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La Civiltà Cattolica i Gesuiti e il Vaticano

Ultimo Aggiornamento: 16/04/2018 13:38
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"La Civiltà Cattolica" ha un direttore super: il papa

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spadaro

Il 3 marzo compie 80 anni il gesuita GianPaolo Salvini, direttore de "La Civiltà Cattolica" dal 1985 al 2011 – 26 anni, un record – e tuttora suo "scrittore emerito".

Intervistato da Filippo Rizzi su "Avvenire" alla vigilia dell'augusto genetliaco, padre Salvini ha detto qualcosa di straordinariamente utile per l'esegesi della specialissima rivista da lui diretta così a lungo, prima di passare il testimone all'attuale direttore Antonio Spadaro.

"Ogni direttore ha il suo stile e padre Antonio Spadaro, già molto noto e fervido di iniziative, grazie alle vicende dell’attuale pontificato ha in qualche modo riportato il nostro periodico a quello che era ai tempi di Pio XII: la 'rivista del papa'. L’espressione è impropria, perché 'La Civiltà Cattolica' non è mai stata voce ufficiale del pontefice, ma tutti sanno che il suo rapporto con la Santa Sede non è mai venuto meno e certamente ora si è fatto più intenso, anche per l’interesse che papa Francesco ha manifestato intorno ad alcuni interventi della rivista che accompagnano il suo magistero".

Se ciò è vero – e della parola di padre Salvini non si può dubitare – non erano dunque affatto campati per aria il titolo e il contenuto di un servizio di www.chiesa dello scorso 7 novembre, che fece colpo in tutto il mondo:

> Francesco tace, ma un altro gesuita parla per lui

In quel servizio si dava ampio risalto al bilancio del sinodo sulla famiglia scritto da padre Spadaro su "La Civiltà Cattolica", un bilancio tutt'altro che imparziale, nel quale era facile leggere il pensiero del papa sulla comunione ai divorziati risposati.

Tornando a padre Salvini, è rivelatore il paragone che egli instaura tra l'attuale profilo de "La Civiltà Cattolica" come "rivista del papa", e quello che essa era ai tempi di Pio XII.

In un servizio di www.chiesa di nove anni fa, in cui si ricostruivano i rapporti tra la rivista e la Santa Sede da un pontificato all'altro, si leggeva questo a proposito di papa Eugenio Pacelli:

"A metà del Novecento, durante il pontificato di Pio XII, il rapporto tra il papa e 'La Civiltà Cattolica' era strettissimo. Pio XII rivedeva di persona le bozze degli articoli e dava lui stesso tutte le indicazioni al direttore dell'epoca, padre Giacomo Martegani".

Seguì una vicenda alterna. Giovanni XXIII delegò il controllo della rivista al segretario di Stato. Paolo VI riprese a leggere le bozze e a chiosarle di persona. Giovanni Paolo II se ne disinteressò. Nei suoi ultimi anni, della revisione delle bozze della rivista si occupavano funzionari di minor grado, come l'allora sottosegretario agli esteri Pietro Parolin.

Durante il pontificato di Benedetto XVI riprese a dire la sua il segretario di Stato, che rispondeva al nome di Tarcisio Bertone.

Mentre con Francesco – parola di padre Salvini – "La Civiltà Cattolica" è tornata appunto ad essere la "rivista del papa". Grazie anche al ruolo chiave del suo direttore, così descritto nel citato servizio di www.chiesa dello scorso 7 novembre:

"Per papa Francesco padre Spadaro è tutto. Consigliere, interprete, confidente, scrivano. Non si contano i libri, gli articoli, i tweet che scrive incessantemente sul papa. Per non dire dei discorsi papali che rivelano l'impronta della sua mano".

Secondo tradizione, le bozze di ogni nuovo fascicolo de "La Civiltà Cattolica" sono recapitate in Vaticano in dodici copie: una per il papa, una per il segretario di Stato e le altre per i dicasteri di curia competenti nelle materie dei vari articoli.

Dopo di che, il primo e il terzo sabato di ogni mese il direttore sale in Vaticano a raccogliere le indicazioni, prima di dare il "visto si stampi". Ma il parere dei vari dicasteri di curia conta ormai poco o niente. In molti casi non viene nemmeno più formulato. Perché tutti sanno che vale la volontà insindacabile di uno solo, il papa, in rapporto diretto con padre Spadaro.

Per altri particolari sulle modalità di confezione della rivista, da un papa all'altro, prima dell'attuale:

> "La Civiltà Cattolica" ha un direttore in più. In Vaticano
 (24.9.2007)

L'intervista di Filippo Rizzi a padre Salvini è stata pubblicata integralmente anche su "L'Osservatore Romano".




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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A proposito di gesuiti



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Quella che fu la Compagna di Gesù adesso è la setta di Karl Rahner.


di Padre Giovanni Scalese (02-04-2016)


Nei giorni scorsi il Padre Giovanni Cavalcoli ha pubblicato sulla rivista telematica L’Isola di Patmos un interessantissimo articolo su La Compagnia di Gesú nella Chiesa d’oggi: ascesa e caduta di un grande Ordine. Padre Cavalcoli si riallaccia alle conclusioni di un libro del gesuita Antonio Caruso, che individua l’origine della crisi della Compagnia nell’influsso che hanno esercitato su di essa il marxismo, la massoneria e il modernismo.

Karl Rahner, S.J. (1904-1984), l'eresiarca del XX secolo.
Karl Rahner, S.J. (1904-1984), l’eresiarca del XX secolo.

Secondo il Domenicano, a questi influssi ne va aggiunto un altro, più insidioso, il pensiero di Karl Rahner: «Cosí è successo che, mentre, tutto sommato, la Compagnia nel suo insieme, dopo l’infelice superiorato del Padre Pedro Arrupe, è riuscita a frenare o sta frenando la tentazione marxista, massonica, luterana e modernista, il rahnerismo, purtroppo, l’ha invasa, sicché attualmente esso si presenta come il maggior fattore di disordine e di indisciplina all’interno della Compagnia, di tradimento del carisma ignaziano, di disobbedienza alla Chiesa, di falso progresso e di grave danno per le anime» (pp. 7-8).

Devo dire che non ci avevo mai pensato; Padre Cavalcoli, che di Rahner è profondo conoscitore (nel 2009 ha pubblicato per Fede & Cultura il volume Karl Rahner. Il Concilio tradito), non ha avuto difficoltà a individuare questo virus che ha infettato l’organismo della Compagnia. Io non potevo accorgermene semplicemente perché — non ho vergogna ad ammetterlo — non conosco Rahner. Ricordo che durante i miei studi teologici (fatti alla scuola dei Domenicani, dove Rahner era pressoché ignorato), un giorno decisi di comperare il suoCorso fondamentale sulla fede. Beh, vi sembra normale che in una pagina non ci sia un punto? Ma, a parte questo aspetto — su cui, se il discorso risultasse scorrevole e chiaro, si potrebbe soprassedere — il problema era che si trattava di un testo pressoché incomprensibile. Io ho sempre seguito nei miei studi una norma pratica che si è rivelata molto utile: quando leggo un testo e non lo comprendo immediatamente, mi dico: “Eri distratto”. Lo leggo quindi una seconda volta, con più attenzione; se non lo capisco ancora, mi dico: “Evidentemente è un po’ difficile”. Lo leggo perciò una terza volta; se anche questa volta non riesco a comprenderlo, concludo: “Il problema non è mio, ma dell’autore, che è incapace di farsi comprendere”. A questo punto chiudo il libro senza complessi, per passare a qualcosa di più interessante.

Pedro Arrupe, S.J. (1907-1991), "papa nero" dal 1965 al 1983.
Pedro Arrupe, S.J. (1907-1991), “papa nero” dal 1965 al 1983.

Vorrei qui condividere con i lettori la mia personale esperienza della Compagnia di Gesù.

Dopo gli studi filosofici e teologici del corso istituzionale, svolti all’Angelicum, per la licenza (in teologia biblica) passai alla Gregoriana, perché in tal modo avrei avuto la possibilità di frequentare anche i corsi del Biblico. Tra i due ambienti, quello domenicano e quello gesuitico, preferivo mille volte il primo, sia perché più familiare, sia soprattutto perché caratterizzato da una precisa identità intellettuale (all’Angelicum si insegnano la filosofia e la teologia di San Tommaso). Però non mi sono mai pentito della mia scelta, perché alla Gregoriana e al Biblico ho avuto modo di incontrare docenti di eccezionale levatura (Lyonnet, Vanhoye, Alonso-Schökel, Vanni, ecc.). Nel 1981, quando Giovanni Paolo II “commissariò” l’Ordine con la nomina di Padre Dezza come Delegato pontificio, io ero lí: rimasi impressionato dallo spirito di leale sottomissione con cui i gesuiti accettarono la decisione papale; non udii mai una sola parola di critica.

In quello stesso anno, in preparazione all’ordinazione sacerdotale, feci la mia prima esperienza di esercizi ignaziani; fu un’esperienza “scioccante”, ma decisiva: capii che quelli, e non altri, erano i veri esercizi spirituali; da allora in poi, per quanto è dipeso da me, ho scelto sempre e solo esercizi ignaziani, anche perché sono del parere che ciascuno debba fare il suo mestiere. Nel 1993 ebbi anche la grazia di fare l’intero “mese” a Galloro: una di quelle esperienze che lasciano il segno. In questi ultimi anni però, pur dovendo riconoscere una persistente serietà dei predicatori, ho riscontrato un certo scadimento della loro preparazione. D’altra parte, la cosa non deve meravigliare piú di tanto: un tempo si diventava gesuiti dopo un lungo tirocinio e svariati anni di studio, oggi molti entrano nella Compagnia a età inoltrata ed è inevitabile che gli studi, per quanto seri, siano necessariamente abbreviati.

La situazione attuale della Compagnia è drammatica: i numeri, riportati anche da Padre Cavalcoli, sono di per sé eloquenti (36.000 nel 1964; meno di 17.000 nel 2015); ma non danno una visione completa, trattandosi di valori assoluti: se si va a considerare la situazione localmente, essa apparirà ancora piú grave. Si pensi all’Italia: i grandi collegi che avevano un tempo i gesuiti e che hanno formato generazioni di VIP, che fine hanno fatto? Se non erro, fra quelli rimasti, solo due (Roma e Palermo) hanno ancora un Rettore gesuita; tutti gli altri sono ormai gestiti direttamente da laici, con la supervisione di un unico religioso a livello nazionale. Le stesse case di esercizi (la predicazione degli esercizi spirituali dovrebbe essere la missione specifica della Compagnia) sono ormai in mano ai laici; i religiosi ci vanno solo per tenere il loro corso. Le chiese resistono (non dappertutto: a Firenze non c’è più alcuna presenza gesuitica) e continuano a offrire il prezioso servizio delle confessioni; ma questo avviene grazie a religiosi di età notevolmente avanzata.

In questi anni, la mia consuetudine con i gesuiti mi ha portato a fare una personale riflessione sulla Compagnia, che potrebbe in qualche modo aiutare a comprendere anche la sua attuale crisi. La condivido con voi, senza alcuna pretesa di esaustività, pienamente consapevole che chiunque potrebbe criticarla, integrarla o smentirla.

Sant'Ignazio di Loyola, in basco Íñigo López Loiola (Azpeitia, 1491 – Roma, 31 luglio 1556), è stato un religioso spagnolo, fondatore della Compagnia di Gesù.
Sant’Ignazio di Loyola (1491–1556), fondatore della Compagnia di Gesù (1540).

All’origine della Compagnia di Gesù c’è l’esperienza mistica di Sant’Ignazio di Loyola. Un’esperienza straordinaria, ma che, come tutte le esperienze spirituali, è soggettiva. Tale esperienza è confluita negli Esercizi spirituali, perché ciascuno potesse a sua volta ripeterla. Che cos’è che ha garantito l’autenticità dell’esperienza ignaziana e che cos’è che permette a chiunque faccia gli esercizi spirituali di non cadere nel soggettivismo? La sottomissione a quella che Ignazio chiama la “santa madre Chiesa gerarchica”. Non vorrei essere categorico, ma mi sembra che il capitolo più importante degli Esercizi spirituali siano le diciotto Regole per sentire con la Chiesa, che si trovano alla fine dell’aureo libretto (nn. 352-370).

Basti qui ricordare un paio di regole di carattere generale (le altre sono tutte su punti specifici):

«Prima regola. Messo da parte ogni giudizio proprio, dobbiamo avere l’animo disposto e pronto a obbedire in tutto alla vera sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa madre Chiesa gerarchica» (n. 352);

«Tredicesima regola. Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti noi crediamo che lo Spirito che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso in Cristo nostro Signore, lo sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo stesso Spirito e Signore nostro che diede i dieci comandamenti» (n. 365).

Si tenga presente che per i gesuiti questa sottomissione alla “santa madre Chiesa gerarchica” si traduceva poi concretamente nel quarto voto di totale obbedienza al Papa. Da una parte l’esperienza mistica (non solo quella di Ignazio, ma quella di ciascun gesuita) e dall’altra la sottomissione alla Chiesa hanno permesso per quattro secoli alla Compagnia di Gesù di svolgere con grande frutto il suo servizio ecclesiale, pur con i limiti che qualsiasi attività umana inevitabilmente comporta. È ovvio che nel momento in cui uno dei due elementi (la sottomissione alla Chiesa) si è affievolito, l’altro elemento (l’esperienza mistica), abbandonato alla sua soggettività, ha preso il sopravvento, con le conseguenze disastrose che sono sotto gli occhi di tutti.

La Chiesa ha sempre raccomandato, specialmente alle persone consacrate, la riflessione sulla parola di Dio, dapprima attraverso la lectio divina, successivamente attraverso l’orazione mentale. Ma ha sempre pure ammonito di interpretare la Scrittura alla luce della tradizione della Chiesa. Basti pensare all’Officium lectionis della Liturgia delle Ore: dopo la prima lettura, biblica, c’è sempre una seconda lettura, patristica, come a dire: medita pure liberamente sulla parola di Dio, ma fallo tenendo conto della comprensione che ne ha avuto attraverso i secoli la Chiesa. Se così non fosse, se si slegasse la Scrittura dalla tradizione, si cadrebbe nel “libero esame” di luterana memoria. Ed è esattamente ciò che è avvenuto negli ultimi anni a molti gesuiti, i quali pensano che, per conoscere la volontà di Dio, sia sufficiente fare orazione su un brano della Scrittura e “sentire” che cosa ci suggerisce lo Spirito.

Per terminare, permettetemi di fare una postilla alla pregevole trattazione di Padre Cavalcoli. Verso la fine del suo articolo, per far emergere le radici filosofiche del pensiero di Karl Rahner, fa riferimento al tentativo di Padre Joseph Maréchal di conciliare San Tommaso con Kant (pp. 15-17). Fa questo riferimento dopo aver accennato brevemente alla “rinascita tomista” del XIX secolo (pp. 14-15), quando la Chiesa, soprattutto attraverso l’opera di Leone XIII, ridiede impulso al tomismo, dopo secoli di oblio.

Padre Cavalcoli riassume così, in maniera schematica ma efficace, la situazione: «Con la fine del XIX secolo appariva sempre più evidente la necessità che la Chiesa non si limitasse a riaffermare i valori essenziali e perenni, ma affrontasse coraggiosamente anche il mondo moderno, resosi assai ostile alla Chiesa … Il Concilio Vaticano I aveva riaffermato e difeso i valori [cristiani] e condannati gli errori della modernità. Ma adesso occorreva anche fare attenzione ai valori della modernità, che erano maturati dopo la fine del Medioevo. E fu così che nacque il modernismo. L’istanza era giusta. Ma purtroppo i modernisti si lasciarono ingannare dagli errori della modernità per la mancanza di un adeguato criterio di discernimento, che avrebbe dovuto essere il tomismo. Ma pensarono che San Tommaso fosse superato. Cosí, per valutare la modernità, utilizzarono gli stessi criteri errati che erano offerti dalla modernità» (p. 15).

Ebbene, personalmente ritengo che proprio allora furono commessi gli errori di cui ancora oggi stiamo pagando le conseguenze. E non mi riferisco solo agli errori dei modernisti, ma anche a quelli della Chiesa. Quale fu l’errore della Chiesa? Esattamente quello di riproporre un tomismo incapace di dialogare con la modernità. Giustamente, Padre Cavalcoli fa notare che «il dibattito era soprattutto attorno a Kant» (p. 15). Ma San Tommaso non poteva rispondere a Kant, semplicemente perché vissuto cinque secoli prima. Perciò si comprende il tentativo, fallito, di Padre Maréchal di conciliare San Tommaso con Kant.

Non ci si rese conto allora — ma forse molti non si rendono conto neppure oggi — che quel tentativo era già stato fatto, con ben altri risultati, dal Beato Antonio Rosmini. Il filosofo roveretano aveva studiato l’Aquinate, quando ancora le sue opere giacevano coperte di polvere nelle biblioteche, e tenendo conto dei contributi della filosofia moderna, aveva sviluppato la philosophia perennis per renderla atta al confronto con la modernità. Rosmini aveva offerto alla Chiesa gli strumenti intellettuali per dialogare col mondo moderno; ma la Chiesa non colse quella opportunità: soprattutto attraverso i gesuiti ricordati da Padre Cavalcoli nel suo articolo (p. 14), perseguitò e condannò l’uomo che la Provvidenza le aveva donato e preferí proporre una filosofia di laboratorio (il “neotomismo” o la “neoscolastica”), incapace di affrontare le sfide della modernità.

E così abbiamo avuto il modernismo, Maréchal, Rahner… e oggi, dopo un secolo e mezzo, la Chiesa, priva com’è ancora di un “pensiero forte” da contrapporre al “pensiero debole” dominante, rischia di soccombere definitivamente alla modernità.

FONTE: querculanus.blogspot.it






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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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02/04/2016 23:07
 
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LA COMPAGNIA DI GESÙ NELLA CHIESA D’OGGI: ASCESA E CADUTA DI UN GRANDE ORDINE


[…] nella primavera del 1981 San Giovanni Paolo II, stanco di questa situazione esasperante ed irresolubile, che si trascinava dalla fine del Concilio, convocò in Vaticano un ristretto gruppo di Cardinali, tra i quali il Segretario di Stato Agostino Casaroli, per discutere della opportunità di sciogliere la Compagnia di Gesù. Metà dei Cardinali e il Papa stesso erano favorevoli; ma il Cardinale Casaroli convinse il Papa e il gruppo a rinunciare.


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Autore Giovanni Cavalcoli OP
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Giovanni Cavalcoli OP

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23.03.2016   Giovanni Cavalcoli OP –  LA COMPAGNIA DI GESÙ NELLA CHIESA D’OGGI: ASCESA E CADUTA DI UN GRANDE ORDINE





 



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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA 36a CONGREGAZIONE GENERALE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Curia Generalizia della Compagnia di Gesù
Lunedì, 24 ottobre 2016

[Multimedia]

 

Cari fratelli e amici nel Signore,

mentre pregavo pensando a che cosa vi avrei detto, mi sono ricordato con particolare emozione le parole finali che ci disse il Beato Paolo VI alla conclusione della nostra XXXII Congregazione Generale: «Così, così fratelli e figli. Avanti, in Nomine Domini.Camminiamo insieme, liberi, obbedienti, uniti nell’amore di Cristo, per la maggior gloria di Dio» [1].

Anche San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ci hanno incoraggiato a «camminare in una maniera degna della vocazione alla quale siamo stati chiamati (Ef 4,1)» [2] e a «continuare nel cammino di questa missione, in piena fedeltà al vostro carisma originario, nel contesto ecclesiale e sociale che caratterizza questo inizio di millennio. Come più volte vi hanno detto i miei Predecessori, la Chiesa ha bisogno di voi, conta su di voi, e continua a rivolgersi a voi con fiducia, in particolare per raggiungere quei luoghi fisici e spirituali dove altri non arrivano o hanno difficoltà ad arrivare» [3].

Camminare insieme – liberi e obbedienti – camminare andando alle periferie dove gli altri non arrivano, «sotto lo sguardo di Gesù e guardando l’orizzonte, che è la Gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta» [4] . Il gesuita è chiamato a «pensare – come afferma Sant’Ignazio – e vivere in qualsiasi parte del mondo dove è più necessario il servizio di Dio e l’aiuto alle anime» (Co 304). Il fatto è che «per la Compagnia, tutto il mondo dev’essere casa sua», diceva Nadal [5].

Ignazio scriveva a Borgia a proposito di una critica dei gesuiti chiamati “angelici” (Oviedo e Onfroy), perché dicevano che la Compagnia non era ben istituita e che bisognava istituirla di più nello spirito: Lo spirito che li guida – diceva Ignazio – «ignora lo stato delle cose della Compagnia, che sono in fieri, eccetto il necessario (e) sostanziale» [6]. Mi piace molto questo modo di Ignazio vedere le cose nel loro divenire, nel loro farsi, eccetto il sostanziale. Perché toglie la Compagnia da tutte le paralisi e la libera da tante velleità.

La Formula dell’Istituto è il “necessario e sostanziale” che tutti i giorni dobbiamo avere davanti agli occhi, dopo aver diretto lo sguardo a Dio nostro Signore: “Il modo d’essere dell’Istituto, che è cammino verso di Lui”. Lo è stato per i primi compagni i quali hanno previsto lo fosse “per quelli che ci seguiranno in questo percorso”. In tal modo, tanto la povertà quanto l’obbedienza o il fatto di non essere obbligati a determinate cose come la preghiera in coro, non sono né esigenze né privilegi, ma aiuti fatti alla mobilità della Compagnia, all’essere disponibili «a correre nella via di Cristo Nostro Signore» (Co 582) disponendo, grazie al voto di obbedienza al Papa, di una «più sicura direzione dello Spirito Santo» (Formula Istituto 3). Nella Formula vi è l’intuizione di Ignazio, e la sua sostanzialità è ciò che permette che le Costituzioni insistano sul tenere sempre in conto «i luoghi, i tempi e le persone» e che tutte le regole siano d’aiuto – tanto quanto – per cose concrete.

Il camminare, per Ignazio, non è un mero andare vagando, ma si traduce in qualcosa di qualitativo: è “profitto” e progresso, è andare avanti, è fare qualcosa in favore degli altri. Così lo esprimono le due Formule dell’Istituto approvate da Paolo III (1540) e da Giulio III (1550) quando incentrano l’occupazione della Compagnia sulla fede – sulla sua difesa e la sua propagazione – e sulla vita e la dottrina delle persone. Qui Ignazio e i primi compagni usano la parola giovamento (ad profectum [7], cfr Fil 1,12.25), che è quella che dà il criterio pratico di discernimento proprio della nostra spiritualità.

Il giovamento non è individualistico, è comune. «Il fine di questa Compagnia non è solo quello di occuparsi della salvezza e della perfezione delle anime dei suoi membri mediante la grazia divina, ma con la stessa grazia fare in modo di aiutare intensamente alla salvezza e perfezione delle anime del prossimo» (Ex 1, 2). E se da qualche lato si inclinava la bilancia nel cuore di Ignazio, era verso l’aiuto al prossimo, tanto è vero che si arrabbiava se gli dicevano che la ragione per cui uno si sarebbe fermato nella Compagnia era «perché in tal modo avrebbe salvato la sua anima. Ignazio non voleva gente che, essendo buona a proprio vantaggio, non si sarebbe trovata nella disposizione di servire il prossimo» (Aicardo I punto 10 pag. 41).

Il giovamento è in ogni cosa. La formula di Ignazio esprime una tensione: “non solamente… ma…”; e questo schema mentale di unire tensioni – la salvezza e perfezione propria e la salvezza e la perfezione del prossimo – a partire dall’ambito superiore della Grazia, è proprio della Compagnia. L’armonizzazione di questa e di tutte le tensioni (contemplazione e azione, fede e giustizia, carisma e istituzione, comunità e missione…) non si dà mediante formulazioni astratte, ma si ottiene nel corso del tempo mediante quello che Fabro chiamava «il nostro modo di procedere» [8]. Camminando e “progredendo” nella sequela del Signore, la Compagnia va armonizzando le tensioni che inevitabilmente la diversità di persone che convoca e le missioni che riceve contengono e producono.

Il giovamento non è elitario. Nella Formula Ignazio procede descrivendo i mezzi per un giovamento più universale, che sono propriamente sacerdotali. Però notiamo che le opere di misericordia si danno per scontate. La Formula dice: «senza che ciò sia di ostacolo» alla misericordia! Le opere di misericordia – la cura dei malati negli ospedali, l’elemosina mendicata e distribuita, l’insegnamento ai piccoli, il sopportare pazientemente le molestie… – erano l’ambiente vitale in cui Ignazio e i primi compagni si muovevano ed esistevano, il loro pane quotidiano. Stavano attenti che tutto il resto non fosse di ostacolo!

Infine, tale giovamento è “quello che maggiormente ci fa bene”. Si tratta del “magis”, di quel plus che porta Ignazio ad iniziare processi, ad accompagnarli e a valutare la loro reale incidenza nella vita delle persone, in materia di fede, o di giustizia, o di misericordia e carità. Il magis è il fuoco, il fervore dell’azione, che scuote gli assonnati. I nostri santi lo hanno sempre incarnato. Dicevano di sant’Alberto Hurtado che era “un dardo acuto che si conficca nella carne addormentata della Chiesa”. E questo contro quella tentazione che Paolo VI chiamava “spiritus vertiginis” e De Lubac, “mondanità spirituale”. Tentazione che non è, in primo luogo, morale ma spirituale e che ci distrae dall’essenziale: che è essere di giovamento, lasciare un’impronta, incidere nella storia, specialmente nella vita dei più piccoli.

«La Compagnia è fervore», affermava Nadal [9]. Per ravvivare il fervore nella missione di giovare alle persone nella loro vita e nella dottrina, desidero concretizzare queste riflessioni in tre punti che, dal momento che la Compagnia si trova nei luoghi di missione nei quali deve trovarsi, fanno particolarmente bene al nostro modo di procedere. Hanno a che fare con la gioia, con la Croce e con la Chiesa, nostra Madre, e hanno l’obiettivo di fare un passo avanti, togliendo gli impedimenti che il nemico di natura umana ci pone quando, nel servizio di Dio, andiamo salendo di bene in meglio.

1. Chiedere insistentemente la consolazione

Si può sempre fare un passo avanti nel chiedere insistentemente la consolazione. Nelle due Esortazioni Apostoliche [Evangelii gaudium e Amoris laetitia] e nell’Enciclica Laudato si’ ho voluto insistere sulla gioia. Ignazio, negli Esercizi fa contemplare ai suoi amici «il compito di consolare», come specifico di Cristo Risorto (ES 224). E’ compito proprio della Compagnia consolare il popolo fedele e aiutare con il discernimento affinché il nemico della natura umana non ci sottragga la gioia: la gioia di evangelizzare, la gioia della famiglia, la gioia della Chiesa, la gioia del creato… Che non ce la rubi né per scoraggiamento di fronte alla grandezza dei mali del mondo e ai malintesi tra coloro che si propongono di fare il bene, né che ce la rimpiazzi con le gioie fatue che sono sempre a portata di mano in qualsiasi negozio.

Questo “servizio della gioia e della consolazione spirituale” è radicato nella preghiera. Consiste nell’incoraggiarci e incoraggiare tutti a «chiedere insistentemente la consolazione a Dio». Ignazio lo formula in modo negativo nella 6ª regola della prima settimana, quando afferma che «giova molto cambiare intensamente sé stessi contro la stessa desolazione» insistendo nella preghiera (ES 319). Giova perché nella desolazione ci accorgiamo di quanto poco valiamo senza quella grazia e consolazione (cfr ES 324). Praticare e insegnare questa preghiera di chiedere e supplicare la consolazione è il principale servizio alla gioia. Se qualcuno non si ritiene degno (cosa molto comune nella pratica), almeno insista nel chiedere questa consolazione per amore al messaggio, dal momento che la gioia è costitutiva del messaggio evangelico, e la chieda anche per amore agli altri, alla sua famiglia e al mondo. Una buona notizia non si può dare con il volto triste. La gioia non è un “di più” decorativo, è chiaro indice della grazia: indica che l’amore è attivo, operante, presente. Perciò il cercarla non va confuso con il cercare “un effetto speciale”, che la nostra epoca sa produrre per esigenze di consumo, bensì la si cerca nel suo indice esistenziale che è la “permanenza”: Ignazio apre gli occhi e si sveglia al discernimento degli spiriti scoprendo questo diverso valore tra gioie durature e gioie passeggere (Autobiog 8). Il tempo sarà l’elemento che gli offre la chiave per riconoscere l’azione dello Spirito.

Negli Esercizi, il “progresso” nella vita spirituale si dà nella consolazione: è l’andare procedendo di bene in meglio (cfr ES 315) e anche «ogni aumento di speranza, fede, e carità, e ogni gioia interiore» (ES 316). Questo servizio della gioia fu quello che condusse i primi compagni a decidere di non sciogliere ma costituire la compagnia che si offrivano e condividevano spontaneamente e la cui caratteristica era la gioia che dava loro il pregare insieme, l’uscire in missione insieme e il tornare a riunirsi, ad imitazione della vita che conducevano il Signore e i suoi Apostoli. Questa gioia dell’annuncio esplicito del Vangelo – mediante la predicazione della fede e la pratica della giustizia e della misericordia – è ciò che porta la Compagnia ad uscire verso tutte le periferie. Il gesuita è un servitore della gioia del Vangelo, sia quando lavora “artigianalmente” conversando e dando gli esercizi spirituali a una sola persona, aiutandola a incontrare quel «luogo interiore da dove gli viene la forza dello Spirito che lo guida, lo libera e lo rinnova» [10], sia quando lavora in maniera strutturata organizzando opere di formazione, di misericordia, di riflessione, che sono prolungamento istituzionale di quel punto di inflessione in cui si dà il superamento della propria volontà ed entra in azione lo Spirito. Bene affermava M. De Certeau: gli Esercizi sono «il metodo apostolico per eccellenza», poiché rendono possibile «il ritorno al cuore, al principio di una docilità allo Spirito, che risveglia e spinge chi compie gli esercizi a una fedeltà personale a Dio» [11].

2. Lasciarci commuovere dal Signore posto in Croce

Si può sempre fare un passo in più nel lasciarci commuovere dal Signore posto in croce, da Lui in persona e da Lui presente in tanti nostri fratelli che soffrono – la grande maggioranza dell’umanità! Il Padre Arrupe diceva che dove c’è un dolore, là c’è la Compagnia.

Il Giubileo della Misericordia è un tempo propizio per riflettere sui servizi della misericordia. Lo dico al plurale perché la misericordia non è una parola astratta ma uno stile di vita, che antepone alla parola i gesti concreti che toccano la carne del prossimo e si istituzionalizzano in opere di misericordia. Per noi che facciamo gli Esercizi, questa grazia mediante la quale Gesù ci comanda di assomigliare al Padre (cfr Lc 6,36) inizia con quel colloquio di misericordia che è il prolungamento del colloquio con il Signore crocifisso a causa dei miei peccati. Tutto il secondo esercizio è un colloquio pieno di sentimenti di vergogna, confusione, dolore e lacrime di gratitudine vedendo chi sono io – facendomi piccolo – e chi è Dio – magnificandolo – lui «che mi ha conservato in vita fino ad ora» (ES 61), chi è Gesù, appeso alla croce per me. Il modo in cui Ignazio vive e formula la sua esperienza della misericordia è di grande giovamento personale e apostolico e richiede un’acuta ed elevata esperienza di discernimento. Diceva il nostro padre a [san Francesco] Borgia: «Quanto a me, mi persuado che prima e dopo sono tutto un impedimento; e di ciò sento una più grande contentezza e gioia spirituale nel Signore nostro, per il fatto di non potere attribuire a me cosa alcuna che appaia buona» [12]. Ignazio vive dunque della pura misericordia di Dio fin nelle cose più piccole della sua vita e della sua persona. E sentiva che quanto più impedimento egli poneva, con tanta maggior bontà lo trattava il Signore: «Tanta era la misericordia del Signore, e tanta la copia della soavità e dolcezza della grazia sua con esso lui, che quanto egli più desiderava d’essere in questo modo gastigato, tanto più benigno era Iddio e con abbondanza maggiore spargeva sopra di lui i tesori della sua infinita liberalità. Laonde diceva, che egli credeva no vi essere nel mondo uomo, in cui queste due cose insieme, tanto come in lui, concorressero; la prima mancare tanto a Dio e l’altra il ricevere tante e così continue grazie dalla sua mano» [13].

Ignazio, nel formulare la sua esperienza della misericordia in questi termini comparativi – quanto più sentiva di far torto al Signore, tanto più il Signore abbondava nel dargli la sua grazia – libera la forza vivificante della misericordia che noi molte volte diluiamo con formulazioni astratte e condizioni legalistiche. Il Signore, che ci guarda con misericordia e ci sceglie, ci invia per far giungere con tutta la sua efficacia la stessa misericordia ai più poveri, ai peccatori, agli scartati e ai crocifissi del mondo attuale che soffrono l’ingiustizia e la violenza. Solo se sperimentiamo questa forza risanatrice nel vivo delle nostre stesse piaghe, come persone e come corpo [comunità], perderemo la paura di lasciarci commuovere dall’immensità della sofferenza dei nostri fratelli e ci lanceremo a camminare pazientemente con la nostra gente, imparando da essa il modo migliore di aiutarla e servirla (cfr CG 32 d 4 n 50).

3. Fare il bene di buon animo, sentendo con la Chiesa

Si può sempre fare un passo avanti nel compiere il bene di buon animo, sentendo con la Chiesa, come dice Ignazio. È anche proprio della Compagnia il servizio del discernimento del modo in cui facciamo le cose. Fabro lo formulava chiedendo la grazia che «tutto il bene che si possa realizzare, pensare od organizzare, si faccia con buon spirito e non con quello cattivo» [14]. Questa grazia di discernere che non basta pensare, fare o organizzare il bene, ma bisogna compierlo con buon spirito, è quello che ci radica nella Chiesa, nella quale lo Spirito agisce e distribuisce la diversità dei suoi carismi per il bene comune. Fabro diceva che in molte cose coloro i quali volevano riformare la Chiesa avevano ragione, però Dio non voleva correggerla con i loro metodi.

E’ proprio della Compagnia fare le cose sentendo con la Chiesa. Fare questo senza perdere la pace e con gioia, considerati i peccati che vediamo sia in noi come persone sia nelle strutture che abbiamo creato, implica portare la Croce, sperimentare la povertà e le umiliazioni, ambito in cui Ignazio ci incoraggia a scegliere tra sopportarle pazientemente o desiderarle [15]. Lì dove la contraddizione era più flagrante, Ignazio dava l’esempio di raccogliersi in sé stesso, prima di parlare o agire, per operare di buon animo. Le regole per sentire con la Chiesa non le leggiamo come istruzioni precise su punti controversi (qualcuno potrebbe risultare estemporaneo), ma come esempi dove Ignazio invitava nel suo tempo ad “agire contro” lo spirito antiecclesiale, inclinandosi totalmente e decisamente dal lato della nostra Madre, la Chiesa, non per giustificare una posizione discutibile, ma per aprire uno spazio in cui lo Spirito avrebbe potuto agire a suo tempo.

Il servizio del buon animo e del discernimento ci fa essere uomini di Chiesa – non clericali, ma ecclesiali – uomini “per gli altri”, senza alcuna cosa propria che isoli ma mettendo in comunione e al servizio tutto ciò che abbiamo.

Non camminiamo né da soli né comodi, camminiamo con «un cuore che non si accomoda, che non si chiude in sé stesso, ma che batte al ritmo di un cammino che si realizza insieme a tutto il popolo fedele di Dio» [16]. Camminiamo facendoci tutto a tutti cercando di aiutare qualcuno.

Questa spogliazione fa sì che la Compagnia abbia e possa sempre avere il volto, l’accento e il modo di essere di tutti i popoli, di ogni cultura, inserendosi in tutti, nello specifico del cuore di ogni popolo, per fare lì Chiesa con ognuno di essi, inculturando il Vangelo ed evangelizzando ogni cultura.

Chiediamo alla Madonna della Strada, in un colloquio filiale o come quello di un servo con la sua Signora, che interceda per noi davanti al «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2 Cor 1,3), perché ci ponga sempre nuovamente insieme a suo Figlio, a Gesù, che prende e ci invita a prendere insieme a Lui la croce del mondo. AffidiamoLe il nostro “modo di procedere”, perché sia ecclesiale, inculturato, povero, servizievole, libero da ogni ambizione mondana. Chiediamo a nostra Madre che guidi e accompagni ciascun gesuita insieme alla porzione del popolo fedele di Dio a cui è stato inviato, su queste strade della consolazione, della compassione e del discernimento.

___________________

[1] Discorso ai partecipanti alla 32ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, 3 dicembre 1974.

[2] Omelia nella celebrazione inaugurale della 33ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, 2 settembre 1983.

[3] Discorso ai partecipanti alla 35ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, 21 febbraio 2008.

[4] FRANCESCO, Omelia nella festa del SS.mo Nome di Gesù, Chiesa del Gesù, 3 gennaio 2014.

[5] MNadal V 364-365.

[6] Lettera 51, A Francisco de Borja, luglio 1549, 17 N. 9. Cfr. M. A. FIORITO y A. SWINNEN, La Fórmula del Instituto de la Compañía de Jesús (introducción y versión castellana), Stromata, luglio-dicembre 1977 – nº 3/4, 259-260.

[7] “Ad profectum animarum in vita et doctrina Christiana” in Monumenta Ignatiana, Constitutiones T. I (MHSI), Roma, 1934 , 26 y 376; cfr. Costituzioni della Compagnia di Gesù annotate dalla CG 34 e Norme complementari, Roma, ADP, 1995, 32-33.

[8] Cfr. MF. 50, 69, 111, 114 etc.

[9] Cfr. MNad V, 310.

[10] PIERRE FAVRE, Memorial, Paris, Desclée, 1959; cfr Introduction de M. De CERTAU, pag. 74.

[11] Ibid. 76.

[12] IGNAZIO DI LOYOLA, Lettera 26 a Francisco de Borja, fine del 1545.

[13]  P. RIBADENEIRA, Vita di S. Ignazio di Loiola, Roma, La Civiltà Cattolica, 1863, 336.

[14] PIERRE FAVRE, Memorial cit. nº 51.

[15] Cfr. Directorio Autógrafo 23.

[16] FRANCESCO, Omelia nella festa del SS.mo Nome di Gesù, Chiesa del Gesù, 3 gennaio 2014.

    




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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IL QUADERNO NUMERO 4.000. Il traguardo di Civiltà Cattolica: una cultura da condividere


 




Antonio Spadaro - Giovanni Sale giovedì 9 febbraio 2017



«La Civiltà Cattolica» raggiunge le quattromila uscite e festeggia con un libro la storia della rivista dei gesuiti attraverso il rapporto con i Papi e diversi documenti che costellano i 161 di vita




A destra, il Collegio degli scrittori di Civiltà Cattolica in udienza da Giovanni XXIII

A destra, il Collegio degli scrittori di Civiltà Cattolica in udienza da Giovanni XXIII



«La Civiltà Cattolica» raggiunge le quattromila uscite e festeggia con un libro - edito dalla Rizzoli - la storia della rivista dei gesuiti attraverso il rapporto con i Papi e diversi documenti che costellano i 161 anni di vita. «Il coraggio e l’audacia. Da Pio IX a Francesco», è il lavoro realizzato a quattro mani da padre Antonio Spadaro, direttore della rivista, e il redattore e storico padre Giovanni Sale. Dai capitoli a loro affidati abbiamo estratto in anteprima alcuni brani che ci permettono di ripercorre le tappe salienti di questo cammino.


 


«La Civiltà Cattolica », nata il 5 aprile 1850, è una rivista che ha solcato decenni nei quali il significato stesso della comunicazione, oltre alle sue modalità, è mutato. Nel nostro tempo, segnato profondamente dalle reti sociali e dai nuovi media digitali, comunicare significa sempre meno «trasmettere» notizie e sempre più essere testimoni e «condividere» con altri punti di vista e idee. Tra le prime conseguenze vi è la necessità che dalla pagina traspaia con chiarezza un messaggio di condivisione di un’esperienza intellettuale, morale e spirituale. Fare cultura oggi significa assumersi le proprie responsabilità e il proprio compito nella conoscenza: «Quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali». Le tecnologie dell’informazione, contribuendo a creare una rete di connessioni, spingono gli uomini a farsi «testimoni» dei valori sui quali fondano la propria esistenza.


 



Carlo Maria Curci, fondatore di Civiltà Cattolica




 

LA CONDIVISIONE DI UNA ESPERIENZA INTELLETTUALE

Ciò che « La Civiltà Cattolica » intende offrire sin dagli inizi ai suoi lettori è proprio questo: la condivisione di un’esperienza intellettuale illuminata dalla fede cristiana e profondamente innestata nella vita culturale, sociale, economica, politica dei nostri giorni. Il suo contributo è serio e qualificato ma non elitario o per «addetti ai lavori». E soprattutto è una rivista che vuole condividere le proprie riflessioni non solamente con il mondo cattolico, ma con ogni uomo impegnato seriamente nel mondo e desideroso di avere fonti di formazione affidabili, capaci di far pensare e di far maturare il giudizio personale. È nel suo codice genetico fare da ponte, interpretando il mondo per la Chiesa e la Chiesa per il mondo, contribuendo a un dialogo aperto, pieno, cordiale, rispettoso. L’identità della nostra testata include dunque non solamente buone analisi e ricerche originali, ma anche prese di posizione che siano in grado di parlare all’intelligenza e al cuore dei lettori, inducendoli a fare delle scelte. L’11 febbraio 2017 viene pubblicato il fascicolo numero 4.000 della rivista, quando appena si è compiuto il centocinquantesimo anniversario del Breve di Pio IX. Il periodico, in questi quattromila fascicoli, ha tenuto ferma la sintonia che i vari Pontefici hanno riconosciuto come «carattere essenziale di questa rivista».

LA NASCITA DELLA RIVISTA

La data di nascita della « Civiltà Cattolica » può essere convenzionalmente fissata il giorno 9 gennaio 1850, quando Pio IX, che in quel tempo risiedeva a Portici, presso Napoli, ordinò d’autorità (durante un’udienza privata concessa all’allora superiore della Compagnia di Gesù, l’olandese Jan Roothaan) che si desse inizio, da parte dei gesuiti italiani, alla pubblicazione di una rivista o di un «giornale popolare», scritto in lingua italiana, che combattesse gli errori moderni e nello stesso tempo difendesse la dottrina cattolica e gli interessi della Santa Sede dagli attacchi dei liberali e dei razionalisti. Il primo fascicolo della « Civiltà Cattolica » fu stampato a Napoli il 6 aprile 1850, in una piccola tipografia ubicata nel cortile di via San Sebastiano. L’articolo di presentazione del padre Curci, intitolato “Il giornalismo moderno ed il nostro programma”, spiegava le finalità che la nuova rivista si proponeva nel campo della stampa cattolica. Il primo quaderno fu stampato in 4200 copie, ma già nell’aprile se ne stamparono seimila. Nel giro di pochi mesi la tiratura arrivò a più di ottomila copie. Il 1° novembre 1850 uscì il primo fascicolo romano della « Civiltà Cattolica ».

IL RAPPORTO CON I PONTEFICI

Papa Pio IX stimava la rivista e i suoi scrittori. In una lettera autografa del 20 ottobre 1852 si congratulava con i padri della rivista per l’attività svolta. Il Breve pontificio Gravissimum supremi, di Pio IX, che il 12 febbraio 1866 eresse e costituì «perpetuamente » il Collegio degli scrittori, di fatto accolse pienamente i suggerimenti del padre Curci. All’inizio del suo pontificato, Leone XIII guardava con un certo sospetto l’orientamento della « Civiltà Cattolica » a motivo del suo palese «intransigentismo» in materia politica, che contrastava con il nuovo indirizzo di dialogo e di prudente apertura nei confronti del governo italiano, appena inaugurato dal nuovo Papa, nella speranza – presto dimostratasi vana – di raggiungere un’intesa sulla Questione romana. I Papi del Novecento ebbero un rapporto molto stretto con « La Civiltà Cattolica », valorizzandone in pieno le potenzialità in ordine alla difesa «della sana dottrina cattolica». Pio X fu certamente il primo Papa a utilizzare la rivista in questo senso, senza riconoscerle alcun carattere di ufficialità. Nel 1910, sessantesimo anniversario della fondazione della rivista, Pio X indirizzò una lettera al Collegio degli scrittori nella quale si lodava la fedeltà per tanti anni dimostrata dalla rivista al Papa e alla Santa Sede.

 

L’allora cardinale Pacelli In basso, Carlo Maria Curci, fondatore della rivista dei gesuiti (La Civiltà Cattolica)


 

La rivista dei gesuiti fu, durante tutto il pontificato di Benedetto XV – e ovviamente anche dopo –, lo strumento attraverso il quale il Papa esprimeva il suo pensiero sui problemi di politica ecclesiastica. Basti pensare soltanto al ruolo che essa svolse durante la guerra per sostenere lo sforzo del Papa in favore della pace, per l’assistenza dei prigionieri, dei popoli colpiti dalla carestia e da malattie epidemiche, come la «spagnola». Durante il pontificato di Pio XI «La Civiltà Cattolica » dovette sostenere battaglie molto impegnative a difesa della Santa Sede, e qualche volta rischiò perfino di essere chiusa d’autorità da organi del governo in carica. Durante gli anni del fascismo, Pio XI utilizzò in diverse circostanze la rivista per divulgare, soprattutto in materia politica e sociale, il suo pensiero o per favorire l’organizzazione dei laici cattolici, indicandone i princìpi ispiratori. Del tutto particolare fu il rapporto tra la rivista dei gesuiti e Pio XII, che divenne papa poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale. «La Civiltà Cattolica », con grande impegno, appoggiò con i suoi scritti la «battaglia del Papa in favore della pace», commentandone i numerosi radiomessaggi e successivamente le encicliche. La svolta decisiva, nella storia ormai più che centenaria della «Civiltà Cattolica », si ebbe durante il pontificato di Giovanni XXIII e in occasione del Concilio Vaticano II, che smantellò i vecchi schemi dottrinali, culturali e ideologici nei quali la rivista era nata e cresciuta. Dopo i cambiamenti avvenuti in quegli anni, «La Civiltà Cattolica » non sarebbe stata più la stessa. Paolo VI stimava molto il lavoro dei gesuiti della rivista, come dimostrò in diverse circostanze. Memorabile è il discorso che egli fece al Collegio degli scrittori il 14 giugno 1975, in occasione del numero 3000 della rivista. Nonostante i molti impegni per l’Anno Santo in corso, il Papa volle incontrare gli scrittori della « Civiltà Cattolica » nel Palazzo apostolico.

Papa Wojtyla impostò il suo pontificato in un’intensa attività missionaria, espressa anche in innumerevoli viaggi in ogni parte del mondo, ed ebbe perciò meno tempo da dedicare personalmente alla Civiltà Cattolica , pur continuando a manifestare in svariate occasioni il suo apprezzamento per il periodico. Benedetto XVI ricevette il Collegio degli scrittori in udienza il 17 febbraio 2006, ricordando che la missione della rivista è «partecipare al dibattito culturale contemporaneo, sia per proporre, in modo serio e nello stesso tempo divulgativo, le verità della fede cristiana in maniera chiara e insieme fedele al Magistero della Chiesa, sia per difendere senza spirito polemico la verità, talvolta deformata anche attraverso accuse prive di fondamento alla comunità ecclesiale».

IL RAPPORTO CON FRANCESCO

Nell’udienza concessa ai gesuiti della «Civiltà Cattolica» a tre mesi dalla sua elezione, il Pontefice, Francesco riprendendo la missione che i suoi immediati predecessori avevano conferito alla rivista, l’ha rilanciata e arricchita di significato. Il Papa ha così sintetizzato le parole chiave di questa missione: dialogo, discernimento, frontiera. In occasione della pubblicazione del fascicolo 4.000 della rivista, papa Francesco ha fatto giungere alla redazione un biglietto autografo. Con parole essenziali ha confermato ciò che aveva detto tre anni prima, scrivendo: «Auguri a “La Civiltà Cattolica”, rivista unica nel suo genere per il servizio alla Sede Apostolica. Possa continuare ad essere una rivista ponte, di frontiera e di discernimento». La nostra rivista è dunque espressione di una comunità di ricerca, che è aperta al mondo e a contributi di gesuiti dei cinque continenti. E così si apre alla comunità dei lettori con lo stesso spirito che nel 1851 veniva così formulato: «Tra chi scrive e chi legge corre una comunicazione di pensieri e di affetti che tiene molto dell’amicizia, spesso giunge a essere quasi una segreta intimità: soprattutto quando la lealtà da una parte e la fiducia dall’altra vengono a riaffermarla».

IN UDIENZA SPECIALE DA PAPA FRANCESCO

Evento speciale per La Civiltà Cattolica, che festeggia l’uscita – il prossimo 11 febbraio – del suo quaderno numero 4.000. L’evento sarà preceduto il 9 febbraio dall’udienza concessa da papa Francesco al Collegio degli scrittori della rivista dei gesuiti. Non solo: i 161 anni di vita della testata e il loro rapporto con i Pontefici è raccontato nel libro «Il coraggio e l’audacia. Da Pio IX a Francesco» edito da Rizzoli (382 pagine, 18 euro) e scritto da padre Antonio Spadaro, il direttore della testata, e padre Giovanni Sale.

Un libro che ripercorre il cammino compiuto con un’introduzione storica degli autori e la pubblicazione di una serie di documenti (atti ufficiali, discorsi, lettere) che testimoniano il rapporto tra la rivista dei gesuiti e i dodici Papi che si sono succeduti nella sua storia. Il numero 4.000 porta con sè anche altre novità: una veste grafica speciale e la diffusione in altre quattro lingue, che si aggiungono a quella italiana in cui finora era pubblicata la rivista.

E così La Civiltà Cattolica parlerà anche in inglese, francese, spagnolo e coreano. 





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Lettera di "felicitazioni" a padre Sosa.

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So che lei, grandissimo capo  dei gesuiti, se ne infischia delle critiche dei “fondamentalisti cristiani” che hanno gridato  allo scandalo per  quella foto in cui la si vede pregare  ci monaci buddhisti in Cambogia.  Non credo che la abbiano  addolorato nemmeno per un momento; quindi questa mia  lettera simpatizzante non vuole offrirle solidarietà.  Voglio invece, nel mio piccolo di cristiano qualunque,  affezionato al Vetus Ordo ma meno “talebano” dei tradizionalisti che si sono scandalizzati, dirle che mi felicito e  approvo la sua scelta. Nelle sue interviste lei ha esibito un così  basso livello di spiritualità, che una immersione nel Buddhismo non può che aumentarla.  Le farà bene, vedrà.  Il Buddhismo è una via di salvezza tosta, seria.

(Non sghignazza nemmeno. Congratulazioni)

Poteva scegliere peggio. Per esempio l’ebraismo, che non ha nemmeno un aldilà  e  quindi non  avrebbe diritto di chiamarsi una religione; o il protestantesimo  in una delle sue settarie denominazioni.  Molti suoi colleghi lo fanno, perdutamente giudaizzando e luteranizzando; mi felicito con lei di non averlo fatto. Quelle sono religioni che, avendo conosciuto il Cristo  e la sua Chiesa, l’ha rifiutato  coscientemente, e  quindi – dal mio punto di vista un po’ tradizionalista – sono letteralmente  anticristiche.   Siddharta Gautama, il Buddha storico,  non ha  rifiutato Cristo, semplicemente  perché è  nato  seicento anni prima di lui, un secolo e mezzo prima di Platone, al tempo di Anassimandro, dei pensatori pre-socratici.

Mi congratulo con lei  per  questo: ha evitato le apostasie post-cristiane, ed è tornato in qualche modo al punto zero da cui l’umanità ha cominciato  la  meditazione spirituale.  Grazie, padre Sosa, per  esser tornato all’Antico.

Ha scelto la Tradizione

Lei che dubita del Vangelo, perché “a quel tempo nessuno aveva un registratore”, e quindi si attiene all’interpretazione che  né dà il gesuita Bergoglio (che quindi diventa il sostituto di Cristo e degli apostoli   e della tradizione-trasmissione di 2 mila anni),  ha pregato – e con quale  lodevole compunzione! – in lingua pali  (che era il volgare dell’e poca di Siddharta,   diventata  lingua liturgica)  ripetendo formule che risalgono a quell’antico e grande principe  Kshatria: non preoccupandosi affatto se  ci fosse un  registratore, senza la minima obiezione sul fatto che quelle parole vadano “contestualizzate”   perché “sono espresse con un linguaggio, in un ambiente preciso, sono indirizzate a qualcuno di definito”.

No, lo sa: i monaci buddhisti coi quali ha  pregato,  non solo non si pongono affatto tali inquietudini, ma ripetono salmodiando formule liturgiche invariate da due millenni e passa, in una lingua che, essendo cambogiani, è assai diversa dalla loro (il pali deriva dal sanscrito),  e forse nemmeno capiscono. Non hanno bisogno di capire: è l’enunciazione in sé delle formule, ritualmente pronunciate all’interno della santa comunità o sangha,   che, secondo loro, crea “meriti”  in vista della Liberazione. Del resto, sanno bene cosa significano: ripetono infinitamente le Quattro Nobili Verità,  lodano il Triplice Rifugio e incitano all’Ottuplice Sentiero.

Mi felicito con lei, padre Sosa, perché non ha turbato  quegli asceti, come ha fatto con cattolici noi con  le sue battutacce  schernevoli contro il Vangelo  che non si sa cosa davvero dica, e le sue derisioni sulla credenza nel demonio, che per lei è un simbolo e una metafora, una vecchia superstizione che la modernità ha sfatato. E’  stato bello vederla  adottare con rispetto la Tradizione, l’Antico e il Classico. Pre-cristiano, dunque non anticristiano. Bravo, bene.

Io tradisco qui una grande ammirazione personale per il Buddha e il buddhismo: la più alta manifestazione di spiritualità   possibile ad un uomo che aspira alla Salvazione suprema, “prima della Rivelazione”.  Non condivido affatto  il troppo ripetuto luogo comune per cui il buddhismo è  ateismo. Siddharta Gautama –  stirpe regale e non sacerdotale, misterioso analogon di Cristo – reagiva contro l’idolatria superstiziosa dei milioni dei divinità dell’induismo del suo tempo, dei suoi  eccessi fachirici o nichilisti ( fedeli di Kali si facevano stritolare dal  grande carro della Dea durante le processioni); insomma, come Gesù reagisce e polemizza col fariseismo ebraico, il Buddha storico va compreso all’interno del contesto culturale indiano dell’epoca, della sua cultura.  Come il cattolicesimo nasce  da una religione da cui si dichiara secondario e unito per  sempre, così il Buddha rettifica e  rivoluziona   l’induismo basso,  magico e idolatrico; rifiuta le caste; e riporta questo insieme di credenze all’essenziale, direi, vedantino, upanishadico.

No, il buddismo non è, come ha scritto l’amico  Aldo Maria Valli, “un sistema etico e spirituale che ha l’obiettivo di permettere la piena realizzazione dell’individuo in vista del raggiungimento della felicità”:  quello è il fine delle signore-bene di Milano quando vanno al corso di yoga o  di stretching, “stare bene con se stesse”.  No.  Ben lungi dal  promettere “la piena realizzazione dell’individuo”, il  Buddha  mira all’Estinzione.  Precisamente, all’estinzione dell’Io. Se vogliamo continuare il gioco delle analogie, che altro dice Paolo quando dice: “Sono stato crocifisso in Cristo, e non sono più “io” che vivo, ma Cristo vive in me”?

Tacciano i catto-talebani

E qui sento già le strida dei nostri amici tradizionalisti, talebani del cattolicesimo: Blondet è gnostico!  Esoterico!  L’abbiamo scoperto con le mani nel sacco!

Ora, non ho bisogno, per rafforzare la mia fede, di proclamare che le altre sono sataniche. Ciò vale ancor più per le vie di salvezza asiatiche che il Cristo non l’hanno conosciuto, essendo immensamente più antiche. Mi commuove sapere che per millenni, altre umanità, si sono poste la questione centrale, la più realistica, precisamente quella   che l’uomo occidentale d’oggi non si pone più, a suo danno eterno: “Non mi basta l’aldiquà. Ci dev’essere un modo per uscirne, e giungere all’Assoluto. Un guado, un sentiero di Liberazione”. E l’hanno cercato, fornendo metodi  accertati ed eroici di “uscita”  dal mondo.

Cari amici taleban-cattolici, io  pretenderei da parte vostra, verso il Buddismo e il Vedanta, quello stesso rispetto ed ammirazione che Agostino aveva per Platone e Socrate,  san Gerolamo per Cicerone,  San Tommaso d’Aquino per Aristotile. Non sentivano il bisogno di ricordarci ogni cinque secondo che quelli erano pagani, che   erano sicuramente all’inferno perché non avevano la fede; si abbeveravano, e facevano loro, la parte di verità  che avevano donato alla nostra civiltà.

Con questa aggiunta: oltretutto, non trovo nulla di anticristiano nell’aver sempre presente l’impermanenza di tutte le cose  quaggiù, la constatazione che la vita è dolore, l’esercizio della  compassione universale   verso tutti gli esseri viventi.

(Sull’impermanenza, ho giusto letto un passo della Imitazione di Cristo: “Se ami le  ricchezze,  le  pompe mondane, i difetti della carne, rifletti quanto  siano fragili e caduchi! Ché tutte le cose del mondo passano come sogni”).

Dunque, per tornare  a padre Sosa: io la lodo, padre. Mi congratulo per come   ha pregato coi buddhisti.  Non vorrei l’avesse fatto per “costruire ponti” per “la pace”,  perché in fondo per lei una liturgia vale l’altra, e tutte valgono nulla. La sua compunzione mi dà una speranza.

“Ancora uno sforzo”, come diceva il Marchese De Sade: si faccia buddhista  davvero, ci guadagna in spiritualità. Anzi, porti con sé nel buddhismo i tanti suoi confratelli gesuiti, che ne hanno tanto bisogno,  perché mica si  può vivere di Rahner e di Bultmann e di giudaismo e di modernismo  e fingersi religiosi. Libererebbe loro, e libererebbe noi; perché devo dirglielo, da quando voi gesuiti avete preso il potere in Vaticano,  nel noto  golpesudamericano, vi si nota soprattutto per una cosa: la grossolanità culturale, la mancanza di finezza intellettuale. I suoi confratelli, nel sito ufficiale,  hanno salutato in lei “el primer Superior Jesuita en bautizarse budista», mentre  dovrebbero sapere  che  non esiste un battesimo fra i buddhisti.

(Bel maglione, padre)

Siete diventati  più ignoranti di monsignor Galantino, che non conosce la Scrittura e si è convinto che Dio – avendo  finalmente   imparato  la misericordia da Bergoglio – abbia salvato Sodoma.  Invece l’ha incenerita…(ma chi può dirlo? Mica c’era un registratore, all’epoca).   Tale ignoranza  e rozzezza, in gesuiti, è disonorevole. No, davvero, avete bisogno di diventare Buddhisti.

Con gli occhi della speranza la vedo, padre Sosa: rasata la testa, rasato il baffetto malandrino,  vagare con la coppa del riso perché  il monaco mangia solo quel che gli è offerto (tranquillo, il popolo buddhista essendo credente, dà con abbondanza) e fare un solo pasto al giorno.

Novizi imparano a mendicare. Le loro mamme fanno la prima offerta. 

 

 

In  perfetta castità,  povertà e frugalità,  obbedire e   passare le giornate  a salmodiare in coro le liturgie in pali. Pre-cristiano, è meglio che anti-cristiano.Coraggio, “ancora uno sforzo”.


[Modificato da Caterina63 26/07/2017 09:49]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Paolo VI segue con grande attenzione i lavori della Congregazione, preoccupato del travaglio che anima l’aggiornamento dell’ordine religioso più importante della Chiesa. Interviene varie volte direttamente durante lo svolgimento dei lavori, esprimendo senza riserve le sue perplessità e i suoi timori, tentando di indirizzare la discussione. Il 31 maggio Arrupe ha il primo di una serie di incontri con Montini, di cui dà conto il 7 giugno ai delegati della Congregazione, in una sorta di pubblico «rendimento di coscienza». Al termine del suo intervento ricorda che il pontefice, al momento della foto, ha insistentemente ripetuto al fotografo che riprendesse bene l’immagine di Cristo pendente sopra di loro. L’altra foto, invece, sempre per desiderio del papa, raffigura Paolo VI che «benediva me stesso prostrato ai suoi piedi». Due immagini simbolo di come il papa intenda regolare i futuri rapporti tra la Santa Sede e la Compagnia. Preoccupazioni e apprensioni che troveranno eco nelle parole della prima parte del discorso che Paolo VI rivolge ai delegati al termine della Congregazione generale il 16 novembre 1966. L’incipit del discorso è drammatico e a tratti apocalittico:

«Volete voi, figli di Sant’Ignazio, militi della Compagnia di Gesù, essere ancora oggi e domani e sempre, ciò che siete stati dalla vostra fondazione sino a questo giorno, per la Santa Chiesa cattolica e per questa Apostolica Sede? Questa Nostra domanda non avrebbe ragion d’essere, se al Nostro orecchio non fossero giunte notizie e voci, riguardanti la vostra Compagnia – e del resto anche altre Famiglie Religiose –, che ci hanno recato stupore; ed alcune di esse Ci hanno anche cagionato dolore».

Il papa evoca sinistre suggestioni che hanno fatto, a suo giudizio, sorgere in molti gesuiti l’idea che fosse giunto il momento di cambiare le secolari tradizioni stabilite dal fondatore, abdicando «a tante venerabili consuetudini spirituali, ascetiche, disciplinari», mettendo in discussione «l’austera e virile obbedienza che ha sempre caratterizzato la vostra Compagnia», facendosi prendere dall’illusione «che per diffondere il Vangelo di Cristo fosse necessario far proprie le abitudini del mondo, la sua mentalità, la sua profondità, indulgendo alla valutazione naturalistica del costume moderno …». Nella seconda parte il discorso cambia radicalmente di tono, facendosi improvvisamente incoraggiante, riconoscente e affettuoso. Queste «nubi del cielo», come le definisce, sono state dissipate dalle conclusioni della Congregazione generale, che ha rinnovato nello spirito del Concilio le costituzioni, non abbandonando quella tradizione «che presso di voi godeva di una continua attualità e vitalità».

2. Le tensioni con la Santa Sede e le difficoltà degli anni Settanta

I rapporti di Arrupe e dell’ordine con il Vaticano rappresentano un lungo, complesso e difficile capitolo della storia della Compagnia contemporanea, che necessiterebbe di uno studio a sé. I primi cinque anni del generalato sono caratterizzati in generale da un clima di fiducia e collaborazione. Paolo VI, nonostante i timori avuti rispetto al pericolo di alcune estremizzazioni paventatesi durante lo svolgimento della XXXI Congregazione, appoggia apertamente le scelte operate dal preposito generale. Il 27 luglio 1968 ringraziando per la copia inviatagli dei decreti si compiace «dell’ingente sforzo di ripensamento e di adattamento», richiesto dai tempi e voluto dal Concilio, affermando tra l’altro:

«… che tale orientamento sembri ad alcuni dei vostri nuovo, alquanto sconcertante, anzi forse pericoloso, non deve recar meraviglia; ad altri, al contrario, potrà apparire tentativo troppo timido e quasi già insufficiente e superato».

Ben presto la crisi del post-Concilio fattasi sempre più visibile in tutta la Chiesa esplode clamorosamente anche nell’ordine, mettendo in difficoltà i tradizionali rapporti di stima e fiducia con la Santa Sede. Le relazioni tra l’ordine e il Vaticano iniziano a farsi tese e difficili, già nel 1970, alla viglia della LXV Congregazione dei procuratori. Da una lettera del segretario di Stato, il cardinale Jean Villot, il 21 marzo 1970 al padre Arrupe, sappiamo che Paolo VI al termine di un’udienza con il generale, gli aveva manifestato le sue gravi apprensioni, rispetto a «taluni atteggiamenti disciplinari ed indirizzi dottrinari che in tempi recenti e con dolorosa ampiezza» si riscontravano nella Compagnia. Il governo di Arrupe è al centro di una duplice contestazione: i progressisti lo considerano un moderato, troppo preoccupato di compiacere gli ambienti più tradizionalisti e conservatori della Curia romana, i conservatori un uomo non all’altezza delle sue responsabilità che ha spinto la Compagnia alla deriva.

Ad aggravare questo stato di disagio e confusione concorre la vicenda dell’Humanae Vitae. L’enciclica pubblicata il 25 luglio 1968 è duramente criticata da numerose conferenze episcopali e da teologi, dogmatici e moralisti, tra cui non pochi gesuiti. Arrupe è in difficoltà nella ricerca di un difficile equilibrio tra l’obbedienza al Vaticano e la vicinanza ai suoi confratelli, che non si sente di condannare, rispetto a riserve, se non proprio condivisibili, almeno comprensibili. Sa che non può restare in silenzio e per questo scrive, il 15 agosto 1968, una lettera a tutto l’ordine, con la quale chiede un’obbedienza «filiale, pronta, decisa, aperta e creatrice» al pontefice. L’intervento è apprezzato da Paolo VI che lo ringrazia per questa attestazione di fedeltà e sensibilità ecclesiale, come gli scrive il sostituto Giovanni Benelli il 7 agosto 1968. Ma la lettera del generale non è sufficiente a diradare le nubi che si addensano sull’ordine e a rassicurare gli ambienti vaticani e parte della gerarchia cattolica, che considera i gesuiti un ordine non più affidabile, tanto da non essersi impegnato, più di tanto, nell’arginare una contestazione così palese del magistero papale.



XXXI CONGREGAZIONE GENERALE DELLA COMPAGNIA GI GESÙ

OMELIA DI PAOLO VI

Cappella Sisitina, 15 novembre 1966

 

Abbiamo voluto avervi concelebranti e partecipi al Sacrificio eucaristico, prima che voi, terminati i lavori della vostra Congregazione generale, riprendiate la via del ritorno, ciascuno alla propria sede, e da Roma, centro dell’unità cattolica, vi diffondiate per ogni verso sulla faccia della terra, per salutarvi, tutti ed ognuno, per confortarvi ed incoraggiarvi, per benedirvi nelle vostre singole persone, nella vostra intera Compagnia, e nelle opere molteplici, che a gloria di Dio promovete e servite nella santa Chiesa, e per rinnovare nei vostri animi, quasi in forma sensibile e solenne, il senso del mandato apostolico, che qualifica e fortifica la vostra missione, quasi dal vostro beato padre Ignazio, soldato quant’altri mai fedelissimo della Chiesa di Cristo, vi fosse conferita e rinnovata, anzi da Cristo stesso, di Cui indegnamente, ma veracemente, qui in terra, qui in questa Santa Sede, Noi facciamo le veci, a voi fosse confermata e misteriosamente accompagnata e magnificata.

RINNOVAMENTO DI ALTO MANDATO 
E SPLENDENTE MISSIONE

Perciò abbiamo scelto questo luogo, sacro e tremendo per la bellezza, per la potenza, ma specialmente per il significato delle sue immagini, e fra tutti venerabile luogo per la voce della Nostra umilissima, ma pontificale preghiera, che qui si esprime, in sé raccogliendo non solo la lode e il gemito del Nostro spirito, ma quelli sonanti ed immensi della Chiesa intera, dai confini della terra, anzi della intera umanità, che nel Nostro ministero ha chi la interpreta presso il sommo Iddio, e di Lui altissimo a lei trasmette l’oracolo. Questo luogo abbiamo scelto, dove, come sapete, i destini della Chiesa sono cercati e determinati, in certe ore storiche, che, dobbiamo credere, non pur dal volere di uomini sono dominate, ma dall’arcana ed amorosa assistenza dello Spirito Santo. Qui, oggi, il medesimo Spirito noi invocheremo a conclusione di questa piissima cerimonia: per la santa Chiesa, qui nel Nostro apostolico ufficio quasi riassunta e rappresentata, e per voi: per voi, membri, preposti e responsabili della vostra e Nostra Compagnia di Gesù.

E questa congiunta invocazione allo Spirito Santo vuole in certo modo sigillare il grande e trepido momento, che avete vissuto, sottoponendo tutta la vostra compagine e tutta la sua attività a severo esame, quasi concludendo, in occasione del testé celebrato Concilio Vaticano ecumenico secondo, quattro secoli della vostra storia, e quasi inaugurando con novella coscienza e con novelli propositi un nuovo periodo della vostra vita religiosa e militante.

QUATTRO SECOLI DI VITA RELIGIOSA E MILITANTE

Questo incontro perciò, Fratelli e Figli carissimi, assume un significato storico particolare, che a voi ed a Noi è dato determinare mediante la reciproca definizione del rapporto che intercede, che deve intercedere fra la Compagnia di Gesù e la santa Chiesa, di cui Noi abbiamo, per divino mandato, la guida pastorale e la riassuntiva rappresentanza.

Quale rapporto? A voi, a Noi la risposta alla domanda, che si gemina nel modo seguente:

1) Volete voi, figli di Ignazio, militi della Compagnia di Gesù, essere ancor oggi, e domani, e sempre, ciò che siete stati dalla vostra fondazione fino a questo giorno per la santa Chiesa cattolica e per questa apostolica Sede? Questa Nostra domanda non avrebbe ragion d’essere, se al Nostro orecchio non fossero giunte notizie e voci, riguardanti la vostra Compagnia - e del resto anche altre Famiglie Religiose - di cui non possiamo nascondere il Nostro stupore e, per alcune di esse, il Nostro dolore.

Quali strane e sinistre suggestioni fecero mai sorgere in alcuni angoli della vostra amplissima Società il dubbio se essa dovesse continuare ad esistere quale il Santo, che la ideò e la fondò, descrisse in norme sapientissime e fermissime, e quale una secolare tradizione, maturata da attentissima esperienza e collaudata da autorevolissime approvazioni, modellò a gloria di Dio, a difesa della Chiesa, a meraviglia del mondo? Forse invalse in alcune menti anche dei vostri il criterio dell’assoluta storicità delle cose umane, generate dal tempo e dal tempo inesorabilmente divorate, quasi non fosse nel cattolicesimo un carisma di verità permanente e di stabilità invincibile, di cui questa pietra della Sede apostolica è simbolo e fondamento? Forse parve all’ardore apostolico, di cui tutta la Compagnia è animata, che per dare maggiore efficacia alla vostra attività occorreva abdicare a tante venerabili consuetudini spirituali, ascetiche, disciplinari, non più aiuto, ma freno a più libera e più personale espressone del vostro zelo? E allora sembrò che l’austera e virile obbedienza, che ha sempre caratterizzato la vostra Compagnia, che sempre anzi ha reso evangelica, esemplare e formidabile la sua struttura, dovesse essere allentata, come nemica della personalità e ostacolo alla vivacità dell’azione, dimenticando quanto Cristo, la Chiesa, la vostra stessa scuola spirituale hanno magnificamente insegnato circa tale virtù. Così vi fu forse chi credette non essere più necessario imporre alla propria anima l’«esercizio spirituale», la pratica cioè assidua e intensa dell’orazione, l’umile, ardente disciplina della vita interiore, dell’esame di coscienza, dell’intimo colloquio con Cristo, quasi che l’azione esteriore bastasse a mantenere e illuminato e forte e puro lo spirito, e fosse valida di per sé all’unione con Dio; e quasi che questa ricchezza di arti spirituali solo al monaco si addicesse, e non fosse piuttosto per il soldato di Cristo l’armatura indispensabile. E forse ancora fu di alcuni l’illusione che per diffondere il Vangelo di Cristo fosse necessario far proprie le abitudini del mondo, la sua mentalità, la sua profanità, indulgendo alla valutazione naturalistica del costume moderno, anche in questo caso dimenticando che l’accostamento doveroso e apostolico dell’araldo di Cristo agli uomini, a cui si vuole recare il messaggio di Lui, non può essere una assimilazione tale che faccia perdere al sale il suo bruciante sapore, all’apostolo la sua originale virtù.

RIMANERE COERENTI E FEDELI ALLE FONDAMENTALI COSTITUZIONI

Nubi sul cielo, che le conclusioni della vostra Congregazione hanno in gran parte dissipato! Con quanto gaudio infatti Noi abbiamo appreso che voi, voi stessi, forti della rettitudine che sempre ha animato le vostre volontà, dopo ampio e sincero esame delle vostra storia, della vostra vocazione, della vostra esperienza, avete deliberato di rimanere coerenti e fedeli alle vostre fondamentali Costituzioni, non abbandonando la vostra tradizione che presso di voi godeva di una continua attualità e vitalità; e apportando alle vostre regole quelle particolari modifiche, alle quali la «renovatio vitae religiosae», proposta dal Concilio, non solo vi autorizza, ma vi invita; nessuna ferita voleste infliggere alla sacra legge che vi fa religiosi, anzi Gesuiti, ma piuttosto rimedio ad ogni usura del tempo trascorso e vigore ad ogni prova che il tempo avvenire le prepara, così che questo risultato primeggi fra i tanti maturati nelle vostre laboriose discussioni, che non solo una vera conservazione e un positivo incremento siano assicurati al corpo, ma altresì allo spirito della vostra Società. E a questo riguardo vi esortiamo caldamente che, anche in avvenire, conserviate nel programma della vostra vita il primato all’orazione, non deflettendo dai provvidi ordinamenti ricevuti: e donde mai, se non dalla grazia divina, a noi come acqua viva fluente per gli umili canali della preghiera e dell’interiore ricerca del divino colloquio, della sacra liturgia specialmente, donde mai troverà il religioso ispirazione ed energia per la sua propria soprannaturale santificazione; e donde mai l’apostolo trarrà la spinta, la guida, la forza, la sapienza, la perseveranza nel suo combattimento con il demonio, la carne ed il mondo; donde l’amore per amare a loro salvezza le anime, e costruire, accanto agli operai incaricati e responsabili del mistico edificio, la Chiesa? Godete, Figli carissimi; codesta è la via, antica e nuova, della economia cristiana; codesta è la forma che fa ad un tempo il vero religioso discepolo di Cristo, Apostolo nella sua Chiesa, maestro dei fratelli, fedeli o estranei che siano. Godete; la Nostra compiacenza, anzi la Nostra comunione vi conforta e vi segue.

E così Noi dobbiamo accogliere le vostre deliberazioni particolari: sulla formazione dei vostri Scolastici, sull’ossequio al magistero e all’autorità della Chiesa, sui criteri della perfezione religiosa, sulle norme orientatrici della vostra azione apostolica e della vostra cooperazione pastorale, sulla retta interpretazione e positiva applicazione dei decreti conciliari, eccetera, come altrettante risposte alla Nostra domanda: sì, sì; i Figli d’Ignazio, che del nome di Gesuiti si onorano, sono ancor oggi a se stessi e alla Chiesa fedeli! Essi sono pronti e forti! Nuove armi, lasciate quelle consuete e meno efficaci, sono nelle loro mani, con lo stesso spirito di obbedienza, di abnegazione, di spirituale conquista!

FIDUCIA GRATITUDINE AFFETTO DEL PAPA 
PER LA COMPAGNIA DI GESÙ

2) Ed ora l’altra domanda si presenta per determinare il rapporto della vostra Compagnia con la santa Chiesa ed in modo riassuntivo e speciale con questa apostolica Sede; e dalle vostre labbra, in certo modo, Noi desumiamo questa seconda domanda: Vuole la Chiesa, vuole il Successore di San Pietro, ancora guardare alla Compagnia di Gesù come a sua particolare e fedelissima milizia? come alla famiglia religiosa, che non tanto di questa o quella virtù evangelica ha fatto suo specifico scopo, quanto della difesa e della promozione della santa Chiesa medesima e della medesima Sede apostolica ha fatto scolta ed usbergo? Ancora le è confermata la benevolenza, la fiducia, la protezione, di cui sempre essa ha goduto? ritiene la Chiesa, per voce di Chi ora vi parla, d’aver ancora bisogno, ancora onore del militante servizio della Compagnia? è essa ancor oggi valida ed idonea per l’opera immensa - e cresciuta nell’estensione e nella qualità - dell’apostolato moderno?

Ecco, Figli carissimi, la Nostra risposta: Sì; a voi è conservata la Nostra fiducia! E perciò il Nostro mandato per l’opera apostolica a voi assegnata; la Nostra affezione, la Nostra riconoscenza, la Nostra benedizione.

Voi Ci avete, in questa solenne e storica occasione, confermata la vostra identità, rinnovata di nuovi propositi, con la istituzione, che nella congiuntura restauratrice del Concilio di Trento, si pose a servizio della santa Chiesa cattolica; ebbene, è facile per Noi, è gioioso ripetervi parole e gesti dei Nostri Predecessori, nella presente congiuntura, diversa, ma non meno restauratrice della vita della Chiesa, successiva al Concilio Ecumenico Vaticano secondo; e di potervi assicurare che finché la vostra Compagnia sarà intenta a cercare la propria eccellenza nella sana dottrina e nella santità della vita religiosa e si offrirà come strumento validissimo di difesa e di diffusione della fede cattolica, questa Sede apostolica, e con lei certamente l’intera Chiesa, l’avrà carissima!

Se voi continuate ad essere ciò che foste, non vi verrà meno la stima e la fiducia Nostra!

E avrete quelle del Popolo di Dio! Quale mai segreto principio portò la vostra Compagnia a tanta diffusione e a tanta prosperità, se non la peculiare vostra formazione spirituale e la vostra struttura canonica? Che se codesta formazione e codesta struttura rimangono pari a se stesse, in sempre nuova fioritura di virtù e di opere, non è fallace la speranza del vostro progressivo incremento e della vostra perenne efficienza nella evangelizzazione e nell’edificazione della moderna società. Non è forse la vostra peculiare esemplarità evangelica e religiosa, storica e organizzativa, la migliore vostra apologia, e la più persuasiva nota di credito al vostro apostolato?

E non è forse su codesta consistenza spirituale, morale, ecclesiale, che si fonda la Nostra confidenza nell’opera vostra, anzi nella vostra collaborazione?

DIFESA ENUNCIAZIONE TESTIMONIANZA INVITTA DELLA FEDE

Lasciate che, al termine di questo incontro, Noi vi diciamo che Noi molto speriamo da voi. La Chiesa ha bisogno del vostro aiuto; ed è lieta, è fiera di riceverlo da figli sinceri e devoti, quali voi siete. La Chiesa accetta l’offerta dell’opera vostra, anzi della vostra vita; e soldati di Cristo, quali voi siete, alle ardue e sante battaglie del suo nome oggi più che mai vi chiama e vi impegna.

Non vedete di quanta difesa ha bisogno oggi la fede? di quanta aperta adesione, di quanta precisa enunciazione, di quanta assidua predicazione, di quanta sapiente illustrazione, di quanta amorosa e generosa testimonianza? Noi confidiamo in voi, quali valorosi testimoni dell’unica, vera fede.

E non vedete quali felici accostamenti, quali delicate discussioni, quali pazienti spiegazioni, quali caritatevoli aperture pone davanti al servitore e all’apostolo di questa santa Chiesa cattolica l’ecumenismo odierno? Chi meglio di voi vi dedicherà studi e fatiche, affinché i Fratelli ancora da noi separati ci comprendano, ci ascoltino e con noi condividano la gloria, il gaudio, il servizio del mistero dell’unità in Cristo Signore?

E la infusione dei principii cristiani nel mondo moderno, quale la ormai celebre Costituzione pastorale «Gaudium et spes» ha delineata, non avrà forse da voi abili, prudenti, forti specialisti? E il culto che favorite verso il Sacro Cuore non sarà tuttora per voi strumento efficacissimo per contribuire a quel rinnovamento spirituale e morale di questo mondo che il Concilio Ecumenico Vaticano secondo ha richiesto, e per adempiere fruttuosamente la Missione che vi è stata affidata di contrastare l’ateismo?

Non vi dedicherete con nuovo ardore all’educazione della gioventù nelle scuole secondarie e nelle università - sia ecclesiastiche che civili - titolo questo che è sempre stato per voi di somma gloria e fonte di abbondanti meriti?

Tenete presente che tante anime giovanili vi sono affidate, che un giorno potranno rendere alla Chiesa e alla Società preziosi servizi, se avranno ricevuto una completa formazione.

NEL MONDO OSTILE PRODIGARSI AL BENE 
DELLA IMMENSA FAMIGLIA UMANA

E le missioni! le missioni, dove già tanti vostri Confratelli meravigliosamente lavorano, sudano e soffrono e fanno risplendere come Sole di salvezza il nome di Cristo, non vi sono forse affidate da questa Sede apostolica, come già un giorno a Francesco Saverio, nella sicurezza d’avere in voi i messaggeri della Fede, più sicuri, più audaci, più ripieni della carità, che la vostra vita interiore rende inesauribile, confortatrice e ineffabile?

E il mondo? questo mondo dalla duplice faccia, che il Vangelo ci scopre, quella della coalizione di tutte le opposizioni alla luce e alla grazia, e quella dell’immensa famiglia umana, per cui il Padre ha mandato il Figlio e per cui il Figlio ha immolato se stesso; questo mondo d’oggi, così potente e così debole, così ostile e così aperto, questo mondo non è per voi, come lo è per Noi, una vocazione implorante ed esaltante? e non è oggi qui, sotto lo sguardo di Cristo, il mondo nostro quasi fremente e pulsante a dire a voi tutti: venite, venite; vi aspetta la carenza, la fame di Cristo; venite che è l’ora!

Sì, è l’ora, Figli carissimi; andate, fidenti, ardenti; Cristo vi sceglie, la Chiesa vi manda, il Papa vi benedice.









[Modificato da Caterina63 16/04/2018 13:38]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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