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Esortazione Apostolica Amoris Laetitia

Ultimo Aggiornamento: 06/05/2016 21:03
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09/04/2016 16:10
 
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  DOSTOEVSKIJ E LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE. «DIREMO CHE PERMETTIAMO LORO DI PECCARE PERCHÉ LI AMIAMO»

Dostoevskij e la Leggenda del Grande Inquisitore. «Diremo che permettiamo loro di peccare perché li amiamo»

«Amare il prossimo come se stessi (…) è impossibile. Su questa terra siamo legati dalla legge dell’individualità. Il nostro io ci è di ostacolo»

F.M. Dostoevskij


LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE 

Queste poche pagine vogliono essere una riflessione su un capolavoro nel capolavoro. Mi riferisco a La leggenda del Grande Inquisitore che Ivan racconta al fratello Alësa nell’opera di Dostoevskij I fratelli Karamazov.

Il racconto di Ivan

La Leggenda è nota: Gesù Cristo torna sulla terra (per la precisione a Siviglia nel XVI secolo), vi compie miracoli e subito viene acclamato dalle folle come Salvatore, ma prima che la gente lo riconosca come il Cristo, viene arrestato dall’Inquisizione. Nella cella di reclusione, mentre scende a notte, riceve la visita del novantenne capo dell’Inquisizione, che immediatamente Lo riconosce.

Inizia un lungo monologo, in cui il vecchio rimprovera a Gesù di essere tornato sulla terra a rovinare i suoi piani e a mettere in pericolo il suo progetto di pacifica convivenza  tra gli uomini. L’ideale evangelico di libertà – sostiene l’Inquisitore – è troppo duro per la maggior parte degli uomini (non per lui, cui Dio aveva dato le forze necessarie per seguirlo), condannati pertanto da esso alla inevitabile dannazione e dunque all’infelicità. Proprio questa considerazione lo spinse ad abbandonare l’ideale evangelico e a prendere parte al progetto di concedere almeno la felicità terrena ad un’umanità comunque incapace di raggiungere quella eterna.
Questo progetto prevede la trasformazione dell’ideale evangelico in una morale più accessibile all’uomo, fatta di gesti esteriori alla portata di tutti. In questo modo, anche i deboli crederanno di poter raggiungere la felicità eterna, sottometteranno la loro libertà ai precetti della Chiesa e ne riceveranno in cambio una felice speranza nell’aldilà. Ecco allora tutta la terra schiava, illusa ma felice. Questo il progetto dell’Inquisizione: portare in terra la felicità a tutti, dato che quella celeste è al di fuori della portata di molti. Di più l’uomo non può pretendere.

Ora, Cristo tornando a Siviglia rischia di rovinare il progetto: riaffermando il vero ideale evangelico, tutti si renderebbero conto che solo a pochi eletti sono state date le capacità di realizzarlo. Che ne sarebbe allora del resto dell’umanità? Folle disilluse, che tentano invano di uniformarsi al Vangelo e cadono di continuo nel peccato, disperate nel vedersi destinate all’Inferno e all’infelicità. Cristo porterebbe la felicità solo a pochi eletti, l’Inquisizione la mette alla portata di tutti. Certo, seguendo l’Inquisizione l’uomo non raggiungerà il Paradiso, ma non l’avrebbe raggiunto comunque, a causa della propria naturale debolezza. Per lo meno, sarà felice sulla terra.

Per questo, al termine del lungo monologo, l’Inquisitore invita Cristo ad andarsene dalla terra e a non ritornare più.
Cristo bacia l’inquisitore e se ne va’. In silenzio. Così termina la Leggenda.

Chi è il Grande Inquisitore?

Il Grande Inquisitore è un uomo di chiesa, appartiene anzi ai più alti gradi gerarchici di questa chiesa che dice di essere depositaria e diffonditrice del messaggio della salvezza, ma egli non crede in quel Dio, nel cui nome tuttavia parla ed agisce. E non si può certamente dire che l’Inquisitore abbia perduto la fede per la rilassatezza dei costumi. Anzi ha «mangiato anche lui radici nel deserto», anche lui si è «accanito a domare la propria carne per rendersi libero e perfetto» . 

Ma al messaggio della libertà, gli uomini non sono in grado di corrispondere, perché deboli e fragili. Sì, dice ancora il vecchio, «non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso ». Pertanto, con un tragico ribaltamento di prospettiva, egli riterrà di amare gli uomini, togliendo loro il peso della libertà e rendendoli “felici” nel docile appiattimento dello spirito e nella soddisfazione dei bisogni immediati. Un amore questo, che si tinge dei sinistri bagliori dei roghi… è giusto che uno muoia … per il bene di molti.

Il progetto del Grande Inquisitore

L’ampia e tragica pretesa del Grande Inquisitore è quella di “correggere” l’opera di Cristo: «Ma io ho aperto gli occhi, e non ho voluto servir la follia. Ho virato di bordo, e mi sono aggregato alla schiera di quelli che hanno corretto le Tue gesta». Ritenendo impraticabile ai più la strada della libertà indicata da Cristo, nel nome stesso di Lui, mentendo, alla strada impervia della libertà è stata sostituita la strada facile del servilismo felice, permettendo anche di peccare.

«Oh, noi li persuaderemo che allora soltanto essi saranno liberi, quando rinunzieranno alla libertà loro in favore nostro e si sottometteranno a noi… Oh, noi consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso col nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo e che, in quanto al castigo per tali peccati, lo prenderemo su di noi. Così faremo, ed essi ci adoreranno come benefattori che si saranno gravati coi loro peccati dinanzi a Dio.
E per noi non avranno segreti. Permetteremo o vieteremo loro di vivere con le proprie mogli ed amanti, di avere o di non avere figli, – sempre giudicando in base alla loro ubbidienza, – ed essi s’inchineranno con allegrezza e con gioia. Tutti, tutti i più tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi avranno nella nostra decisione una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dovere personalmente e liberamente decidere. E tutti saranno felici, milioni di esseri, salvo un centinaio di migliaia di condottieri. Giacché noi soli, noi che custodiremo il segreto, noi soli saremo infelici
».


Il tragico ateismo del Grande Inquisitore raggiunge il punto culminante e intensivo nell’identificazione con lui, con il Tentatore.
L’identificazione con lo spirito del Tentatore da parte del Grande Inquisitore, «… noi non siamo con Te, siamo con lui: ecco il nostro segreto!», fa sì che questi, nel confronto con Cristo nel buio della prigione Sivigliana, assuma la configurazione dell’Anticristo. Desunte dalla pagina del vangelo matteano (Mt 4, 1-11), le tre tentazioni si rivestono di un progressivo significato di sfida, di fronte all’insuccesso dell’opera di Gesù. Le tre tentazioni indicano l’unica strada da seguire, per raggiungere gli uomini deboli e dominarli nella illusione di una «quieta e umile felicità». Non saranno le pietre a trasformarsi in pane, ma il pane stesso, frutto del lavoro degli uomini, sarà loro sottratto e ridistribuito da chi ha il potere. E il miracolo sarà nell’aver tramutato in pane quel pane che, senza quel dominio che ha tolto la libertà, si sarebbe trasformato in pietra.

[...]

Le ragioni dell’Inquisitore

Il discorso dell’Inquisitore non può essere semplicemente rigettato come figlio di un patto col diavolo, pertanto falso a priori. L’Inquisitore (come dimostra anche la sua vicenda personale) è un uomo che ha preso estremamente sul serio il messaggio evangelico. Infatti, chi potrebbe negare che il comandamento dell’amore è qualcosa di “sovrumano”? L’amore sfugge al controllo della ragione. Si può stabilire intellettualmente che è giusto amare il prossimo, ma una volta fatto questo si è ancora infinitamente distanti dall’amarlo concretamente, dal provare amore per lui. Ancor più evidente è il caso del perdono. Il genitore di un figlio assassinato può ripetersi mille volte che è giusto perdonare (e già questo implica uno sforzo notevole...), ma non è ben più “naturale” (“umano”) che, nei confronti dell’omicida, provi un odio profondo, anziché vedere in lui un fratello?

Nessun ragionamento è in grado, automaticamente, di far nascere il minimo sentimento. Il comandamento dell’amore è al centro del Vangelo, ma l’uomo raramente riesce a “farsi ubbidire” quando comanda a se stesso di amare. Troppo fragile è la volontà umana, troppo debole la voce della ragione. L’Inquisitore sta lì a ricordarci la sproporzione tra le “pretese” di Cristo e le nostre capacità, di qui il rimprovero al “prigioniero” di aver sopravvalutato l’uomo: non siamo abbastanza forti per amare; solo alcuni, cui è stata concessa una grazia particolare, lo possono fare. La Chiesa si occupa degli altri.


[...] 

 






 
FOCUSdi Lorenzo Bertocchi
Amoris Laetitia
 

La castità nei matrimoni di divorziati risposati e loro accesso all'Eucaristia sono i due principali temi che in queste ore fanno discutere sulla base di diverse interpretazioni che si danno della Amoris Laetitia. Ecco una guida per capire cosa c'è in ballo.


Sulle indicazioni per le situazioni familiari irregolari contenute nell'esortazione apostolica Amoris Laetitia (soprattutto nel capitolo 8) si è scatenata in questi giorni una tempesta di interpretazioni. Così, per qualcuno, tutto il documento è finalmente l’approdo ad una “nuova” Chiesa. Lo dicono anche media cattolici, ne parlano diverse personalità del mondo ecclesiale. L’incendio è divampato. Nonostante gli sforzi importanti di leggere il testo nell’unico modo possibile: nella continuità con il Magistero precedente e quindi con il depositum fidei.

Come ha detto il prof. José Granados alla Nuova Bussola,  «se si separa il testo [del capitolo 8, NdA] dal contesto della discussione sinodale oppure dalla sua continuità con il magistero precedente, certamente ci possono essere interpretazioni sbagliate». In “Amoris laetitia” c’è un rinnovato approccio pastorale verso le coppie cosiddette irregolari, e c’è anche il discernimento “caso per caso” in merito all’accesso ai sacramenti per le coppie di divorziati risposati. In questo ambito ci sono tre note al testo dell’esortazione (329, 336 e 351) che in queste ore stanno facendo discutere. Offriamo al lettore alcuni termini del problema, senza la pretesa di risolverli, ma per meglio comprendere.

NOTA 329: VIVERE COME FRATELLO E SORELLA?

La nota riguarda il § 298 di Amoris Laetitia, quello in cui è scritto che le situazioni «molto diverse» in cui si trovano a vivere i «divorziati che vivono una nuova unione (…) non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio ad adeguato discernimento personale e pastorale». Tra queste situazioni la Chiesa riconosce anche quella in cui  «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione».  Questa ultima frase è riportata nel testo dall’esortazione Familiaris Consortio di S. Giovanni Paolo II al n°84.

In questo paragrafo è chiaramente indicato che coloro che si trovano nella situazione suddetta (e che non hanno ottenuto riconoscimento di nullità del precedente matrimonio), per conformarsi al bene devono essere «sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». E cioè, dice ancora il testo di Giovanni Paolo II, che «assumano l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi». Questa è anche la via, indicata dal testo di Papa Wojtyla, di accesso alla riconciliazione nel sacramento della penitenza e, quindi, la possibilità di comunicarsi.

Ma la nota 329 di “Amoris laetitia” finisce in qualche modo per oltrepassare questo insegnamento:

«In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51)»

Da questa nota sembra addirittura che coloro che sono divorziati risposati civilmente, è bene che vivano a tutti gli effetti come coniugi, perché «se mancano alcune espressioni di intimità» si mette in pericolo «la fedeltà» (?) e «il bene dei figli». 

Sono diversi gli elementi che vengono discussi di questa nota 329 e che possono dare luogo a interpretazioni errate rispetto alla natura indissolubile del primo matrimonio (se valido) e all’insegnamento morale della Chiesa:

- la citazione della costituzione conciliare Gaudium et spes 51 risulta disancorata dal contesto originario. InGaudium et spes, infatti, queste parole sono chiaramente riferite ai coniugi e non ai divorziati risposati;

- utilizzando questa citazione sembra che si possa valutare - come in materia morale fanno i proporzionalisti - l’azione morale sulla base delle conseguenze positive e negative dell’azione, finendo così per obliterare ipso facto l’esistenza di assoluti morali o comportamenti intrinsecamente cattivi. In effetti la nota 329 può dare adito a delle interpretazioni che potrebbero negare l’adulterio come azione in sé cattiva. L’unione coniugale tra due persone che coniugi non sono, può quindi essere, in certi casi, un bene?

- In questo caso, come valutare quanto riportato al n°52 dell’enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II laddove insegna che vi sono atti (tra cui l’adulterio) che, appunto, si definiscono «intrinsecamente cattivi», «sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze?».

 

NOTE 336 E 351: ACCESSO AI SACRAMENTI PER DIVORZIATI RISPOSATI

Il contesto in cui vengono inserite le due note è simile, cioè quello di un differente grado di responsabilità del penitente in funzione di condizionamenti e/o fattori attenuanti. In questi casi, dice la nota 336, le conseguenze o gli effetti di una norma non devono essere necessariamente sempre gli stessi. 

«Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale», si legge nella nota, «dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47

In questo caso, pur restando il dubbio in merito a quale disciplina sacramentale faccia riferimento il testo, appare chiaro che ci sia un’apertura pratica, in certi casi, all’accesso ai sacramenti: finché si tratta (per esempio) della confessione e dell’unzione degli infermi, non c’è contrasto tra (da un lato) quanto dice questa nota e (dall’altro) la natura di questi sacramenti e l’insegnamento della Chiesa; ma, se si trattasse dell’eucaristia, invece sì.

La nota 351, invece, ancor più complessa e problematica, si inserisce nel § 305 del testo, laddove si parla del fatto che a causa di «condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio (…) ricevendo a tal scopo l’aiuto della Chiesa». E qui si innesta la nota 351:

«In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44:AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)».

Pertanto, in certi casi, sembra aperta la via dei sacramenti a divorziati risposati civilmente attraverso una non-imputabilità soggettiva riconosciuta, nonostante la presenza di una condizione oggettiva di peccato.

Indichiamo solo alcuni elementi problematici che emergono:

- al confessore sembra essere richiesto di giudicare in modo esatto lo stato soggettivo della coscienza, arrivando di fatto ad esprimere un giudizio sul cuore dell’uomo (cosa che normalmente la Chiesa non ha mai fatto, rimanendo sul piano, appunto, della situazione oggettiva. È il caso di Familiaris consortio che chiedeva, per l’accesso ai sacramenti, di abbracciare la continenza con il proposito di non commettere più quel peccato.);

- qualche commentatore ha citato, per spiegare questa prassi, il principio dell’epicheia tomista (in realtà travisando san Tommaso, ma sarebbe un discorso lungo…), ossia quello per cui sarebbero ammesse eccezioni alla norma. Ma tale principio, caldeggiato anche più volte dal cardinale Kasper, era stato già valutato come non applicabile proprio in casi come quelli dei divorziati risposati che esercitano anche la sessualità, da un documento firmato cardinale Ratzinger, prefetto della Dottrina della Fede. Il principio di epicheia [ed aequitas canonica], si legge in quel documento del 1994, “non possono essere applicate nell'ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L'indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di "diritto divino". La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali - ad esempio nella pastorale dei Sacramenti -, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore.”

- come valutare quindi quanto riportato dall’enciclica Veritatis Splendor a proposito del fatto che “se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla?” (n°81)

Infine, come conciliare queste tre note (329, 336 e 351) con il paragrafo 303 di Amoris laetitia, che dice: «Dato che nella stessa legge [morale] non c’è gradualità (cfr. Familiaris consortio, 34), questo discernimento [quello fatto dal divorziato risposato sulla sua situazione] non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità […] proposte dalla Chiesa»?

 

 

- LA LETTERA: APOLOGIA DEL SEMAFORO ROSSOdi R. Cascioli

Ieri mattina sono uscito di buon’ora per un appuntamento. Ero in ritardo, avevo fretta e il solito semaforo vicino casa era rosso. Conosco bene quel semaforo, ci passo sempre: è inutile, perché all’incrocio c’è perfetta visibilità di tutte le strade e non c’è grande traffico. Così, come altre volte al mattino del sabato quando non c’è movimento, guardo bene da tutte le parti, mi sporgo lentamente nell’incrocio superando la striscia dello stop e osservando bene che nessuno arrivi, poi passo velocemente. Purtroppo ieri mattina cento metri dopo il semaforo c’era nascosta una pattuglia della polizia. Paletta rossa, richiesta di patente e libretto e, nel giro di pochi secondi, multa e decurtazione di punti.

Allora provo a far ragionare il poliziotto che ho di fronte: è vero, dico, sono passato con il rosso, è un’infrazione grave; ma conosco bene quel semaforo, ho guardato attentamente prima di attraversare, e poi sono stato spinto anche dalla fretta perché quell’appuntamento per me è fondamentale e non posso arrivare tardi. «Ma lei ha infranto una legge, sapendo di farlo e volendo farlo - mi risponde il poliziotto – le sue motivazioni non interessano: questo è il fatto oggettivo e a questo stiamo». «È vero, ma lei non mi può giudicare allo stesso modo di un altro che arriva a 100 all’ora senza neanche fermarsi», replico io. Stessi soldi da pagare e stessi punti decurtati, non è giusto, i casi sono ben diversi. 

Il poliziotto mi guarda attento, penso di averlo inchiodato con la mia logica. Ci pensa un po’, poi mi risponde: «Caro signore, io la sto multando non perché giudico le sue intenzioni o il modo in cui ha attraversato l’incrocio, ma semplicemente perché l’ha fatto. Vede, sono sulla strada da molti anni e so benissimo che i motivi per cui si commettono queste infrazioni sono innumerevoli e ci sono tante attenuanti o aggravanti, ma immagini cosa accadrebbe se accettassimo che in alcuni casi si può passare con il rosso (e chi li decide poi?): sarebbe il caos, diventerebbe impossibile far svolgere ordinatamente il traffico e sarebbe un incentivo per chi vuole trasgredire mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti».

A questo punto sono io che accuso il colpo, ma all’improvviso l’illuminazione. Fortunatamente arrivo da due giorni in cui ho letto l'esortazione apostolica Amoris Laetitia, e soprattutto i commenti di noti teologi, li ho tutti con me. Li prendo e spiego al poliziotto: «Vede, la sua teoria è astratta e ideologica perché considera solo la norma oggettiva – che non discuto – ma non tiene conto delle singole persone che passano con il rosso: delle preoccupazioni e delle ansie che li spingono a commettere l’infrazione, della prudenza con cui lo fanno cercando di non recare danno ad alcuno, del fatto che date le condizioni in cui sono questo è il massimo che possono fare anche se l’ideale sarebbe aspettare che scatti il verde». 

Lo vedo barcollare un po’, allora affondo il colpo: «Un conto è riconoscere che c’è stata una infrazione oggettiva, un altro è la mia imputabilità personale. Ad essere sinceri, credo che lei non solo non mi dovrebbe sanzionare, ma dovrebbe apprezzare il modo con cui sono passato con il rosso. E la legge che obbliga di aspettare il verde non verrebbe messa in discussione da questo. Guardi qui», e gli porgo i ritagli di giornale che ho con me. «Non lo dico mica io, ci sono fior di esperti: padre Spadaro sulla Civiltà Cattolica, il priore di Bose Enzo Bianchi, Famiglia Cristiana, Avvenire…. Lo dicono loro, ma è ovvio: non migliorerà certo il traffico continuando a multare tutti quelli che passano con il rosso…». 

Penso di averlo messo alle corde, ma forse ho interpretato male le sue espressioni. Risultato: multa, punti decurtati, e anche una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale. Non riesco a capire il perché ma si era assolutamente convinto che volessi prenderlo per i fondelli.









[Modificato da Caterina63 10/04/2016 19:01]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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