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Esortazione Apostolica Amoris Laetitia

Ultimo Aggiornamento: 06/05/2016 21:03
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11/04/2016 22:31
 
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Valorizzare l'adulterio citando (male) san Tommaso
di Luisella Scrosati11-04-2016

San Tommaso d Aquino

Dopo la pubblicazione dell’Enciclica Familiaris Consortio(1981), come anche della Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati del 1994, da più parti si invocò il principio di epicheia per “bypassare” il divieto, ivi presente, relativamente all’ammissione ai sacramenti dei divorziati-risposati, appoggiandosi sul fatto che i casi particolari non possono essere semplicemente dedotti da leggi universali. 

Secondo i contestatori, le posizioni espresse in tali documenti – come per altro quelle chiaramente insegnate da Veritatis Splendor – rappresenterebbero una visione troppo legalista della vita cristiana, che non terrebbe conto della complessità delle situazioni né della misericordia. Analoghe osservazioni le abbiamo udite a più riprese dalle parole del cardinal Kasper, il quale si appellava ad una visione più ampia, più attenta alle situazioni concrete delle persone, più misericordiosa, e in tale contesto il cardinale tedesco ritornava ad indicare nel principio di epicheia la strada da percorrere. Si tratta di considerazioni attraenti, perché ciascuno di noi sente di condividere profondamente una prospettiva che non pone l’uomo per la legge, ma la legge per l’uomo. Nello stesso tempo però bisogna uscire dalla dinamica propria degli slogan e vedere come effettivamente stiano le cose. 

Il documento del 1994 della Congregazione della Dottrina della Fede che stabilisce che «la struttura dell'Esortazione [Familiaris Consortio § 84, relativamente all’impossibilità dell’ammissione all’Eucaristia dei divorziati-risposati che vivono more uxorio, n.d.a.]  e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni», non può essere derubricato facilmente ad opinione né può essere con leggerezza bollato come un’interpretazione legalista e farisaica della morale.

In Amoris Laetitia, specialmente nel capitolo ottavo (Accompagnare, discernere e integrare la fragilità), sembrano riecheggiare le stesse argomentazioni del cardinal Kasper del 20 febbraio 2014. In particolare vale la pena soffermarsi sull’utilizzo problematico del principio di epicheia. Prendiamo il § 304: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano». Quindi il Papa prega di rileggere una considerazione di San Tommaso (Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4.), che richiama indirettamente l’epicheia, poi ripresa dal Papa in questi termini: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione». 

Ma cos’è la tanto invocata epicheia? Essa è una virtù che permette di vivere secondo il bene indicato e protetto dalla legge, laddove questa risulti difettosa a motivo della sua universalità. La legge è infatti per definizione universale: essa punta al bene comune, senza poter tener presente tutta la casistica immaginabile. Possono perciò presentarsi situazioni non previste dal legislatore, nelle quali, per mantenersi fedeli alla mensdella legge (che è il bene), sia necessario agire contrariamente alla sua lettera.

San Tommaso stesso fa un esempio semplice, ma molto chiaro: «La legge stabilisce che la roba lasciata in deposito venga restituita, poiché ciò è giusto nella maggior parte dei casi; capita però talvolta che sia nocivo: p. es., se chi richiede la spada è un pazzo furioso fuori di sé, oppure se uno la richiede per combattere contro la patria» (Summa Theologiae, II-II, q. 120, a. 1). È chiaro: per conseguire il bene comune promosso dalla legge, in questo caso si deve necessariamente contravvenire alla sua applicazione letterale. San Tommaso esplicita: «se nasce un caso in cui l’osservanza della legge è dannosa al bene comune, allora essa non va osservata» (Summa Theologiae, I-II, q. 96, a. 6). 

Da quanto detto, seppur necessariamente in breve, risulta chiaro che l’epicheia: 

1. non è un’eccezione alla legge, né la tolleranza di un male, né un compromesso: essa è invece principio di una scelta oggettivamente buona ed è la perfezione della giustizia; 

2. è una virtù che entra in gioco solo quando l’applicazione della lettera della legge fosse nociva al bene oggettivo e non quando l’osservanza della legge risultasse in alcuni casi difficoltosa o esigente; 

3. riguarda solo il caso concreto, che, a motivo dell’universalità della legge, non è stato possibile prevedere nella norma e non può perciò derogare ad altri casi particolari già previsti dal legislatore. 

4. ultimo e più importante: vi sono norme morali - chiamate assoluti morali - che per la loro propria natura non ammettono eccezioni di sorta; si tratta cioè di norme la cui trasgressione letterale non può mai raggiungere il fine della legge stessa, cioè il bene, e per questo motivo non può mai essere ammessa. In questi casi il principio di epicheia non avrebbe senso, perché nella trasgressione della lettera della legge verrebbe inscindibilmente trasgredito anche il bene morale. Si tratta di quegli atti che la tradizione morale della Chiesa definisce intrinsece malum: «Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti “irrimediabilmente” cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: “Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) — scrive sant'Agostino —, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?”» (Veritatis Splendor, § 81).

È piuttosto singolare che nel testo dell’Esortazione si richiami solo questo articolo di San Tommaso, omettendo altri passi in cui l’Aquinate spiega bene l’esistenza degli assoluti morali e dell’impossibilità, in questo ambito, di ricorrere al principio di epicheia. Nel Commento alla Lettera ai Romani (c. 13, l. 2), per esempio, Tommaso si chiede per quale motivo San Paolo, in Rm. 13, 9, riporti solo i precetti negativi della seconda tavola della legge mosaica, quella relativa ai precetti verso il prossimo, omettendo però il comandamento “onora il padre e la madre”, e risponde: «Perché i precetti negativi sono più universali quanto alle situazioni… perché i precetti negativi obbligano semper ad semper (sempre e in ogni circostanza). In nessuna circostanza infatti si deve rubare o commettere adulterio. I precetti affermativi invece obbliganosemper, ma non ad semper, ma a seconda del luogo e della circostanza». Nella stessa Summa Theologiae, poco oltre l’articolo citato nell’Esortazione, Tommaso spiega perché riguardo agli assoluti morali non si può ricorrere all’epicheia: «La dispensa di una legge è doverosa quando capita un caso particolare in cui l’osservanza letterale verrebbe a contrastare con l’intenzione del legislatore. Ora, l’intenzione di qualsiasi legislatore è ordinata in primo luogo e principalmente al bene comune, e in secondo luogo al buon ordine della giustizia e dell’onestà, nel quale va conservato o perseguito il bene comune. Se quindi si danno dei precetti che implicano la conservazione stessa del bene comune, oppure l’ordine stesso della giustizia e dell’onestà, tali precetti contengono l’intenzione stessa del legislatore: quindi non ammettono dispensa» (Summa Theologiae, I-II, q. 100, a. 8). 

Ancora, in un altro passo, Tommaso spiega che «propriamente l’epicheia corrisponde alla giustizia legale» (Summa Theologiae, II-II, q. 120, a. 2, ad. 1) e non può quindi essere presa in considerazione nell’ambito della legge naturale, essendo sì superiore alla giustizia legale, ma «non è superiore a qualsiasi giustizia» (Ivi, ad. 2).

Occorre fare attenzione anche a tirare in ballo la virtù della prudenza, come se questa fosse una virtù che abilita a trovare eccezioni: «Nel caso dei precetti morali positivi, la prudenza ha sempre il compito di verificarne la pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo conto di altri doveri forse più importanti o urgenti. Ma i precetti morali negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o comportamenti concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima eccezione; essi non lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per la “creatività” di una qualche determinazione contraria. Una volta riconosciuta in concreto la specie morale di un'azione proibita da una regola universale, il solo atto moralmente buono è quello di obbedire alla legge morale e di astenersi dall'azione che essa proibisce» (VS 67). È il principio che ha portato molti al martirio, piuttosto che commettere un male. 

Perché? Perché la prudenza non concretizza la norma universale adattandola ai casi particolari, ma è quella virtù che guida l’azione concreta perché raggiunga il bene che le è proprio. La prudenza, in certo qual modo, “riconosce” nell’azione concreta il bene da conseguire, quel bene che è indicato dalla legge, e quindi lo persegue.

Nel nostro caso, l’atto morale di avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio rientra sempre nella specie morale dell’adulterio o della fornicazione. Non esistono situazioni o circostanze che possano modificarne la specie morale. Come scriveva vent’anni fa il prof. Angel Rodriguez Luño, «non è esatto dire che queste azioni sono in sé cattive indipendentemente dal loro contesto [perché altrimenti, in questo caso, sarebbe legittima l’accusa di astrattismo e legalismo, n.d.a], perché in realtà sono azioni che portano con sé e inseparabilmente un contesto» (Acta Philosophica, 5(1996), fasc. 1, p.72). 

Una relazione di tipo sessuale ha intrinsecamente legata la dimensione donativa e procreativa e dunque essa richiede il contesto matrimoniale. Se si inizia ad ipotizzare che, nella situazione di divorziati-risposati, «molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, “non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli”» (Amoris Laetitia, nota 329), allora si opera un’inversione clamorosa e non si capisce più il senso della legge morale. Se io autorizzo a pensare che in certe situazioni, per un fine buono, l’adulterio perde la sua connotazione malvagia, sto facendo implicitamente questo ragionamento: 1) principio generale: l’atto sessuale è un male; 2) applicazione concreta: il matrimonio è l’unica eccezione riconosciuta in cui l’atto sessuale non sia un male; 3) potrebbero darsi altre situazioni concrete in cui l’atto sessuale non sia un male. 

Invece la posizione corretta è la seguente: 1) l’esercizio della sessualità è un bene che significa intrinsecamente la donazione nuziale; 2) l’esercizio della sessualità in un contesto non matrimoniale contraddice l’intrinseco significato dell’atto; 3) perciò, l’adulterio e la fornicazione sono semper et pro semper intrinsecamente cattive. 

Ecco perché non ha senso invocare l’epicheia e la virtù di prudenza, perché sarebbe come dire che in certi casi, si possa ammettere un po’ di ingiustizia, un po’ di lussuria, etc. Ed ecco perché la strada della ricerca delle eccezioni rivela in realtà un impianto morale di fondo molto legalistico (che paradossalmente è proprio quello che si voleva respingere!) che non parte dall’equazione bene-legge morale, ma da una visione della legge morale come limite. Perciò appare – falsamente - come un atto di misericordia quella di ricercare delle situazioni in cui liberare le persone da una legge morale che sarebbe per loro oppressiva. 

A quanti sono divorziati-risposati e non possono per gravi motivi separarsi, la continenza non è un traguardo lodevole, ma è l’unica modalità per conseguire il proprio bene ed il bene della persona con cui si convive. 






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“Amoris laetitia” ed erotismo. Fatelo strano…

dal testo di Francesco:
149. Alcune correnti spirituali insistono sull’eliminare il desiderio per liberarsi dal dolore. Ma noi crediamo che Dio ama la gioia dell’essere umano, che Egli ha creato tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17). Lasciamo sgorgare la gioia di fronte alla sua tenerezza quando ci propone: «Figlio, trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Anche una coppia di coniugi risponde alla volontà di Dio seguendo questo invito biblico: «Nel giorno lieto sta’ allegro» (Qo 7,14). La questione è avere la libertà per accettare che il piacere trovi altre forme di espressione nei diversi momenti della vita, secondo le necessità del reciproco amore. In tal senso, si può accogliere la proposta di alcuni maestri orientali che insistono sull’allargare la coscienza, per non rimanere prigionieri in un’esperienza molto limitata che ci chiuderebbe le prospettive. Tale ampliamento della coscienza non è la negazione o la distruzione del desiderio, bensì la sua dilatazione e il suo perfezionamento.

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Papa Bergoglio strizza l’occhio al kamasutra.

Ci permettiamo di consigliare a papa Francesco la (ri)lettura dell’enciclica Deus caritas estsull’amore cristiano, scritta dal suo immediato e vivente predecessore, Benedetto XVI, in cui viene spiegato il vero significato di “eros” e di “agape”.

“Eros” si traduce con amore, ma è un amore di possesso, squisitamente passionale, che deve essere educato, per essere trasfigurato in “agape” (carità), diventando donazione, sacrificio per il bene dell’amato: questa è la vocazione dell’unione coniugale, sorretta e sostenuta dalla grazia del sacramento del matrimonio.

L’erotismo è una deformazione dell’eros, perché rimanda e potenzia il paganesimo del dio greco Eros (Cupido per i latini).


Nessuno può “correggere” il Vangelo

Moltissime personalità, più esperte di noi, hanno già commentato l’Amoris Laetitia di papa Francesco. Ne citiamo alcuni: don Ariel Levi di Gualdo dell’Isola di Patmos (qui); del il prof. Roberto de Mattei (qui); l’amico Colafemmina di Fides et Forma (qui); anche La scure di Elia è da meditare (qui); la Nuova Bussola Quotidiana ha riportato diversi interventi (quiqui,qui) e il geniale editoriale del direttore Cascioli; Francesco Agnoli, schiettamente, scrive: “Non ho letto Amoris Laetitia, troppe pagine e troppe note. Da cattolico, mi basta il Vangelo, e il Magistero millenario della Chiesa. Troppe parole offuscano la verità”. Neppure Antonio Socci, col suo parlare da toscanaccio, ha mancato di dire la sua.

Una lista formidabile, destinata ad aumentare, tanto da farci pensare di non aggiungere altro. In fondo la cosa migliore sarebbe proprio quella suggerita da Elia:

Se è vero che non si può fare a meno di leggere pur qualcosa della e sull’ultima pubblicazione pontificia, evitiamo di cadere in trappola lasciandocene catturare e intossicare, dimenticando poi di fare le uniche cose effettivamente utili e necessarie nell’attuale frangente storico … rischiando di estenuarsi in sfoghi polemici che, alla fin fine, non cambiano nulla, se non le nostre condizioni emotive. Preghiamo, offriamo, facciamo penitenza (ma sul serio, non a chiacchiere) e, se abbiamo tempo e voglia di leggere, curiamo la retta fede.

Curiamo, allora, la retta fede perché di confusione ne abbiamo tanta e un testo del genere ad aumentare questa confusione, a firma di un Pontefice, proprio non ci voleva.

La maggior parte dei Media si è interessato alla questione della “comunione ai divorziati-risposati, e solo in pochi hanno fatto leva sull’argomento più scottante e delicato del documento quello, diremo, della teologia morale, dell’etica, del rapporto sessuale fra coniugi ridotto (ahinoi!) ad una lode al dio Eros.

Nel leggere le nostre umili osservazioni, data la delicatezza dell’argomento, vi sollecitiamo a tenere a mente la brillante e cattolica risposta del domenicano Padre Angelo al quesito da lui trattato nel 2007: “Problemi inerenti all’esercizio della sessualità all’interno del matrimonio” dove esordisce con una chiarezza tale che, questa, sarà la base per comprendere bene anche le nostre riflessioni: “La Chiesa tiene presente il significato intrinseco dell’atto coniugale che per la sua stessa struttura e finalità è ordinato alla procreazione…“.

Questa espressione è la sintesi di tutta la dottrina morale e sessuale che la Chiesa ha insegnato per duemila anni e che Bergoglio ha appena stracciato in due parole, queste: “D’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo,l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione…” (AL n.36). Non “spesso” santità, ma da sempre, da duemila anni la Chiesa ha sempre insegnato che il significato dell’atto coniugale (il sesso unitivo fra coniugi che è il vero eros e non l’erotismo), la sua struttura e finalità è ordinato alla procreazione, compito della Chiesa infatti non è allestire cattedre sull’erotismo, ma insegnare ai giovani a cosa serve il sesso.

Come ribaltare il magistero di Giovanni Paolo II

Bergoglio fa dire a Giovanni Paolo II cose che non ha detto e lo cita attribuendogli una certa apertura verso l’erotismo, ma quel Pontefice disse ben altra cosa: “Il paragone della “conoscenza” biblica con l’“eros” platonico rivela la divergenza di queste due concezioni. La concezione platonica si basa sulla nostalgia del Bello trascendente e sulla fuga dalla materia; (…) In quanto il concetto platonico di “eros” oltrepassa la portata biblica della “conoscenza” umana, il concetto contemporaneo sembra troppo ristretto. La “conoscenza” biblica non si limita a soddisfare l’istinto o il godimento edonistico, ma è un atto pienamente umano, diretto consapevolmente verso la procreazione, ed è anche l’espressione dell’amore interpersonale [cf. Gen 29,20; 1 Sam 1,8; 2 Sam 12,24]. Sembra, invece, che nella rivelazione originaria non sia presente l’idea del possesso della donna da parte dell’uomo, o viceversa, come di un oggetto. D’altronde, è però noto che, in base alla peccaminosità contratta dopo il peccato originale, uomo e donna debbono ricostruire, con fatica, il significato del reciproco dono disinteressato…” (Giovanni Paolo II – Udienza 26.3.1980 – vedi qui)

Nel documento papale di Bergoglio sono completamente assenti il peccato originale, il sesto comandamento, la concupiscenza, la purezza biblica. Voi ci direte: “ma non sarete forse ad essere voi un tantino maliziosi?” No, o meglio, certo che non siamo limpidi, ma nel contesto della discussione siamo trasparenti e, parlare chiaramente di questi temi, non è essere maliziosi, le parole di Giovanni Paolo II sopra riportate, con la risposta anche di padre Angelo, lo dimostrano: curiamo semplicemente la retta fede con la vera dottrina cattolica a riguardo di una chiarissima teologia morale (soprattutto fra coniugi) che Bergoglio, purtroppo, sta modificando a danno della comprensione.

L’erotismo (dalla lingua greca ἔρως-eros, la divinità maschile Eros dell’amore) è l’insieme delle varie manifestazioni del desiderio erotico che attrae verso qualcuno o qualcosa e il tipo di relazione che si instaura tra soggetti che ne sono coinvolti. Sacralizzata, la sessualità è tanto spaventosa quanto seducente; secondo Bataille (vedi L’erotismo, Bataille, 1957) non è affatto immorale, bensì sospende la morale individuale in nome della vita e della specie. L’erotismo manifesta sia la prossimità e la vicinanza alla frenesia, all’eccitazione e al desiderio di possesso fisico, sia la capacità di trattenersi, di rinunciare al possesso reale in favore dell’immaginazione… In sostanza, eros, non è sinonimo di erotismo, mentre l’erotismo ha come radice il dio Eros con tutto ciò che comporta e al documento papale contestiamo l’uso sbagliato del termine.

Infatti, non vogliamo demolire o demonizzare l’eros in quanto amore naturale che accende la passione dei sensi, e che è certamente utile per l’attrazione iniziale nel rapporto fra un uomo e una donna che intendessero appunto sposarsi e unirsi, ma far capire che le espressioni usate dal Papa nel testo (come “erotismo” appunto) non spingono verso questo eros naturale, ma verso l’erotismo pagano del dio Eros.

Dice papa Bergoglio: “Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro” (AL, n.35).

Domanda: Santità, con questo ragionamento allora perché Gesù denunciò i farisei a riguardo del matrimonio e del ripudio delle mogli? Gesù era un retorico? e sempre Gesù ha dunque IMPOSTO una norma in forza della sua autorità? Chi ha imposto che il matrimonio sia un Sacramento indissolubile? E per quale ragione?

Leggiamo questo passo dell’enciclica Deus Caritas est di Benedetto XVI:

“All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano, l’antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in anticipo che l’Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all’amore — eros, philia (amore di amicizia) e agape — gli scritti neotestamentari privilegiano l’ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all’amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola agape, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall’illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino? Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l’eros? Guardiamo al mondo pre-cristiano. I greci — senz’altro in analogia con altre culture — hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una «pazzia divina» che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria: « Omnia vincit amor », afferma Virgilio nelle Bucoliche — l’amore vince tutto — e aggiunge: «et nos cedamus amori» — cediamo anche noi all’amore. Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione «sacra» che fioriva in molti templi. L’eros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col DivinoA questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros, che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza” (nn.3-4).

Leggendo questo passaggio molti diranno: “Allora, che ha detto Francesco? non ha detto le stesse cose?”. Forse sì, ma tagliando, per esempio, il pezzo finale della Deus Caritas est in viene detto ben altro da ciò che viene sostenuta dal papa regnante, modificandone il senso e l’interpretazione.

Ecco come Benedetto XVI conclude quel pensiero:

Innanzitutto che tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo «avvelenamento», ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza” (n.5).

La strada della purificazione, maturazione e rinuncia alla quale, Francesco… rinuncia! Spingendo i coniugi a curare l’aspetto erotico del proprio rapporto coniugale anziché sforzarsi di comprendere il valore di certi sacrifici richiesti dalla Sacra Scrittura o, per dirla con Giovanni Paolo II, che i divorziati risposati, se non riusciranno a rendere nullo il matrimonio sacramentale, dovranno vivere da “fratello e sorella”, il vero eros che diventa vera agape, un bene più grande, un valore più eccelso.

Parliamoci chiaro: l’eros ha bisogno della “guarigione” perché anch’esso è stato semmai avvelenato dal peccato originale, di conseguenza la sua guarigione avviene proprio per un atto ragionevole – e ben educato – degli sposi cristiani i quali, proprio grazie al Sacramento del Matrimonio che infonde la grazia, non si lasciano sopraffare dall’istinto e fanno uso della sessualità per diventare collaboratori di Dio, nel dare origine ad una vita nuova. E laddove ci sono “situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone” (AL n.6), l’unica soluzione è la continenza, non c’è altra via.

Scrive ancora Papa Francesco nel documento: “Nelle sue catechesi sulla teologia del corpo umano, san Giovanni Paolo II ha insegnato che la corporeità sessuata «è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione», ma possiede «la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono». L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi” (AL, n.151)

Il fine del vero amore non è il piacere

Ma in Giovanni Paolo II questo “amore-eros” non è l’erotismo “più sano” inteso da Bergoglio! Wojtyla non sta parlando della “ricerca del piacere” fine a se stesso, sta dicendo che l’eros che da origine agli impulsi sessuali non è finalizzato solo alla procreazione, ma INSIEME alla procreazione esprime e da fecondità all’amore che donandosi (l’uno all’altro) esplode nel piacere, l’orgasmo che da vita sia alla coppia quanto alla generazione di una nuova vita umana. Per Wojtyla, l’eros nella coppia va bene, a patto che il concetto del piacere sessuale abbia come raggiungimento per entrambi il fine della propria natura: felicità della coppia (l’orgasmo naturalmente inteso ma non divinizzato – eros) e la procreazione di una nuova vita.

Infatti, riporta padre Angelo dall’insegnamento della Chiesa: Per questo Giovanni Paolo II ha detto che “l’usufruire dei periodi infecondi nella convivenza coniugale può diventare sorgente di abusi” (5.9.1984) e che “la persona non può mai essere considerata un mezzo per raggiungere uno scopo; mai, soprattutto, un mezzo di “godimento”. Essa è e dev’essere solo il fine di ogni atto. Solo allora corrisponde alla vera dignità della persona” (Gratissimam sane, 12).

“Baci e carezze – spiega a ragione padre Angelo Bellon di Amici Domenicani – di per sé non toccano l’ambito della sessualità, ma la possono coinvolgere. Qualora la coinvolgessero e avessero come obiettivo la polluzione o la masturbazione, allora si tratterebbe di atti che assumono la malizia dell’obiettivo perseguito. Se invece accompagnano l’atto compiuto secondo i disegni di Dio (il fine della procreazione), ne assumono la bontà e la meritorietà”.

Per questo la Chiesa è sempre stata contraria ai rapporti “prematrimoniali” ed è sempre stata sollecita a sostenere i giovani nel matrimonio. La Chiesa che è sempre stata Madre e non matrigna come oggi la si vuole dipingere, ha usato la teologia morale per aiutare i coniugi a superare gli ostacoli della vita matrimoniale legati alla sessualità. Essa non vietava per il gusto di vietare, ma per risparmiare ai coniugi la deriva del proprio rapporto incentrato sugli effetti del sesso-eros, spingendoli già da qui, sulla terra, ai superamenti di cui parlava Benedetto XVI sopra.

Bergoglio invece sembra confondere l’approccio sessuale con l’erotismo che si attua – per esempio – nel Kamasutra… Ha letto davvero il “suo” testo o si è fidato ciecamente del suo staff argentino, dichiaratamente progressista, modernista e della teologia del popolo? Non esiste “l’erotismo più sano” o l’erotismo più insano. Sarebbe come dire che esiste la magia bianca e la magia nera, ma non è così, la magia è una sola ed è diabolica. Sarebbe come dire che esiste il peccato più buono e il peccato meno buono, ma non è così, il peccato si divide in veniale o mortale, ma anche il più veniale può diventare mortale se non confessato o peggiorato, insomma, non esiste un peccato più “buono”. Del resto Isaia ce lo aveva predetto: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro. Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti…” (Is.5,20-ss).

Ciò che sorprende nel testo è che non si parla mai del Matrimonio per ciò che è: il Calvario dei coniugi, la loro porta stretta che Bergoglio ha trasformato ora in un’isola felice, tipo Gardaland o un’altro grande parco giochi dove l’erotismo primeggia quale elemento essenziale della coppia cristiana moderna per sopravvivere in un mondo triste e, diciamolo pure, perseguitato dalle leggi imposte dalla Chiesa cattiva del passato! Ecco infatti spiegato un’altro passo citato da Bergoglio nel testo, ma in modo distorto, ecco cosa dice veramente Benedetto XVI:

“L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità…. (..) Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l’amore — l’eros — può maturare fino alla sua vera grandezza. Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L’eros degradato a puro «sesso» diventa merce, una semplice «cosa» che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì dell’uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L’apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l’uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l’eros vuole sollevarci « in estasi » verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni…” (Dce. n.5).

Notare infatti che nel testo Deus Caritas est non si parla mai di “erotismo” ma di “eros” inteso come amore, così come nella teologia del corpo di Giovanni Paolo II – ed in tutto il magistero della Chiesa su questo tema, vedi qui -, egli non parla mai di “erotismo”, ma di eros in quanto amore, impulso del tutto naturale per muovere, accendere quella sessualità sana che sia nel mondo animale, quanto umano, ha un fine specifico: la procreazione, la vita nuova, le nuove generazioni, la cooperazione creatrice con Dio senza il cui alito divino, nessun essere sopravviverebbe sulla terra e nell’universo intero.

Insomma, parlare di eros è qualcosa di veramente vertiginoso, trascendente, basti citare i grandi mistici come Teresa d’Avila, ma anche il Cantico dei Cantici quando però non vengono usati, abusati e strumentalizzati per creare perversioni  atte a giustificare gravi forme di peccato. Viene così da chiedersi, seriamente, come fa Bergoglio a nutrire questa cieca fiducia nei teologi progressisti e rahneriani di cui si è circondato? Il sospetto che Bergoglio sia impastato della dottrina del gesuita Karl Rahner è sempre più tristemente fondata, ed oggi troviamo questa dottrina placidamente distesa in tutta l’esortazione. L’eros va purificato, educato e non lasciato allo stato brado degli istinti attraverso i quali allora diventa erotismo.

Il velenoso pensiero del gesuita Karl Rahner

Vogliamo concludere con la riflessione di un padre carmelitano per nulla “tradizionalista” oggi inteso, che ci aiuta a comprendere il danno di questa esortazione se Vescovi e Cardinali non interverranno a correggerla nella sua applicazione.

Karl Rahner SJ (1904-984)
Karl Rahner SJ (1904-984)

“Secondo Karl Rahner tutti i tipi di amore, persino il più spirituale, contengono elementi di eros, che è presente in ogni genere di affetto, anche in quello per gli amici.Naturalmente è sbagliato associare l’eros all’erotismo. Decade così la prospettiva tomistica per cui l’amore umano è un mezzo per il raggiungimento della felicità, mentre sussiste quella di Duns Scoto, che radicalizza l’elemento estatico dell’amore. Per Olivier Clément «Dio è lo storico mendicante che con infinita pazienza bussa alla porta di ognuno di noi, elemosinando amore». Egli cita a conferma il commento di Origene al verso 6 del salmo 70: «Sono povero e bisognoso: Dio, affrettati verso di me», aggiungendo che «è Cristo stesso a sussurrarlo mentre va mendicando amore dall’uomo, per poterlo a sua volta arricchire».

Santa Caterina da Siena amava sottolineare la dolcissima tenerezza di Dio per la creazione: «Tu, Trinità eterna, sei fattrice; ed io, tua fattura, ho conosciuto nella nuova creazione che mi facesti col sangue del tuo Figlio, che tu sei innamorato della bellezza della tua fattura» (Dialogo della Divina Provvidenza).

Egli infatti ci ricrea tramite il sacrificio del Figlio e non esiste agape più grande e amore più altruista del suo. Creati a sua immagine tramite il Figlio, veniamo ricreati dal sacrificio della croce, così che Dio, amando noi, ama se stesso in noi. Dal momento in cui ci separammo da Lui per il peccato originale, Egli ha cominciato a ricercare in noi suo Figlio, una ricerca che è culminata nella morte del Figlio, il quale però dalla croce “attira tutti a sé”, e questa è un’altra dimostrazione che anche nell’amore di Dio agape ed eros sono indissolubilmente congiunti.

Il grande dono che il cristianesimo ha fatto al mondo è proprio l’aver accentuato la caratteristica oblativa dell’amore. Per il Vangelo di Giovanni l’amore oblativo impregna tutta la storia della salvezza. Prima ancora della creazione del mondo c’è l’amore del Padre e del Figlio (Gv 17,24) e dopo la caduta di Adamo entra in essere quell’amore che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (Gv 3, 16) che a sua volta sfocia in quello del Figlio che sacrifica la vita per i suoi amici: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13, 1).

Che Dio si sia fatto uomo e sia morto per l’uomo, prova inconfutabilmente che amare è dimenticare se stessi e dare il primo posto agli altri. Oggi che tutti più o meno abbiamo la tendenza di metterci al centro dell’attenzione e amare è spesso godere a spese degli altri, c’è un grande bisogno del messaggio evangelico.

Pur essendo indirizzato all’agape, l’amore cristiano non si è liberato dall’eros, infatti l’agape senza eros sarebbe un malato cronico, anemico, rigido, e non avrebbe vigore né tenerezza.

Sulla Croce si ama davvero

Nel suo commento al Cantico dei Cantici, Origene lascia intendere che nella Scrittura c’è la presenza di eros, e nei sermoni sullo stesso cantico Gregorio di Nissa arriva fino ad affermare che l’eros esprime meglio dell’agape l’incredibile energia dell’amore. Persino Dionigi Aeropagita avrebbe scritto: «Per alcuni tra i nostri autori di cose sacre (hierologoi) il termine eros risuona più divino che non agape», rifacendosi senza dubbio alla celebre definizione di Ignazio di Antiochia: «il mio amore è crocifisso», che in greco suona: ho emos eros estauròtai (De divinis nominibus, I). Ignazio, Origene e Dionigi usano quindi eros per definire l’amore del Crocifisso, e sulla stessa linea si metterà in un certo senso, nel medioevo, santa Brigida che sceglie come motto per l’ordine da lei fondato: amor meus crucifixus est (il mio amore è crocifisso).

Per Ignazio l’eros oltre che riferirsi a Gesù alludeva probabilmente all’attrazione imperfetta che inizialmente egli provava per Gesù e che gli fece dire: «La mia passione umana è stata crocifissa e non è in me un fuoco materiale (eros)», concetto che ricorre in san Paolo:«Quelli che sono di Gesù Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5, 24).

Che l’eros sia crocifisso non vuol dire che sia morto, ma, come auspica papa Ratzinger, che sia purificato, riformato e abbia individuato il vero oggetto d’amore che era in lui sin dall’inizio: la brama di Dio. (Padre Wilfrid Stinissen, carmelitano scalzo, presbitero e teologo morto nel 2013, in Più grande di tutto è l’amore, Città Nuova 2010).


[Modificato da Caterina63 12/04/2016 17:41]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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