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Testi e scritti omelie e interventi di Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 09/04/2016 11:56
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Card. Ratzinger:"L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale"


 


IL SENTIMENTO DELLE COSE, LA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA

MESSAGGIO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER PER IL MEETING 2002.

Ogni anno, nella Liturgia delle Ore del Tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che si trova nei Vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, l’una accanto all’altra, ci sono due antifone, una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana Santa. 
Entrambe introducono il Salmo 44, ma ne anticipano una chiave interpretativa del tutto contrapposta. E’ il Salmo che descrive le nozze del Re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nel Tempo di Quaresima il salmo ha per cornice la stessa antifona che viene utilizzata per tutto il restante periodo dell’anno. 

E’ il terzo verso del salmo che recita: "Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia". E’ chiaro che la Chiesa legge questo salmo come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra indica la bellezza interiore della Sua parola, la gloria del Suo annuncio.
 

Così, non è semplicemente la bellezza esteriore dell’apparizione del Redentore ad essere glorificata: in Lui appare piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso che ci attira a sé e allo stesso tempo ci procura la ferita dell’Amore, la santa passione (eros) che ci fa andare incontro, insieme alla e nella Chiesa Sposa, all’Amore che ci chiama

Ma il mercoledì della Settimana Santa la Chiesa cambia l’antifona e ci invita a leggere il Salmo alla luce di Is. 53,2: "Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore". Come si concilia ciò? Il "più bello tra gli uomini" è misero d’aspetto tanto che non lo si vuol guardare. Pilato lo presenta alla folla dicendo:- "Ecce homo" onde suscitare pietà per l’Uomo sconvolto e percosso al quale non è rimasta alcuna bellezza esteriore. Agostino, che nella sua giovinezza scrisse un libro sul bello e sul conveniente e che apprezzava la bellezza nelle parole, nella musica, nelle arti figurative, percepì assai fortemente questo paradosso e si rese conto che in questo passo la grande filosofia greca del bello non veniva semplicemente rigettata, ma piuttosto messa drammaticamente in discussione: che cosa sia bello, che cosa la bellezza significhi avrebbe dovuto essere nuovamente discusso e sperimentato. 

Riferendosi al paradosso contenuto in questi testi egli parlava di "due trombe" che suonano in contrapposizione e pur tuttavia ricevono i loro suoni dal medesimo soffio, dallo stesso Spirito. Egli sapeva che il paradosso è una contrapposizione, ma non una contraddizione. Entrambe le citazioni provengono dallo stesso Spirito che ispira tutta la Scrittura, il quale però suona in essa con note differenti e, proprio in questo modo, ci pone di fronte alla totalità della vera bellezza, della verità stessa. Dal testo di Isaia scaturisce innanzitutto la questione, di cui si sono occupati i Padri della Chiesa, se Cristo fosse dunque bello oppure no.

Qui si cela la questione più radicale se la bellezza sia vera, oppure se non sia piuttosto la bruttezza a condurci alla profonda verità del reale. Chi crede in Dio, nel Dio che si è manifestato proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocifisso come amore "sino alla fine" (Gv 13,1) sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli apprende anche che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e, sì, anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo.

Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo "entusiasma" attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. 
Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. 

Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. E’ al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo "altro" però l’anima non riesce a esprimerlo, "ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma". 

Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana. Kabasilas afferma: "Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo".
La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio. "Origine dell’amore è la conoscenza – egli afferma – la conoscenza genera l’amore". Occasionalmente –così prosegue – la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore". Egli non lascia questa affermazione in termini generali.

Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione che rimane conoscenza, per così dire, "di seconda mano" e non implica alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. "Quindi, fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato". La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, "dalla personale presenza di Cristo stesso" come egli dice. 

L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario
Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo.

A partire da questa concezione Hans Urs von Balthasar ha edificato il suo Opus magnum dell’Estetica teologica, della quale molti dettagli sono stati recepiti nel lavoro teologico, mentre la sua impostazione di fondo, che costituisce veramente l’elemento essenziale del tutto, non è stata affatto accolta. Questo non è beninteso semplicemente solo, o meglio, non è principalmente un problema della teologia, ma anche della pastorale che deve nuovamente favorire l’incontro dell’uomo con la bellezza della fede. Gli argomenti cadono così spesso nel vuoto perché nel nostro mondo troppe argomentazioni contrapposte concorrono le une con le altre, tanto che all’uomo viene spontaneo il pensiero che i teologi medievali avevano così formulato: la ragione "ha un naso di cera", ossia la si può indirizzare, se solo si è abbastanza abili, nelle più svariate direzioni.

Tutto è così assennato, così convincente, di chi dobbiamo fidarci? L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima ed in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. 

Resta per me un’ esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e altrettanto spontaneamente ci dicemmo:- "Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera". 

In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore. E la stessa cosa non è forse evidente quando ci lasciamo commuovere dall’icona della Trinità di Rublëv? Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali del romanico e del gotico, l’esperienza descritta da Kabasilas, partendo dall’interiorità, si è resa visibile e partecipabile. Pavel Evdokimov ha indicato in maniera così pregnante quale percorso interiore l’icona presupponga.

L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un "digiuno della vista". La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la "gloria di Dio sul volto di Cristo" (2, Cor 4,6). Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità. Io ho spesso già affermato essere mia convinzione che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i Santi, a entrare in contatto con il bello.

Ora però dobbiamo rispondere ancora ad un’obiezione.

Abbiamo già respinto l’affermazione secondo cui quanto finora sostenuto sarebbe una fuga nell’irrazionale, nel mero estetismo. E’ vero piuttosto l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e resa capace di azione. Maggior peso ha oggi un’altra obiezione: il messaggio della bellezza viene messo completamente in dubbio attraverso il potere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza essere autentica, oppure, alla fine, non è che un’illusione? La realtà non è forse in fondo malvagia? La paura che, alla fine, non sia lo strale del bello a condurci alla verità, ma che la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera "realtà" ha angosciato gli uomini in ogni tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’ affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto fare poesia, dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono.

Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori? Ora questa obiezione, per la quale esistevano motivi sufficienti ancora prima di Auschwitz, in tutte le atrocità della storia, indica in ogni caso che un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente. Non regge il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della verità, della bellezza. Apollo, che per il Socrate di Platone era "il Dio" e il garante della imperturbata bellezza come "il veramente divino", non basta assolutamente più. In questo modo ritorniamo alle "due trombe" della Bibbia dalle quali eravamo partiti, al paradosso per cui di Cristo si possa dire sia "Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo", sia "Non ha apparenza né bellezza…… il suo volto è sfigurato dal dolore". Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pure le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo.

Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine - la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva "sino alla fine" e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è "vera", bensì proprio la verità. E’ per così dire un nuovo trucco della menzogna presentarsi come "verità" e dirci: al di là di me non c’e in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla; così facendo siete sulla strada sbagliata. L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza. 

La menzogna conosce comunque anche un altro stratagemma: la bellezza mendace, falsa, una bellezza abbagliante che non fa uscire gli uomini da sé per aprirli nell’estasi dell’innalzarsi verso l’alto, bensì li imprigiona totalmente in se stessi. E’ quella bellezza che non risveglia la nostalgia per l’indicibile, la disponibilità all’offerta, all’abbandono di sé, ma ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di piacere. E’ quel tipo di esperienza della bellezza di cui la Genesi parla nel racconto del peccato originale: Eva vide che il frutto dell’albero era "bello" da mangiare ed era "piacevole all’occhio". La bellezza, così come ne fa esperienza, risveglia in lei la voglia del possesso, la fa ripiegare per così dire su se stessa. Chi non riconoscerebbe, ad esempio nella pubblicità, quelle immagini che con estrema abilità sono fatte per tentare irresistibilmente l’uomo ad appropriarsi di ogni cosa, a cercare il soddisfacimento del momento anziché l’ aprirsi ad altro da sé? Così l’ arte cristiana si trova oggi ( e forse già da sempre) tra due fuochi: deve opporsi al culto del brutto il quale ci dice che ogni altra cosa, ogni bellezza è inganno e solo la rappresentazione di quanto è crudele, basso, volgare, sarebbe la verità e la vera illuminazione della conoscenza. E deve contrastare la bellezza mendace che rende l’uomo più piccolo, anziché renderlo grande e che, proprio per questo, è menzogna.

Chi non ha conosciuto la molto citata frase di Dostoevskij: "La bellezza ci salverà?" Ci si dimentica però nella maggior parte dei casi di ricordare che Dostoevskij intende qui la bellezza redentrice di Cristo. 
Dobbiamo imparare a vederLo. Se noi Lo conosciamo non più solo a parole ma veniamo colpiti dallo strale della sua paradossale bellezza, allora facciamo veramente la Sua conoscenza e sappiamo di Lui non solo per averne sentito parlare da altri. Allora abbiamo incontrato la bellezza della verità, della verità redentrice. 
Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo del bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria Luce.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Partito di Cristo o Chiesa di Gesù Cristo? (*)

La lettura dalla prima lettera di san Paolo ai Corinzi che abbiamo appena ascoltato è di un’attualità davvero sconcertante. Certo, Paolo parla alla comunità di Corinto di quel tempo, rivolgendosi alla coscienza dei fedeli a proposito di tutto quello che colà si poneva in contraddizione con la vera esistenza cristiana.

Eppure noi avvertiamo immediatamente che non si tratta solo di problemi di una comunità cristiana appartenente a un lontano passato, ma che ciò che fu scritto allora riguarda anche noi qui e ora. Parlando ai Corinzi, Paolo parla a noi e mette il dito sulle piaghe della nostra vita ecclesiale di oggi. Come i Corinzi, così anche noi rischiamo di dividere la Chiesa in una disputa di parti, dove ciascuno si fa una sua propria idea di cristianesimo.

Così l’aver ragione diventa per noi più importante delle giuste ragioni di Dio a nostro riguardo, più importante dell’essere giusti davanti a lui. La nostra propria idea ci nasconde la parola del Dio vivente, e la Chiesa scompare dietro i partiti che nascono dal nostro personale modo d’intendere. La somiglianza tra la situazione dei Corinzi e la nostra non può essere ignorata. Ma Paolo non vuole semplicemente descrivere una situazione, bensì scuotere la nostra coscienza e ricondurci nuovamente alla dovuta integralità e unità dell’esistenza cristiana.

Sicché dobbiamo chiedergli: Cosa ce di veramente falso nel nostro comportamento? Che cosa dobbiamo fare per divenire non il partito di Paolo o di Apollo o di Cefa, o un partito di Cristo, bensì Chiesa di Gesù Cristo? Qual è la differenza tra un partito di Cristo e la sua Chiesa vivente? Tra un partito di Cefa e la giusta fedeltà alla pietra su cui è edificata la casa del Signore?

Cerchiamo quindi in primo luogo di comprendere che cosa succede di fatto in quel tempo a Corinto e, a causa dei pericoli sempre uguali per l’uomo, minaccia di ripetersi continuamente di nuovo nella storia. La differenza di cui si tratta, potremmo forse riassumerla molto sinteticamente in questa affermazione: se io mi schiero per un partito, allora esso diventa con ciò il mio partito, ma la Chiesa di Gesù Cristo non è mai la mia Chiesa, bensì sempre la sua Chiesa. L’essenza della conversione consiste appunto in questo, che io non cerco più il mio partito, quello che salvaguarda i miei interessi e corrisponde alla mia inclinazione, ma mi metto invece nelle mani di Gesù Cristo e divento suo, membro del suo corpo, della sua Chiesa.

Vediamo di chiarire ancor più da vicino questo pensiero.

I Corinzi vedono nel cristianesimo una interessante teoria religiosa, conforme ai loro gusti e alle loro aspettative. Essi scelgono ciò che va loro a genio, e lo scelgono nella forma che riesce loro simpatica. Ma là dove sono decisivi la volontà e il desiderio personali, allora la rottura è già presente in partenza, in quanto i gusti sono tanti e contrapposti. Da una simile scelta ideologica può nascere un club, un circolo di amici, un partito, non già una Chiesa che trascenda i contrasti e riunisca gli uomini nella pace di Dio. Il principio in base al quale si forma un club è inclinazione personale; ma il principio su cui poggia la Chiesa è l’obbedienza alla chiamata del Signore, come leggiamo nel vangelo di oggi: «Li chiamò ed essi all'istante, abbandonata la barca con il padre, lo seguirono» (Mt 4,2ls).

 

Con questo, siamo giunti al punto decisivo: la fede non è la scelta di un programma che mi soddisfi o l’adesione a un club di amici fra i quali mi senta compreso; la fede è conversione, che trasforma me e anche i miei gusti, o almeno fa sì che i miei gusti e desideri passino in seconda linea.

La fede arriva a una profondità totalmente diversa dalla scelta che mi lega a un partito. La sua capacità di cambiamento giunge a tal segno che la Scrittura la chiama una nuova nascita (cfr. 1Pt 1,3.23). Con ciò siamo in presenza di una intuizione importante, che dobbiamo approfondire ancora un poco perché è in questo punto che si nasconde il nucleo centrale dei problemi che dobbiamo oggi affrontare nella Chiesa. A noi riesce difficile pensare la Chiesa secondo un modello diverso da quello di una società che si autogestisce, che con i meccanismi di maggioranza e minoranza cerca di darsi una forma che sia accettabile da tutti i suoi membri. Ci riesce difficile pensare la fede come qualcosa di diverso da una decisione per una cosa che mi piace e per la quale, dunque, vorrei impegnarmi.

Ma in questo modo, siamo sempre e solo noi stessi ad agire. Noi facciamo la Chiesa, noi cerchiamo di migliorarla e di sistemarla come una dimora confortevole. Noi vogliamo proporre programmi e idee che riescano simpatici al più gran numero possibile di persone. Il fatto che Dio stesso sia all’opera, che Egli stesso agisca, nel mondo moderno non costituisce più in alcun modo un presupposto. Ma è proprio così facendo che noi ci comportiamo come i Corinzi: scambiamo la Chiesa per un partito e la fede per un programma di partito. Il cerchio del proprio io rimane chiuso.

Forse ora possiamo comprendere un po’ meglio la svolta rappresentata dalla fede, la quale implica una conversione, un cambiamento di rotta.

Io riconosco che Dio stesso parla e agisce; che non ce solo ciò che è nostro, ma anche ciò che è suo. Ma se questo è vero, se non siamo solo noi che decidiamo e facciamo qualcosa, ma lui stesso dice e fa qualcosa, allora tutto cambia. Allora io devo obbedirgli e seguirlo anche se mi conduce dove io non vorrei (Gv 21,18). Allora diviene ragionevole, anzi necessario lasciare da parte ciò che è di mio gusto, rinunciare ai miei desideri e andare dietro a Colui che solo può indicarmi la via della vera vita, giacché egli stesso è la vita (Gv 14,6). È questo che vuol dire il carattere sacrificale della sequela che Paolo alla fine mette in rilievo come risposta ai partiti che dividevano i Corinzi (1Cor 10,17): io abbandono quello che è di mio gusto e mi sottometto a Lui. Ma proprio così io divento libero, perché la vera schiavitù è l’essere prigionieri dei nostri propri desideri.

Tutto questo lo comprenderemo ancor meglio osservandolo dall’altro versante, non più basandoci su di noi, ma partendo dall’azione stessa di Dio. Cristo non è il fondatore di un partito né un filosofo della religione, come, ancora una volta, Paolo fa rilevare incisivamente nella nostra lettura (1Cor 10,17). Non è qualcuno che escogiti idee di ogni sorta per le quali cerchi di reclutare dei sostenitori. La lettera agli Ebrei descrive l’ingresso di Cristo nel mondo con le parole del salmo 39: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato» (Sal 39,7; Eb 10,5). Cristo è la Parola vivente di Dio stesso che per noi si è fatta carne. Egli non è solo uno che parla, ma è egli stesso la sua Parola. Il suo amore, nel quale Dio si dona a noi, va sino alla fine, sino alla croce (cfr. Gv 13,1). Se noi acconsentiamo a lui, noi non scegliamo solo delle idee, ma poniamo la nostra vita nelle sue mani e diveniamo «creatura nuova» (2Cor 5,17; Gal 6,15).

Perciò la Chiesa non è un club, non è un partito, e neppure una sorta di stato religioso, ma un corpo, il corpo di Cristo. E perciò la Chiesa non è fatta da noi, ma è lui stesso a costruirla purificandoci con la parola e il sacramento e facendo così di noi le sue membra.

Naturalmente ci sono molte cose nella Chiesa che dobbiamo fare noi stessi, in quanto essa penetra profondamente in situazioni umane di carattere pratico. Non intendo qui spendere parole per nessun tipo di falso soprannaturalismo. Ma ciò che vi è di peculiare nella Chiesa non può venire dalla nostra volontà o da una nostra decisione, «né da volere di carne, né da volere di uomo» (Gv 1,13); deve venire da lui. Quanto più siamo noi a darci da fare nella Chiesa, tanto meno essa diventa abitabile, perché tutto ciò che è umano è limitato e ogni cosa umana si contrappone ad un’altra. La Chiesa sarà tanto più per gli uomini la patria del cuore, quanto più noi le presteremo ascolto e quanto più in essa sarà centrale ciò che viene da lui: la parola e i sacramenti che egli ci ha dato.L’obbedienza a Lui è la garanzia della nostra libertà.

Tutto ciò ha delle importanti conseguenze per il ministero del sacerdote. Egli deve prestare grande attenzione a non costruirsi una sua Chiesa. Paolo esamina ansiosamente la propria coscienza, e si chiede come abbiano potuto alcuni arrivare al punto di fare della Chiesa di Cristo un partito religioso di Paolo. E assicura se stesso e quindi i Corinzi di aver fatto di tutto per evitare legami che avrebbero potuto oscurare la comunione con Cristo. Chi è convertito da Paolo non diviene un seguace di Paolo ma un cristiano, un membro di quella Chiesa comune che è sempre la stessa, «si tratti di Paolo o di Apollo o di Cefa» (1Cor 3,22). Sia questo o quello, «voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (3,23).

 

Vale la pena di rileggere e considerare accuratamente ciò che Paolo ha scritto sull’argomento, perché nelle sue parole prende risalto l’essenza del ministero sacerdotale con una chiarezza che, al di là di tutte le teorie, ci dice quel che dobbiamo fare e quello che dobbiamo evitare. «Ma chi è Apollo, chi è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede... Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora, né chi pianta né chi irriga è qual-che cosa, ma chi fa crescere: Dio. Chi pianta e chi irriga sono una cosa sola... Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio» (1Cor 3,5-9).

C’erano e ci sono in Germania chiese protestanti dove è d’uso indicare negli avvisi liturgici il nome di chi celebra la messa e quello di chi tiene l’omelia. Dietro quei nomi si nascondono spesso correnti religiose: ciascuno vorrebbe seguire le celebrazioni della propria corrente. Purtroppo qualcosa di simile succede ora anche nelle parrocchie cattoliche; ma questo vuol dire che la Chiesa è scomparsa dietro i partiti e che noi in definitiva diamo ascolto a opinioni umane e non più alla comune parola di Dio che è al di sopra di tutti e di cui è garante l’unica Chiesa. Solo l’unità della sua fede e il suo carattere vincolante per ciascuno di noi ci permettono di non seguire delle opinioni umane e di non parteggiare per fazioni con pretese autonomiste, ma di essere dalla parte del Signore e di obbedire a lui.

È grande oggi per la Chiesa il pericolo di disgregarsi in partiti religiosi raggruppati attorno a singoli maestri o predicatori. E allora ecco di nuovo: io sono di Apollo, io di Paolo, io di Cefa, e così anche Cristo diventa un partito.Il metro del ministero sacerdotale è il disinteresse che si pone come norma la parola di Gesù: «La mia dottrina non è mia» (Gv 7,16). Solo se possiamo dire questo con piena verità, noi siamo «collaboratori di Dio» che piantano e irrigano e divengono partecipi della sua stessa opera. Se degli uomini si rifanno al nostro nome e contrappongono il nostro cristianesimo a quello di altri, ciò deve sempre diventare per noi motivo di un esame di coscienza. Noi non annunciamo noi stessi, ma Lui. Questo esige la nostra umiltà, la croce della sequela.

Ma è proprio questo che ci libera, che rende fecondo e grande il nostro ministero. Poiché se noi annunciamo noi stessi, restiamo rintanati nel nostro povero io e vi trasciniamo anche altri. Se annunciamo lui, diverremo «collaboratori di Dio» (1Cor 3,9), e che cosa potrebbe esserci di più bello e di più liberante?

Vogliamo pregare il Signore perché ci faccia provare nuovamente la gioia di questa missione. Allora anche tra noi diverrà vera la parola del profeta, che sempre si adempie nelle contrade attraversate da Cristo: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce... Gioiscono al tuo cospetto come si gioisce alla mietitura, come si esulta quando si divide la preda» (Is 9,1-3; cfr. Mt 4,15s). Amen.

__________

(*) Joseph Ratzinger - Benedetto XVI "La Chiesa. Una comunità sempre in cammino" LEV 2006 - Ed. sanpaolo 2008 - pag.171 dall'Omelia tenuta nel Seminario di Filadelfia il 21 gennaio 1990

 

Raccomandiamo di sfogliare, cliccando qui,  la nostra raccolta di testi di Ratzinger-Benedetto XVI , il più grande Dottore della Chiesa del nostro tempo - testi anche inediti - dedicati alla Chiesa  ed alla conservazione della sana dottrina cattolica.




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