deve necessariamente contravvenire alla sua applicazione letterale. San Tommaso esplicita: «se nasce un caso in cui l’osservanza della legge è dannosa al bene comune, allora essa non va osservata» (Summa Theologiae, I-II, q. 96, a. 6). 

Da quanto detto, seppur necessariamente in breve, risulta chiaro che l’epicheia: 

1. non è un’eccezione alla legge, né la tolleranza di un male, né un compromesso: essa è invece principio di una scelta oggettivamente buona ed è la perfezione della giustizia; 

2. è una virtù che entra in gioco solo quando l’applicazione della lettera della legge fosse nociva al bene oggettivo e non quando l’osservanza della legge risultasse in alcuni casi difficoltosa o esigente; 

3. riguarda solo il caso concreto, che, a motivo dell’universalità della legge, non è stato possibile prevedere nella norma e non può perciò derogare ad altri casi particolari già previsti dal legislatore. 

4. ultimo e più importante: vi sono norme morali - chiamate assoluti morali - che per la loro propria natura non ammettono eccezioni di sorta; si tratta cioè di norme la cui trasgressione letterale non può mai raggiungere il fine della legge stessa, cioè il bene, e per questo motivo non può mai essere ammessa. In questi casi il principio di epicheia non avrebbe senso, perché nella trasgressione della lettera della legge verrebbe inscindibilmente trasgredito anche il bene morale. Si tratta di quegli atti che la tradizione morale della Chiesa definisce intrinsece malum: «Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti “irrimediabilmente” cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: “Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) — scrive sant'Agostino —, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?”» (Veritatis Splendor, § 81).

È piuttosto singolare che nel testo dell’Esortazione si richiami solo questo articolo di San Tommaso, omettendo altri passi in cui l’Aquinate spiega bene l’esistenza degli assoluti morali e dell’impossibilità, in questo ambito, di ricorrere al principio di epicheia. Nel Commento alla Lettera ai Romani (c. 13, l. 2), per esempio, Tommaso si chiede per quale motivo San Paolo, in Rm. 13, 9, riporti solo i precetti negativi della seconda tavola della legge mosaica, quella relativa ai precetti verso il prossimo, omettendo però il comandamento “onora il padre e la madre”, e risponde: «Perché i precetti negativi sono più universali quanto alle situazioni… perché i precetti negativi obbligano semper ad semper (sempre e in ogni circostanza). In nessuna circostanza infatti si deve rubare o commettere adulterio. I precetti affermativi invece obbliganosemper, ma non ad semper, ma a seconda del luogo e della circostanza». Nella stessa Summa Theologiae, poco oltre l’articolo citato nell’Esortazione, Tommaso spiega perché riguardo agli assoluti morali non si può ricorrere all’epicheia: «La dispensa di una legge è doverosa quando capita un caso particolare in cui l’osservanza letterale verrebbe a contrastare con l’intenzione del legislatore. Ora, l’intenzione di qualsiasi legislatore è ordinata in primo luogo e principalmente al bene comune, e in secondo luogo al buon ordine della giustizia e dell’onestà, nel quale va conservato o perseguito il bene comune. Se quindi si danno dei precetti che implicano la conservazione stessa del bene comune, oppure l’ordine stesso della giustizia e dell’onestà, tali precetti contengono l’intenzione stessa del legislatore: quindi non ammettono dispensa» (Summa Theologiae, I-II, q. 100, a. 8). 

Ancora, in un altro passo, Tommaso spiega che «propriamente l’epicheia corrisponde alla giustizia legale» (Summa Theologiae, II-II, q. 120, a. 2, ad. 1) e non può quindi essere presa in considerazione nell’ambito della legge naturale, essendo sì superiore alla giustizia legale, ma «non è superiore a qualsiasi giustizia» (Ivi, ad. 2).

Occorre fare attenzione anche a tirare in ballo la virtù della prudenza, come se questa fosse una virtù che abilita a trovare eccezioni: «Nel caso dei precetti morali positivi, la prudenza ha sempre il compito di verificarne la pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo conto di altri doveri forse più importanti o urgenti. Ma i precetti morali negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o comportamenti concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima eccezione; essi non lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per la “creatività” di una qualche determinazione contraria. Una volta riconosciuta in concreto la specie morale di un'azione proibita da una regola universale, il solo atto moralmente buono è quello di obbedire alla legge morale e di astenersi dall'azione che essa proibisce» (VS 67). È il principio che ha portato molti al martirio, piuttosto che commettere un male. 

Perché? Perché la prudenza non concretizza la norma universale adattandola ai casi particolari, ma è quella virtù che guida l’azione concreta perché raggiunga il bene che le è proprio. La prudenza, in certo qual modo, “riconosce” nell’azione concreta il bene da conseguire, quel bene che è indicato dalla legge, e quindi lo persegue.

Nel nostro caso, l’atto morale di avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio rientra sempre nella specie morale dell’adulterio o della fornicazione. Non esistono situazioni o circostanze che possano modificarne la specie morale. Come scriveva vent’anni fa il prof. Angel Rodriguez Luño, «non è esatto dire che queste azioni sono in sé cattive indipendentemente dal loro contesto [perché altrimenti, in questo caso, sarebbe legittima l’accusa di astrattismo e legalismo, n.d.a], perché in realtà sono azioni che portano con sé e inseparabilmente un contesto» (Acta Philosophica, 5(1996), fasc. 1, p.72). 

Una relazione di tipo sessuale ha intrinsecamente legata la dimensione donativa e procreativa e dunque essa richiede il contesto matrimoniale. Se si inizia ad ipotizzare che, nella situazione di divorziati-risposati, «molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, “non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli”» (Amoris Laetitia, nota 329), allora si opera un’inversione clamorosa e non si capisce più il senso della legge morale. Se io autorizzo a pensare che in certe situazioni, per un fine buono, l’adulterio perde la sua connotazione malvagia, sto facendo implicitamente questo ragionamento: 1) principio generale: l’atto sessuale è un male; 2) applicazione concreta: il matrimonio è l’unica eccezione riconosciuta in cui l’atto sessuale non sia un male; 3) potrebbero darsi altre situazioni concrete in cui l’atto sessuale non sia un male. 

Invece la posizione corretta è la seguente: 1) l’esercizio della sessualità è un bene che significa intrinsecamente la donazione nuziale; 2) l’esercizio della sessualità in un contesto non matrimoniale contraddice l’intrinseco significato dell’atto; 3) perciò, l’adulterio e la fornicazione sono semper et pro semper intrinsecamente cattive. 

Ecco perché non ha senso invocare l’epicheia e la virtù di prudenza, perché sarebbe come dire che in certi casi, si possa ammettere un po’ di ingiustizia, un po’ di lussuria, etc. Ed ecco perché la strada della ricerca delle eccezioni rivela in realtà un impianto morale di fondo molto legalistico (che paradossalmente è proprio quello che si voleva respingere!) che non parte dall’equazione bene-legge morale, ma da una visione della legge morale come limite. Perciò appare – falsamente - come un atto di misericordia quella di ricercare delle situazioni in cui liberare le persone da una legge morale che sarebbe per loro oppressiva. 

A quanti sono divorziati-risposati e non possono per gravi motivi separarsi, la continenza non è un traguardo lodevole, ma è l’unica modalità per conseguire il proprio bene ed il bene della persona con cui si convive. 






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“Amoris laetitia” ed erotismo. Fatelo strano…

dal testo di Francesco:
149. Alcune correnti spirituali insistono sull’eliminare il desiderio per liberarsi dal dolore. Ma noi crediamo che Dio ama la gioia dell’essere umano, che Egli ha creato tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17). Lasciamo sgorgare la gioia di fronte alla sua tenerezza quando ci propone: «Figlio, trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Anche una coppia di coniugi risponde alla volontà di Dio seguendo questo invito biblico: «Nel giorno lieto sta’ allegro» (Qo 7,14). La questione è avere la libertà per accettare che il piacere trovi altre forme di espressione nei diversi momenti della vita, secondo le necessità del reciproco amore. In tal senso, si può accogliere la proposta di alcuni maestri orientali che insistono sull’allargare la coscienza, per non rimanere prigionieri in un’esperienza molto limitata che ci chiuderebbe le prospettive. Tale ampliamento della coscienza non è la negazione o la distruzione del desiderio, bensì la sua dilatazione e il suo perfezionamento.

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Papa Bergoglio strizza l’occhio al kamasutra.

Ci permettiamo di consigliare a papa Francesco la (ri)lettura dell’enciclica Deus caritas estsull’amore cristiano, scritta dal suo immediato e vivente predecessore, Benedetto XVI, in cui viene spiegato il vero significato di “eros” e di “agape”.

“Eros” si traduce con amore, ma è un amore di possesso, squisitamente passionale, che deve essere educato, per essere trasfigurato in “agape” (carità), diventando donazione, sacrificio per il bene dell’amato: questa è la vocazione dell’unione coniugale, sorretta e sostenuta dalla grazia del sacramento del matrimonio.

L’erotismo è una deformazione dell’eros, perché rimanda e potenzia il paganesimo del dio greco Eros (Cupido per i latini).


Nessuno può “correggere” il Vangelo

Moltissime personalità, più esperte di noi, hanno già commentato l’Amoris Laetitia di papa Francesco. Ne citiamo alcuni: don Ariel Levi di Gualdo dell’Isola di Patmos (qui); del il prof. Roberto de Mattei (qui); l’amico Colafemmina di Fides et Forma (qui); anche La scure di Elia è da meditare (qui); la Nuova Bussola Quotidiana ha riportato diversi interventi (quiqui,qui) e il geniale editoriale del direttore Cascioli; Francesco Agnoli, schiettamente, scrive: “Non ho letto Amoris Laetitia, troppe pagine e troppe note. Da cattolico, mi basta il Vangelo, e il Magistero millenario della Chiesa. Troppe parole offuscano la verità”. Neppure Antonio Socci, col suo parlare da toscanaccio, ha mancato di dire la sua.

Una lista formidabile, destinata ad aumentare, tanto da farci pensare di non aggiungere altro. In fondo la cosa migliore sarebbe proprio quella suggerita da Elia:

Se è vero che non si può fare a meno di leggere pur qualcosa della e sull’ultima pubblicazione pontificia, evitiamo di cadere in trappola lasciandocene catturare e intossicare, dimenticando poi di fare le uniche cose effettivamente utili e necessarie nell’attuale frangente storico … rischiando di estenuarsi in sfoghi polemici che, alla fin fine, non cambiano nulla, se non le nostre condizioni emotive. Preghiamo, offriamo, facciamo penitenza (ma sul serio, non a chiacchiere) e, se abbiamo tempo e voglia di leggere, curiamo la retta fede.

Curiamo, allora, la retta fede perché di confusione ne abbiamo tanta e un testo del genere ad aumentare questa confusione, a firma di un Pontefice, proprio non ci voleva.

La maggior parte dei Media si è interessato alla questione della “comunione ai divorziati-risposati, e solo in pochi hanno fatto leva sull’argomento più scottante e delicato del documento quello, diremo, della teologia morale, dell’etica, del rapporto sessuale fra coniugi ridotto (ahinoi!) ad una lode al dio Eros.

Nel leggere le nostre umili osservazioni, data la delicatezza dell’argomento, vi sollecitiamo a tenere a mente la brillante e cattolica risposta del domenicano Padre Angelo al quesito da lui trattato nel 2007: “Problemi inerenti all’esercizio della sessualità all’interno del matrimonio” dove esordisce con una chiarezza tale che, questa, sarà la base per comprendere bene anche le nostre riflessioni: “La Chiesa tiene presente il significato intrinseco dell’atto coniugale che per la sua stessa struttura e finalità è ordinato alla procreazione…“.

Questa espressione è la sintesi di tutta la dottrina morale e sessuale che la Chiesa ha insegnato per duemila anni e che Bergoglio ha appena stracciato in due parole, queste: “D’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo,l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione…” (AL n.36). Non “spesso” santità, ma da sempre, da duemila anni la Chiesa ha sempre insegnato che il significato dell’atto coniugale (il sesso unitivo fra coniugi che è il vero eros e non l’erotismo), la sua struttura e finalità è ordinato alla procreazione, compito della Chiesa infatti non è allestire cattedre sull’erotismo, ma insegnare ai giovani a cosa serve il sesso.

Come ribaltare il magistero di Giovanni Paolo II

Bergoglio fa dire a Giovanni Paolo II cose che non ha detto e lo cita attribuendogli una certa apertura verso l’erotismo, ma quel Pontefice disse ben altra cosa: “Il paragone della “conoscenza” biblica con l’“eros” platonico rivela la divergenza di queste due concezioni. La concezione platonica si basa sulla nostalgia del Bello trascendente e sulla fuga dalla materia; (…) In quanto il concetto platonico di “eros” oltrepassa la portata biblica della “conoscenza” umana, il concetto contemporaneo sembra troppo ristretto. La “conoscenza” biblica non si limita a soddisfare l’istinto o il godimento edonistico, ma è un atto pienamente umano, diretto consapevolmente verso la procreazione, ed è anche l’espressione dell’amore interpersonale [cf. Gen 29,20; 1 Sam 1,8; 2 Sam 12,24]. Sembra, invece, che nella rivelazione originaria non sia presente l’idea del possesso della donna da parte dell’uomo, o viceversa, come di un oggetto. D’altronde, è però noto che, in base alla peccaminosità contratta dopo il peccato originale, uomo e donna debbono ricostruire, con fatica, il significato del reciproco dono disinteressato…” (Giovanni Paolo II – Udienza 26.3.1980 – vedi qui)

Nel documento papale di Bergoglio sono completamente assenti il peccato originale, il sesto comandamento, la concupiscenza, la purezza biblica. Voi ci direte: “ma non sarete forse ad essere voi un tantino maliziosi?” No, o meglio, certo che non siamo limpidi, ma nel contesto della discussione siamo trasparenti e, parlare chiaramente di questi temi, non è essere maliziosi, le parole di Giovanni Paolo II sopra riportate, con la risposta anche di padre Angelo, lo dimostrano: curiamo semplicemente la retta fede con la vera dottrina cattolica a riguardo di una chiarissima teologia morale (soprattutto fra coniugi) che Bergoglio, purtroppo, sta modificando a danno della comprensione.

L’erotismo (dalla lingua greca ἔρως-eros, la divinità maschile Eros dell’amore) è l’insieme delle varie manifestazioni del desiderio erotico che attrae verso qualcuno o qualcosa e il tipo di relazione che si instaura tra soggetti che ne sono coinvolti. Sacralizzata, la sessualità è tanto spaventosa quanto seducente; secondo Bataille (vedi L’erotismo, Bataille, 1957) non è affatto immorale, bensì sospende la morale individuale in nome della vita e della specie. L’erotismo manifesta sia la prossimità e la vicinanza alla frenesia, all’eccitazione e al desiderio di possesso fisico, sia la capacità di trattenersi, di rinunciare al possesso reale in favore dell’immaginazione… In sostanza, eros, non è sinonimo di erotismo, mentre l’erotismo ha come radice il dio Eros con tutto ciò che comporta e al documento papale contestiamo l’uso sbagliato del termine.

Infatti, non vogliamo demolire o demonizzare l’eros in quanto amore naturale che accende la passione dei sensi, e che è certamente utile per l’attrazione iniziale nel rapporto fra un uomo e una donna che intendessero appunto sposarsi e unirsi, ma far capire che le espressioni usate dal Papa nel testo (come “erotismo” appunto) non spingono verso questo eros naturale, ma verso l’erotismo pagano del dio Eros.

Dice papa Bergoglio: “Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro” (AL, n.35).

Domanda: Santità, con questo ragionamento allora perché Gesù denunciò i farisei a riguardo del matrimonio e del ripudio delle mogli? Gesù era un retorico? e sempre Gesù ha dunque IMPOSTO una norma in forza della sua autorità? Chi ha imposto che il matrimonio sia un Sacramento indissolubile? E per quale ragione?

Leggiamo questo passo dell’enciclica Deus Caritas est di Benedetto XVI:

“All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano, l’antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in anticipo che l’Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all’amore — eros, philia (amore di amicizia) e agape — gli scritti neotestamentari privilegiano l’ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all’amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola agape, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall’illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino? Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l’eros? Guardiamo al mondo pre-cristiano. I greci — senz’altro in analogia con altre culture — hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una «pazzia divina» che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria: « Omnia vincit amor », afferma Virgilio nelle Bucoliche — l’amore vince tutto — e aggiunge: «et nos cedamus amori» — cediamo anche noi all’amore. Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione «sacra» che fioriva in molti templi. L’eros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col DivinoA questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros, che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza” (nn.3-4).

Leggendo questo passaggio molti diranno: “Allora, che ha detto Francesco? non ha detto le stesse cose?”. Forse sì, ma tagliando, per esempio, il pezzo finale della Deus Caritas est in viene detto ben altro da ciò che viene sostenuta dal papa regnante, modificandone il senso e l’interpretazione.

Ecco come Benedetto XVI conclude quel pensiero:

Innanzitutto che tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo «avvelenamento», ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza” (n.5).

La strada della purificazione, maturazione e rinuncia alla quale, Francesco… rinuncia! Spingendo i coniugi a curare l’aspetto erotico del proprio rapporto coniugale anziché sforzarsi di comprendere il valore di certi sacrifici richiesti dalla Sacra Scrittura o, per dirla con Giovanni Paolo II, che i divorziati risposati, se non riusciranno a rendere nullo il matrimonio sacramentale, dovranno vivere da “fratello e sorella”, il vero eros che diventa vera agape, un bene più grande, un valore più eccelso.

Parliamoci chiaro: l’eros ha bisogno della “guarigione” perché anch’esso è stato semmai avvelenato dal peccato originale, di conseguenza la sua guarigione avviene proprio per un atto ragionevole – e ben educato – degli sposi cristiani i quali, proprio grazie al Sacramento del Matrimonio che infonde la grazia, non si lasciano sopraffare dall’istinto e fanno uso della sessualità per diventare collaboratori di Dio, nel dare origine ad una vita nuova. E laddove ci sono “situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone” (AL n.6), l’unica soluzione è la continenza, non c’è altra via.

Scrive ancora Papa Francesco nel documento: “Nelle sue catechesi sulla teologia del corpo umano, san Giovanni Paolo II ha insegnato che la corporeità sessuata «è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione», ma possiede «la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono». L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi” (AL, n.151)

Il fine del vero amore non è il piacere

Ma in Giovanni Paolo II questo “amore-eros” non è l’erotismo “più sano” inteso da Bergoglio! Wojtyla non sta parlando della “ricerca del piacere” fine a se stesso, sta dicendo che l’eros che da origine agli impulsi sessuali non è finalizzato solo alla procreazione, ma INSIEME alla procreazione esprime e da fecondità all’amore che donandosi (l’uno all’altro) esplode nel piacere, l’orgasmo che da vita sia alla coppia quanto alla generazione di una nuova vita umana. Per Wojtyla, l’eros nella coppia va bene, a patto che il concetto del piacere sessuale abbia come raggiungimento per entrambi il fine della propria natura: felicità della coppia (l’orgasmo naturalmente inteso ma non divinizzato – eros) e la procreazione di una nuova vita.

Infatti, riporta padre Angelo dall’insegnamento della Chiesa: Per questo Giovanni Paolo II ha detto che “l’usufruire dei periodi infecondi nella convivenza coniugale può diventare sorgente di abusi” (5.9.1984) e che “la persona non può mai essere considerata un mezzo per raggiungere uno scopo; mai, soprattutto, un mezzo di “godimento”. Essa è e dev’essere solo il fine di ogni atto. Solo allora corrisponde alla vera dignità della persona” (Gratissimam sane, 12).

“Baci e carezze – spiega a ragione padre Angelo Bellon di Amici Domenicani – di per sé non toccano l’ambito della sessualità, ma la possono coinvolgere. Qualora la coinvolgessero e avessero come obiettivo la polluzione o la masturbazione, allora si tratterebbe di atti che assumono la malizia dell’obiettivo perseguito. Se invece accompagnano l’atto compiuto secondo i disegni di Dio (il fine della procreazione), ne assumono la bontà e la meritorietà”.

Per questo la Chiesa è sempre stata contraria ai rapporti “prematrimoniali” ed è sempre stata sollecita a sostenere i giovani nel matrimonio. La Chiesa che è sempre stata Madre e non matrigna come oggi la si vuole dipingere, ha usato la teologia morale per aiutare i coniugi a superare gli ostacoli della vita matrimoniale legati alla sessualità. Essa non vietava per il gusto di vietare, ma per risparmiare ai coniugi la deriva del proprio rapporto incentrato sugli effetti del sesso-eros, spingendoli già da qui, sulla terra, ai superamenti di cui parlava Benedetto XVI sopra.

Bergoglio invece sembra confondere l’approccio sessuale con l’erotismo che si attua – per esempio – nel Kamasutra… Ha letto davvero il “suo” testo o si è fidato ciecamente del suo staff argentino, dichiaratamente progressista, modernista e della teologia del popolo? Non esiste “l’erotismo più sano” o l’erotismo più insano. Sarebbe come dire che esiste la magia bianca e la magia nera, ma non è così, la magia è una sola ed è diabolica. Sarebbe come dire che esiste il peccato più buono e il peccato meno buono, ma non è così, il peccato si divide in veniale o mortale, ma anche il più veniale può diventare mortale se non confessato o peggiorato, insomma, non esiste un peccato più “buono”. Del resto Isaia ce lo aveva predetto: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro. Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti…” (Is.5,20-ss).

Ciò che sorprende nel testo è che non si parla mai del Matrimonio per ciò che è: il Calvario dei coniugi, la loro porta stretta che Bergoglio ha trasformato ora in un’isola felice, tipo Gardaland o un’altro grande parco giochi dove l’erotismo primeggia quale elemento essenziale della coppia cristiana moderna per sopravvivere in un mondo triste e, diciamolo pure, perseguitato dalle leggi imposte dalla Chiesa cattiva del passato! Ecco infatti spiegato un’altro passo citato da Bergoglio nel testo, ma in modo distorto, ecco cosa dice veramente Benedetto XVI:

“L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità…. (..) Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l’amore — l’eros — può maturare fino alla sua vera grandezza. Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L’eros degradato a puro «sesso» diventa merce, una semplice «cosa» che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì dell’uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L’apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l’uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l’eros vuole sollevarci « in estasi » verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni…” (Dce. n.5).

Notare infatti che nel testo Deus Caritas est non si parla mai di “erotismo” ma di “eros” inteso come amore, così come nella teologia del corpo di Giovanni Paolo II – ed in tutto il magistero della Chiesa su questo tema, vedi qui -, egli non parla mai di “erotismo”, ma di eros in quanto amore, impulso del tutto naturale per muovere, accendere quella sessualità sana che sia nel mondo animale, quanto umano, ha un fine specifico: la procreazione, la vita nuova, le nuove generazioni, la cooperazione creatrice con Dio senza il cui alito divino, nessun essere sopravviverebbe sulla terra e nell’universo intero.

Insomma, parlare di eros è qualcosa di veramente vertiginoso, trascendente, basti citare i grandi mistici come Teresa d’Avila, ma anche il Cantico dei Cantici quando però non vengono usati, abusati e strumentalizzati per creare perversioni  atte a giustificare gravi forme di peccato. Viene così da chiedersi, seriamente, come fa Bergoglio a nutrire questa cieca fiducia nei teologi progressisti e rahneriani di cui si è circondato? Il sospetto che Bergoglio sia impastato della dottrina del gesuita Karl Rahner è sempre più tristemente fondata, ed oggi troviamo questa dottrina placidamente distesa in tutta l’esortazione. L’eros va purificato, educato e non lasciato allo stato brado degli istinti attraverso i quali allora diventa erotismo.

Il velenoso pensiero del gesuita Karl Rahner

Vogliamo concludere con la riflessione di un padre carmelitano per nulla “tradizionalista” oggi inteso, che ci aiuta a comprendere il danno di questa esortazione se Vescovi e Cardinali non interverranno a correggerla nella sua applicazione.

Karl Rahner SJ (1904-984)
Karl Rahner SJ (1904-984)

“Secondo Karl Rahner tutti i tipi di amore, persino il più spirituale, contengono elementi di eros, che è presente in ogni genere di affetto, anche in quello per gli amici.Naturalmente è sbagliato associare l’eros all’erotismo. Decade così la prospettiva tomistica per cui l’amore umano è un mezzo per il raggiungimento della felicità, mentre sussiste quella di Duns Scoto, che radicalizza l’elemento estatico dell’amore. Per Olivier Clément «Dio è lo storico mendicante che con infinita pazienza bussa alla porta di ognuno di noi, elemosinando amore». Egli cita a conferma il commento di Origene al verso 6 del salmo 70: «Sono povero e bisognoso: Dio, affrettati verso di me», aggiungendo che «è Cristo stesso a sussurrarlo mentre va mendicando amore dall’uomo, per poterlo a sua volta arricchire».

Santa Caterina da Siena amava sottolineare la dolcissima tenerezza di Dio per la creazione: «Tu, Trinità eterna, sei fattrice; ed io, tua fattura, ho conosciuto nella nuova creazione che mi facesti col sangue del tuo Figlio, che tu sei innamorato della bellezza della tua fattura» (Dialogo della Divina Provvidenza).

Egli infatti ci ricrea tramite il sacrificio del Figlio e non esiste agape più grande e amore più altruista del suo. Creati a sua immagine tramite il Figlio, veniamo ricreati dal sacrificio della croce, così che Dio, amando noi, ama se stesso in noi. Dal momento in cui ci separammo da Lui per il peccato originale, Egli ha cominciato a ricercare in noi suo Figlio, una ricerca che è culminata nella morte del Figlio, il quale però dalla croce “attira tutti a sé”, e questa è un’altra dimostrazione che anche nell’amore di Dio agape ed eros sono indissolubilmente congiunti.

Il grande dono che il cristianesimo ha fatto al mondo è proprio l’aver accentuato la caratteristica oblativa dell’amore. Per il Vangelo di Giovanni l’amore oblativo impregna tutta la storia della salvezza. Prima ancora della creazione del mondo c’è l’amore del Padre e del Figlio (Gv 17,24) e dopo la caduta di Adamo entra in essere quell’amore che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (Gv 3, 16) che a sua volta sfocia in quello del Figlio che sacrifica la vita per i suoi amici: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13, 1).

Che Dio si sia fatto uomo e sia morto per l’uomo, prova inconfutabilmente che amare è dimenticare se stessi e dare il primo posto agli altri. Oggi che tutti più o meno abbiamo la tendenza di metterci al centro dell’attenzione e amare è spesso godere a spese degli altri, c’è un grande bisogno del messaggio evangelico.

Pur essendo indirizzato all’agape, l’amore cristiano non si è liberato dall’eros, infatti l’agape senza eros sarebbe un malato cronico, anemico, rigido, e non avrebbe vigore né tenerezza.

Sulla Croce si ama davvero

Nel suo commento al Cantico dei Cantici, Origene lascia intendere che nella Scrittura c’è la presenza di eros, e nei sermoni sullo stesso cantico Gregorio di Nissa arriva fino ad affermare che l’eros esprime meglio dell’agape l’incredibile energia dell’amore. Persino Dionigi Aeropagita avrebbe scritto: «Per alcuni tra i nostri autori di cose sacre (hierologoi) il termine eros risuona più divino che non agape», rifacendosi senza dubbio alla celebre definizione di Ignazio di Antiochia: «il mio amore è crocifisso», che in greco suona: ho emos eros estauròtai (De divinis nominibus, I). Ignazio, Origene e Dionigi usano quindi eros per definire l’amore del Crocifisso, e sulla stessa linea si metterà in un certo senso, nel medioevo, santa Brigida che sceglie come motto per l’ordine da lei fondato: amor meus crucifixus est (il mio amore è crocifisso).

Per Ignazio l’eros oltre che riferirsi a Gesù alludeva probabilmente all’attrazione imperfetta che inizialmente egli provava per Gesù e che gli fece dire: «La mia passione umana è stata crocifissa e non è in me un fuoco materiale (eros)», concetto che ricorre in san Paolo:«Quelli che sono di Gesù Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5, 24).

Che l’eros sia crocifisso non vuol dire che sia morto, ma, come auspica papa Ratzinger, che sia purificato, riformato e abbia individuato il vero oggetto d’amore che era in lui sin dall’inizio: la brama di Dio. (Padre Wilfrid Stinissen, carmelitano scalzo, presbitero e teologo morto nel 2013, in Più grande di tutto è l’amore, Città Nuova 2010).


[Modificato da Caterina63 12/04/2016 17:41]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  è evidente, dai due testi qui a seguire, che regna molta confusione nella Chiesa e che questo Pontificato... divide....




" La natura personale cioè non magisteriale del documento (Amoris laetitia) emerge anche dal fatto che le citazioni riportate provengono principalmente dal documento finale della sessione 2015 del Sinodo dei Vescovi, nonché dai discorsi e dalle omelie di Papa Francesco stesso. Non si ha un impegno costante di collegare il testo in generale o tali citazioni al Magistero, ai Padri della Chiesa e agli altri autori provati..."
(card. Burke - da La Nuova Bussola Quotidiana del 12 aprile 2016)

Burke: Amoris Laetitia va accolta con rispetto Ma non è magistero, lo dice papa Francesco
di Raymond Leo Burke*

La Nuova Bussola Quotidiana del 12-04-2016


Amoris Laetitia

E’ anche un cattivo servizio alla natura del documento, quale frutto del Sinodo dei Vescovi, un incontro di Vescovi che rappresenta la Chiesa universale “per prestare aiuto con i loro consigli al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell'incremento della fede e dei costumi, nell'osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica e inoltre per studiare i problemi riguardanti l'attività della Chiesa nel mondo” (can. 342). In altre parole, sarebbe in contraddizione con il lavoro del Sinodo generare confusione su ciò che la Chiesa insegna, tutela e promuove con la sua disciplina. L’unica chiave per la corretta interpretazione di Amoris Laetitia è l’insegnamento costante della Chiesa e della sua disciplina che protegge e promuove questo insegnamento. Papa Francesco ha chiarito fin dall’inizio che l’Esortazione Apostolica Post-sinodale non è un atto di Magistero (cf. n. 3). 

La tipologia stessa del documento conferma la stessa cosa. È scritto come una riflessione del Santo Padre sul lavoro delle ultime due sessioni del Sinodo dei vescovi. Per esempio, nel capitolo ottavo, che ad alcuni piace interpretare come il progetto di una nuova disciplina con implicazioni ovvie per la dottrina della Chiesa, Papa Francesco, citando l’Esortazione Apostolica post-sinodale, Evangelii Gaudium, afferma:

«Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”» (n. 308).

In altre parole, il Santo Padre sta proponendo ciò che lui personalmente ritiene essere la volontà di Cristo per la sua Chiesa, ma egli non intende imporre il suo punto di vista né condannare coloro che insistono su quella che lui chiama “una pastorale più rigida”. La natura personale cioè non magisteriale del documento emerge anche dal fatto che le citazioni riportate provengono principalmente dal documento finale della sessione 2015 del Sinodo dei Vescovi, nonché dai discorsi e dalle omelie di Papa Francesco stesso. Non si ha un impegno costante di collegare il testo in generale o tali citazioni al Magistero, ai Padri della Chiesa e agli altri autori provati.

Oltretutto, come evidenziato sopra, un documento che è il frutto del Sinodo dei Vescovi deve essere sempre letto alla luce dello scopo del Sinodo stesso, ossia la tutela e la promozione di ciò che la Chiesa ha sempre pensato e praticato conformemente al suo insegnamento. In altre parole, un’Esortazione Apostolica post-sinodale, per la sua propria natura, non propone una nuova dottrina e una nuova disciplina, ma applica la dottrina e la disciplina costanti alle situazioni del mondo contemporaneo.

Allora come deve essere recepito questo documento? Prima di tutto, deve essere accolto con quel profondo rispetto dovuto al Romano Pontefice in quanto Vicario di Cristo, che è, secondo le parole del Concilio Ecumenico Vaticano II, “perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” (Lumen Gentium, n. 23). 

Alcuni commentatori confondono questo rispetto con un presunto obbligo di credere “per fede divina e cattolica” (can. 750, § 1) tutto ciò che è contenuto nel documento. Ma la Chiesa cattolica, mentre insiste sul rispetto dovuto all’Ufficio pietrino, in quanto istituito da Nostro Signore stesso, non ha mai sostenuto che ogni affermazione del Successore di San Pietro debba essere ricevuta come parte del suo Magistero infallibile.

La Chiesa storicamente è stata sensibile a quelle tendenze erronee che interpretavano ogni parola del Papa come vincolante per la coscienza, il che è certamente assurdo. Secondo l’insegnamento tradizionale, il Papa ha due “corpi”, uno in quanto membro individuale dei fedeli e perciò soggetto a mortalità e l’altro in qualità di Vicario di Cristo sulla Terra, e questo, secondo la promessa di Nostro Signore, perdurerà fino al suo ritorno nella gloria. Il primo corpo è il suo corpo mortale; il secondo è l’istituzione divina dell’Ufficio di San Pietro e dei suoi successori. I riti liturgici e gli abiti che rivestono il Papa sottolineano tale distinzione, cosicché una riflessione personale del Papa, mentre è ricevuta con il rispetto dovuto alla sua persona, non viene confusa con la fede vincolante dovuta all’esercizio del Magistero. Nell’esercizio del Magistero, il Romano Pontefice quale Vicario di Cristo agisce in una ininterrotta comunione con i suoi predecessori a partire da San Pietro.

Ricordo la disputa che accompagnò la pubblicazione delle conversazioni tra il beato Paolo VI e Jean Guitton nel 1967. La preoccupazione risiedeva nel pericolo che i fedeli avrebbero confuso le riflessioni personali del Papa con l’insegnamento ufficiale della Chiesa. Se da un lato il Romano Pontefice ha delle riflessioni personali che possono essere interessanti e stimolanti, la Chiesa deve essere sempre vigile nel segnalare che la pubblicazione di tali riflessioni è un atto personale e non un esercizio del Magistero papale. Diversamente, quanti non comprendono la distinzione o non la vogliono comprendere, presenteranno tali riflessioni ed anche aneddoti del Papa come dichiarazioni di un cambiamento nell’insegnamento della Chiesa, causando grande confusione nei fedeli. Una tale confusione è dannosa per i fedeli e indebolisce la testimonianza della Chiesa quale Corpo di Cristo nel mondo.

Con la pubblicazione di Amoris Laetitia, l’obiettivo dei pastori e di coloro che insegnano la fede è di presentarla nel contesto dell’insegnamento della disciplina della Chiesa, così che sia a servizio dell’edificazione del Corpo di Cristo nella sua prima cellula vitale, cioè il matrimonio e la famiglia. In altre parole, l’Esortazione Apostolica post-sinodale può essere correttamente interpretata, in quanto documento non magisteriale, solamente usando la chiave del Magistero, come spiegato nel Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 85-87).

La dottrina ufficiale della Chiesa infatti fornisce l’insostituibile chiave interpretativa dell’Esortazione Apostolica, di modo che possa veramente servire al bene di tutti fedeli, unendoli ancor più strettamente a Cristo, che è l’unica nostra salvezza. Non ci può essere opposizione o contraddizione tra la dottrina della Chiesa e la sua prassi pastorale, dal momento che come ci ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica, la dottrina è naturalmente pastorale: 

“La missione del Magistero è legata al carattere definitivo dell'Alleanza che Dio in Cristo ha stretto con il suo Popolo; deve salvaguardarlo dalle deviazioni e dai cedimenti, e garantirgli la possibilità oggettiva di professare senza errore l'autentica fede. Il compito pastorale del Magistero è quindi ordinato a vigilare affinché il Popolo di Dio rimanga nella verità che libera. Per compiere questo servizio, Cristo ha dotato i pastori del carisma d'infallibilità in materia di fede e di costumi. L'esercizio di questo carisma può avere parecchie modalità” (n. 890).

Si può vedere la natura pastorale della dottrina, in maniera eloquente, nell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. Cristo stesso mostra la profonda natura pastorale della verità della fede nel suo insegnamento sul santo Matrimonio nel Vangelo (cf. Mt 19, 3-12), nel quale insegna nuovamente il piano di Dio sul matrimonio “fin dal principio”. Durante gli ultimi due anni, nei quali la Chiesa è stata coinvolta in una intensa discussione sul matrimonio la famiglia, ho richiamato spesso un episodio della mia infanzia. Sono cresciuto in una fattoria familiare nelle campagne del Wisconsin; ero il più giovane di sei figli di buoni genitori cattolici. La Messa domenicale delle 10 presso la nostra parrocchia nelle vicinanze del paese era chiaramente il cuore della nostra vita di fede; a un certo punto, mi sono accorto di una coppia, amici dei miei genitori provenienti dalla fattoria vicina, che era sempre presente alla Santa Messa, ma non riceveva mai la Santa Comunione. Quando chiesi a mio padre perché non ricevessero mai la Santa Comunione, egli mi spiegò che l’uomo era sposato con un’altra donna e perciò non poteva ricevere i Sacramenti.

Ricordo chiaramente che mio padre mi spiegò la prassi della Chiesa, nella fedeltà al suo insegnamento, in un modo sereno. La disciplina ovviamente aveva un significato per lui e aveva un significato per me; infatti la sua spiegazione fu per me la prima occasione di riflettere sulla natura del matrimonio come legame indissolubile tra il marito la moglie. Nello stesso tempo devo dire che il parroco trattava la coppia coinvolta con il più grande rispetto, anche se loro prendevano parte alla vita parrocchiale nella modalità appropriata allo stato irregolare della loro unione. Da parte mia, ho sempre avuto l’impressione che, sebbene debba essere stato veramente difficile non poter ricevere i Sacramenti, loro erano tranquilli nel vivere secondo la verità della loro situazione matrimoniale.

Dopo oltre quarant’anni di vita e ministero sacerdotale, per ventuno dei quali ho svolto il ministero episcopale, ho conosciuto molte altre coppie in situazioni irregolari, per le quali io o gli altri miei confratelli sacerdoti abbiamo avuto una cura pastorale. Sebbene la loro sofferenza fosse evidente ad ogni anima compassionevole, ho visto sempre più chiaramente negli anni che il primo segno di rispetto e amore nei loro confronti era dir loro la verità con amore. In quel modo, l’insegnamento della Chiesa non è qualcosa che li affligge ancora di più, ma in verità li libera per amare Dio e il loro prossimo.

Potrebbe essere di aiuto illustrare con un esempio la necessità di interpretare il testo di Amoris Laetitia alla luce del Magistero. Nel documento ci sono frequenti riferimenti all’ “ideale” del matrimonio. Una tale descrizione del matrimonio può essere fuorviante. Può condurre il lettore a pensare al matrimonio come ad un’idea eterna, alla quale gli uomini e le donne debbano più o meno conformarsi nelle circostanze mutevoli. Ma il matrimonio cristiano non è un’idea; è un sacramento che conferisce la grazia a un uomo e una donna per vivere in un fedele, permanente e fecondo amore reciproco. Ogni coppia cristiana validamente sposata, dal momento del consenso, riceve la grazia di vivere l’amore che si sono promesso reciprocamente. Siccome tutti soffriamo degli effetti del peccato originale e poiché il mondo in cui viviamo si fa fautore di una visione completamente differente del matrimonio, gli sposi sono tentati di tradire la realtà obiettiva del loro amore. Ma Cristo dà sempre loro la grazia di rimanere fedeli a quell’amore fino alla morte. La sola cosa che li può limitare nella loro risposta fedele è venir meno nel corrispondere alla grazia data loro nel sacramento del Santo Matrimonio. In altre parole, la loro difficoltà non è con una qualche idea che gli ha imposto la Chiesa. La loro lotta è con quelle forze che li conducono a tradire la realtà della vita di Cristo in loro. Negli anni e particolarmente durante gli ultimi due anni, ho incontrato molti uomini e donne che per svariate ragioni, si sono separate o hanno divorziato dai loro coniugi, ma che stanno vivendo nella fedeltà alla verità del loro matrimonio e stanno continuando a pregare ogni giorno per l’eterna salvezza dello sposo, anche se lui o lei li ha abbandonati. Nelle nostre conversazioni, essi riconoscono la sofferenza in cui sono coinvolti, ma soprattutto la profonda pace che provano nel rimanere fedeli al proprio matrimonio.

Alcuni ritengono che una tale reazione alla separazione o al divorzio sia un eroismo al quale la media dei fedeli non può giungere, ma in verità noi siamo tutti chiamati a vivere eroicamente, in qualunque stato di vita. Papa San Giovanni Paolo II, a conclusione del Grande Giubileo del 2000, riferendosi alle parole di Nostro Signore che concludono il Discorso della Montagna – “Siate perfetti come il Padre vostro” (Mt 5, 48) - ci ha insegnato la natura eroica della vita quotidiana in Cristo con queste parole:

“Come il Concilio stesso ha spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni « geni » della santità. Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita. È ora di riproporre a tutti con convinzione questa « misura alta » della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione” (Novo Millennio Ineunte, no. 31).

Incontrando uomini e donne che, malgrado una rottura della vita matrimoniale, rimangono fedeli alla grazia del sacramento del Matrimonio, io sono stato testimone della vita eroica che la grazia rende a noi possibile ogni giorno.

Sant’Agostino di Ippona, in una predica per la festa di San Lorenzo, Diacono e Martire, nel 417, utilizza una bellissima immagine per incoraggiarci nella nostra cooperazione con la grazia che Nostro Signore ha ottenuto per noi con la sua Passione e Morte. Egli ci garantisce che nel giardino del Signore non ci sono solo le rose dei martiri, ma anche i gigli delle vergini, le edere degli sposi e le viole delle vedove. Egli perciò conclude che nessuno dovrebbe disperare riguardo alla propria vocazione perché “Cristo è morto per tutti” (Sermone 304). La ricezione di Amoris Laetitia, nella fedeltà al Magistero, possa confermare gli sposi nella grazia del sacramento del Santo Matrimonio, così che essi possano essere segno dell’amore fedele e duraturo di Dio per noi “fin dal principio”, un amore che ha raggiunto la sua piena manifestazione dell’Incarnazione redentiva del Figlio di Dio. Che il Magistero, quale chiave della sua comprensione, faccia sì che “il Popolo di Dio rimanga nella verità che libera” (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 890). 

* Cardinale, Patrono del Sovrano Ordine militare di Malta

Traduzione in italiano di Luisella Scrosati



Riflessione di p. Jesús Villagrasa, L.C., Rettore dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum  - tra le parentesi brevi nostri commenti -

 

Eccola. Papa Francesco ha messo nelle nostre mani l’esortazione apostolica “Amoris Laetitia (AL), Sull’amore in famiglia” che raccoglie il frutto dei Sinodi del 2014 e del 2015 .

In una vignetta in lingua spagnola apparsa sul settimanale Alfa y Omega ci sono tre persone, due discutono tra loro dicendo: “Hai visto? Il Papa ci dà ragione! E l’altro “Macché! Ha riaffermato la nostra posizione!”; interviene il terzo, un prelato del Vaticano dicendo: “Ma il Papa non ha ancora iniziato a parlare…”. “È lo stesso” gli rispondono, “ci stiamo allenando”. (????)
I dibattiti e i contrasti sulla stampa sembrano alieni a quel che il Papa ha detto o non ha detto. In questo momento, quindi, forse la cosa più importante è disporci e orientarci a una lettura attenta di questa esortazione, prima di iniziare a commentare i contenuti. E proprio nei primi sette punti di AL, papa Francesco ci offre alcune indicazioni.

 

L’intenzione dell’autore…

La prima cosa che il lettore e interprete di un testo cerca è l’intenzione dell’autore, per conoscerla e rispettarla, prima di giudicare il contenuto. Nel nostro caso, quest’intenzione è esplicita: non vuole pronunciarsi per risolvere questioni dibattute da teologi: «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (AL 3). Vuole invece liberare i pastori e i fedeli da posizioni estreme inaccettabili, come sono il «desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento» e la pretesa di «risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche» (AL 2).

Fraintenderà il testo chi, trincerandosi in una di queste posizioni, cercherà frasi dell’esortazione per lanciarle come proiettili sul nemico. Disse una volta Hans Urs von Balthasar (ebbè... Balthasae eh!, la bibbia! ), che per alcuni teologi il Vangelo si era convertito in una cava da cui estrarre pietre da lanciare nei dibattitti teologici. Se succede questo con il Vangelo…

Papa Francesco ha voluto raccogliere «contributi dei due recenti Sinodi sulla famiglia, unendo altre considerazioni che possano orientare la riflessione, il dialogo e la prassi pastorale, e al tempo stesso arrechino coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà» (AL 4).

Lo sguardo del lettore non deve rivolgersi alle posizioni di teologi e pastoralisti, ma alle coppie di sposi, alla vita delle famiglie che si impegnano per vivere la loro vocazione in un difficile e complesso contesto sociale ed ecclesiale.

 

… e la suddivisione del testo

I commentatori medievali di testi antichi erano soliti anteporre, ai loro commenti, una suddivisione del testo in parti e sezioni che in genere non appariva nel testo commentato. Era il modo più sicuro di captare l’intenzione dell’autore e presupponeva una conoscenza profonda del testo. Il Papa ci risparmia questa fatica e al tempo ci previene dalla “tentazione universale” di andare direttamente agli orientamenti pastorali che illuminano le decisioni che si dovrebbero prendere in situazioni problematiche molto complesse, che sono forse quelle che più interessano i mezzi di comunicazione e molte persone, famiglie e pastori. Prima di arrivare a quei temi (trattati nel capitolo 8) bisogna fare un cammino per tappe (capitoli) che hanno finalità molto precise e che il Papa espone al n. 6: «Nello sviluppo del testo, comincerò con un’apertura ispirata alle Sacre Scritture, che conferisca un tono adeguato[cap. 1]. A partire da lì considererò la situazione attuale delle famiglie, in ordine a tenere i piedi per terra [cap. 2]. Poi ricorderò alcuni elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa circa il matrimonio e la famiglia[cap. 3], per fare spazio così ai due capitoli centrali, dedicati all’amore [cap. 5-6]. In seguito metterò in rilievo alcune vie pastorali che ci orientino a costruire famiglie solide e feconde secondo il piano di Dio[cap. 6], e dedicherò un capitolo all’educazione dei figli [cap. 7]. Quindi mi soffermerò su un invito alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone[cap. 8], e infine traccerò brevi linee di spiritualità familiare [cap. 9]».

 

Come leggere l’esortazione

«Non consiglio una lettura generale affrettata» (7), che è la tentazione di chi dà un’occhiata al testo in cerca di novità. I fedeli hanno a loro disposizione il frutto  maturo di una riflessione ampia e ricca realizzata da due sinodi e presentata alla riflessione del Santo Padre. Seguire questi due consigli sarà espressione di stima teorica e pratica per questo testo pontificio: primo, approfondire «pazientemente una parte dopo l’altra» (7), facendolo oggetto di uno studio sereno e di una riflessione profonda. Secondo, fare di questo testo un vademecum per la vita, in cui ciascuno cerchi «quello di cui avranno bisogno in ogni circostanza concreta» (7).

 

Continuità

Come è già successo con i testi conciliari, verrà fuori qualcuno a dire che il testo non raccoglie lo spirito dei sinodi presumibilmente più progressisti o che non è fedele alla tradizione… Nella prospettiva dell’esperienza degli anni passati possiamo parafrasare quello che il cardinale Ratzinger diceva del Concilio. La migliore eredità del Sinodo è questo testo, rettamente interpretato in continuità con il magistero precedente. Papa Francesco sembra volerlo sottolineare, data la profusione di citazioni delle relazioni sinodali e dei suoi due predecessori: san Giovanni Paolo II e la sua Familiaris Consortio e Benedetto XVI e la sua enciclica Deus Caritas est, tra gli altri documenti.

( ehm! veramente le citazioni sono sballate, in questo link c'è un chiarimento con i testi a confronto)

 

Una provocazione

Nella presentazione alla stampa dell’esortazione apostolica si è sottolineato che il linguaggio di papa Francesco è chiaro, semplice, concreto. Non lo metto in dubbio. Però mi piacerebbe che il lettore si lasciasse provocare da alcune riflessioni di Etienne Gilson nella sua opera “Il filosofo e la teologia”, di fronte alla constatazione che raramente i filosofi osavano leggere le encicliche pontificie che risultavano loro difficili. Sono convinto che le cautele di Gilson siano valide ancora oggi e che questi testi richiedano una lettura riflessiva e molto attenta, per cogliere il valore di ciascuna frase, nel contesto globale dell’esortazione, il valore di alcuni silenzi e, come direbbe Gilson, la precisione di alcune imprecisioni.

Sebbene i motivi della difficoltà della lettura siano altri, questo testo di Gilson risulta pertinente: «La difficoltà non è tanto il fatto che siano scritte in un latino di cancelleria, fiorito di eleganze umanistiche, ma piuttosto perché in esse il senso della dottrina non sempre si lascia cogliere facilmente. Si intraprende allora la traduzione e, provandocisi, si arriva almeno a comprendere la ragione di essere del loro stile. Non si possono sostituire le parole di quel latino pontificio con altre prese ad una qualunque delle grandi lingue moderne, e ancor meno disarticolare le frasi per articolarle altrimenti, senza accorgersi subito che, per quanto accuratamente si faccia, l’originale nel corso dell’operazione perde di forza, e non solamente di forza, ma di precisione, il che non è ancora la cosa più grave, perché la vera difficoltà, ben nota a quelli che tentano la prova, consiste nel rispettare in esse ciò che si potrebbe esattamente chiamare, senza alcun paradosso, la precisione delle sue imprecisioni. La precisione sapientemente calcolata delle sue imprecisioni volute. Quante volte si pensa, dopo matura riflessione, di sapere ciò che su quel tal punto preciso l’enciclica suol dire, ma essa non lo dice espressamente, e senza dubbio ha le sue ragioni per arrestare a certe soglie la determinazione più precisa di un pensiero desideroso di mantenersi sempre aperto, pronto ad accogliere nuove possibili acquisizioni» (Morcelliana, 1966 pp. 182-183).

 

Gilson conclude chiedendo ai filosofi cristiani che, oltre a frequentare corsi di teologia, si decidano a frequentare un’università pontificia in cui imparare a leggere i documenti pontifici.

Come rettore di un’università pontificia, rinnovo volentieri questa proposta e, sebbene più modestamente, mi limito a invitare i pastori e i fedeli - a loro è rivolta Amoris Laetitia - a leggere con calma e profondità questo attesissimo testo su una questione vitale per le persone, le famiglie, la società e la Chiesa: «L’amore nella famiglia».



Noi veramente ci chiediamo: ma che fine ha fatto:
"il vostro parlare sia sì, sì - no, no, ché il di più viene dal maligno".... trasmesso da Nostro Signore Gesù Cristo?






[Modificato da Caterina63 14/04/2016 09:28]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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13/04/2016 20:30
 
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Facciamo presente quanto segue, due tempi a confronto: oggi e ieri   

” La natura personale cioè non magisteriale del documento (Amoris laetitia) emerge anche dal fatto che le citazioni riportate provengono principalmente dal documento finale della sessione 2015 del Sinodo dei Vescovi, nonché dai discorsi e dalle omelie di Papa Francesco stesso. Non si ha un impegno costante di collegare il testo in generale o tali citazioni al Magistero, ai Padri della Chiesa e agli altri autori provati…”
(card. Burke – da La Nuova Bussola Quotidiana del 12 aprile 2016)

“Che vi può essere infatti di peggio, che essere empio e non volersi sottomettere ai più saggi e ai più dotti? Cadono in questa stoltezza quelli che, quando incontrano qualche oscura difficoltà nella conoscenza della verità, non ricorrono alle testimonianze dei profeti, alle lettere degli apostoli o alle affermazioni dei Vangeli, ma a se stessi, e si fanno quindi, maestri di errore proprio perché non hanno voluto essere discepoli della verità.”
(S. Leone Magno – Lettera al vescovo Flaviano di Costantinopoli, contro l’eresia di Eutiche)

“Quando l’eresia s’impadronirà della Chiesa, sappiate che non ci sarà prova di vera fede e di cristianità se non con le Sacre Scritture, perché quelli che si volgeranno altrove periranno”.
(san Giovanni Crisostomo nella sua “Homelia 49, Mattheum”)

Facciamo seguire ora tre commenti: di due sacerdoti e di un laico

  Tante affermazioni che vanno chiarite
di mons. Antonio Livi
13-04-2016

 

Un documento come l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, per la sua lunghezza e per il particolare momento della storia della Chiesa nel quale è stato redatto e promulgato, richiede un commento quanto mai responsabile e prudente, che io qui faccio avvalendomi della mia competenza specifica nel campo dell’ermeneutica teologica e della mia lunga esperienza di direzione spirituale di sacerdoti, religiosi e laici. 

1. Debbo premettere, per render meglio comprensibile quanto sto per dire, che gli atti del Romano Pontefice hanno un valore e una portata diversi, a seconda della materia della quale trattano e della forma prescelta per rivolgersi al popolo cristiano. Gli atti del Romano Pontefice (registrati come tali negli Acta Apostolicae Sedis) possono essere:
1) veri propri insegnamenti circa la fede e la morale della Chiesa cattolica, nel qual caso il Papa si limita a interpretare autorevolmente i dogmi già formulati dal Magistero precedente (magistero universale ordinario), a meno che, parlando ex cathedra, non enuncia novi dogmi (caso che nella storia si è verificato pochissime volte); 
2) nuove norme disciplinari riguardanti i Sacramenti, la liturgia, gli incarichi ecclesiastici, eccetera (norme che entrano a far parte del corpus del diritto canonico, attualmente compendiate nel Codice di Diritto Canonico per la Chiesa latina e in quello per la Chiesa Orientale); 
3) orientamenti e criteri per la prassi pastorale che non cambiano sostanzialmente ciò che è già stabilito nei principi della dottrina dogmatica e morale, così come  non aggiungono o non tolgono nulla a ciò che è prescritto nelle vigenti leggi della Chiesa. 

In  base a questa fondamentale distinzione, diversi sono i doveri di coscienza di un cattolico, nel senso che: 
1) gli insegnamenti del Papa, quando egli intende confermare o sviluppare e verità della fede cattolica, vanno accolti da tutti in fedeli con ossequio esteriore ed interiore della mente e del cuore; analogamente, 
2) gli ordini e disposizioni disciplinari del Papa vanno rispettati ed eseguiti prontamente da tutti coloro ai quali gli ordini sono rivolti, per quanto a ciascuno compete direttamente; al contrario, 
3) quelli che sono meri orientamenti per la pastorale vanno accolti da tutti gli interessati, a cominciare dai vescovi, come criteri da tener presenti nell’esercizio del loro ufficio pastorale di governo e di catechesi; in quanto criteri, essi entrano a far parte di tutta una serie di principi di ordine dogmatico, morale e disciplinare che già sono ordinariamente presenti alla coscienza dei Pastori al momento di prendere responsabilmente una decisione su situazioni generali della loro diocesi o su qualche caso concreto.

Ora, l’Esortazione apostolica post-sinodale, sia per il tipo di documento che per gli argomenti che in esso vengo o affrontati, è indubbiamente un atto pontificio del terzo tipo tra quelli che ho prima elencato. In effetti, come genere di documento pontificio, questa Esortazione non è e non vuole essere un atto di magistero con il quale si insegnano dottrine nuove, fornendo ai fedeli nuove interpretazioni autorevoli del dogma. 

Si tratta invece di una serie di indirizzi pastorali, rivolto principalmente ai vescovi e ai loro collaboratori nel clero e nel laicato, affinché la dottrina sull’amore umano e sul matrimonio – che viene esplicitamente confermata in ogni suo punto – sia meglio applicata ai singoli casi concreti con prudenza, con carità e con desiderio di evitare divisioni all’interno della comunità ecclesiale. Queste sono le intenzioni del Papa, quali risultano dal tipo di documento che sto commentando. 

Naturalmente, come ogni fedele cristiano, io, che poi sono anche sacerdote, ho il dovere di accogliere senza riserve queste indicazioni pastorali, ben disposto a tenerne conto quando si presenti l’occasione di aiutare i fedeli in difficoltà ad accostarsi ben preparati al sacramento della Penitenza o di consigliare convenientemente quelli che dovessero trovarsi nelle condizioni di “divorziati risposati”.  Ma ho anche il dovere di interpretare tali indicazioni alla luce del dogma, della morale e del diritto canonico vigente, visto che il documento papale non può e non intende abrogare tutto ciò che la Chiesa ha già stabilito in materia. E quando l’interpretazione si presenta difficile, per la complessità e l’ambiguità di molte pagine del documento papale, ho il dovere di rifarmi alla regola d’oro dell’ermeneutica teologica: «In necessariis, unitas; in dubiis, libertas; in omnibus, caritas».

2. Io sono sempre stato e sempre sarò, con la grazia di Dio, un figlio fedele della Chiesa, che non è, come alcuni dicono, «la Chiesa di Bergoglio» ma è la Chiesa di sempre, la Chiesa di Cristo. Per Cristo ho venerato tanti papi, da Pio XI a Benedetto XVI e a Francesco. Riguardo alle indicazioni contenute nella Amoris laetitia, non mi è lecito dubitare che le intenzioni pastorali del Papa siano tutte sante e tutte a vantaggio del bene comune della Chiesa di Cristo. Nemmeno posso dubitare che gli indirizzi pratici da lui suggeriti siano di per sé atti a provvedere il maggior bene possibile dei fedeli di tutto il mondo cattolico. 

Resta però il fatto che la lettura del documento lascia molto perplessi quanto alla effettiva chiarificazione dei punti messi in discussione nella Chiesa da alcuni anni, sia da parte di molti teologi di ampia notorietà internazionale (ad esempio, il cardinale Walter Kasper) sia da parte di una ristretta ma molto rumorosa minoranza di padri sinodali durante le due sessioni del Sinodo sulla famiglia. 

La discussione all’interno dei lavori del Sinodo è stata preceduta e seguita da una amplissima discussione sui media, sia cattolici che laicisti. E l’opinione pubblica ha percepito come reale l’esistenza di due contrapposte fazioni, una ostinata a mantenere i “formalismi astratti” del passato e una decisa a riformare la Chiesa, con quest’ultima che oggi va proclamando in tutto il mondo cattolico la propria “vittoria finale”, come se il documento pontifico avesse veramente realizzato quella «rivoluzione» della quale ha parlato Kasper, o quelle «aperture» delle quali ha parlato il direttore della Civiltà  Cattolica, il gesuita padre Antonio Spadaro, in un’intervista alla Radio Vaticana. 

L’effetto di questa immagine - troppo umana e in definitiva ideologica - delle discussioni avvenute all’interno del Sinodo è lo sconcerto e il disorientamento dell’opinione pubblica cattolica riguardo ai grandi temi dottrinali concernenti la sessualità umana, il matrimonio e la famiglia. Chi ha sensibilità veramente pastorale non può non desiderare, in tale situazione, un autorevole intervento pontificio di chiarimento, un discorso accessibile a tutti, espresso in termini precisi e definitivi: e invece il documento di papa Francesco, per come è stato recepito dai fedeli (anche per le interpretazioni strumentali da parte di ambienti ostili alla fede cattolica) ha purtroppo aumentato lo sconcerto in mezzo al popolo di Dio. 

In effetti, il Papa, pur affermando che non c’è alcun cambiamento nella dottrina, quando parla dei cambiamenti che ritiene necessari nella prassi delle diocesi e delle conferenze episcopali induce a credere che egli intenda per “pastorale” un’attività anarchica del clero che, una volta lasciata la “dottrina” in soffitta, assume come “regola pastorale” le opinioni “secolari” prevalenti nel proprio ambiente sociale.
Così facendo papa Bergoglio sembra lanciare una severa censura nei confronti delle posizioni “conservatrici” per giustificare senza riserve le posizioni “riformiste”.


A nulla sarebbero valse le proteste del cardinale Mueller e di molti altri autorevoli prelati contro la tesi di una prassi disgiunta dalla dottrina, già formulata da molti teologi e da alcuni padri sinodali; si ricordano, ad esempio, le parole accorate del cardinale africano Sarah, che aveva ricordato come detto l’idea di incoraggiare una prassi pastorale che potrebbe evolvere secondo le mode e le passioni mondane sia  «una forma di eresia, una pericolosa patologia schizofrenica» (cfr La Stampa, 24 febbraio 2015). 

Beninteso, nulla nel testo scritto può giustificare questa interpretazione, ma la prolissità del testo, l’abuso delle metafore e l’ambiguità  delle affermazioni di principio (talvolta addirittura in palese contraddizione l’una con l’altra) lasciano aperta la possibilità di ogni malevola interpretazione, anche  da parte di chi non ha alcun titolo per interpretare il Papa ma approfitta del fatto che il Papa non ha voluto - per motivi che saranno certamente buoni e santi – essere chiaro e preciso, usando un linguaggio che potesse evitare ogni strumentalizzazione. 

Ciò riguarda soprattutto la valutazione «caso per caso» della situazione ecclesiale dei fedeli che hanno mancato alla fedeltà coniugale, hanno fatto ricorso al divorzio civile e hanno costituito una convivenza adulterina; si tratta di quelle coppie che erroneamente vengono chiamate di «divorziati risposati», con un linguaggio che non è teologico, perché nella Chiesa cattolica c’è un solo matrimonio riconosciuto come valido, quello sacramentale, che per sua natura è indissolubile e quindi non ammette divorzio né consente alcuna nuova forma di unione coniugale, sia pure riconosciuta dall’autorità civile. 

Il Papa dice che nulla cambia nella situazione canonica di queste persone, perché la cosa è stata precedentemente esaminata e giudicata dal papa Giovanni Paolo II in seguito al Sinodo dei vescovi sulla famiglia svoltosi agli inizi degli anni Ottanta (cfr Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981.). Ma la prassi nuova che Francesco consiglia di adottare  in sede di «accompagnamento pastorale» e in “foro interno” è formulata con espressioni talmente equivoche da consentire ai malintenzionati di celebrare la grande vittoria dei riformisti, i quali chiedevano appunto al Papa di introdurre nella prassi ecclesiastica una specie di “divorzio cattolico”, consentendo l’approvazione da parte dei singoli vescovi delle nuove nozze, così come l’accesso alla Comunione dei fedeli «in situazione irregolare».   

In realtà il Papa non parla affatto della possibilità di “benedire” le nuove nozze, e nemmeno accenna direttamente di un “diritto all’Eucaristia”: si limita a consigliare la riammissione di questi fedeli come padrini ad alcune cerimonie religiose (battesimi, cresime, matrimoni), e invita a considerare la possibilità di consentire loro di assumere incarichi nelle parrocchie o di insegnare la religione nelle scuole. Ma gli argomenti addotti a sostegno di questi criteri di «inclusione ecclesiale» sono purtroppo molto confusi e possono anche intendersi – certamente contro le reali intenzioni del Papa – come  un radicale cambiamento nella dottrina morale cattolica a riguardo del peccato grave (detto “mortale” in quanto comporta la perdita della grazia santificante e il pericolo della dannazione eterna, che la Scrittura chiama «la seconda morte») e riguardo alla  sua imputabilità soggettiva, specie in relazione con le condizioni per ottenere il perdono sacramentale con la Confessione.   

3. Per documentare quanto ho detto, riporto adesso alcune espressioni della Amoris laetitia che risultano, se non proprio formalmente erronee, almeno penosamente confuse. A ogni citazione farà seguito una breve postilla di chiarimento dottrinale.   

Lo stato di peccato mortale. - «Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”» (Amoris laetitia, § 301). 

Evidentemente, in materia di “peccato mortale” non ha senso parlare di qualifiche morali che “oggi” sono diverse da quelle di “ieri”: la dialettica storicistica che tanto piace ai teologi ascoltati da papa Francesco (come Walter Kasper) è del tutto fuori luogo in un documento pontificio che dà consigli su come intervenire pastoralmente in una situazione che dal punto di vista morale è stata definitivamente qualificata come peccato grave (adulterio) già dal Signore stesso, le cui parole sono state la norma prossima di valutazione da parte del magistero ecclesiastico di sempre (non di “ieri”), con un carattere di definitività che non ammette un “oggi” riformista. 

Quanto poi ai “limiti” soggettivi (ignoranza, debolezza, dipendenza da passioni o condizionamenti sociali) che possano rendere meno imputabile in un determinato soggetto l’atto peccaminoso, essi sono sempre stati presi in attenta considerazione dai  buoni confessori: ma  non per coonestare una situazione che si è prolungata nel tempo e che sembra priva di soluzione proprio perché il peccato è stato ostinatamente ripetuto malgrado gli incessanti inviti della grazia divina alla conversione e alla riparazione dei danni arrecati al coniuge e alla Chiesa. La buona direzione spirituale da parte dei buoni confessori è sempre stata impegnata a suscitare nell’animo del cristiano che fino ad allora non ha mai voluto cambiare vita le risorse per «resistere fino al sangue nella lotta contro il peccato», che è quello che a tutti chiede il Vangelo (cfr Lettera agli Ebrei ).

Peccato “materiale” e peccato “formale”. - «A partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia. Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno» (nn. 302-303). 

Ho sottolineato, nel testo pontificio, l’aggettivo “nostra” riferito alla «concezione del matrimonio» della Chiesa Cattolica: perché attribuirla a un assurdo “noi”, come se il soggetto di questa concezione fosse un qualsiasi opinion leader dei tanti che si agitano nella nostra società e non la Chiesa che custodisce e interpreta infallibilmente il Vangelo di Cristo? Non era certo questo il linguaggio, ad esempio, di san Giovanni Paolo II, che nelle sue catechesi sull’amore umano insisteva nel presentare la morale cattolica come l’espressione puntuale e fedele dell’intenzione d’amore di Dio creatore, che la Chiesa, depositaria della rivelazione di Gesù Cristo, si limita a esprimere in formule dogmatiche, dalle quali derivano sia i “precetti” che i “consigli”, senza nulla inventare e nulla imporre che non sia davvero il “piano di Dio”.

Il giudizio della Chiesa sull’imputabilità soggettiva degli atti contrari alla legge di Dio. - «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (n. 304). 

Qui il discorso è ancora più ambiguo, perché confonde volutamente la valutazione “esterna” della situazione morale di un fedele dalla conoscenza della sua situazione “interna” davanti a Dio: la condizione di coscienza dell’individuo sfugge all’occhio umano, anche a quello del direttore spirituale o del confessore, e l’autorità della Chiesa non è chiamata a dare giudizi sulla coscienza («de internis neque Ecclesia iudicat»). 

Quindi la valutazione dall’esterno, per ciò che risulta evidente agli occhi degli uomini, è quanto basta per un giudizio meramente prudenziale che non pretende di essere assoluto e definitivo ma riguarda il dovere dell’autorità ecclesiastica di riconoscere i comportamenti esterni conformi alla legge  orale giusti e di sanzionare quelli ingiusti (un caso tipico  di sanzione ecclesiastica, a parte la scomunica per reati più gravi,  è appunto quello di negare l’accesso alla Comunione a chi pubblicamente vive in una condizione di adulterio senza intenzione di porvi rimedio). Non può che ingenerare ancora più confusione nei fedeli il fatto che un Papa parli della legge morale - già codificata dalla Chiesa da secoli in dogmi e disposizioni canoniche - come di qualcosa di “astratto” che non si può applicare a situazioni “concrete”. Peggio ancora, parla di situazioni “concrete” che oggi sarebbero diverse da quelle di ieri, per cui sarebbe legittimo fare oggi il contrario di quello che ha prescritto il magistero solenne e ordinario della Chiesa fino a ieri. 

In realtà, l’unica differenza tra ieri e oggi che può essere significativa per la pastorale è che molti fedeli hanno una coscienza obnubilata dall’ignoranza religiosa e dai vizi, e per questo non avvertono più il loro peccato come volontaria infrazione delle norme morali, oppure non riescono ad applicare correttamente la regola morale (naturale ed evangelica) alla loro personale situazione. Ma se il Papa volesse  davvero assecondare con la nuova prassi del “caso per caso” l’insensibilità degli uomini del nostro tempo nei confronti del “piano d’amore di Dio”, allora avrebbero ragione coloro che hanno visto la sua Esortazione come una resa totale del Magistero all’opinione pubblica, alla secolarizzazione, alla teologia progressista che esalta il soggettivismo (quella che afferma che ogni soggetto è in buona fede, e la Chiesa deve confermarlo nella sua infondata presunzione di essere in grazia!). 






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Veritatis splendor e i rischi di un’etica della situazione

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veritatis_splendorIn un articolo pubblicato l’11 aprile su Catholic World Report, Eduardo Echeverria, professore di Filosofia e Teologia sistematica presso il Seminario Maggiore “Sacro cuore” di Detroit (USA), ha espresso opinioni critiche a proposito di alcune parti del capitolo 8 dell’esortazione apostolica Amoris laetitia. Si tratta di una serie di valutazioni fatte in confronto con l’enciclica Veritatis splendor di papa Giovanni Paolo II.

Con riferimento ai paragrafi dal 303 al 305 di Amoris laetitia, il professore si chiede: “Come può Dio chiedere di fare una certa cosa X, quando X è contrario alla sua volontà?” L’unico modo, scrive Echeverria, “è pensare che X in quella specifica circostanza non è contrario alla volontà di Dio, ma solo contrario alla volontà ideale di Dio”, per cui la persona può non essere ritenuta colpevole per non riuscire a compiere un certo atto.

Il riferimento è ovviamente alla spinosa questione dell’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati, infatti, vi sono passi in Amoris laetitia che lasciano chiaramente intendere come nell’ottica del discernimento vi possano essere situazioni in cui, pur essendovi uno stato oggettivo di peccato, potrebbe darsi una non-imputabilità soggettiva. E quindi si aprirebbe anche la via verso i sacramenti.

Secondo Echeverria tale situazione di ambiguità può condurre verso quella “gradualità della legge” che trova base in un’etica della situazione. In effetti, è vero che Amoris laetitia non ammette la “gradualità della legge”, mentre contempla una “legge della gradualità”, tuttavia resta il fatto che alcuni passi si prestano ad una certa ambiguità in merito.

«Sarebbe un errore gravissimo concludere,” si legge in Veritatis splendor n°103, “che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un “ideale” che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo: secondo un “bilanciamento dei vari beni in questione”.

“Ma quali sono le “concrete possibilità dell’uomo”? E di quale uomo si parla? Dell’uomo dominato dalla concupiscenza o dell’uomo redento da Cristo? Poiché è di questo che si tratta: della realtà della redenzione di Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l’intera verità del nostro essere; Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio della concupiscenza. E se l’uomo redento ancora pecca, ciò non è dovuto all’imperfezione dell’atto redentore di Cristo, ma alla volontà dell’uomo di sottrarsi alla grazia che sgorga da quell’atto. Il comandamento di Dio è certamente proporzionato alle capacità dell’uomo: ma alle capacità dell’uomo a cui è donato lo Spirito Santo; dell’uomo che, se caduto nel peccato, può sempre ottenere il perdono e godere della presenza dello Spirito»

E’ in questo contesto che, prosegue Veritatis splendor al n°104, “si apre il giusto spazio alla misericordia di Dio per il peccato dell’uomo che si converte e alla comprensione per l’umana debolezza. Questa comprensione non significa mai compromettere e falsificare la misura del bene e del male per adattarla alle circostanze. Mentre è umano che l’uomo, avendo peccato, riconosca la sua debolezza e chieda misericordia per la propria colpa, è invece inaccettabile l’atteggiamento di chi fa della propria debolezza il criterio della verità sul bene, in modo da potersi sentire giustificato da solo, anche senza bisogno di ricorrere a Dio e alla sua misericordia. Un simile atteggiamento corrompe la moralità dell’intera società, perché insegna a dubitare dell’oggettività della legge morale in generale e a rifiutare l’assolutezza dei divieti morali circa determinati atti umani, e finisce con il confondere tutti i giudizi di valore.”

Infine il prof. Echevarria cita il Catechismo della Chiesa Cattolica (n°89) per dire che “tra i dogmi e la nostra vita spirituale c’è un legame organico. I dogmi sono luci sul cammino della nostra fede, lo rischiarano e lo rendono sicuro. Inversamente, se la nostra vita è retta, la nostra intelligenza e il nostro cuore saranno aperti ad accogliere la luce dei dogmi della fede.” Papa Francesco, conclude il professore, “condivide senza dubbio questa convinzione, ma, nel capitolo 8 di Amoris laetitia, si ritrova coinvolto in un labirinto che avrebbe potuto essere evitato se si fosse seguito il percorso già tracciato dal suo illustre predecessore nella Veritatis Splendor.”



 

«Salutare autocritica»

 


Mi è stato sollecitato un intervento sull’esortazione apostolica Amoris laetitia. I lettori che mi seguono ab initio sanno che non mi piace molto commentare i documenti pontifici.
Scrissi in altra occasione: «Le sentenze non si discutono, si applicano». In questa circostanza, pertanto, anziché entrare nel merito dell’esortazione, preferirei soffermarmi principalmente su alcuni aspetti procedurali, anche se sarà inevitabile fare dei riferimenti ai contenuti.
 
Il documento ci invita a essere umili e realisti e a fare una “salutare autocritica” (n. 36): credo che tale atteggiamento non debba essere rivolto solo verso la Chiesa del passato e la sua prassi pastorale, ma, per essere autentico, debba estendersi a 360° e quindi anche alla Chiesa odierna. Vorrei pertanto fare alcune domande, non con spirito polemico, ma come semplice invito alla riflessione.
 
1. È corretto tornare su questioni che erano state già affrontate in tempi relativamente recenti (il precedente Sinodo sulla famiglia risale al 1980), senza che nel frattempo la situazione fosse radicalmente mutata? È vero che in questi trentacinque anni ci sono state non poche novità, che non erano state allora affrontate (p. es., la fecondazione assistita, la maternità surrogata, la teoria del gender, le unioni omosessuali, la stepchild adoption, ecc.); ma è altrettanto vero che tali tematiche non sono state al centro dei lavori degli ultimi Sinodi e sono toccate solo in parte e di sfuggita nell’esortazione apostolica.
L’attenzione sembrava rivolta esclusivamente su una questione che era stata già ampiamente dibattuta e definita: l’accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati civilmente. La questione era stata autorevolmente risolta nell’esortazione apostolica Familiaris consortio (n. 84); il suo insegnamento era stato poi ripreso dal Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1650) e ribadito dalla Lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 14 settembre 1994 e dalla Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi del 24 giugno 2000.
Mi rendo perfettamente conto che Amoris laetitia sfugge a questa logica dottrinale-giuridica, per porsi su un piano squisitamente pastorale; chiedo solo: è corretto rimettere in discussione un insegnamento ormai praticamente definitivo?
 
2. È corretta la procedura seguita per affrontare questo tema? Prima il Concistoro straordinario nel febbraio 2014; poi l’assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi nell’ottobre dello stesso anno; successivamente, l’emanazione dei due motu proprio sulle cause di nullità matrimoniale nell’agosto 2015; quindi l’assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi nell’ottobre immediatamente successivo; infine l’esortazione apostolica post-sinodale appena pubblicata. Finora non si era mai vista una simile procedura: non era sufficiente un’unica assemblea sinodale, debitamente preparata? Era proprio necessario questo “martellamento” durato due anni? A qual fine? Senza contare poi le anomalie registrate lungo il cammino: la segretezza della relazione al Concistoro e del dibattito sinodale; la relazione post disceptationem del Sinodo 2014, che non rifletteva i risultati del dibattito; la relazione finale del medesimo Sinodo, che riprendeva tematiche che non erano state approvate dai Padri; la lettera riservata dei tredici cardinali all’inizio del Sinodo 2015, denunciata pubblicamente come “cospirazione”; ecc.: sono cose normali?
 
3. È corretto insinuare determinate soluzioni pastorali, che non erano state accolte dai Padri sinodali (e pertanto non potevano essere riprese nel testo dell’esortazione), nelle note del documento? È corretto mettere in discussione in un documento del magistero l’insegnamento di un documento precedente con la seguente formula: «molti … rilevano» (nota 329)?  
“Molti” chi? “Rilevano” a che titolo? Inoltre, quale tipo di adesione richiede la nota 351, che ammette una possibilità in aperto contrasto con con l’insegnamento e la prassi ininterrotta della Chiesa, basandosi su argomenti che erano stati già presi in considerazione e giudicati insufficienti a giustificare una deroga a quell’insegnamento e a quella prassi (cf la Lettera della Congregazione della Dottrina della fede del 14 settembre 1994, in particolare il n. 5: «Tale prassi [di non ammettere i divorziati risposati all’Eucaristia], presentata [da Familiaris consortio] come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni»)?
 
4. Non ci si dovrebbe preoccupare, quando si pubblica un documento, di che cosa arriverà ai fedeli? In Evangelii gaudium si poneva, giustamente, il problema della comunicazione del messaggio evangelico (n. 41); in Amoris laetitia si ammonisce di «evitare il grave rischio di messaggi sbagliati» (n. 300). Il fatto che nei giorni successivi all’uscita dell’esortazione siano stati pubblicati commenti contrastanti fra loro non dovrebbe far riflettere? Non sarà che il linguaggio usato non fosse sufficientemente chiaro? È possibile che sullo stesso documento ci sia chi afferma che non cambia nulla e chi lo considera rivoluzionario? Se un’affermazione fosse chiara, non se ne dovrebbero poter dare contemporaneamente due interpretazioni opposte.
La confusione provocata non dovrebbe essere un campanello d’allarme?
In Amoris laetitia non si ignora il problema: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale piú rigida che non dia luogo ad alcuna confusione» (n. 308), ma poi, con Evangelii gaudium (n. 45), si risponde che è preferibile una Chiesa che «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada». Si è tentati addirittura di pensare che la confusione venga intenzionalmente ricercata, perché in essa agirebbe lo Spirito e in essa Dio va ricercato. Personalmente preferisco credere, con San Paolo, che «Dio non è un Dio di disordine, ma di pace» (1 Cor 14:33).
 
5. È possibile che, via via che passano gli anni, le esortazioni apostoliche post-sinodali diventino sempre piú prolisse? È possibile che non si riesca a sintetizzare in poche proposizioni i risultati delle discussioni dei Padri? La concisione, in genere, si sposa bene con l’efficacia e l’incisività: quando ci si dilunga oltre il necessario per trasmettere un determinato messaggio, il piú delle volte significa che le idee non erano molto chiare. Senza contare che, elaborando documenti eccessivamente lunghi, si rischia di scoraggiare anche i piú volenterosi a intraprenderne la lettura e li si costringe ad accontentarsi dei sunti, solitamente parziali e di parte, che ne fanno i mezzi di informazione.
 
6. È proprio necessario che i documenti pontifici si trasformino in trattati di psicologia, pedagogia, teologia morale, pastorale, spiritualità? È questo il compito del magistero della Chiesa? Prima si afferma che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (n. 3) poi, di fatto, ci si pronuncia su ogni aspetto e si rischia addirittura di cadere in quella “casuistica insopportabile”, che pure, a parole, si dice di deprecare (n. 304). Al magistero spetta il compito di interpretare la parola di Dio (Dei Verbum, n. 10; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 85), definire le verità della fede, custodire e interpretare la legge morale, non solo evangelica, ma anche naturale (Humanae vitae, n. 4). Il resto — la spiegazione, l’approfondimento, le applicazioni pratiche, ecc. — è sempre stato lasciato ai teologi, ai confessori, ai maestri di spirito, alla coscienza ben formata dei singoli fedeli. Un’esortazione apostolica, destinata a tutti i fedeli, non può, a mio parere, diventare un manuale per confessori.
 
7. È giusto insistere sull’astrattezza della dottrina (nn. 22; 36; 59; 201; 312), contrapponendola al discernimento e all’accompagnamento pastorale, quasi non ci fosse possibilità di convivenza fra le due realtà? Che la dottrina sia astratta, non mette conto di sottolinearlo: lo è per natura; come la prassi, di per sé, è pratica. Ma ciò non significa che nella vita umana non ci sia bisogno dell’una e dell’altra: la prassi deriva sempre da una teoria (basti pensare che in Amoris laetitia si ripete per ben due volte, ai nn. 3 e 261, un principio filosofico — e pertanto astratto — che era stato già enunciato in Evangelii gaudium ai nn. 222-225: «Il tempo è superiore allo spazio»). Ragion per cui è importante che la prassi, per essere buona (“ortoprassi”), sia ispirata da una dottrina vera (“ortodossia”); in caso contrario, una dottrina errata genererebbe inevitabilmente una prassi cattiva. Disprezzare la dottrina non giova a nulla, serve solo a privare la prassi del suo fondamento, della luce che dovrebbe guidarla. Non ci si accorge, inoltre, che il parlare della prassi non si identifica con la prassi stessa, ma costituisce solo una teoria della prassi? E la teoria della prassi è pur sempre una teoria, altrettanto astratta quanto la dottrina a cui si vuole contrapporre la prassi.
 
8. Descrivere la Chiesa del passato come una Chiesa esclusivamente interessata alla purezza della dottrina e indifferente ai problemi reali delle persone, non è forse una caricatura che non corrisponde in alcun modo alla realtà storica? Arrivare al punto di usare certe espressioni (n. 49: «Invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in “pietre morte da scagliare contro gli altri”»; n. 305: «Un pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa “per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite”») è non solo offensivo, ma falso e ingeneroso verso quanto la Chiesa ha fatto e continua a fare, pur fra mille contraddizioni e infedeltà, per la salvezza delle anime. Nella Chiesa il discernimento e l’accompagnamento pastorale (magari chiamati con nomi diversi e senza fare troppe teorizzazioni) ci sono sempre stati; solo che finora ciascuno faceva il suo mestiere: il magistero insegnava la dottrina, i teologi l’approfondivano, i confessori e i direttori spirituali l’applicavano ai singoli casi. Oggi invece sembrerebbe che nessuno riesca piú a distinguere la specificità del proprio ruolo.
 
9. Trasformare le esigenze della vita cristiana in “ideali” (nn. 34; 36; 38; 119; 157; 230; 292; 298; 303; 307; 308) non significa — davvero in questo caso — trasformare il cristianesimo in qualcosa di astratto, peggio, in una filosofia, se non addirittura in una ideologia? Non significa forse dimenticare che la parola di Dio è viva ed efficace (Eb 4:12), che la verità rivelata è una “verità che salva” (Dei Verbum, n. 7; Gaudium et spes, n. 28), che il vangelo «è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1:16), che «Dio non comanda l’impossibile; ma, quando comanda, ti ammonisce di fare quello che puoi e di chiedere quello che non puoi, e ti aiuta perché tu possa farlo» (Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, c. 11; cf Agostino, De natura et gratia, 43, 50)?
 
10. Siamo sicuri che la “conversione pastorale” (Evangelii gaudium, n. 25), che si richiede alla Chiesa odierna, sia un bene per essa?
Ho l’impressione che alla base di tale conversione ci sia un equivoco di fondo, già presente al momento dell’indizione del Concilio Vaticano II e giunto fino ai nostri giorni: pensare che non sia piú necessario che la Chiesa oggi si prenda cura della dottrina, essendo già essa sufficientemente chiara, conosciuta e accettata da tutti, e che ci si debba preoccupare solo della prassi pastorale. Ma siamo proprio sicuri che la dottrina sia oggi cosí chiara, che non necessiti di ulteriori approfondimenti e di essere difesa da interpretazioni erronee? Siamo proprio certi che tutti, oggi, conoscano la dottrina cristiana? Non basta rispondere a queste domande dicendo che c’è ilCatechismo della Chiesa cattolica: primo, perché non è scontato che tutti lo conoscano; secondo, perché, quand’anche fosse conosciuto, non è detto che sia da tutti condiviso. Se è vero che «la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione piú luminosa della verità di Dio» (Amoris laetitia, n. 311), è altrettanto vero che «non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo, è eminente forma di carità verso le anime» (Humanae vitae, n. 29; cf Familiaris consortio, n. 33;Reconciliatio et paenitentia, n. 34; Veritatis splendor, n. 95). E il servizio che il magistero deve offrire alla Chiesa è, innanzi tutto, il servizio della verità (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 890); proprio insegnando la verità che salva il magistero assume un atteggiamento pastorale e “misericordioso” verso le anime. Solo quando il magistero avrà adempiuto a questo suo compito primario, gli operatori pastorali potranno, a loro volta, formare le coscienze, fare opera di discernimento e accompagnare le anime nel loro cammino di vita cristiana. 
 


[Modificato da Caterina63 14/04/2016 10:36]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  Padre Michelet O.P. : «Amoris laetitia, coscienza e verità vanno insieme»
 
di Lorenzo Bertocchi13-04-2016


«Ci sono molte belle pagine, sopratutto bibliche», dice alla Nuova Bussola Quotidiana il teologo domenicano P. Thomas Michelet, docente incaricato all'Angelicum di Roma. «Ma forse - aggiunge un po' a sorpresa - la parte che preferisco è proprio il capitolo 8 sull'accompagnamento delle situazione cosiddette “irregolari”, nonostante le difficoltà interpretative o forse proprio a causa di esse».

In che senso mi scusi?
Beh, non solo per il gusto della difficoltà, ma perchè è nella prova che si verifica la realtà del nostro amore. Ed è qui che possiamo misurare veramente come la Chiesa è Madre, esigente perché ama.

In alcuni punti sembra che Amoris laetitia possa far aumentare il rischio dell'applicazione di una doppia morale, una riferita a criteri oggettivi e l'altra, invece, soggettiva. Nascono qui i problemi interpretativi?

In effetti penso che l'esortazione apostolica post-sinodale presenti il rischio di essere interpretata in differenti maniere erronee:
o in modo puramente “oggettivistico”, o in modo puramente “soggettivistico”, o in una integrazione solamente parziale dei due approcci che porterebbe ad una doppia morale. E' facile vedere che il Papa rifiuta entrambi gli estremi: il "desiderio sfrenato di cambiare tutto" senza fondamento oggettivo, e quello che “pretende di risolvere tutto applicando normative generali" a prescindere dalla prospettiva soggettiva (n 2). Tuttavia, è meno facile vedere che egli respinge anche la doppia morale. Ma questa teoria è stata condannata dalla enciclica Veritatis splendor (n. 56) e Amoris Laetitia mette in chiaro che la dottrina non è stata modificata (nn. 76, 308, etc.). Quindi, anche questo non è il modo di interpretare il testo; come qualsiasi documento magistrale deve essere letto alla luce della dottrina cattolica nel suo complesso.

Come articolare coscienza e verità in ambito morale?

I due estremi interpretativi di cui parlavamo poco fa, “oggettivista” e “soggetivista”, si ritrovano come due specie di uno stesso genere, quello della “legge morale". Nei due casi vogliamo giudicare in modo istantaneo e definitivo, sia per giustificare, sia per condannare. Nei due casi non si articola veramente la coscienza e la verità, ma si privilegia l'una a detrimento dell'altra e viceversa.

Può spiegare meglio cosa significa allora la “doppia morale”?

Nella cosiddetta “doppia morale” l'articolazione tra coscienza e verità è solo apparente. Si presenta la verità oggettiva espressa nella legge come un ideale senza dubbio molto bello, ma impossibile da raggiungere salvo per gli eroi e per i santi. Quindi si propone una morale della “sostituzione”, ritenuta essere più vicina alla realtà, che adatta le piene esigenze del Vangelo a quello che la gente può vivere in concreto. Questa morale a doppia velocità corrisponde a quella “gradualità della legge” che è espressamente scartata da Amoris laetitia(n°295).

Quindi, a suo parere, qual'è il modo per articolare la coscienza personale con la verità, l'ambito soggettivo con quello oggettivo?

L'unico modo per articolare coscienza e verità in modo autentico è di situarsi nel quadro della morale della virtù e della “legge della gradualità” sviluppata da Giovanni Paolo II e ripresa anche in Amoris laetitia (nn. 293-295). Noi non giudichiamo l'agire in modo statico, ma consideriamo il suo dinamismo nel tempo. La questione non è più quella di sapere soltanto se ci si trova o no in una situazione “regolare”, ma se si prende risolutamente un cammino.
La coscienza viene così ad essere integrata come il punto di partenza per l'accompagnamento, anche se non è il punto di arrivo. In effetti, essa deve essere anche chiarita e rettificata, in una maturazione alla luce della Parola di Dio (n. 303). In modo che la legge venga integrata come ciò che presenta la verità oggettiva delle esigenze del Vangelo. La legge deve essere l'orizzonte dell'agire che dobbiamo cercare di raggiungere effettivamente, anche se questo può necessitare di tempo e tappe di conversione. E' quello che Papa Francesco chiama i “piccoli passi” (n 271), che si trova già in Evangelii gaudium (n 3 e 44).

L'orizzonte è quello della “salvezza delle anime”, come ricorda anche l'esortazione Amoris laetitia?
In effetti, la beatitudine a cui siamo chiamati non è una felicità secondo il mondo e alla nostra portata, ma è la vita stessa di Dio, egli vuole condividerla con noi e ci dà i mezzi della grazia per raggiungerla. Se Dio è amore e Dio è luce, quindi il percorso per raggiungere la salvezza non può essere che l'amore e la verità.






 




1998: Il potere del Papa e il matrimonio dei battezzati

11 novembre 1998
Questo testo voluto da san Giovanni Paolo II, è apparso sull'Osservatore Romano dell'11 novembre 1998, è della Congregazione per la Dottrina della Fede essendo contrassegnato dal triplo asterisco come firma, indice (all'epoca) della massima autorità.



Il potere del Papa e il matrimonio dei battezzati


Seguendo fedelmente l'insegnamento evangelico ed apostolico (cfr Mt 5, 31; Mc 10, 11-12; Lc 16, 8; 1 Cor 7, 10-11), che ripristina e porta a perfezione l'originario disegno di Dio Creatore
(cfr Gn 1, 27; 2, 24; Mt 19, 3-9; Mc 10, 2-9), la Chiesa Cattolica ha sempre proclamato l'assoluta indissolubilità del sacramento del matrimonio. Essa ha riproposto lungo i secoli la stessa dottrina sia in diversi Concili Ecumenici (per esempio nei Concili di Firenze, di Trento e nel Vaticano II), sia attraverso il Magistero ordinario dei Romani Pontefici e dei Vescovi, sia infine per mezzo della sua costante e universale attività catechistica e missionaria.

L'introduzione del divorzio negli ordinamenti civili anche in paesi di lunga tradizione cristiana ha stimolato i Pastori e i fedeli a testimoniare con chiarezza e fermezza il valore dell'indissolubilità del matrimonio. Tuttavia si sono create tra i fedeli situazioni matrimoniali irregolari che sono state e sono ancora causa di profondo dolore.

Nell'intento di venire incontro a tali situazioni si sono sviluppate, già da alcuni anni, proposte teologiche che, pur nel rispetto dell'indissolubilità intrinseca del matrimonio, ipotizzano sulla base di svariate argomentazioni la possibilità, in certi casi, di estendere la potestà vicaria del Romano Pontefice allo scioglimento del matrimonio consumato tra battezzati ("matrimonio rato e consumato"). Vale a dire, pur mantenendo il principio che il vincolo matrimoniale non può essere sciolto dalla volontà dei coniugi ("indissolubilità intrinseca"), si è prospettata l'idea che il Successore di Pietro avrebbe il potere di sciogliere il matrimonio consumato tra battezzati, qualora ciò fosse richiesto da una causa grave riguardante il bene dei fedeli.

Secondo alcuni autori, le nuove circostanze pastorali renderebbero legittima l'estensione al matrimonio rato e consumato della potestà che il Romano Pontefice esercita in alcuni casi sul matrimonio consumato dei non battezzati (cfr CIC cann. 1143-1147 sul "privilegio paolino" e cann. 1148-1149 sul cosiddetto "privilegio petrino") e sul matrimonio non consumato dei battezzati (cfr CIC can. 1142).

Secondo altri studiosi, si tratterebbe dell'applicazione a nuove fattispecie di una potestà giuridica di scioglimento del matrimonio rato e consumato che, secondo loro, la Chiesa avrebbe da sempre messo in atto quando, per esempio, ammette a nuove nozze i vedovi e le vedove. Sull'esistenza di diritto o di fatto di quest'ultima potestà, è bene 
notarlo subito, non è stata addotta alcuna prova storica, biblica, teologica o canonistica e in realtà essa non è mai esistita né è stata mai esercitata; la complessità della materia e la sua notevole incidenza sulla vita dei fedeli richiedono tuttavia alcuni chiarimenti.

Come fu precisato da Pio XI, richiamandosi ad una multisecolare tradizione dottrinale, l'indissolubilità del matrimonio, "quantunque non competa a ciascun matrimonio con la stessa misura di perfezione, compete nondimeno a tutti i veri matrimoni", anche quando la ragione di sacramento possa andare disgiunta dal matrimonio, come accade tra i non battezzati.
Pio 
XI aggiunse che se l'indissolubilità "sembra patire qualche eccezione, sebbene rarissima, come in certi matrimoni naturali che siano contratti tra infedeli solamente, o, se tra fedeli, che siano bensì ratificati ma non ancora consumati, una siffatta eccezione non dipende da volontà di uomini né di qualsiasi potere meramente umano, ma dal diritto divino, di cui unica custode e interprete è la Chiesa di Cristo" (1).

Infatti, lo scioglimento del matrimonio tra non battezzati in favore della fede è esplicitamente e formalmente fondato sull'insegnamento di San Paolo (cfr 1 Cor 7, 12-16). I particolari problemi emersi durante la prima attività missionaria della Chiesa nel continente americano portarono i Romani Pontefici, "sul fondamento della Nostra sicura conoscenza e nella pienezza della potestà apostolica" (2) ad applicare, secondo alcune spiegazioni, l'insegnamento paolino sul "favor fidei" anche nella forma oggi tipificata dal CIC cann. 1148-1149 e, secondo altre, ad esercitare in modo nuovo la potestà vicaria sul matrimonio non sacramentale che la Chiesa già da molto tempo era conscia di possedere.

La stessa certezza e unanimità con cui la Chiesa ha applicato il "privilegio paolino" caratterizza la sua multisecolare convinzione di non avere potestà alcuna di sciogliere il matrimonio consumato tra battezzati ("matrimonio rato e consumato"). Quanto espresso oggi nel CIC can. 1141 - "Il matrimonio rato e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte" - non è soltanto un principio canonistico con il quale la Chiesa è stata sempre coerente lungo i secoli, anche di fronte a fortissime pressioni da parte dei potenti, ma rappresenta un principio dottrinale più volte ribadito dal Magistero della Chiesa.

Fra tanti esempi, può essere qui richiamato l'insegnamento di Pio XI, secondo il 
quale la potestà della Chiesa "non potrà mai essere esercitata per nessun motivo nei confronti del matrimonio cristiano rato e consumato. In questo infatti, come il vincolo coniugale ottiene la piena perfezione, così risplende per volontà di Dio la massima fermezza e indissolubilità, tale da non potersi sciogliere per nessuna autorità umana" (3).

Che nell'espressione "nessuna potestà umana" sia inclusa anche la potestà vicaria del Successore di Pietro risulta chiaro sia dal contesto sia dagli ancora più espliciti insegnamenti di altri Romani Pontefici, prima e dopo Pio XI. Così, per esempio, Pio IX scrisse ai Vescovi della provincia di Fagaras e Alba Iulia (Romania): "Questa fermezza perpetua ed indissolubile del legame matrimoniale non ha la sua origine nella disciplina ecclesiastica. Per il matrimonio consumato essa è fondata saldamente sul diritto divino e sul diritto naturale: un tale matrimonio, per nessun motivo, non può mai essere sciolto, neppure dal Sommo Pontefice in persona, e neppure nel caso che uno dei coniugi abbia violata la fedeltà coniugale con un adulterio" (4).

Dello stesso tenore fu l'insegnamento di Pio XII: "Il vincolo del matrimonio cristiano è così forte, che, se esso ha raggiunto la sua piena stabilità con l'uso dei diritti coniugali, nessuna potestà al mondo, nemmeno la Nostra, quella cioè del Vicario di Cristo, vale a rescinderlo" (5).

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che è stato riconosciuto da Giovanni Paolo II "come una norma sicura per l'insegnamento della fede" (6), si riassume la dottrina al riguardo con le seguenti parole: "Il vincolo matrimoniale è dunque stabilito da Dio stesso, così che il matrimonio concluso e consumato tra battezzati non può mai essere sciolto. Questo vincolo, che risulta dall'atto umano libero degli sposi e dalla consumazione del matrimonio, è una realtà ormai irrevocabile e dà origine ad un'alleanza garantita dalla fedeltà di Dio. Non è in potere della Chiesa pronunciarsi contro questa disposizione della sapienza divina (cfr CIC can. 1141)" (7).

L'intima ragione dell'assoluta indissolubilità del matrimonio cristiano, che si aggiunge all'indissolubilità naturale di ogni vero matrimonio, consiste nella "mistica significazione del matrimonio cristiano, che si verifica con piena perfezione nel matrimonio consumato tra fedeli. Il matrimonio dei cristiani, infatti, secondo la testimonianza dell'Apostolo ... , rappresenta quell'unione perfettissima che sussiste fra Cristo e la Chiesa: "Questo sacramento è grande; io però parlo riguardo a Cristo e alla Chiesa" (Ef 5, 32); la quale unione per nessuna separazione non potrà mai sciogliersi, finché vivrà Cristo e la Chiesa per Lui" (8).

La delicatezza e complessità della morale e del diritto matrimoniale, nonché l'emergere di sempre nuove situazioni legate all'attività missionaria e all'evoluzione del costume, ha provocato una lunga e attenta riflessione della Chiesa sull'estensione della potestà vicaria del Romano Pontefice.

Le distinzioni tra matrimonio legittimo e matrimonio rato, tra matrimonio rato e matrimonio consumato, e la relativamente più recente distinzione tra indissolubilità intrinseca ed indissolubilità estrinseca sono frutto di tale riflessione. La Chiesa è giunta alla certezza, e lo ha ripetutamente affermato, che la propria potestà ha il suo limite invalicabile nel matrimonio rato e consumato, il quale è pertanto intrinsecamente ed estrinsecamente indissolubile.

Non è questa la sede per affrontare la questione specialistica della qualifica teologica di tale affermazione. In ogni caso si può dire con certezza che non si tratta soltanto di 
una prassi disciplinare o di un semplice dato di fatto storico. Si è invece di fronte ad un insegnamento dottrinale della Chiesa, fondato sulla Sacra Scrittura e più volte riproposto esplicitamente e formalmente dal Magistero, da considerare quindi almeno come appartenente alla dottrina cattolica e come tale esso deve essere accolto, e con fermezza ritenuto.

C'è da notare infine che la vera causa dei disagi che oggi affliggono i fedeli in situazioni matrimoniali irregolari è la diffusione delle leggi civili divorziste e della cultura da cui esse traggono origine e che esse stesse contribuiscono a consolidare, rendendo sempre più difficile la realizzazione delle condizioni necessarie per una buona riuscita della vita coniugale. La Chiesa deve venire incontro ai fedeli che versano in tali difficoltà, ma per fedeltà alla Parola di Dio e per amore delle persone interessate non può fare proprie quelle proposte, pur ben intenzionate, che, invocando impropriamente la potestà vicaria del Romano Pontefice, non farebbero altro che aggirare l'indissolubilità intrinseca che il matrimonio cristiano possiede per diritto divino.  

Certamente "si tratta di riparare queste rovine, di sanare queste piaghe, di curare questi mali. Il cuore della Chiesa sanguina alla vista di indicibili angosce di tanti suoi figli, per venire loro in aiuto non risparmia alcuno sforzo, e spinge fino all'estremo limite la sua condiscendenza. Questo limite estremo trovasi solennemente formulato nel can. 1118 [del CIC/1917 che corrisponde al can. 1141 del CIC/1983]: "Matrimonium validum ratum et consummatum nulla humana potestate nullaque de causa, praeterquam morte, dissolvi potest" (9).

Il limite così posto nel disegno divino anche alla potestà del Sommo Pontefice è di fatto espressione della grandezza del mistero del matrimonio.
Esso partecipa della definitività dell'amore di Dio per il suo popolo; e chi potrà separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù?


* * *

NOTE
1) Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): DS 3711-3712.
2) Pio V, Cost. Romani Pontificis (2 agosto 1571): DS 1983.
3) Lett enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): DS 3712.
4) Lett. Verbis exprimere (15 agosto 1859): Insegnamenti Pontifici, vol. I, Edizioni Paoline, Roma 1957, n. 103.
5) Allocuzione agli sposi novelli (22 aprile 1942): Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. IV, Editrice Vaticana, p. 47.
6) Cost. Ap. Fidei depositum (11 ottobre 1992): AAS 86 (1994) 117.
7) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1640.
8) Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): DS 3712.
9) Pio XII, Allocuzione ai Prelati della Rota Romana (6 ottobre 1946): AAS 38 (1946) 396.



 

[Modificato da Caterina63 14/04/2016 14:19]
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15/04/2016 17:54
 
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  In rapido aumento il numero degli scrittori cattolici che criticano l'Esortazione papale



 

LifeSiteNews, fa un rapido ma significativo excursus su recenti articoli sull'Esortazione post-sinodale, che rivelano il fenomeno di un crescendo delle critiche, seguito da un piccolo florilegio di commenti dei principali scrittori e giornalisti cattolici. Lo abbiamo tradotto per aver sentore di cosa passa nell'Orbe cattolico anglofono.




Il numero di critiche sulla esortazione apostolica del papa da parte rispettati scrittori e giornalisti cattolici è in crescendo. Un elenco di molti di quelli maggiormente di spicco è riportato di seguito.

 

Ciò che colpisce il lettore su molti di questi articoli è la cautela e la carità con cui molti degli scrittori rendono pubbliche le loro critiche. Non sono le reazioni impulsive di agitatori anti-papali o di fondamentalisti dalla linea dura. In molti casi, gli autori sono manifestamente angosciati di non poter dire nulla sulle critiche nei confronti del loro amato Santo Padre.

 

Molti se ne escono evidenziando i diversi elementi positivi del documento. Ma alla fine, non possono ignorare ciò che vedono come gravi incrinature nell'Esortazione, in particolare l'esplosivo capitolo 8.


Ciò che è maggiormente interessante è che molti di questi articoli appaiono sui siti web di edizioni - o sono redatti da scrittori - che in passato hanno trovato vie d'uscita nel loro modo di interpretare nella luce più favorevole le frequenti ambiguità del papa.

Infatti, è netta la sensazione che l'esortazione del papa può segnare un cambiamento epocale nel mondo del giornalismo cattolico. Negli ultimi tre anni gli scrittori più cattolici si sono dati gran pena per spiegare e interpretare Papa Francesco nella chiara luce dell'insegnamento della Chiesa tradizionale. Si riscontra anche un'ansia crescente sul significato sottinteso della sovrabbondanza di "ciò che ha veramente detto il Papa" in articoli che inondano le nostre news feed di Facebook o le caselle di posta elettronica dopo ogni proclamazione papale sconcertante.
 
Ma da questo momento le domanda che molti giornalisti cattolici si pongono è: perché dobbiamo continuare a fare questo? Perché ci si richiede un lavoro così duro semplicemente per capire cosa il Papa sta dicendo e come potrebbe essere interpretato in conformità con l'insegnamento stabilito? In riferimento alla stessa esortazione: perché abbiamo nemmeno il bisogno di impegnarci in tale esegesi solo nello sforzo di capire le singole note, per non parlare del testo completo ed anche perché così tanti pensatori intelligenti arrivano ad interpretazioni divergenti di punti chiave? Sarebbe stato così difficile essere un po' più chiaro, come lo erano i papi precedenti?
 
Papa Francesco risponde a questa domanda - in un certo senso - verso la fine di quel controverso capitolo 8. "Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada»".

In altre parole: la confusione che si sta vivendo è una caratteristica costante, non un difetto occasionale. L'interrogativo che molti scrittori cattolici si pongono è: a che scopo? E cosa, esattamente, cosa significa per la Chiesa "sporcarsi con il fango della strada"? Mi annovero tra coloro che sono perplessi.

Ecco alcuni dei migliori articoli che emergono in giro al riguardo:

Bella, in movimento, divisiva - Robert Royal - The Catholic Thing

"Per tutti i suoi richiami al contrario in queste numerose pagine, Francesco sembra più interessato a portare conforto alle persone piuttosto che la piena conversione a ciò che Cristo ha insegnato chiaramente sul matrimonio. Newman aveva visto anche questo: "Coloro che fanno del conforto il soggetto principale della loro predicazione sembrano confondere il fine del loro ministero. La santità è lo scopo ultimo. Qui ci deve essere una lotta e una prova. La consolazione è un cordiale, ma nessuno beve cordiali dalla mattina alla sera".


Messaggio confuso del Papa che mina il suo programma pastorale  - Phil Lawler -Catholic Culture

"Amoris Laetitia non è un documento rivoluzionario. E' sovversivo ...

. "Purtroppo, il caveat nei riguardi del cardinale Schönborn, come di gran parte dello specifico messaggio del Papa, si dissolverà nella discussione su Amoris Laetitia. Inevitabilmente, come viene ricevuto dai fedeli cattolici, il messaggio del Papa sarà compreso solo in forma semplificata: come semaforo verde per i divorziati / risposati a ricevere la Comunione. I sacerdoti che sono già fin troppo disposti ad accogliere i desideri dei divorziati risposati cattolici saranno confermati nei loro atteggiamenti. Coloro che vogliono e chiedono di più - ai pastori più responsabili con maggior probabilità disposti ad aiutare i cristiani a crescere in santità - saranno isolati e indeboliti".

In Amoris Laetitia, chi amonisce chi?  - P. James Schall - Catholic World Report

"Sarebbe difficile conoscere come definire questa sezione, se non un esercizio di sofisticata casistica. Ogni sforzo è fatto per giustificare o comprendere come uno che si trova in una situazione del genere non è realmente responsabile. C'è l'ignoranza, o la passione, o confusione. siamo ammoniti di non giudicare nessuno. E di accogliere chiunque e fare ogni sforzo per farlo sentire a casa, in Chiesa e come vicino. L'attenzione è rivolta alle vittime passive che hanno subito l'ingiustizia del divorzio, e soprattutto ai bambini. Ma l'interesse primario è nella misericordia e nella compassione. Dio perdona già tutto e quindi anche noi dovremmo farlo. La precisione intellettuale che il Santo Padre utilizza per giustificare o attenuare il senso di colpa è motivo di qualche riflessione. La legge non può cambiare, ma la "gradualità" che conduce alla comprensione di questo fallimento nell'osservare la legge richiede tempo e pazienza.
Ma quando sommiamo il tutto, spesso sembra che l'effetto di questo approccio è che ci porta a concludere che nessun "peccato" si è mai verificato. Tutto ha una causa scusante. Se questa conclusione è corretta, abbiamo davvero bisogno di misericordia, che non ha alcun significato a parte che per il peccato attuale e il suo riconoscimento gratuito. Con questo approccio ci si allontana dalla pentimento per i peccati, ma si è sollevati nel rendersi conto che tutti non hanno mai veramente peccato.
Pertanto, in queste situazioni, non vi è alcun cogente bisogno di preoccuparsi ".

Un garantismo ostinato - RR Reno - First Things

"Quando si tratta di dare una risposta pastorale a chi è ferito, danneggiato, e deformato dalla rivoluzione sessuale, temo che Francesco rappresenti una mentalità spiritualizzata tecnologica. In questa Esortazione apostolica, di fronte alle limitazioni teologiche alla sua visione di evangelizzazione misericordiosamente ispirata , egli usa la logica iper-soggettiva della modernità. Questo non andrà a buon fine, perché ci induce a pensare che si debba padroneggiare la nostra eredità cristiana e riprogettarla in forme più missionarie".

Ambivalenza: una riflessione sulla Amoris Laetitia - P. George Rutler - Crisis Magazine 

"Molto, forse troppo, è già stato detto su questa esortazione apostolica, spesso rivelando molto dei commentatori come dei loro commenti. E' vero che in essa ci sono parti eloquenti, ma per la maggior parte si tratta di citazioni di Dio e di San Paolo. la Parola ha un modo con le parole, e la carità dell'Apostolo gli ha dato la lingua di un angelo. Al contrario, ci sono un sacco di gong clanging e cembali si scontrano nelle contraddizioni e licenziamenti di gran parte della dizione del esortazione. le parti, come l'affermazione della Humanae vitae depositano il testo nella tradizione sacra, ma c'è anche il trattamento confusa di colpevolezza morale che quasi annuisce all'interpretazione nevralgico della teoria "opzione fondamentale" rifiutato da san Giovanni Paolo II (Veritatis splendor, nn.65, 67) Questo era stato affrontato in precedenza da una dichiarazione formale della Santa Sede: disposizione morale di una persona "può essere radicalmente modificata da atti particolari, specialmente se questi sono preparati - come spesso accade - da atti anteriori più superficiali. In ogni caso, non è vero che uno solo di questi atti particolari non possa esser sufficiente perché si commetta peccato mortale".(Persona humana, 29 dicembre, 1975, n° 10)."

L'Esortazione polivalente di Francesco - Carl Olson - Catholic World Report

"Per qualche motivo, Francesco sembra pensare che gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una rigidità dogmatica tanto spietata quanto ossessionata dai piccoli dettagli della legge, causando innumerevoli innocenti, o quasi innocenti cattolici a fuggire una Chiesa che essi percepiscono come fredda e senza cuore. Questo punto di vista è, per dirla bene, discutibile e problematico. L'impressione spesso data, purtroppo, è che qualsiasi enfasi su criteri oggettivi morali in materia di azioni e relazioni sia destinata a degenerare rapidamente in una dura e non caritatevole condanna.
E non aiuta il fatto che Francesco apparentemente giochi un po' a tira e molla con alcuni dei suoi argomenti e con le fonti".

Capitolo 8 di Amoris Laetitia e Giovanni Paolo II  - Eduardo Echeverria - Catholic World Report

"Ci sono tre problemi significativi con il capitolo intitolato "Accompagnare, discernere e integrare la fragilità", soprattutto alla luce di " Veritatis splendor ".

Sempre paura, sempre amore  - Matthew Schmitz - First Things

"Qualcosa di strano sta succedendo qui. L' Aquinate fa dire che, 'ogni essere umano è destinato a vivere piacevolmente con le persone intorno a lui' Ma Francesco ha lasciato fuori la seconda metà della frase: 'a meno che non sia necessario per lui per qualche motivo causare loro ad un certo momento tristezza proficua....' Nella premura di Francesco non sembra essere spazio per la tristezza proficua nota a Tommaso d'Aquino, che edifica per mezzo di rimproveri necessari e dure verità.
La mezza citazione dell'Aquinate caratterizza lo stile di Francesco nell'Amoris Laetitia. Metà della tradizione cristiana viene semplicemente lasciata fuori, e così si perdono la modalità basilare e le tensioni essenziali. L'amore di Dio è presente, ma il timore di Dio, la terribile consapevolezza che siamo responsabili per le nostre anime, non lo è. Questa omissione è voluta".

I primi pensieri sulla versione inglese di Papa Francesco Amoris laetitia . - Ed Peters

"In AL 297, Francesco scrive:" Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo". Al contrario, è proprio per la logica del Vangelo che si può essere condannati per sempre. CCC 1034-1035. Se si intende, per esempio, che nessuno può essere 'condannato per sempre' da parte dell'autorità terrena, se lo dice va bene. Ma, naturalmente, negare la santa comunione a coloro che vivono in "adulterio pubblico e permanente" non è una "condanna" a tutti, così che il punto non è chiaro".
[...]
[Traduzione a cura di Chiesa e post concilio]





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25/04/2016 17:24
 
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  Mons. Athanasius Schneider. Il paradosso delle interpretazioni contraddittorie di «Amoris laetitia»


 



 

È l'importante e attesa riflessione di S.E. Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Maria Santissima di Astana, in Kazakhstan, riguardo l'esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco, «Amoris Laetitia». Testo inviato da Corrispondenza Romana. 

 

«Amoris Laetitia»:
chiarire per evitare una confusione generale

 
L'Esortazione Apostolica «Amoris Laetitia» (AL) pubblicata di recente, che contiene una grande ricchezza spirituale e pastorale per la vita nel matrimonio e nella famiglia cristiana della nostra epoca, purtroppo ha già in poco tempo provocato interpretazioni contraddittorie perfino nell'ambiente dell'episcopato.

Vi sono vescovi e preti che avevano pubblicamente e apertamente dichiarato che AL avrebbe fornito un'apertura evidente alla Comunione per i divorziati-risposati senza chiedere loro di vivere in continenza. In quest'aspetto della pratica sacramentale, che secondo loro sarebbe ora significativamente cambiato, consisterebbe il carattere veramente rivoluzionario dell'AL. Interpretando AL in riferimento alle coppie irregolari, un Presidente di una Conferenza episcopale ha dichiarato in un testo pubblicato sul sito web della stessa Conferenza: «Si tratta di una misura di misericordia, di un'apertura di cuore, ragione e spirito per la quale non è necessaria alcuna legge, né bisogna attendersi alcuna direttiva o delle indicazioni. Si può e si deve metterla in pratica immediatamente».>

Tale avviso è confermato ulteriormente dalle recenti dichiarazioni del padre Antonio Spadaro S.J., che dopo il Sinodo dei Vescovi del 2015 aveva scritto che il sinodo aveva posto i «fondamenti» per l'accesso dei divorziati-risposati alla Comunione, «aprendo una porta», ancora chiusa nel sinodo precedente del 2014. Ora, dice il Padre Spadaro nel suo commento ad AL, la sua predizione è stata confermata. Si dice che lo stesso padre Spadaro abbia fatto parte del gruppo redazionale di AL.

La strada per le interpretazioni abusive sembra esser stata indicata dallo stesso Cardinale Christoph Schönborn il quale, durante la presentazione ufficiale di AL a Roma, aveva detto a proposito delle unioni irregolari: «La grande gioia che mi procura questo documento risiede nel fatto che esso supera in modo coerente la divisione artificiosa, esteriore e netta fra “regolari” ed “irregolari”«. Una tale affermazione suggerisce l’idea che non vi sia una chiara differenza fra un matrimonio valido e sacramentale ed un'unione irregolare, fra peccato veniale e mortale.

Dall'altra parte, vi sono vescovi che affermano che AL debba essere letta alla luce del Magistero perenne della Chiesa e che AL non autorizza la Comunione ai divorziati-risposati, neanche in caso eccezionale. In principio, tale affermazione è corretta ed auspicabile. In effetti, ogni testo del Magistero dovrebbe in regola generale, essere coerente nel suo contenuto con il Magistero precedente, senza alcuna rottura.

Tuttavia, non è un segreto che in diversi luoghi le persone divorziate e risposate sono ammesse alla Santa Comunione, senza che esse vivano in continenza. Alcune affermazioni di AL possono essere realisticamente utilizzate per legittimare un abuso già praticato per un certo tempo in vari luoghi della vita della Chiesa.

Alcune affermazioni di AL sono oggettivamente passibili di cattiva interpretazione
Il Santo Padre papa Francesco ci ha invitati tutti a offrire il proprio contributo alla riflessione e al dialogo sulle delicate questioni concernenti il matrimonio e la famiglia. «La riflessione dei pastori e dei teologi, se fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza» (AL, 2).

Analizzando con onestà intellettuale alcune affermazioni di AL, viste nel loro contesto, si constata una difficoltà di interpretarla secondo la dottrina tradizionale della Chiesa. Questo fatto si spiega con l'assenza dell'affermazione concreta ed esplicita della dottrina e della pratica costante della Chiesa, basata sulla Parola di Dio e reiterata dal papa Giovanni Paolo II che dice:
«La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio. La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, «assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris Consortio, 84).
Il papa Francesco non aveva stabilito «una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi» (AL, n. 300). Però nella nota 336, dichiara: «Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave». Riferendosi evidentemente ai divorziati risposati il papa afferma in AL, al n. 305: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa.» Nella nota 351 il papa chiarisce la propria affermazione dicendo che «in certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti».

Nello stesso capitolo VIII di AL, al n. 298, il Papa parla dei «divorziati che vivono una nuova unione, … con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui «l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione». Nella nota 329 il Papa cita il documento Gaudium et Spes in un modo purtroppo non corretto, perché il Concilio si riferisce in questo caso solo al matrimonio cristiano valido. L'applicazione di quest'affermazione ai divorziati può provocare l'impressione che il matrimonio valido venga assimilato, non in teoria, ma in pratica, ad una unione di divorziati.

L'ammissione dei divorziati-risposati alla Santa Comunione e le sue conseguenze
AL è purtroppo priva delle citazioni verbali dei principi della dottrina morale della Chiesa nella forma in cui sono stati enunciati al n. 84 dell'Esortazione Apostolica Familiaris Consortio e nell'Enciclica Veritatis Splendor del Papa Giovanni Paolo II, in particolare sui seguenti temi d'importanza capitale: «l'opzione fondamentale» (Veritatis Splendor nn.67-68), «peccato mortale e peccato veniale» (ibid., n.69-70), «proporzionalismo, consequenzialismo» (ibid. n.75), «il martirio e le norme morali universali ed immutabili» (ibid., nn.91ss). Una citazione verbale diFamiliaris consorzio n.84 e di talune affermazioni più salienti di Veritatis splendor renderebbero peraltro AL inattaccabile da parte di interpretazioni eterodosse. Delle allusioni generiche ai principi morali e alla dottrina della Chiesa sono certamente insufficienti in una materia controversa che è di delicata e di capitale importanza.

Alcuni rappresentanti del clero e anche dell'episcopato affermano già che secondo lo spirito del capitolo VIII di AL non è escluso che in casi eccezionali i divorziati-risposati possano essere ammessi alla Santa Comunione senza che venga loro richiesto di vivere in perfetta continenza.

Ammettendo una simile interpretazione della lettera e dello spirito di AL, bisognerebbe accettare, con onestà intellettuale e in base al principio di non-contraddizione, le seguenti conclusioni logiche:

Il sesto comandamento divino che proibisce ogni atto sessuale al di fuori del matrimonio valido, non sarebbe più universalmente valido se venissero ammesse delle eccezioni. Nel nostro caso: i divorziati potrebbero praticare l'atto sessuale e vi sono anche incoraggiati al fine di conservare la reciproca "fedeltà", cfr. AL, 298. Potrebbe dunque darsi una «fedeltà», in uno stile di vita direttamente contrario alla volontà espressa di Dio. Tuttavia, incoraggiare e legittimare atti che sono in sé e sempre contrari alla volontà di Dio, contraddirebbe la Rivelazione Divina.

La parola divina di Cristo: «Che l'uomo non separi quello che Dio ha unito» (Mt 19, 6) non sarebbe quindi più valida sempre e per tutti i coniugi senza eccezione.

Sarebbe possibile in un caso particolare ricevere il sacramento della Penitenza e la Santa Comunione con l'intento di continuare a violare direttamente i comandamenti divini: «Non commetterai adulterio» (Esodo 20, 14) e «Che l'uomo non separi quello che Dio ha unito» (Mt 19, 6; Gen 2, 24).

L'osservanza di questi comandamenti e della Parola di Dio avverrebbe in questi casi solo in teoria e non nella pratica, inducendo quindi i divorziati-risposati "ad ingannare se stessi" (Giacomo 1, 22). Si potrebbe dunque avere perfettamente la fede nel carattere divino del sesto comandamento e dell'indissolubilità del matrimonio senza però le opere corrispondenti.

La Parola Divina di Cristo: «Colui che ripudia la moglie e ne sposa un'altra, commette un adulterio nei suoi confronti; e se una donna lascia il marito e ne sposa un altro, commette un adulterio» (Mc10, 12) non avrebbe dunque più validità universale ma ammetterebbe eccezioni.

La violazione permanente, cosciente e libera del sesto comandamento di Dio e della sacralità e dell'indissolubilità del proprio matrimonio valido (nel caso dei divorziati risposati) non sarebbe dunque più un peccato grave, ovvero un'opposizione diretta alla volontà di Dio.

Possono esservi casi di violazione grave, permanente, cosciente e libera degli altri comandamenti di Dio (per esempio nel caso di uno stile di vita di corruzione finanziaria), nei quali potrebbe essere accordato a una determinata persona, a causa di circostanze attenuanti, l'accesso si sacramenti senza esigere una sincera risoluzione di evitare in avvenire gli atti di peccato e di scandalo.

Il perenne ed infallibile insegnamento della Chiesa non sarebbe più universalmente valido, in particolare l'insegnamento confermato da papa Giovanni Paolo II in Familiaris Consortio, n.84, e da papa Benedetto XVI in Sacramentum caritatis, n,29, secondo il quale la condizione dei divorziati per ricevere i sacramenti sarebbe la continenza perfetta.

L'osservanza del sesto comandamento di Dio e dell'indissolubilità del matrimonio sarebbe un ideale non realizzabile da parte di tutti, ma in qualche modo solo per un'élite.

Le parole intransigenti di Cristo che intimano agli uomini di osservare i comandamenti di Dio sempre e in tutte le circostanze, anche accettando a questo fine delle sofferenze considerevoli, ovvero accettando la Croce, non sarebbero più valide nella loro verità: «Se la tua mano destra ti è causa di peccato, mozzala e gettala via da te, perché è meglio per te che un tuo membro perisca, piuttosto che tutto il tuo corpo sia gettato nella Geenna» (Mt 5, 30).

Ammettere le coppie in «unione irregolare» alla santa Comunione, permettendo loro di praticare gli atti riservati ai coniugi del matrimonio valido, equivarrebbe all'usurpazione di un potere, che però non compete ad alcuna autorità umana, perché si tratterebbe qui di una pretesa di correggere la stessa Parola di Dio.

Pericoli di una collaborazione della Chiesa nella diffusione della "piaga del divorzio"
Professando la dottrina di sempre di Nostro Signore Gesù Cristo, la Chiesa ci insegna:
"Fedele al Signore, la Chiesa non può riconoscere come Matrimonio l'unione dei divorziati risposati civilmente. "Colui che ripudia la moglie per sposarne un'altra commette adulterio contro di lei. Se una donna ripudia il marito per sposarne un altro, commette adulterio" (Mc, 10, 11-12). Nei loro confronti, la Chiesa attua un'attenta sollecitudine, invitandoli ad una vita di fede, alla preghiera, alle opere di carità e all'educazione cristiana dei figli. Ma essi non possono ricevere l'assoluzione sacramentale, né accedere alla Comunione eucaristica, né esercitare certe responsabilità ecclesiali, finché perdura la loro situazione, che oggettivamente contrasta con legge di Dio” (Compendio di Catechismo della Chiesa Cattolica, 349).
Vivere in un'unione maritale non valida contraddicendo costantemente il comandamento di Dio e la sacralità e indissolubilità del matrimonio, non significa vivere nella verità. Dichiarare che la pratica deliberata, libera ed abituale degli atti sessuali in un'unione maritale non valida potrebbe in un caso concreto non essere più un peccato grave, non è la verità, ma una menzogna grave, e dunque non porterà mai una gioia autentica nell'amore. Permettere dunque a queste persone di ricevere la Santa Comunione significa simulazione, ipocrisia e menzogna. Resta valida infatti la Parola di Dio nella Sacra Scrittura: "Chi dice: «Io l'ho conosciuto», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui." (1 Gv, 2, 4).

Il Magistero della Chiesa ci insegna la validità universale dei dieci comandamenti di Dio: "Poiché essi enunciano i doveri fondamentali dell'uomo verso Dio e verso il prossimo, i dieci comandamenti rivelano, nel loro contenuto primordiale, delle obbligazioni gravi. Essi sono fondamentalmente immutabili e il loro obbligo vale sempre e ovunque. Nessuno può dispensare da essi." (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2072). Coloro che hanno affermato che i comandamenti di Dio ed il particolare il comandamento "Non commetterai adulterio" possono avere delle eccezioni, ed in taluni casi la non imputabilità della colpa del divorzio, erano i Farisei e poi gli Gnostici cristiani nel secondo e terzo secolo.

Le seguenti affermazioni del Magistero restano sempre valide perché fanno parte del Magistero infallibile nella forma del Magistero universale e ordinario:
"I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, … ci sono comportamenti che non possono mai essere, in alcuna situazione, la risposta adeguata … La Chiesa ha sempre insegnato che non si devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti morali, espressi in forma negativa nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l'inderogabilità di queste proibizioni: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti...: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso» (Mt 19,17-18)" (Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor, 52).
Il Magistero della Chiesa ci insegna ancor più chiaramente: "La coscienza buona e pura è illuminata dalla fede sincera. Infatti la carità sgorga, ad un tempo, "da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera" (1Tm 1,5 ): [Cf 1Tm 3,9; 2 Tm 1,3; 1794 1 Pt 3,21; At 24,16] (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1794).

Nel caso in cui una persona commetta atti morali oggettivamente gravi in piena coscienza, sana di mente, con libera decisione, con l'intento di ripetere quest'atto in futuro, è impossibile applicare il principio della non-imputabilità della colpa a causa delle circostanze attenuanti. L'applicazione del principio della non-imputabilità a queste coppie di divorziati-risposati rappresenterebbe una ipocrisia ed un sofisma gnostico. Se la Chiesa ammettesse queste persone, anche in un solo caso, alla Santa Comunione, essa contraddirebbe a ciò che professa nella dottrina, offrendo essa stessa una contro-testimonianza pubblica contro l'indissolubilità del matrimonio e contribuendo così alla crescita della "piaga del divorzio" (Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, 47).

Al fine di evitare una tale intollerabile e scandalosa contraddizione, la Chiesa, interpretando infallibilmente la verità Divina della legge morale e dell'indissolubilità del matrimonio, ha osservato immutabilmente per duemila anni la pratica di ammettere alla Santa Comunione solo quei divorziati che vivono in perfetta continenza e "remoto scandalo", senza alcuna eccezione o privilegio particolare.
Il primo compito pastorale che il Signore ha affidato alla sua Chiesa è l'insegnamento, la dottrina (vedi Mt 28, 20). L'osservanza dei comandamenti di Dio è intrinsecamente connessa alla dottrina. Per questa ragione la Chiesa ha sempre respinto la contraddizione fra la dottrina e la vita, qualificando una simile contraddizione come gnostica o come la teoria luterana eretica del "simul iustus et peccator". Tra la fede e la vita dei figli della Chiesa non dovrebbe esserci contraddizione.

Quando si tratta dell'osservanza del comandamento espresso di Dio e dell'indissolubilità del matrimonio, non si può parlare di interpretazioni teologiche opposte. Se Dio ha detto: "Non commetterai adulterio", nessuna autorità umana potrebbe dire: "in qualche caso eccezionale o per un fine buono tu puoi commettere adulterio".

Le seguenti affermazioni del papa Francesco sono molto importanti, laddove il Sommo Pontefice parla a proposito dell'integrazione dei divorziati risposati nella vita della Chiesa: "questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. … Vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, … Si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale” (AL, 300). Queste affermazioni lodevoli di AL restano tuttavia senza specificazioni concrete riguardo alla questione dell'obbligo dei divorziati risposati di separarsi o almeno di vivere in perfetta continenza.

Quando si tratta della vita o della morte del corpo, nessun medico lascerebbe le cose nell'ambiguità. Il medico non può dire al paziente: "Dovete decidere l'applicazione della medicina secondo coscienza e rispettando le leggi della medicina". Un comportamento simile da parte di un medico verrebbe senza dubbio considerato irresponsabile. E tuttavia la vita dell'anima immortale è più importante, poiché dalla salute dell'anima dipende il suo destino per tutta l'eternità.

La verità liberatrice della penitenza e del mistero della Croce.
Affermare che i divorziati risposati non sono pubblici peccatori significa simulare il falso. Inoltre, essere peccatori è la vera condizione di tutti i membri della Chiesa militante sulla terra. Se i divorziati-risposati dicono che i loro atti volontari e deliberati contro il sesto comandamento di Dio non sono affatto peccati o peccati gravi, essi s'ingannano e la verità non è in loro, come dice San Giovanni: "Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto, ci perdonerà i nostri peccati e ci purificherà da ogni iniquità. Se diciamo "Non abbiamo peccato", facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi" (1 Gv 1, 8-10).

L'accettazione da parte dei divorziati-risposati della verità che essi sono peccatori ed anche pubblici peccatori non toglie nulla alla loro speranza cristiana. Soltanto l'accettazione della realtà e della verità li rende capaci di intraprendere il cammino di una penitenza fruttuosa secondo le parole di Gesù Cristo.

Sarebbe molto salutare ripristinare lo spirito dei primi cristiani e del tempo dei Padri della Chiesa, quando esisteva una viva solidarietà dei fedeli con i peccatori pubblici, e tuttavia una solidarietà secondo la verità. Una solidarietà che non aveva nulla di discriminatorio; al contrario, vi era la partecipazione di tutta la Chiesa nel cammino penitenziale dei peccatori pubblici per mezzo delle preghiere d'intercessione, delle lacrime, degli atti di espiazione e di carità in loro favore.
L'Esortazione apostolica Familiaris Consortio insegna:
" Anche coloro che si sono allontanati dal comandamento del Signore e continuano a vivere in questa condizione (divorziati-risposati) potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità" (n. 84).
Durante i primi secoli i peccatori pubblici erano integrati nella comunità orante dei fedeli e dovevano implorare in ginocchio e con le braccia alzate l'intercessione dei loro fratelli. Tertulliano ce ne dà una testimonianza toccante: "Il corpo non può rallegrarsi quando uno dei suoi membri soffre. È necessario che tutto intero esso si dolga e lavori alla sua guarigione. Quando tendi le mani alle ginocchia dei tuoi fratelli, è Cristo che tocchi, è Cristo che implori. Parimenti, quando loro versano lacrime per te, è Cristo che compatisce" (De paenitentia, 10, 5-6). Nello stesso modo parla Sant'Ambrogio di Milano: "La Chiesa intera ha preso su di sé il fardello del peccatore pubblico, soffrendo con lui per mezzo di lacrime, preghiere e dolori" (De paenitentia, 1, 81).

È vero che le forme della disciplina penitenziale della Chiesa sono cambiate, ma lo spirito di questa disciplina deve restare nella Chiesa di tutti i tempi. Oggi, alcuni preti e vescovi, basandosi su alcune affermazioni di AL, cominciano a far intendere ai divorziati-risposati che la loro condizione non equivaleva allo stato oggettivo di peccatore pubblico. Essi li tranquillizzano dichiarando che i loro atti sessuali non costituiscono un peccato grave. Un simile atteggiamento non corrisponde alla verità. Essi privano i divorziati-risposati della possibilità di una conversione radicale all'obbedienza alla volontà di Dio, lasciando queste anime nell'inganno. Un tale atteggiamento pastorale è molto facile, a buon mercato, non costa niente. Non costa lacrime, preghiere ed opere di intercessione e di espiazione fraterna in favore dei divorziati-risposati.

Ammettendo, anche solo in casi eccezionali, i divorziati-risposati alla Santa Comunione senza chieder loro di cessare di praticare gli atti contrari al sesto comandamento di Dio, dichiarando inoltre presuntuosamente che i loro atti non sono peccato grave, si sceglie la strada facile, si evita lo scandalo della croce. Una simile pastorale dei divorziati-risposati è una pastorale effimera e ingannatrice. A tutti coloro che propagandano un simile facile cammino a buon mercato ai divorziati-risposati Gesù rivolge ancora oggi queste parole: " Vattene via da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini! Allora Gesù disse ai suoi discepoli: "Se qualcuno vuol seguirmi, che rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt16, 23-25).

Riguardo alla pastorale dei divorziati-risposati, oggi bisogna ravvivare anche lo spirito di seguire Cristo nella verità della Croce e della penitenza, che solo porta una gioia permanente, evitando le gioie effimere che sono in fin dei conti ingannatrici. Le seguenti parole del papa San Gregorio Magno si rivelano veramente attuali e luminose:
"Non dobbiamo abituarci troppo al nostro esilio terreste, le comodità di questa vita non devono farci dimenticare la nostra vera patria così che il nostro spirito non divenga sonnolento in mezzo alle comodità. Per questo motivo, Dio unisce ai suoi doni le sue visite o punizioni, affinché tutto ciò che c'incanta in questo mondo, divenga per noi amaro e si accenda nell'anima quel fuoco che ci spinge sempre di nuovo verso il desiderio delle cose celesti e ci fa progredire. Quel fuoco ci ferisce in modo piacevole, ci crocifigge dolcemente e ci rattrista gioiosamente" (In Hez, 2, 4, 3).
Lo spirito dell'autentica disciplina penitenziale della Chiesa dei primi secoli è perdurato nella Chiesa di tutti i tempi fino ad oggi. Abbiamo l'esempio commovente della Beata Laura del Carmen Vicuna, nata in Cile nel 1981. Suor Azocar, che aveva curato Laura, ha raccontato: "Mi ricordo che quando spiegai la prima volta il sacramento del matrimonio, Laura svenne, di certo avendo compreso dalle mie parole che sua madre era in stato di peccato mortale finché fosse rimasta con quel signore. A quell'epoca, a Junin, una sola famiglia viveva in conformità alla volontà di Dio." Da allora, Laura moltiplica preghiere e penitenze per la sua mamma. Il 2 giugno 1901 fa la sua prima comunione, con grande fervore; scrive le seguenti risoluzioni: "1. Voglio, o mio Gesù, amarti e servirti per tutta la vita; per questo ti offro tutta la mia anima, il mio cuore, tutto il mio essere. - 2. Preferisco morire piuttosto che offenderti col peccato; perciò voglio allontanarmi da tutto quello che potrebbe separarmi da te. - 3. Prometto di fare tutto il possibile affinché tu sia sempre più conosciuto e amato, e al fine di riparare le offese che ogni giorno ti infliggono gli uomini che non ti amano, specialmente quelle che ricevi da coloro che mi sono vicini. -Oh mio Dio, concedimi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio!" Ma la sua grande gioia è oscurata nel vedere che sua madre, presente alla cerimonia, non fa la comunione. Nel 1902, Laura offre la propria vita per sua madre che convive con un uomo in una unione irregolare in Argentina. Laura moltiplica le preghiere e le privazioni per ottenere la vera conversione della madre. Poche ore prima di morire la chiama vicino a sé. Capendo di essere al momento supremo, esclama: " Mamma, sto per morire. L'ho chiesto io a Gesù e gli ho offerto la mia vita per la grazia del tuo ritorno. Mamma, avrò la gioia di vedere il tuo pentimento prima di morire?" Sconvolta, la madre promette: "Domani mattina andrò in chiesa e mi confesserò". Laura cerca allora lo sguardo del prete e gli dice: "Padre, mia madre in questo momento promette di abbandonare quell'uomo; siate testimone di questa promessa!" E poi aggiunge: "Ora muoio contenta!". Con queste parole spira, il 22 gennaio 1904, a Junin delle Ande (Argentina), a 13 anni, nelle braccia della madre che ritrova allora la fede ponendo fine all'unione irregolare nella quale viveva.

L'esempio ammirevole della vita della giovane Beata Laura è una dimostrazione di quanto un vero cattolico consideri seriamente il sesto comandamento di Dio e la sacralità e indissolubilità del matrimonio. Nostro Signore Gesù Cristo ci raccomanda di evitare persino l'apparenza di un'approvazione di una unione irregolare o di un adulterio. Quel comando divino la Chiesa l'ha sempre fedelmente conservato e trasmesso senza ambiguità nella dottrina e nella pratica. Offrendo la sua giovane vita la Beata Laura non si era certo rappresentata una delle diverse interpretazioni dottrinali o pastorali possibili. Non si dà la propria vita per una possibile interpretazione dottrinale o pastorale, ma per una verità divina immutabile e universalmente valida. Una verità dimostrata con l'offerta della vita da parte di un gran numero di Santi, da san Giovanni Battista fino ai semplici fedeli dei giorni nostri il cui nome solo Dio conosce.

Necessità di una "veritatis laetitia"
Amoris laetitia contiene di sicuro e per fortuna delle affermazioni teologiche e indicazioni spirituali e pastorali di grande valore. Tuttavia, è realisticamente insufficiente affermare che AL andrebbe interpretata secondo la dottrina e la pratica tradizionale della Chiesa. Quando in un documento ecclesiastico, che nel caso nostro è sprovvisto di carattere definitivo e infallibile, si rinvengono elementi di interpretazioni ed applicazioni che potrebbero avere conseguenze spirituali pericolose, tutti i membri della Chiesa, e in primo luogo i vescovi, quali collaboratori fraterni del Sovrano Pontefice nella collegialità effettiva, hanno il dovere di segnalare rispettosamente questo fatto e di chiedere un'interpretazione autentica.

Quando si tratta della fede divina, dei comandamenti divini e della sacralità e indissolubilità del matrimonio, tutti i membri della Chiesa, dai semplici fedeli fino ai più alti rappresentanti del Magistero devono fare uno sforzo comune per conservare intatto il tesoro della fede e la sua applicazione pratica. Il Concilio Vaticano II ha in effetti ha insegnato: "La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando « dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici » (S. Agostino, De Praed. Sanct, 14, 27) mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella vita” (Lumen gentium, 12). Il Magistero, per parte sua, "non è al di sopra della Parola di Dio, ma è al suo servizio, poiché insegna solo ciò che è stato trasmesso (Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 10).

Fu proprio il Concilio Vaticano II a incoraggiare tutti i fedeli e soprattutto i vescovi a manifestare senza timore le loro preoccupazioni ed osservazioni in vista del bene di tutta la Chiesa. Il servilismo ed il politicamente corretto causano un male pernicioso alla vita della Chiesa. Il famoso vescovo e teologo del Concilio di Trento, Melchior Cano, O.P., pronunciò questa frase memorabile:
"Pietro non ha bisogno delle nostre menzogne e adulazioni. Coloro che ad occhi chiusi ed in modo indiscriminato difendono ogni decisione del Sommo Pontefice, sono quelli che maggiormente compromettono l'autorità della Santa Sede. Essi ne distruggono le fondamenta invece di consolidarle".
Nostro Signore ci ha insegnato senza ambiguità spiegando in cosa consistano il vero amore e la vera gioia dell'amore: "Colui che ha i miei comandamenti e li osserva è colui che mi ama" (Gv 14, 21). Dando agli uomini il sesto comandamento e l'osservanza dell'indissolubilità del matrimonio, Dio li ha dati a tutti senza eccezione e non solo ad un'élite. Già nell'Antico Testamento Dio ha dichiarato: Questo comandamento che ti prescrivo oggi di sicuro non è al di sopra delle tue forze, né fuori della tua portata" (Deuteronomio 30, 11) e "Se vuoi, osserverai i comandamenti; l'essere fedele dipenderà dal tuo buon volere." (Siracide, 15, 15). E Gesù disse a tutti: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti. Quali? E Gesù rispose: Non ucciderai; non commetterai adulterio" (Mt 19, 17-18). L'insegnamento degli Apostoli ci ha trasmesso la stessa dottrina: "Poiché l'amore di Dio consiste nell'osservare i suoi comandamenti. E i suoi comandamenti non sono gravosi" (1 Gv 5, 3).

Non vi è una vita vera, soprannaturale ed eterna, senza l'osservanza dei comandamenti di Dio: "Ti prescrivo di osservare i suoi comandamenti. Ho posto davanti a te la vita e la morte. Scegli la vita!" (Deuteronomio 30, 16-19). Non vi è dunque una vera vita e una vera gioia d'amore autentica senza la verità. "L'amore consiste nel vivere secondo i suoi comandamenti" (2 Gv 6). La gioia d'amore consiste nella gioia della verità. La vita autenticamente cristiana consiste nella vita e nella gioia della verità: "Per me non c’è gioia maggiore di quella che provo nel sapere che i miei figli vivono ubbidendo alla verità." (3 Gv 4).

Sant'Agostino ci spiega l'intimo legame fra la gioia e la verità: "Chiedo a tutti loro se non preferiscono la gioia della verità a quella della menzogna. Ed essi non esitano qui più che per la risposta alla domanda sulla felicità. Perché la vita felice consiste nella gioia della verità, noi tutti vogliamo la gioia della verità" (Confessioni, X, 23).

Il pericolo di una confusione generale per quanto riguarda l'indissolubilità del matrimonio
Ormai da tempo, nella vita della Chiesa, si constata in alcuni luoghi, un tacito abuso nell’ammissione dei divorziati-risposati alla Santa Comunione, senza chiedere loro di vivere in perfetta continenza. Le affermazioni poco chiare nel capitolo VIII della AL hanno dato nuovo dinamismo ai propagatori dichiarati della ammissione, in singoli casi, dei divorziati-risposati alla Santa Comunione.

Possiamo ora constatare che l'abuso ha iniziato a diffondersi maggiormente nella pratica sentendosi in qualche modo legittimato. Inoltre vi è confusione per quanto riguarda l'interpretazione principalmente delle affermazioni riportate nel capitolo VIII della AL. La confusione raggiunge il suo apice poiché tutti, sia i sostenitori della ammissione dei divorziati-risposati alla Comunione sia i loro oppositori, sostengono che « La dottrina della Chiesa in questa materia non è stata modificata ».

Tenendo debitamente conto delle differenze storiche e dottrinali, la nostra situazione mostra alcune somiglianze e analogie con la situazione di confusione generale della crisi ariana del 4° secolo. All’epoca, la fede apostolica tradizionale nella vera divinità del Figlio di Dio fu garantita mediante il termine "consustanziale" ("homoousios"), dogmaticamente proclamata dal Magistero universale del Concilio di Nicea I. La crisi profonda della fede, con una confusione quasi universale, fu causata principalmente dal rifiutare o dall’evitare di utilizzare e professare la parola "consustanziale" ("homoousios"). Invece di utilizzare questa espressione, si diffuse tra il clero e soprattutto tra l'episcopato l’utilizzo di formule alternative che alla fine erano ambigue e imprecise come ad esempio "simile nella sostanza" ("homoiousios") o semplicemente "simile" ("homoios"). La formula "homoousios" del Magistero universale di quel tempo esprimeva la divinità piena e vera del VERBO in modo così chiaro da non lasciare spazio ad interpretazioni equivoche.

Negli anni 357-360 quasi l'intero episcopato era diventato ariano o semi-ariano a causa dei seguenti avvenimenti: nel 357 papa Liberio firmò una delle formule ambigue di Sirmio, nella quale era stato eliminato il termine "homoousios". Inoltre, il Papa scomunicò, in maniera scandalosa, sant’Atanasio. Sant’Ilario di Poitiers fu l’unico vescovo ad aver mosso gravi rimproveri a Papa Liberio per tali atti ambigui. Nel 359 i sinodi paralleli dell'episcopato occidentale a Rimini e di quello orientale a Seuleukia avevano accettato delle espressioni completamente ariane peggiori ancora della formula ambigua firmata da Papa Liberio. Descrivendo la situazione di confusione dell’epoca, san Girolamo si espresse così: « “il mondo gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano. » («Ingemuit totus orbis, et arianum se esse miratus est » : Adv. Lucif., 19).

Si può affermare che la nostra epoca è caratterizzata da una gran confusione riguardo alla disciplina sacramentale per i divorziati-risposati. Ed esiste un pericolo reale che questa confusione si espanda su vasta scala, se evitiamo di proporre e proclamare la formula del Magistero universale e infallibile: « La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, (…) assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi" (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 84). Questa formula è purtroppo incomprensibilmente assente da AL. L’AL contiene invece, in maniera altrettanto inspiegabile, la seguente dichiarazione: « In queste situazioni (di divorziati risposati), molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (AL, 298, n. 329). Tale affermazione lascia pensare ad una contraddizione con l'insegnamento perenne del Magistero universale, come è stato formulato nel testo citato della Familiaris Consortio, 84.

Si rende urgente che la Santa Sede confermi e proclami nuovamente, eventualmente sotto forma di interpretazione autentica di AL, la citata formula della Familiaris Consortio, 84. Questa formula potrebbe essere considerata, sotto certi aspetti, come l’"homoousios" dei nostri giorni. La mancanza di conferma in maniera ufficiale ed esplicita della formula di Familiaris Consortio 84 da parte della Sede Apostolica potrebbe contribuire ad una confusione sempre maggiore nella disciplina sacramentale con ripercussioni graduali e inevitabili in campo dottrinale. In questo modo si verrebbe a creare una tale situazione alla quale si potrebbe in futuro applicare la seguente constatazione: « Tutto il mondo gemette e si accorse con stupore di aver accettato il divorzio nella prassi.» («Ingemuit totus orbis, et divortium in praxi se accepisse miratus est »).

Una confusione nella disciplina sacramentale nei confronti dei divorziati-risposati, con le conseguenti implicazioni dottrinali, contraddirebbe la natura della Chiesa cattolica, così come è stata descritta da sant’Ireneo nel secondo secolo:
« La Chiesa, avendo ricevuto questa predicazione e questa fede, benché dispersa nel mondo intero la conserva con cura come abitando una sola casa; e allo stesso modo crede in queste verità, come se avesse una sola anima e un solo cuore; e le proclama, insegna trasmette, con una voce unanime, come se avesse una sola bocca» (Adversus haereses, I, 10, 2).
La Sede di Pietro, cioè il Sovrano Pontefice, è il garante dell'unità della fede e della disciplina sacramentale apostolica. Considerando la confusione venutasi a creare tra di sacerdoti e vescovi nella pratica sacramentale per quanto riguarda i divorziati risposati e l'interpretazione di AL, si può considerare legittimo un appello al nostro caro papa Francesco, il Vicario di Cristo e « il dolce Cristo in terra » (Santa Caterina da Siena), affinché ordini la pubblicazione di una interpretazione autentica di AL, che dovrebbe necessariamente contenere una dichiarazione esplicita del principio disciplinare del Magistero universale e infallibile riguardo l’ammissione ai sacramenti dei divorziati-risposati, così come è formulato nel n. 84 della Familiaris consortio.

Nella grande confusione ariana del IV secolo, san Basilio il Grande fece un appello urgente al papa di Roma affinché indicasse con la sua parola una chiara direzione per ottenere finalmente l'unità di pensiero nella fede e nella carità (cf. Ep. 70).

Una interpretazione autentica di AL da parte della Sede Apostolica porterebbe una gioia nella chiarezza (« claritatis laetitia ») per tutta la Chiesa. Tale chiarezza garantirebbe un amore nella gioia (« amoris laetitia »), un amore e una gioia che non sarebbero secondo la mente degli uomini, ma secondo la mente di Dio (cf. Mt 16, 23). Ed è questo ciò che conta per la gioia, la vita e la salvezza eterna di divorziati-risposati e di tutti gli uomini.
 
+ Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Maria Santissima in Astana, Kazakhstan



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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26/04/2016 21:49
 
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di Don Giorgio Ghio

zzzzultmfllIncredibile, ma vero. Intere conferenze episcopali (non ultima, quella italiana con il suo organo di stampa) acclamano alla svolta del Magistero pontificio, per non parlare di parroci, predicatori e confessori. È difficile sostenere che il testo non abbia valore magisteriale dal punto di vista formale; se davvero non lo ha, il motivo è più sostanziale. 

In ogni caso, l’universale, entusiastico peana non coinvolge soltanto i soliti esponenti del pensiero “laico” (leggi: ateo) dominante e gli onnipresenti vip dalla vita scandalosa che sono ormai modello imprescindibile per i giovani e le famiglie. Sono gli stessi Pastori che, gettando l’ultima maschera, si abbandonano all’ebbrezza di veder finalmente sdoganato ciò, evidentemente, pensavano e facevano già. Sebbene l’esortazione apostolica Amoris laetitia non lo affermi mai esplicitamente, tutti hanno unanimemente riconosciuto che l’accesso ai Sacramenti è d’ora in poi aperto indistintamente a tutti, compresi i pubblici concubini, gli adulteri permanenti e quanti coltivano altre forme di unione (senza specificare quali).

Non che manchino affermazioni formalmente erronee. Ma queste ultime compaiono solamente al culmine di una sfiancante marcia forzata lunga più di duecento pagine (è forse il documento papale più esteso della storia), quando si è ormai inebetiti dai miasmi di un’aura decadente che narcotizza chiunque sia sprovvisto di una solida struttura intellettuale. Come è stato efficacemente osservato, il veleno non è somministrato subito in dose letale, ma spennellato sulle pagine in modo da uccidere insensibilmente il lettore, come nel celebre romanzo compilato da uno dei più noti esponenti, passato di recente davanti al giudizio divino, dell’odierno, sgangherato “pensiero debole” (ovvero la più radicale e aggressiva forma di nichilismo che la storia della cultura abbia mai conosciuto). Tale raffinata tecnica si accoppia con quella rozza – tipica della geovista Torre di guardia – di citare autori della tradizione cattolica estrapolandone delle frasi dal contesto in modo da far loro dire l’opposto o, comunque, da piegarli alla propria tesi, del tutto estranea.

Un tipico esempio, rintracciabile nella nota 329, è quando si cita la Gaudium et spes(§ 51) per scoraggiare, con implicita condanna, la pratica della castità tra conviventi illegittimi, laddove il documento conciliare si riferisce alla regolare vita matrimoniale; il nostro testo contraddice così in modo diretto il magistero di Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio (§ 84). 

Altri casi eclatanti sono quelli in cui è citato san Tommaso d’Aquino quando tratta di tutt’altra questione (cf. Amoris laetitia, 301.304): il particolare cui si riferisce il Dottore Angelico non designa certo una situazione immorale, ma una possibilità che rientra pur sempre nell’ambito del moralmente lecito; il caso dell’assenza o debolezza di una singola virtù, analogamente, per non essere incompatibile con la presenza e la crescita della carità deve limitarsi a una carenza che, non arrivando fino al peccato in materia grave (il quale priva della vita teologale), non intacca lo stato di grazia.

Ma queste finezze dottrinali, peraltro familiari a chiunque abbia fatto un buon catechismo, paiono inaccessibili al documento in questione, che getta a mare, con estrema disinvoltura, due millenni di insegnamento morale. È così che esso può giungere ad affermare l’inaudito: «Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” [cosiddetta? lo è o non lo è?]vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (Amoris laetitia, 301). Di conseguenza, come si insinua nella nota 336, possono essere ammessi alla ricezione dei Sacramenti, nonché a tutte quelle forme di partecipazione ecclesiale dalle quali sono stati finora – in modo del tutto illegittimo e ingiusto, come bisogna dedurne – esclusi e banditi. 

Il fatto è che, in realtà, la condizione di quelle persone è oggettivamente una violazione grave dell’ordine stabilito da Dio sul piano sia naturale che soprannaturale; essa è quindi sempre, nonostante qualsiasi altra considerazione, intrinsecamente cattiva, con buona pace dell’arcivescovo di Vienna, i cui marchiani errori non sono scusabili dall’ignoranza. Quanto all’imputabilità morale degli atti umani, essa può essere attenuata solo per le singole azioni, non per una situazione stabile in cui uno si è posto in modo pienamente cosciente e deliberato e dalla quale non vuol recedere.

I peccati gravi di concubinato e di adulterio permanente sono invece derubricati a fragilità e imperfezioni. In un componimento scolastico si userebbe il rosso per correggere un uso quanto meno improprio delle parole. Ma qui, in questo profluvio di misericordia che oscura quella di Cristo stesso, i vocaboli cambiano significato nel quadro di una visione completamente inedita: il matrimonio cristiano, come è stato vissuto finora, è diventato un ideale da raggiungere, mentre le situazioni irregolari si trasformano in realizzazioni parziali e perfettibili di un bene non ancora pienamente attuato. La cosiddetta legge della gradualità, ammissibile unicamente in ciò che è moralmente lecito, diviene così un passe-partout con cui si pretende di rintracciare elementi positivi in condizioni di vita gravemente contrarie ai Comandamenti divini.

Il capovolgimento è ormai completo: mentre la virtù risulta qualcosa di nocivo, il vizio è pienamente riabilitato. La misericordia di Dio, in questa luce, è correlativamente presentata come atteggiamento del tutto unilaterale che non richiede da parte dell’uomo alcuna corrispondenza mediante la propria conversione e correzione. Ma è impossibile accedere al bene e alla grazia senza prima (come si fa nelle promesse battesimali) rinnegare il male e il peccato. O almeno, a quanto pare, lo era fino ad oggi: un nuovo verbo ha posto fine al vecchio mondo dei farisei e ne ha inaugurato uno in cui il peccato mortale non è più un male assoluto, ma può essere addirittura «la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (Amoris laetitia, 303). Semplicemente blasfemo.

Come si è potuti arrivare a simili, evidenti aberrazioni nella Chiesa Cattolica? La risposta è nota: mediante quello snaturamento della teologia che va sotto il nome di svolta antropologica. 

Come è stato di recente dimostrato in un convegno promosso da una benemerita congregazione, ora non a caso liquidata dai commissari pontifici, l’indiscusso autore di tale “rivoluzione copernicana”, Karl Rahner, ha stravolto il metodo teologico fondandolo su premesse filosofiche incompatibili: Kant con la sua illuministica religione nei limiti della sola ragione e i suoiimperativi categorici radicati nella coscienza individuale anziché nell’ordine oggettivo dell’Essere; Hegel con la sua visione gnostica di uno “spirito” immanente che si svilupperebbe in un inarrestabile progresso attraverso il superamento delle antitesi in una superiore composizione dei contrari; Heidegger con la sua falsa concezione storicistica di un uomo dalla natura evolutiva. 

Una volta rimosso l’impianto realistico proprio della tradizione cattolica e lasciato libero campo a queste filosofie erronee, è teoreticamente arduo confutare le “colonizzazioni ideologiche” del gender. L’America Latina è peraltro già colonizzata da decenni di pseudo-teologia tedesca, che di propriamente teologico non ha più nulla per il semplice fatto che non riconosce più il valore normativo della Rivelazione.

Il punto d’arrivo di questa sorprendente parabola è che un documento pontificio destinato a guidare le scelte di Pastori e fedeli nel delicatissimo campo della morale sessuale e matrimoniale può oggi presentare l’intrinsece malum come possibilità non solo lecita, ma buona e raccomandabile, posta la pretesa valenza positiva, se non sacra, dell’erotismo e del commercio carnale sganciato dalla procreazione (lasciando intendere a piacimento, oltretutto, se omofilo o eterofilo). 

In una società satura di impudicizia e pornografia, in cui l’impurità, la libidine e la perversione sono già esaltate a tutti i livelli e vengono ormai imposte agli individui fin dalla più tenera età senza che i genitori possano efficacemente opporvisi, quest’ultimo intervento bergogliano sfonda una porta aperta. Di realmente nuovo c’è solo l’imprimatur all’ideologia dominante: d’ora in poi si potrà fare tutto con tanto di benedizione papale e andare in pari tempo disinvoltamente a ricevere l’Eucaristia. È come se il peccato (e con esso la natura decaduta, la concupiscenza, la legge divina, la grazia… Dio stesso) non ci fosse più: etsi peccatum, natura lapsa, concupiscentia, divina lex, gratia… Deus non daretur. Come risultato è sicuramente un grande successo per un liquidatore fallimentare.

fonte: Confederazione Civiltà Cristiana   



 

Cammmino di fede con giovani sposi e coppie
Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! (Ef. 5,1-33)


“Fratelli, fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi.
Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie­ ,come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli sia­no soggette ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi com­parire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o al­cunché di simile, ma santa e immacolata.
Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatt­i ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, co­me fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola.
Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito”.

Che cosa dice il testo ? (LECTIO)

San Paolo sta proponendo un codice domestico (Ef 5,21-6,9), perché il discepolo di Gesù viva anche in famiglia la propria totale adesione al Signore.
Ebbene, dopo l'enunciazione del principio ge­nerale di una vicendevole sottomissione
(v. 21), vi è l'i­struzione alle mogli, basata su due tipi di motivazioni: una considerazione di carattere naturale (v. 23a: «il mari­to è il capo della moglie») e una con riferimento a Cristo (vv. 23b-24: il rapporto vicendevole nella coppia ha come modello quello tra Cristo e la Chiesa!).
Anche se il linguaggio sembra suonare maschilista, bi­sogna dire che, nonostante l'apparenza, la vita cristiana stessa, e non solo quella matrimoniale, è fatta di sotto­missione reciproca («Siate sottomessi gli uni agli altri»: v. 21).
Il centro del brano è però la motivazione cristologica di questa catechesi sulla vita coniugale. L'istruzione ai mariti, infatti, sviluppa ulteriormente la motivazione cri­stologica precedente e propone alcune linee di una teo­logia cristiana del matrimonio (vv. 25-33): la relazione generatrice di salvezza che c’è tra Cristo e la Chiesa e che si attua nell'amore e nel dono di sé costituisce il modello delle relazioni sponsali dei cristiani. È così consentito al lettore di sco­prire le radici del riferimento a Cristo del matrimonio. Appaiono decisivi in particolare due passaggi (vv. 25 e 31s.).

«Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha ama­to la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (v. 25). È da notare il verbo greco usato per “amare”: nel Nuovo Testamento esso indica l'amore gratuito e disinteressato di Dio, in Cristo, verso l'umanità e dell'uomo verso il suo prossimo. È un amore che cerca il bene dell'altro anche quando è impegnativo, difficile; trasposto nell'ambito coniugale si applica a tutte le ma­nifestazioni della vita in comune e deve essere costante nel tempo, così come è fedele e irrevocabile l'amore con cui Cristo ha amato la sua Chiesa.
«Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (vv. 31s.). Qui si fa un percorso inverso e si procede `dal basso', dalla relazione sponsale della coppia, per applicarla al rapporto Cristo-Chiesa e non più vice­versa. Questo evidenzia la qualità simbolica dell'amore nuziale, la sua capacità di annunziare realmente, nel con­creto del vissuto familiare, il trascendente amore di Cri­sto. La citazione di Gen 2,24 è oggetto di un'interpretazio­ne originale: in Cristo si compie la verità della creazione, del progetto divino sul rapporto uomo-donna. Avviene così che il mistero del rapporto sponsale arrive ad essere simbolo del rapporto di Cristo con la Chiesa, il quale a sua volta riverbera una nuova luce sulla relazione coniugale.

Ringraziamo sul testo (MEDITATIO)

Ha ragione san Paolo, in questa inimitabile catechesi sui rapporti coniugali: egli pare sbilanciarsi soltanto nella ri­chiesta di sottomissione alle mogli, mentre ai mariti vie­ne chiesto soltanto (!) di amare la moglie come il proprio corpo; ma questa è una lettura superficiale. Infatti, non solo non ci è lecito astrarre una frase dal suo contesto (v. 21: «Siate sottomessi gli uni gli altri), ma a ben vedere l’“essere soggetta” da parte della moglie e l'amare la propria moglie come il proprio corpo da parte del marito non sono che due facce della sotto­missione reciproca. Un marito che ami gratuitamente e disinteressatamente, cioè senza pretese di diritti acquisi­ti, è una novità assoluta nel contesto sociale di quel tempo, certamente molto di più di una moglie sot­tomessa!
Ma tutto questo ancora su un piano umano: la novità sconvolgente, come detto sopra, è che questo piano in­carna l'annuncio dell'amore fedele reciproco tra Cristo e la Chiesa! L'amore sponsale di due coniugi battezzati mo­stra l'incredibile apertura sul mistero d'amore tra Cristo e la Chiesa. E nel medesimo tempo esso, l'amore sponsale, scopre la propria radice ultima: la sottomissione recipro­ca come la grazia che viene da Cristo Gesù che fa «santa e immacolata» la sua sposa. Se l'autore della Lettera agli Efesini si fosse prefisso di esaltare il rapporto coniugale, non avrebbe potuto fare di più: oltre non si può andare; siamo infatti alle soglie del mistero. Tanto noi coniugi dobbiamo all'incarnazione!

Preghiamo (ORATIO)

O Signore, che ci hai dato l'un l'altro perché il mondo veda e ti dia lode, aiuta, ti preghiamo, quello di noi che oggi vede il prossimo passo da fare per la nostra coppia verso di te, affinché ami l'altro quanto ama il cammino verso di te, che intravede oltre le contingenze mondane; e aiuta l'altro a sottomettersi, non tanto al coniuge, quanto alla verità di cui il primo è portatore.
Ma aiutaci soprattutto quando domani,nella storia della nostra coppia, capiterà che quello che si è sottomesso veda chiaro le tracce di te e sia giunto per il primo il momento di imparare la sottomissione.
A vicenda guide, a vicenda sottomessi, perché il mondo creda.

Cosa ha detto la parola (CONTEMPLATIO)

“«Questo mistero è grande», dice Paolo; «io intendo rispetto a Cristo e alla Chiesa»
(Ef 5,32). Si compie un grande mistero. In che modo è un mistero? Convengono insieme e di due fanno uno solo. Vengono per diventare un solo corpo. Se i due non divenissero uno, non riprodurrebbero molti finché rimanessero due; ma quando giungono all'unità, allora ne riproducono.
Che cosa impariamo di qui? Che è grande la forza dell'unione. L’abilità perfetta di Dio divise all'origine uno in due, e, volendo che anche dopo la divisione rimane uno, non ha permesso che uno solo bastasse alla generazione. Infatti non è ancora uno, ma la metà ed è evidente che non può generare figli, come anche prima. Hai visto il mistero del matrimonio? Da uno ne fece uno e di nuovo, resi questi due uno, in questo modo ne fa uno: cosicché anche ora l’uomo nasce da uno. Infatti la donna e l'uomo non sono due esseri, ma uno solo” (san Giovanni Crisostomo).

Mettere in pratica la parola (ACTIO)

Traducete nella vostra vita coniugale questa parola: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,21).

PER LA LETTURA SPIRITUALE

“La comunione tra Dio e gli uomini trova il suo compimento definitivo in Gesù Cristo, lo Sposo che ama e si dona come Salvatore dell'umanità, unendola a sé come suo corpo.
Egli rivela la verità originaria del matrimonio, la verità del 'principio' (cfr. Gen 2,24; Mt 19,5) e, liberando l'uomo dalla durezza del cuore, lo ren­de capace di realizzarla interamente.
Questa rivelazione raggiunge la sua pienezza definitiva nel dono d'a­more che il Verbo di Dio fa all'umanità assumendo la natura umana, e nel sacrificio che Gesù Cristo fa di se stesso sulla croce per la sua sposa, la Chiesa. In questo sacrificio si svela interamente quel disegno che Dio ha impresso nell'umanità dell'uomo e della donna, fin dalla loro creazio­ne (cfr. Ef 5,32s.); il matrimonio dei battezzati diviene così il simbolo reale della nuova ed eterna alleanza, sancita nel sangue di Cristo. Lo Spirito che il Signore effonde dona il cuore nuovo e rende l'uomo e la donna capaci di amarsi, come Cristo ci ha amati. L'amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale, che è il modo proprio e specifico con cui gli sposi partecipano e sono chiamati a vivere la carità stessa di Cristo che si dona sulla croce” (Giovanni Paolo II - “Familiaris consortio”).




[Modificato da Caterina63 29/04/2016 09:31]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/05/2016 15:01
 
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Divorziati risposati
 

Il no all'Eucaristia si giustifica con le condizioni oggettive. La Chiesa ha sempre giudicato l'azione, solo Dio conosce lo stato di grazia di una persona.
Sarebbe davvero curioso se in Amoris Laetitia, laddove il Papa chiede il "discernimento" da parte dei pastori, si intendesse un giudizio sulle anime, che la Chiesa ha sempre giudicato "avventato".

"Discernimento" si deve perciò riferire ad altro, non alle possibilità di accedere alla comunione.

di Stephan Kampowski*



Nell’ottavo capitolo della sua esortazione post-sinodaleAmoris laetitia Papa Francesco riflette sul tema dell’accompagnamento, del discernimento e dell’integrazione (AL 291-312). Si tratta indubbiamente del capitolo più discusso nel dibattito pubblico.

In particolare merita un chiarimento il tema del discernimento proposto dal documento. Il Papa osserva, in un passo ormai tanto citato, che i fedeli incontrano numerose difficoltà e che vi sono fattori attenuanti a causa dei quali «non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta ‘irregolare’ vivano in stato di peccato mortale» (AL 301). Qui si deve rilevare che questo insegnamento non è affatto nuovo. Piuttosto si tratta di un aspetto acquisito della tradizione e del magistero della Chiesa. In realtà non si è mai potuto dire quello che Francesco afferma di non poter dire più. Scrive infatti San Giovanni Paolo II in Ecclesia de Eucharistia: «Il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza» (n. 37). 

Proseguendo, là dove il Santo Padre fa osservare che il «discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita» (AL 303), il testo avrebbe forse potuto essere più chiaro. Infatti ciò che deve essere oggetto di discernimento non è del tutto chiaro. Francesco sta forse chiedendo ai pastori d’anime di discernere (e “discernere” in realtà è sinonimo di “giudicare”) lo stato di grazia dei fedeli? Sarebbe veramente una novità, e per giunta profondamente ironica: significherebbe che proprio il Papa che ha pronunciato la frase memorabile: “Chi sono io per giudicare?” inviterebbe ora i sacerdoti della Chiesa a emettere sul conto dei loro fedeli penitenti quel tipo di giudizio che il dottore comune della Chiesa, San Tommaso d’Aquino, definiva «avventato». 

Per Tommaso le condizioni del "giudizio avventato" sono numerose, e una di esse è che la persona «presuma di giudicare su cose nascoste che solo Dio ha il potere di giudicare» (Commento sull’epistola di Paolo ai Romani, II, 1, 176). Spiega l’Aquinate che mentre Dio «ci ha affidato il giudizio sulle cose esterne […] ha riservato a se stesso quelle interne» (Commento al Vangelo di Matteo, VII, 1). San Tommaso parla così dell’impossibilità di giudicare dell’altrui stato di grazia. Il Concilio di Trento parla addirittura dell’impossibilità di giudicare del proprio stato di grazia, quando afferma: «Nessuno può sapere con certezza di fede, libera da ogni possibilità di errore, di aver ottenuto la grazia di Dio» (Decreto sulla giustificazione, capitolo 9). Finora, insomma, la Chiesa ha sempre lasciato a Dio il discernimento dello stato di grazia della persona, che rientra fra le “cose interne”, e si è invece limitata a giudicare della condotta esteriore o degli stati oggettivi di vita. 

Pertanto la prassi della Chiesa di non ammettere i divorziati “risposati”  all’Eucaristia – a meno che non diano segni obiettivi di pentimento (la risoluzione di vivere nell’astinenza) per aver contratto tale unione – non equivale al giudizio che costoro vivono in stato di peccato mortale. È un giudizio sul loro stato di vita – che è in contraddizione oggettiva con il mistero dell’unione fedele di Cristo con la Sua Chiesa che si celebra nell’Eucaristia – e non un giudizio sulla loro anima, le cui condizioni Dio solo conosce. 

Ma se un giudizio negativo sullo stato di grazia di un fedele è avventato, perché non dovrebbe essere avventato anche un giudizio positivo in merito? Su quale base un sacerdote dovrebbe essere in grado di discernere che persone abitualmente e pubblicamente infedeli al proprio coniuge vivono ciò malgrado in grazia di Dio? Come misurare il peso delle possibili circostanze attenuanti, del condizionamento sociale, delle limitazioni psicologiche? Non è stato finora inventato lo strumento per misurare empiricamente la presenza o l’assenza della grazia, né è ancora possibile stabilire caso per caso la misura di libertà con cui ognuno commette un’azione gravemente sbagliata. 

Ciò che la Chiesa può giudicare è l’azione stessa. Può affermare che se le persone commettono certi tipi di azioni – adulterio, omicidio, rapina a mano armata, tortura, pedofilia – con sufficiente consapevolezza e con una misura ragionevole di libertà, allora tale azione farà loro perdere l’amicizia di Dio, perché azioni del genere contraddicono radicalmente l’essere stesso di Dio in quanto Sposo fedele della Chiesa, Amante della vita e Protettore dei piccoli. In altre parole, quelle persone commettono un peccato mortale. Ecco tutto ciò che i pastori d’anime devono sapere e possono sapere. Che poi l’adultero, l’omicida o il torturatore fosse in retti sensi quando ha commesso l’atto, che fosse veramente separato da Dio nella misura in cui era pienamente presente a se stesso nel commettere un’azione invisa a Dio, questo lo sa solo Dio. Il sacerdote nel confessionale discerne l’azione, Dio discerne il cuore.

Qualcosa di analogo va detto circa il discernimento delle situazioni di vita. Solo Dio sa fino a che punto la persona sia responsabile di essere entrata in una determinata situazione. Il sacerdote nel confessionale può sapere soltanto che una data situazione di vita – per esempio l’appartenenza a un’organizzazione terroristica – è oggettivamente contraria al piano di Dio per quella persona, al suo essere chiamata a diventare amica di Dio. Se io sono capace di effettuare scelte, se ho il dominio sulle mie azioni e se sono in grado di assumermi la responsabilità della mia vita, allora dovrò scegliere fra essere amico degli assassini oppure amico di Dio: come si può essere amico di un padre e al tempo stesso amico di coloro che ne uccidono i figli? La tensione è oggettiva. 

Ebbene, vi è una tensione oggettiva anche fra il voler celebrare il mistero della fedeltà del Signore alla sua sposa e l’essere in una situazione in cui si è abitualmente e pubblicamente infedeli al proprio coniuge. È pensabile che in ambedue i casi, e di fatto in ogni «situazione oggettiva di peccato», una persona possa vivere «in grazia di Dio», amare e «anche crescere nella vita di grazia e di carità» (AL 305)? Il Papa è assai radicale quando risponde affermativamente: possono esservi «condizionamenti e fattori attenuanti» (AL 305) a causa dei quali le persone non sono libere e pertanto non sono responsabili. Ma sarà impossibile che un’altra persona umana misuri, discerna o giudichi il grado di libertà con cui qualcuno è coinvolto in una tale situazione oggettiva di peccato. 

Di conseguenza, le parole del Santo Padre sul discernimento non possono essere interpretate come invito a discernere lo stato di grazia dei singoli fedeli, per poi, in caso di un discernimento positivo, poter ammettere alla comunione le persone in situazioni oggettive di peccato. Il Papa chiederebbe qualcosa di impossibile (cfr. il Concilio di Trento) e contraddirebbe se stesso («Chi sono io per giudicare?»). Perciò il discernimento deve essere inteso non come un giudizio sullo stato di grazia ma piuttosto come l’aiuto «a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti» (AL 305), cominciando senz’altro con il discernimento della verità della propria situazione davanti a Dio. 

Nel caso dei divorziati “risposati” implicherebbe concretamente la verifica dell’esistenza o meno di un legame matrimoniale (cioè, il matrimonio era valido?) e l’accertamento di eventuali ragioni che esonerano dall’«obbligo della separazione» (cfr. Familiaris consortio 84; AL 298). Poi comporterebbe la ricerca di vie per aiutare gli interessati a vivere secondo la verità della loro relazione. Occorre il discernimento anche per trovare modi di integrazione che non si accontentino dello stato di peccato ma che esprimano una fiducia nella grazia operosa di Dio e nella capacità dell’uomo di rispondere ad essa, indirizzandola a un autentico cammino di crescita che abbia come fine la ricostituzione della persona alla pienezza della vita che il Signore ci offre. 

* Professore di Antropologia Filosofica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, Roma

 




VOGLIAMO RENDERE L'EUCARISTIA QUALCOSA DI «UTILE». MA LA VIA VERSO DIO È L'OBLAZIONE DI NOI STESSI

Vogliamo rendere l&#039;Eucaristia qualcosa di «utile». Ma la via verso Dio è l&#039;oblazione di noi stessi

di Tomas Tyn OP

dall'omelia presso la Parrocchia San Giacomo fuori le Mura - Bologna, 1 giugno 1986, festa del Corpus Domini

[...] cari fratelli, allora cerchiamo di pensare le cose di Dio non già alla luce umana, alla luce della nostra profana meschinità. Cerchiamo, cari fratelli, di pensare alle cose di Dio così come Iddio vuole che la nostra mente pensi a Lui e cioè alla luce di Dio stesso, illumina nos, Domine, et videbimus lumem, alla tua luce, o Signore, vedremo la luce.

Cari fratelli, vedete, senza polemica, questo pericolo non è così lontano da noi come potrebbe sembrare. Pensate, proprio quando volevo preparare questa omelia, nella presentazione della festa di oggi, (?...) si dice: “la festa odierna deve indurci a riflettere soprattutto sul significato dell’Eucaristia per la nostra vita di impegno verso gli altri”. E qui mi cascano le braccia, cari fratelli. 

Oh, non che ci sia qualcosa di sbagliato, no. Certo, l’Eucaristia ci sprona anche, anche, non c’è dubbio, a pensare agli altri. L’Eucaristia è sacramento per eccellenza della carità, della condivisione di tutti i beni, dell’attenzione nell’amore, perché l’amore è sempre attento, quell’attenzione e quella necessità per tutti. L’Eucaristia è la capacità di avere certo il Cristo tra noi.

Ma, cari fratelli, non capovolgiamo l’ordine dei valori, non diventiamo soggettivisti, non diventiamo (?...) luterani, capite miei cari, vedete, perché l’eresia è sempre in agguato. Scusatemi, sono figlio di San Domenico, un sospetto di eresia mi è venuto, ma penso non senza ragione. Vedete, alle cose di Dio non bisogna pensare con la mentalità triste del mondo moderno che pensa solo alle cose utili, quindi, quando pensa all’Eucaristia, non pensa a quello che è, quel grande augusto sacramento, la presenza del Dio vivente, la sua dimora, la sua tenda in mezzo a noi. Ma si chiede: che cosa è l’Eucaristia per me? Per me! Oh no, cari fratelli! Proprio qui noi ci sbarriamo la strada per la vera comprensione dei misteri divini! Dinanzi a Dio la via buona è proprio quella, proprio quella che non si chiede che cosa significa “per me”, ma la via buona è quella che si chiede che cosa è in se stessa. Ma pensate un po’, cari fratelli, i Santi in cielo, che vedono il Corpo del Signore, ma pensate che cosa si chiedono. Che cosa significa per me? No. Loro si inabissano nella visione del Dio Onnipotente, del Dio Eterno, del Dio vivente. E così dobbiamo
fare anche noi.

Vedete, la via verso Iddio conduce tranquillamente attraverso l’oblazione, la dimenticanza, persino all’annientamento di noi stessi. Non c’è altra via. Vedete cari, allora che cosa possiamo fare? Chiediamoci, veramente, non che cosa significa l’Eucaristia per noi o per gli altri: questo è da protestante. Il Signore, con la sua sovrana e divina generosità, ci dice: cercate prima il regno dei cieli e la sua giustizia e tutto il resto, tutto il resto, anche la giustizia sociale vi sarà data in sovrappiù, ma prima di tutto cercate il regno dei Cieli. Vedete, miei cari, allora bisogna veramente pensare anzitutto alle cose divine. (?...). Allora dimentichiamo noi stessi, pensiamo a quel grande sacramento, all’Eucaristia. [...]

 






[Modificato da Caterina63 03/05/2016 18:28]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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06/05/2016 20:55
 
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 ATTENZIONE! con questo lavoro di Padre Angelo Bellon O.P. del sito Amici Domenicani, concludiamo anche gli approfondimenti (pro e contro come avete potuto leggere) del Documento papale di Amoris laetitia e questo perchè riteniamo che il padre Domenicano abbia risposto dando consigli utili e preziosi per una riuscita dell'applicazione del testo.....

Un sacerdote risponde

Considerazioni sull’Esortazione post sinodale Amoris laetitia

Quesito

Come era prevedibile, dopo la pubblicazione dell’Esortazione post sinodale Amoris laetitia molti visitatori, sconcertati da quanto riferito dai mezzi di comunicazione sociale o anche da interviste rilasciate da alcuni uomini di Chiesa,  mi hanno scritto chiedendo che cosa stesse avvenendo e chiedendo una parola chiarificatrice.
Ecco quanto ho scritto come risposta generale che tocca alcuni punti del capitolo 8° dell’Esortazione.
Ognuno dei visitatori può trovarvi la soluzione del proprio quesito.
Chiedo scusa se per motivi di brevità e per evitare ripetizioni non riporto i contenuti delle singole mail.


Risposta del sacerdote

1. Premesse

1. Il testo offerto da Papa Francesco sulla famiglia è avvincente nella sua esposizione ed è pieno di carità pastorale nei confronti di coloro che si trovano in stato di sofferenza, di disagio o di non conformità nei confronti dell’insegnamento di Gesù sul matrimonio e sull’amore umano.

2. Leggendo l’Esortazione dall’inizio alla fine, senza preconcetti e senza le caricature dei giornalisti o delle persone intervistate, non ho trovato nessuna rottura con il Magistero precedente, ma una continuità e uno sviluppo, soprattutto nell’atteggiamento di ricerca, di accoglienza, di accompagnamento e di integrazione di coloro che si trovano in difficoltà nell’essere conformi alla logica evangelica.
Alcune espressioni dell’Esortazione sono un po’ enfatizzate a motivo del carattere parenetico del documento stesso e anche del modo proprio di esprimersi di Papa Francesco.
Non bisogna prendere ogni parola come una sentenza dogmatica.

3. La questione più controversa è quella relativa alla Santa Comunione ai divorziati risposati, che tuttavia non viene mai espressamente menzionata nell’Esortazione.
Va notato che soprattutto nel capitolo 8° il linguaggio talvolta è molto sfumato e si può prestare a valutazioni non solo differenti, ma addirittura fra di loro opposte.
Ebbene, proprio in merito a questo capitolo desidero presentare alcune riflessioni generali e poi prendere in  considerazione le espressioni più discusse.

2. Criteri di lettura

1. Il primo criterio di lettura è quello dell’orizzonte nel quale va letta l’Esortazione, pena deformarla.
Quest’orizzonte l’ha fornito Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor.
Nella nota 100 Giovanni Paolo II afferma: “Lo sviluppo della dottrina morale della chiesa è simile a quello della dottrina della fede.
Anche alla dottrina morale si applicano le parole pronunciate da Giovanni XXIII in occasione dell’apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962): “Occorre che questa dottrina (= la dottrina cristiana nella sua integralità) certa e immutabile, che dev’essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo.
Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra venerabile dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (VS, nota 100).
Qui dunque si trova il principio ermeneutico o di interpretazione: i documenti del Magistero anche in temi morali vanno interpretati secondo l’ermeneutica della continuità e dell’approfondimento. E non già secondo l’ermeneutica della discontinuitàdella rottura o della svolta rispetto al Magistero di sempre.
Il progresso della dottrina morale della Chiesa avviene sotto l’azione dello Spirito Santo che gradualmente porta alla conoscenza della verità tutta intera, senza mai contraddire o rinnegare il Magistero precedente.
Si tratta dunque di un progresso omogeneo e non dialettico.

2. Fatta questa premessa fondamentale, occorre leggere l’Amoris Laetitia alla luce del Magistero precedente perché lo continua e lo approfondisce, come del resto a più riprese viene affermato dall’Esortazione stessa, come ad esempio quando dice: “Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL 79).
Poiché soprattutto il capitolo ottavo dell’Esortazione è stato letto nelle maniere più disparate e contraddittorie, è necessario dire che l’interpretazione esatta, quella indicata dal Magistero, è quella data in meliorem partem, se ci si può esprimere così, e cioè nella linea della continuità.
Anzi, solo questa lettura fa comprendere il testo senza ambiguità e senza contraddizioni.

3. Sicché mentre la lettura in meliorem partem non va incontro ad obiezioni che ne sbarrino la strada, quella data in pejorem partem, e cioè secondo l’ermeneutica della rottura, non porta invece da nessuna parte, anzi va a cozzare contro una miriade di affermazioni del Magistero e si rivela inconcludente e sbagliata.

3. L’interpretazione in meliorem partem di alcune affermazioni

1. Il n. 302 dell’Esortazione ricorda una grande varietà di motivi da tenere presenti nella valutazione dei singoli casi:
“Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime in maniera decisiva: «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali» (n. 1735). In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali (n. 2352). Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta (Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sull’ammissibilità alla Comunione dei divorziati risposati(24 giugno 2000), 2)” (AL 302).
Ebbene, quelli elencati sono tutti motivi per cui un tribunale ecclesiastico può dare e anzi già dà una sentenza di nullità del matrimonio contratto.
Per evitare che all’interno delle comunità cristiane si dica che ad un divorziato risposato è stata data l’assoluzione e ad un altro no, la cosa migliore è quella di procedere ordinatamente che è quella ottenere una sentenza di nullità del matrimonio ed eventualmente di sanare in radice l’unione contratta civilmente.
È questa la prima via suggerita da Papa Francesco con la riforma della procedura nelle cause matrimoniali. 
Tanto più che egli stesso ha chiesto che la sentenza venga data entro un anno, senza lungaggini.
Questo è il metodo più ordinato e sicuro.
Al contrario, lasciare tutto alla valutazione non sempre illuminata del parroco o del confessore può rendere insicuri e può causare confusione e malumore nelle comunità. Facilmente si potrebbe argomentare: perché ad uno sì e ad un altro no?

2. Al n. 299 si legge: “i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni forma di scandalo”.
Anche questo va sempre tenuto presente.
Qualora il sacerdote desse l’assoluzione ad un divorziato risposato o ad una persona convivente, è necessario ricordare che si può fare la Santa Comunione solo là dove non si è conosciuti come divorziati risposati o conviventi. Diversamente si genera scandalo tra i fedeli.
La Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi “circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati” del 7 luglio 2000 dice: “Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - «soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris consortio, 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza.
Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo” (2 c).
Remoto scandalo significa che si può fare privatamente o là dove non si è conosciuti come divorziati risposati o conviventi, evitando così di causare giudizi, confusione, sconcerto e scandalo tra i fedeli.

3. In quest’ottica va letto anche quanto si legge al n. 305: “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti”.
Qui implicitamente l’Esortazione ribadisce che per accostarsi alla Santa Comunione è necessario essere in grazia di Dio.
Questa non è una norma umana ma divina, come ricorda la Sacra Scrittura: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno pertanto esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e un buon numero sono morti” (1 Cor 11,27-30).

4. Circa quanto è scritto nella nota 351: “In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (EG 44). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (EG 47)”.
Qui il Papa non dice tout court di dare la Santa Comunione ai divorziati risposati.
Prevede che coloro che sono pentiti e vivono in graziae cioè senza rapporti adulterini o di fornicazione, possano ricevere l’assoluzione e possano partecipare all’Eucaristia, anche facendo la Santa Comunione, sempre remoto scandalo.

5. Inoltre quando il Papa dice che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» afferma una cosa profondamente vera.
Proprio perché siamo tutti deboli, anche se viviamo in grazia di Dio, abbiamo bisogno di fortificarci di questo Pane per sostenerci nel cammino verso il Cielo.
Ma rimane sempre vero che chi è spiritualmente morto, perché si trova in peccato mortale, prima di nutrirsi in maniera salutare di questo cibo, ha bisogno di risuscitare e di ritrovare la vita soprannaturale attraverso la Confessione, che dai santi Padri viene definita come un secondo Battesimo.
Pertanto il sacramento proprio di chi è spiritualmente morto è la confessione.
Diversamente si realizza quanto ha detto la Sacra Scrittura: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore” (1 Cor 11,27).

6. Qualcuno ha detto giustamente che dar da mangiare ad un morto serve a farlo puzzare ancora di più.
Ed è per questo che Giovanni Paolo II ha detto: “A questo dovere lo richiama lo stesso Apostolo con l’ammonizione: «Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice» (1 Cor 11,28). San Giovanni Crisostomo, con la forza della sua eloquenza, esortava i fedeli: «Anch’io alzo la voce, supplico, prego e scongiuro di non accostarci a questa sacra Mensa con una coscienza macchiata e corrotta.
Un tale accostamento, infatti, non potrà mai chiamarsi comunione, anche se tocchiamo mille volte il corpo del Signore, ma condanna, tormento e aumento di castighi» (Omelie su Isaia 6, 3).
In questa linea giustamente il Catechismo della Chiesa Cattolicastabilisce: «Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla comunione» (CCC 1385). 
Desidero quindi ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ha concretizzato la severa ammonizione dell’apostolo Paolo affermando che, al fine di una degna ricezione dell’Eucaristia, si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale” (Ecclesia de Eucaristia, 36).

7. Al n. 298 il Papa riconosce che vi sono “divorziati che vivono una nuova unione… consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe” e che “seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione”.
In nota (n. 329) aggiunge: “In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Gaudium et spes, 51).
In merito a questa nota che ha attirato l’attenzione di molti va detto:
- primo: il Papa ricorda l’insegnamento di Familiaris consortio che chiede di non vivere more uxorio e cioè in castità, come amici e fratelli e sorelle; 
-secondo: il Papa, pur facendo riferimento al Concilio che parla di intimità coniugale, parla solo di intimità. È chiaro che in ogni caso non sarebbe coniugale perché i due non sono marito e moglie.
- terzo: vuol dire che pur “accettando di vivere come fratello e sorella”, se succede che talvolta vadano oltre, si deve usare pazienza ed esortarli a fare quanto dice Paolo VI nell’Humanae vitae: “E se il peccato facesse ancora presa su di loro, non si scoraggino, ma ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita nel sacramento della Penitenza” (HV 25).
Questo significa comprendere in meliorem partem.
Dare un’altra interpretazione significa che il 6° comandamento che vieta i rapporti sessuali tra persone che fra di loro non sono sposate subisca delle eccezioni.
Ma “i precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti” (Veritatis Splendor, 52)

8. In merito al n. 301 si legge: “La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante”.
A dire il vero questo non è mai stato detto né nel Magistero né nei manuali di Teologia. 
Basterebbe ricordare la Dichiarazione della Congregazione del Clero in riferimento al cosiddetto ‘caso Washington’: “Le particolari circostanze che accompagnano un atto umano oggettivamente cattivo, mentre non possono trasformarlo in un atto oggettivamente virtuoso, possono renderlo incolpevole o meno colpevole o soggettivamente giustificabile” (26.4.1971).
Il Papa allora si riferisce a quello che può essere stato detto da prete Tizio o Caio. Qui troviamo, come si diceva all’inizio, il carattere parenetico e proprio di Papa Francesco.
Presa la frase in se stessa, bisognerebbe dire che non corrisponde alla realtà perché questo non è mai stato detto.

9. Analogamente al n. 304 si legge: “È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”.
Letta superficialmente quest’affermazione sembra una critica alla morale finora insegnata.
Ma questo non corrisponde alla verità perché si è sempre detto che i criteri per discernere la moralità di un atto sono tre: oggetto (finis operis), intenzione (finis operantis) e circostanze.
Anche qui il Papa si riferisce al comportamento di qualcuno che senza guardare al soggetto e alle circostanze può aver giudicato solo in base alla legge morale. Allora questo, sì, è meschino, anzi è sbagliato.

10. Sempre al n. 301 il Papa scrive: “Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù (Somma Teologica I-II, 65, 3, ad 2), in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: «Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù» (Ib., ad 3)”.
San Tommaso, dopo aver detto che insieme alla grazia vengono infuse anche le virtù morali, dice: “Talora capita, per una difficoltà nata dall'esterno, che chi possiede un abito provi difficoltà nell'operare, e quindi non senta piacere e compiacimento nell'atto: è il caso di chi avendo l'abito della scienza, per la sonnolenza o per un'infermità, prova difficoltà nell'intendere. Allo stesso modo talora provano difficoltà nell'operare gli abiti delle virtù morali infuse, a causa delle disposizioni contrarie lasciate dagli atti precedenti. La quale difficoltà non capita ugualmente nelle virtù morali acquisite: poiché mediante l'esercizio degli atti, col quale vennero acquistate, furono tolte anche le disposizioni contrarie” (ad 2). 
E nell’ad 3: “Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, per il motivo indicato sopra; sebbene essi abbiano l'abito di tutte le virtù”.
Ebbene, qui San Tommaso vuol dire che alcuni esercitano malamente una determinata virtù o non la esercitino affatto (ad esempio: la devozione o il raccoglimento nella preghiera) a motivo delle disposizioni lasciate dalle azioni precedenti (ad esempio: l’essere afflitti o contrariati per una brutta notizia o per una grossa discussione. Allora, come emerge dall’esperienza, si prega male, con poco raccoglimento e con molte distrazioni).
Ma un conto è esercitare male una virtù o non esercitarla affatto, per cui si ha poco merito o non si merita niente.
Un altro conto invece è compiere un peccato grave contrario a quella virtù. Col peccato si demerita sempre e si offende il Signore.
Tra l’altro per San Tommaso se un singolo atto contrario ad una virtù acquisita non fa perdere tale virtù perché l’atto contraria l’atto ma non l’abito (sicché se uno si ubriaca una volta non si può dire che ha perso la virtù della sobrietà), tuttavia vi farebbe eccezione la lussuria: “Ma con un atto di lussuria la castità viene meno di per se stessa” (Sed actu luxuriae castitas per se privatur”, s. tommaso, In II Sent., d. 42, q. 1, a. 2, ad 4).
Per cui interpretando in meliorem partem questo n. 301 dell’Esortazione si può dire che i divorziati risposati, anche se vivono come fratello e sorella, dovendo stare insieme a motivo della presenza dei figli, non esercitano nel migliore modo la castità.
Ma se con questo testo si volesse dire che vivono in grazia anche se hanno rapporti sessuali sarebbe completamente sbagliato, perché è contrario non solo all’insegnamento di San Tommaso, ma a quello di Dio e della Chiesa.

Interpretati così, i punti più scottanti dell’Esortazione non fanno difficoltà.
Mentre molte difficoltà nascono da una lettura diversa.
Va considerato infine che questa Esortazione è tutta permeata da un clima di accoglienza e di misericordia. Questo è lo stile che le si è voluto dare.
E ne va tenuto conto.

Padre Angelo Bellon, o.p.


Pubblicato 29.04.2016


[Modificato da Caterina63 06/05/2016 21:03]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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