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Referendum 4 dicembre 2016 non voltiamo la faccia altrove

Ultimo Aggiornamento: 29/09/2016 18:31
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AL VOTO IL 4 DICEMBRE

 




Quello che per mesi veniva definito “il referendum di ottobre” ora si chiamerà “il referendum di dicembre”. Il consiglio dei ministri ieri ha infatti stabilito la data di quell’appuntamento con le urne: domenica 4 dicembre.  Si vota per il “Si” o il “No” alla riforma costituzionale, ma anche per il futuro o la caduta del governo.



di Ruben Razzante



Il 4 dicembre il referendum sulla riforma costituzionale



In una trasmissione televisiva in primavera il premier Matteo Renzi aveva auspicato che la consultazione referendaria potesse svolgersi già il 2 ottobre. 


Non vedeva l’ora di archiviare la pratica e di andare alla resa dei conti con gli avversari, in particolare la minoranza dem. Col trascorrere delle settimane, però, si è convinto che la vittoria dei “Si” non sarebbe stata una passeggiata e, dopo la sconfitta alle amministrative di giugno, ha pensato bene di prendere tempo e di far slittare il più possibile l’appuntamento con le urne. Le preoccupazioni di Palazzo Chigi si sono progressivamente sommate a quelle del Quirinale, che ha suggerito a Renzi di tenere un profilo basso e di non esasperare i toni della contrapposizione tra “Si” e “No”. Per mesi, infatti, il premier aveva legato indissolubilmente all’esito del referendum il futuro politico del suo governo e perfino della legislatura, contribuendo in questo modo a compattare il composito fronte antirenziano. 


La personalizzazione del referendum era un errore e così, gradualmente, Renzi ha cambiato registro ha cercato di puntare sui contenuti della riforma Boschi e non sulla sua personale vittoria politica in caso di prevalenza dei “Si”. Per ora, però, i sondaggi continuano a dare in vantaggio i “No”, nonostante risulti più facile, almeno in teoria, fare propaganda per i “Si”, sbandierando ai quattro venti la reale o presunta riduzione dei costi della politica, la reale o presunta semplificazione nell’approvazione delle leggi e gli altri risultati che si otterrebbero se la riforma Boschi raccogliesse la maggioranza dei voti nelle urne. Difficile, per i sostenitori del “No”, argomentare rispetto alla necessità di difendere la Costituzione, visto che l’attuale stato di dissesto in cui si trova il Paese è figlio anche degli errori commessi dai Costituenti nella stesura di alcuni articoli, in particolare quelli sulla Costituzione economica, che hanno indirizzato in modo rigidamente statalista l’attività legislativa.


Ma le opposizioni sono tutte compatte per il “No”, dal Movimento Cinque Stelle a Sinistra italiana, passando per i partiti del centrodestra (più determinata la Lega, più tiepida e divisa Forza Italia). Almeno numericamente, considerato che a favore del “Si” si esprimono soltanto la maggioranza del Pd, gli alfaniani e alcuni cespugli filogovernativi come i verdiniani, non ci sarebbe partita e dovrebbero prevalere i voti contrari alla riforma, ma si sa che a due mesi e mezzo di distanza da un referendum possono accadere tante cose.  
La scelta della data del 4 dicembre è figlia di due paure: quella del presidente del Consiglio di perdere il referendum e di doversi rimangiare la solenne promessa di lasciare la politica in caso di sconfitta, pur di restare in sella; quella del Quirinale di mettere in cassaforte i conti pubblici e quindi la legge di stabilità. Anche una settimana in più di tempo potrebbe significare per il premier riuscire a convincere altri elettori indecisi, magari allargando i cordoni della borsa con l’avallo di Bruxelles o sfruttando il possibile miglioramento di qualche indicatore macro-economico. 

Il problema, però, è che il Paese resterà impantanato fino a fine anno in una lacerante campagna referendaria che distoglierà energia dalle vere e incalzanti priorità socio-economiche. E poi c’è una questione di metodo: così come la legge elettorale, che riguarda tutti gli italiani e tutti i partiti, anche la data del referendum andava concordata con le opposizioni, che invece ieri hanno lamentato di non essere state consultate. Renzi sembra aver agito ancora una volta sulla base delle proprie convenienze e di quello che ritiene possa essere il suo tornaconto elettorale. Decidere di far votare gli italiani alla vigilia di un mega-ponte e delle festività natalizie potrà forse tornare utile a lui, ma non corrisponde certamente al bene del Paese e spingerà molta gente all’astensione. 

Bisognerà capire se scoraggerà di più chi è orientato al “Si” oppure chi è orientato al “No”. Visto che la posta in palio è davvero elevata, l’impressione è che l’Agcom dovrà vigilare con accortezza sull’effettivo rispetto della par condicio da parte dei mezzi d’informazione. La sfida referendaria si deciderà anche per via mediatica.




VERSO IL REFERENDUM/2
 

«La modifica della Costituzione serve alle multinazionali, alle banche, alla finanza», a scapito degli interessi dei cittadini italiani. Lo ha detto il presidente emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, invitando gli elettori a respingere la riforma con un “No” al referendum. Ha davvero ragione? Sì, e in questo articolo dedicato alla riforma, l'avvocato Francesco Farri, del Centro Studi Livatino, spiega il perché. 

Francesco Farri*


Con l’intervento dell’avvocato Francesco Farri prosegue la collaborazione del Centro studi Livatino (www.centrostudilivatino.it) tesa a illustrare i passaggi più significativi della riforma costituzionale e a sottolinearne i profili problematici, allo scopo di avvicinarsi alla scadenza del voto referendario avendo consapevolezza dei contenuti delle modifiche, e lasciando da parte gli slogan.

 

Negli ultimi mesi, si sono levate, anche dall'estero, molte voci provenienti dal mondo dell'economia, della finanza, dei social networks e, da ultimo, anche della diplomazia, le quali hanno dipinto la riforma costituzionale italiana come ultima chance per il salvataggio del sistema Italia. Per converso, il presidente emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, ha denunciato che «la modifica della Costituzione serve alle multinazionali, alle banche, alla finanza», a scapito degli interessi dei cittadini italiani. Di chi fidarsi? 

Importanti indicazioni giuridiche per la risposta possono trarsi in quello che, a riforma approvata,diverrebbe il nuovo articolo 72, comma 7 della Costituzione. Nel cervellotico quadro dei nuovi procedimenti legislativi, la nuova Costituzione ne introduce uno per cui il governo, «indicando» un disegno di legge come «essenziale per l'attuazione del programma di governo», può in sintesi ottenere dalla Camera la definitiva approvazione delle proprie proposte entro tre mesi (giorni 5 + 70 + 5 + 15), prorogabili di due settimane in casi di particolare complessità.  Potrebbe osservarsi: è giusto che in certi casi sia riconosciuta al governo una corsia preferenziale in Parlamento! 

Vero, ma è essenziale l’individuazione di tali casi e degli strumenti utilizzabili nella corsiapreferenziale. I Costituenti avevano ben previsto l'esigenza di una corsia preferenziale per il governo (il decreto legge), ma avevano stabilito precisi limiti (effettiva ragione di straordinaria necessità e urgenza) e conseguenze (responsabilità del governo e perdita di efficacia fin dall'inizio del testo normativo in difetto di conversione entro sessanta giorni) della percorrenza di essa.

E il nuovo art. 72, comma 7?  Esso non prevede né apprezzabili limiti di utilizzo, né conseguenze.L'estrema vaghezza dei termini utilizzati (la essenzialità «per l'attuazione del programma di governo» appare un concetto squisitamente politico e, come tale, pressoché insindacabile) e l'àmbito estremamente ristretto delle esclusioni da tale procedimento previste in Costituzione (al regolamento della Camera si rinvia, infatti, per la sola disciplina procedimentale) lo rende sostanzialmente versatile ad ogni uso, ma anche ad ogni abuso da parte del governo, cosa che invece la Corte Costituzionale garantiva fosse esclusa per il decreto legge. Quanto alle conseguenze, appare evidente che - rispetto alla disciplina del d.l., che pure viene mantenuta - non è qui prevista la responsabilità del governo né la decadenza del testo normativo se i termini non sono rispettati. 

E se è così, che funzione ha il nuovo art. 72, comma 7?  Proprio questo è il punto.  Infatti, sesapientemente combinato con l'utilizzo della questione di fiducia (senza la quale il meccanismo non funzionerebbe), esso permette al governo di "forzare" con un blitz il legislatore ad attuare il progetto presentato dal governo stesso ottenendo i seguenti “benefici”: (1) minimizzazione della discussione parlamentare e sacrificio della tutela delle minoranze, garantite dal normale iter legislativo; (2) aggiramento delle tutele di cui è circondato il decreto legge; (3) sostanziale impedimento di ogni mobilitazione contro l'iniziativa governativa da parte dell'opinione pubblica, che in tre mesi farebbe appena in tempo ad avere notizia di quello che sta succedendo nelle segrete stanze.

Chi può, al giorno d'oggi, avere interesse a conseguire “benefici” di questo tipo? Volendo tralasciare  le ipotesi più radicali, la risposta appare semplice: si tratta dei gruppi d'interesse che, operando al di fuori del circuito di legittimazione democratica e dall'humus dell'opinione pubblica nazionale, necessitano tuttavia del supporto normativo per attuare i propri interessi. Si tratta, in altre parole, di quelle che oggi sono indicate come "lobby".  Per definizione, esse si trovano spesso nella condizione di poter influenzare (e "ricattare" politicamente) singole persone (come, ad esempio, quelle che siedono in un governo), ma molto più difficilmente esse si trovano in condizione di poter direttamente "ricattare" istituzioni come un Parlamento nazionale o una Corte Costituzionale. 

E ciò è vero specie in Italia, dove il sistema costruito dai Costituenti si è mostrato estremamentegarantista per gli interessi del popolo sovrano e ha creato una coscienza collettiva forte, matura e capace di mobilitarsi e opporsi con vigore a iniziative che ha trasversalmente percepito come estranee all'interesse del Paese. Ecco che il nuovo meccanismo legislativo dell'art. 72, comma 7, magicamente, fornisce il grimaldello che alle lobby mancava per annidarsi stabilmente nella legislazione italiana. Con esso, infatti, il governo non ha più alibi: esso può far digerire al Parlamento quel che vuole, senza lacciuoli e prendendo in contropiede ogni forma di rilevante reazione dell'opinione pubblica. 

Con esso, si crea un efficacissimo trait d'union tra persone fisiche del governo ("ricattabili" dallelobby) e Parlamento (non direttamente "ricattabile" dalle lobby, ma "ricattabile" dal governo tramite voto di fiducia), che non permetterà al governo di sottrarsi dal cappio che le lobby facilmente possono porgli al collo. La ricattabilità di un primo ministro che voglia salvare la poltrona diverrà la ricattabilità dell'Italia. 

Come brandito dai sostenitori di progetti di legge invisi a larga parte dell'opinione pubblica, con ilnuovo sistema legislativo una drastica riduzione delle pensioni al pari di una legge Scalfarotto, una privatizzazione del sistema sanitario al pari dell'eutanasia per i bambini, potranno esser legge quasi di nascosto, senza che il corpo elettorale faccia in tempo ad accorgersene e organizzare manifestazioni di opposizione. Il nuovo procedimento legislativo incarna la logica del fatto compiuto e la logica del sotterfugio, molto più e strutturalmente più di quanto avvenga adesso. Con esso, si istituzionalizza una forma di blitz legislativo che solo le lobby possono avere interesse a sfruttare. La riforma del procedimento legislativo è la pesante ipoteca delle lobby sui valori e sugli interessi dell'Italia.

Riallacciandosi alla domanda iniziale, quindi, può dirsi che sia i finanzieri stranieri sia il presidenteMaddalena abbiano ragione. Di chi fidarsi, dipende dagli interessi che vogliono tutelarsi: se vogliono tutelarsi gli interessi delle lobby della finanza e delle colonizzazioni ideologiche, la riforma costituzionale è lo strumento migliore. Ma tali interessi contrastano strutturalmente con gli interessi dei cittadini e con i valori della nostra Repubblica. E se vogliono salvaguardarsi gli interessi e i valori degli Italiani, allora una riforma costituzionale di questo tipo merita di esser spazzata via senza residui. E senza rimpianti: solo con un gran sospiro di sollievo.

 

*avvocato del Centro Studi Livatino






VERSO IL REFERENDUM/2
 

Non riduce i costi della politica, colpisce l’autonoma degli enti territoriali, innesca pericolosi conflitti istituzionali, riducendo al lumicino il ruolo legislativo del Senato. Da qui un’involuzione autoritaria che si produrrà con una riforma costituzionale che concentra tutto il potere nel governo. Lo dice Mauro Ronco è presidente del Centro studi Livatino e ordinario di diritto penale all’Università di Padova, nel primo di una serie di interventi sulla riforma costituzionale. 

di Mauro Ronco*

La riforma costituzionale sottoposta a referendum nei prossimi mesi si presenta come diretta a 1) superare il bicameralismo paritario; 2) ridurre il numero dei parlamentari; III contenere il costo di funzionamento delle istituzioni; IV) sopprimere il Cnel e V) revisionare il titolo V della parte II della Costituzione, relativo agli enti di autonomia territoriale.

1. Profili demagogici della riforma. - Alcuni obiettivi indicati nel  titolo del testo di legge appaiono di natura prevalentemente simbolica, non trovando riscontri puntuali nel tessuto normativo. Ciò vale in modo particolare per il tema relativo al contenimento dei costi della politica, che non è direttamente preso in considerazione dalle nuove disposizioni normative ed appare quasi un pretesto per la presentazione demagogica della legge. Anche la soppressione del Cnel, pur auspicata da molti, non sembra incidere in modo significativo sui costi della politica. 

 2. Il carattere pletorico e sovrabbondante del testo. - Il testo si presenta pletorico e sovrabbondante. La Costituzione, come legge fondamentale del Paese, deve limitarsi a dire l’essenziale in ordine alla composizione, ai poteri e al funzionamento degli organi che presidiano la vita politica e amministrativa dello Stato. L’essenzialità esprime in modo chiaro le caratteristiche dell’ordinamento, lasciando spazio alle consuetudini costituzionali che plasmano a poco a poco il tessuto normativo destinato a reggere il funzionamento degli organi supremi dello Stato. La riforma, invece, scende nel dettaglio della regolamentazione, soprattutto in tema di formazione delle leggi, rischiando di provocare conflitti interpretativi e politici tra la Camera dei Deputati e il Senato, con probabili ricadute sulla conformità costituzionale delle leggi per vizi procedurali nell’iter di formazione. 

3. La degradazione del Senato. - La riforma del Senato è criticabile per più aspetti. Più che di riforma,sembra corretto parlare di degradazione del Senato.  Ciò soprattutto per le modifiche degli articoli 78, 79, 80 e 94 della Costituzione. i) Il nuovo art. 78 prevede che lo stato di guerra sia dichiarato dalla sola Camera dei deputati; II lo stesso vale ai sensi del nuovo art. 79 per le leggi che contemplano l’amnistia e l’indulto; III) il nuovo art. 82 sottrae al Senato il potere generale di disporre inchieste su materie di pubblico interesse, ammettendolo per le sole materie concernenti le autonomie territoriali. IV) Il nuovo art. 94 riserva alla Camera il potere fondamentale di concedere o revocare la fiducia al governo. In questo modo il Senato è sostanzialmente escluso dall’esercizio effettivo dei poteri costituzionali. 

I poteri del Senato sono ridotti al lumicino anche per quanto attiene all’approvazione delle leggi dibilancio e di rendiconto consuntivo presentate dal governo, posto che al Senato sono riservate soltanto “proposte di modificazione ai disegni di legge” che importano nuove e maggiori spese nel breve termine di quindici giorni dalla trasmissione dei disegni di legge approvati dalla Camera dei Deputati (cfr. il nuovo art. 70 terz’ultimo comma della Costituzione). Il Senato è così sostanzialmente escluso anche dal controllo del bilancio dello Stato. 

4. L’incongrua composizione e l’inaccettabilità delle modalità di elezione dei senatori. - La  degradazione del Senato è evidente anche alla luce della sua composizione e delle modalità di elezione dei suoi componenti. I senatori, in numero di 95 (è prevista la facoltà del Capo dello Stato di eleggere 5 senatori, non più a vita, ma per la durata di sette anni), non sono eletti direttamente dal corpo elettorale, bensì dai Consigli regionali tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascun Consiglio, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori. Inoltre, la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, con evidenti effetti di instabilità per quanto riguarda la vita dell’organo. 

In questo modo: I) la riduzione drastica dei poteri, II) l’elezione di secondo grado e la perdita di unrapporto diretto con l’elettorato; III) il collegamento funzionale e temporale del singolo senatore con la carica rivestita in sede locale fanno di quest’organo un elemento meramente esornativo del quadro costituzionale. Il Senato così costituito, lungi dal rappresentare la più alta e autorevole istanza costituzionale, non potrà non subire un’involuzione in una di queste due direzioni, entrambe contrarie al buon andamento della funzione di direzione politica dello Stato. Il Senato diventerà o un ente inutile, simile al Cnel, perché privo di poteri politici effettivi, come capitava all’ente soppresso; ovvero diventerà un organo generatore di conflitti e di contestazioni dell’operato della Camera, come ritorsione pseudo-politica di un corpo politico degradato. 

5. La perdita di rappresentatività e di autorevolezza. – La degradazione del Senato concerne anche idue profili fondamentali della rappresentatività e della competenza ed autorevolezza dell’organo.  In ogni ordinamento di epoche passate o negli altri Stati contemporanei, la Costituzione si è sempre preoccupata di individuare una Camera alta, cui spettasse pronunciare le parole più autorevoli nei momenti di crisi e le decisioni più difficili che si presentano nel corso della vita statale. Per soddisfare questa esigenza la scelta dei componenti di tale organo ha fatto leva o sulla sua capacità di rappresentare entità omogenee, territoriali o professionali che hanno rilievo nella società civile, ovvero sull’autorevolezza politica, scientifica e professionale dei suoi componenti. La riforma, rinnegando entrambi i criteri, prevede un Senato impotente e dequalificato. 

6. L’involuzione autoritaria. - La degradazione del Senato ha un significato politico involutivo di segno autoritario, provocando la concentrazione del potere nel blocco che si verrà a costituire tra il Governo e la Camera dei Deputati, sempre più controllato dalla maggioranza parlamentare, anche se ridotta e non rappresentativa, né qualitativamente né quantitativamente, dell’intero corpo elettorale. Come si è potuto constatare con riferimento all’intera storia costituzionale della Repubblica, il Senato ha esercitato spesso un ruolo equilibratore nello scenario costituzionale. 

É vero che il bicameralismo paritario ha attirato frequentemente le critiche degli studiosi per laduplicazione di identiche funzioni, nocivo soprattutto sul piano del procedimento di formazione delle leggi. Ma il testo della riforma non incide primariamente su questo versante, poiché l’attuale art. 70 prevede, oltre alla competenza concorrente di Camera e Senato per alcune materie, altresì che ogni disegno di legge approvato dalla Camera sia trasmesso al Senato. Questo, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo, deliberando proposte di modificazione del testo. La riforma è rilevante soprattutto sul piano politico, poiché il Senato è integralmente estromesso dal circuito della fiducia che deve intercorrere tra il Governo e il Parlamento, ed è privato dei più significativi poteri che spettano a un organo costituzionale dello Stato.

7. La riforma delle autonomie territoriali. - Anche la riforma apportata al Titolo V in ordine alleautonomie territoriali presenta una forte accentuazione centralistica. Ciò in forza soprattutto della modifica radicale degli artt. 117 e 119 Costituzione. La prima modifica incide sulla potestà legislativa, con la soppressione della potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni e con la previsione che la legge dello Stato può intervenire, su proposta del governo, anche in materie non riservate alla sua legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale. L’art. 119 apporta modifiche sull’autonomia finanziaria delle Regioni nel campo delle entrate e delle spese. L’autonomia regionale è formalmente rimasta, ma il nuovo art. 119 prevede che essa si attui “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci”, concorrendo ad “assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea”. 

Il Titolo V della seconda parte della Costituzione, concernente le autonomie territoriali, meritavacertamente, dopo la disastrosa riforma adottata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di essere completamente ripensato allo scopo tanto di ridurre il contenzioso tra Stato e Regioni nelle materie coperte dalla potestà legislativa concorrente, quanto di coordinare i bilanci regionali ai vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea. 

La riforma, tuttavia, si è mossa con l’obiettivo di realizzare un accentramento essenzialmente in odiodelle autonomie locali. Nessun serio confronto è stato aperto sul tema fondamentale della compatibilità tra il sistema delle autonomie territoriali, il sistema statale e il complesso ordinamento dell’Unione Europea. Di questo tema cruciale non v’è traccia nel testo riformato, quando è evidente lo squilibrio generato dalla sovrabbondanza dei poteri dell’Unione Europea, che schiaccia l’autonomia dello Stato e ancor più delle Regioni.

 

* presidente Centro Studi Livatino, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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REFERENDUM COSTITUZIONALE

 




La mia propensione per un giudizio negativo circa la riforma costituzionale proposta si fonda su alcuni punti irrinunciabili, come il no al centralismo statale e la fine del principio della sussidiarietà. Entrambe le cose sono conseguenza della riforma Boschi- Renzi: per questo voterò “No” al referendum.



di Peppino Zola



Caro direttore,

il premier boy scout, nel pentirsi pubblicamente di essere stato lui a “personalizzare” il referendum costituzionale, ha chiesto a tutti di approfondire il contenuto della proposta di riforma. Da buon cittadino, ho seguito il consiglio ed ho studiato attentamente, in questi giorni di vacanza, il testo proposto all’approvazione e posso dire, a caldo, che si sta rafforzando la mia intenzione di votare “No”, pur avendo presente che non tutti coloro che voteranno in questo modo godono della mia simpatia. 

Comunque, penso che voterò “No” per le mie ragioni e non per quelle di questi “antipatici” (non capisco l’insistenza del Foglio su questo punto). La mia propensione per un giudizio negativo circa la riforma proposta è stata accentuata, a dire il vero, dalle parole della ministra Boschi, anche se la cosa può apparire paradossale. Infatti, forse a causa del nervosismo in materia di referendum che sta contagiando il governo, la ministra per le Riforme, in questi ultimi giorni, sta intervenendo con parole così infelici, da renderla sempre più incredibile. Faccio due esempi.

La Boschi ha detto che ci troviamo di fronte ad una “riforma storica”. Questa espressione indica laprosopopea con cui la maggioranza si sta rivolgendo al popolo che dovrà votare (quando il governo vorrà, bontà sua). Se, però, si vuole forzatamente definire “storica” questa riforma, essa  lo è non certo per la parziale eliminazione del bicameralismo perfetto (Renzi usa solo frasi retoriche in proposito), ma per la reintroduzione nel nostro sistema istituzionale di un preoccupante centralismo statale. Ciò avviene tramite l’enorme indebolimento della funzione legislativa delle Regioni, con l’aggravante che viene attribuito allo Stato un potere sostitutivo nei confronti di iniziative legislative regionali che vengano ritenute contrarie all’indirizzo politico dello Stato stesso. 

Inoltre, vengono abolite le Province, ma non le Prefetture, che sono, appunto, l’espressione del piùrigoroso centralismo di origine napoleonica. In questo contesto, vengono messi in secondo piano i corpi intermedi sociali, in contrasto con l’articolo 2 della costituzione. Soprattutto i cattolici dovrebbero rendersi conto che così passa in secondo piano il principio della sussidiarietà, che è un pilastro della dottrina sociale della Chiesa. Insisto nel dire che questo è il vero punto centrale della riforma proposta. Non a caso Renzi&Boschi non ne parlano mai, perché è per loro più comodo e demagogico parlare solo del Senato e delle (risibili) diminuzioni dei costi della politica. La mia preoccupazione aumenta se penso che andremmo al voto con “l’Italicum”, che attribuirà poteri immensi ad un solo partito (anche solo con il 20/25% dei voti popolari). 

Avremmo un governo incontrollabile. Possiamo stare tranquilli? Ancora, la Boschi ha pronunciatoparole addirittura più gravi, democraticamente parlando, quando ha detto che chi vota “No” non rispetta il lavoro del Parlamento. Evidentemente, l’arroganza della ministra la porta a non operare più alcuna distinzione tra un referendum ed un plebiscito. Con il primo, il popolo è chiamato a esprimere la sua sovrana volontà; con il secondo, il potere di turno non fa che chiedere conferma delle decisioni prese da pochi (in questi giorni, Erdogan docet, ma nella storia ci sono tantissimi altri esempi). Considero addirittura inquietane la frase della ministra, perché indica l’animus con cui, in prospettiva, il governo vorrebbe guidarci . Il popolo dovrebbe solo obbedire. Anche a fronte di questa palese arroganza in atto, alcuni sostengono che, comunque, è meglio che una riforma avvenga, piuttosto che continuare come sempre.

Caro direttore, vorrei dire che non ogni riforma è buona (ad esempio, non è buona la riforma portata a termine con la legge Cirinnà), soprattutto quando essa rischia di determinare la vita politica di un intero Paese per molti decenni. Ed allora, le forze politiche si mettano insieme per fare una buona riforma, evitando una riforma confusa e, in prospettiva, pericolosa. Cambiare in meglio si può. Una volta tanto dire “No” può andare in questa direzione positiva.

   

 

LA PROPOSTA DI PARISI
 

C’è da augurarsi che l’idea lanciata dall’aspirante leader del centrodestra Stefano Parisi di dar vita, in caso di vittoria dei “No” al referendum, ad un’Assemblea Costituente «per riscrivere le regole del gioco tutti insieme» equivalga a un innocuo vaneggiamento estivo e non sia invece l’anticamera di nuove alchimie. 

di Ruben Razzante
Schede per il referendum

Non si può non constatare che, ciclicamente, nel povero dibattito politico del nostro Paese, quando non si vogliono ammettere i propri fallimenti o affrontare sul serio i problemi, ci si inventa una commissione bicamerale o, peggio ancora, un’Assemblea Costituente. Quando la politica non si mette allo specchio per analizzare i propri errori, ma cerca una scorciatoia, ecco materializzarsi una soluzione “epocale”, che ha il solo scopo di confondere le acque, annacquare le responsabilità, preparare nuovi equilibri di potere sulla pelle degli italiani.

C’è dunque da augurarsi che l’idea lanciata dall’aspirante leader delcentrodestra Stefano Parisi di dar vita, in caso di vittoria dei “No” al referendum, ad un’Assemblea Costituente «per riscrivere le regole del gioco tutti insieme» equivalga a un innocuo vaneggiamento estivo e non sia invece l’anticamera di nuove alchimie all’interno e tra gli schieramenti.

L’ex manager Fastweb, che pure sembra aver impresso uno slancionuovo all’iniziativa politica del centrodestra, offre a Renzi un “piano B” in caso di sconfitta al referendum di novembre, proponendogli di non dimettersi (cosa che il diretto interessato ha annunciato per mesi e ora, chissà perché, non annuncia più) e di farsi anzi promotore, insieme con le altre forze politiche, di un’Assemblea Costituente che faccia le riforme costituzionali necessarie per il futuro del Paese.

Sembra tanto di assistere alle prove generali di un “Nazareno bis”, dove i due apparenti sfidanti, alfine di garantire la conservazione del sistema e di scongiurare il rischio di una vittoria delle forze antisistema alle prossime elezioni politiche, si cautelano con un paracadute. Scrivere le regole insieme significherebbe anestetizzare il confronto politico e consentire a chi è al governo ora di poter contare su una tregua prolungata e “consociativa”, che rappresenterebbe l’ennesimo tradimento della volontà popolare.

Le elezioni del 2013, lo sanno tutti, hanno consegnato al Parlamento uno scenario di ingovernabilitàche avrebbe richiesto immediatamente una soluzione condivisa, con il varo di riforme istituzionali ed elettorali e un rapido ritorno alle urne. Si è scelta invece la via dei governi “minoritari”, che rappresentano meno della metà degli italiani, e ora, dopo 30 mesi dedicati dalle Camere alla predisposizione di una riforma dell’architettura dello Stato, qualcuno propone, in caso di vittoria dei “no” al referendum, di convocare un’Assemblea Costituente.

L’ipotesi appare alquanto bizzarra e disancorata dalla realtà. Nella politica e nella società esiste unaforza ormai consolidata come il Movimento Cinque Stelle, che governa già in molte città, che da molti sondaggi viene data vincente in un eventuale ballottaggio nazionale contro il Pd, e che certamente non accetterebbe di far parte di un’Assemblea Costituente con esponenti renziani o berlusconiani. Non si dimentichi che questo Parlamento è in parte delegittimato dalla sentenza sul Porcellum e affidare a parlamentari delegittimati la stesura di una nuova Carta Costituzionale sembra quanto meno azzardato.

Il Paese è ingessato da mesi e inchiodato a questo “ricatto referendario” dal quale occorre uscire infretta. Entro il 15 ottobre il governo dovrà inviare alla Commissione europea il testo della legge di stabilità, che Renzi intenderebbe infarcire di mancette e elemosine, al fine di risalire nei sondaggi, di vincere il referendum e di proiettarsi verso la vittoria alle prossime politiche. A Bruxelles sono sempre più guardinghi e non è detto che l’elasticità rispetto al rapporto deficit-pil possa essere accordata all’Italia. Peraltro gli indicatori economici non sembrano volgere al bello per il nostro Paese e la stagnazione appare la nota dominante. Per rilanciare gli investimenti occorrono scosse che questo governo, condizionato da spauracchi elettorali e da timori di agguati interni, non sembra in grado di dare.

La Costituzione è stata cambiata 35 volte in meno di 70 anni. Invogliare la gente a votare  “Si” con laminaccia che «altrimenti passerebbero altri 70 anni per rinnovare lo Stato» è un argomento di una demagogia stucchevole. Esistono buone ragioni per votare “Si” e altrettante per votare “No”. Sia la gente a decidere in maniera democratica e si prenda atto, qualunque sia l’esito delle urne, della volontà popolare. Nel frattempo, l’Italicum potrebbe essere modificato dal Parlamento, anche su sollecitazioni della Corte Costituzionale, e a quel punto ci sarebbero tutte le condizioni per sciogliere le Camere, anche nel 2017, e per consentire agli elettori di votare liberamente. 

Di Assemblea Costituente si riparli quando il quadro politico sarà più stabile, meno frammentato erissoso e con una maggioranza chiara che decide, “degasperianamente”, di coinvolgere la minoranza (o le minoranze) nella ridefinizione delle regole del gioco. Oggi sarebbe solo un pastrocchio e una maniera gattopardesca per cristallizzare lo status quo.

 

   






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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FOCUS
di Angelo Salvi *
Il 4 dicembre si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale
 

Preannunciata dal governo come strumento da offrire al Paese nell’ottica di allinearsi alle più avanzate democrazie occidentali, la riforma costituzionale si presenta, in realtà, frammentaria, contraddittoria ed in alcuni passi equivoca.  Come nel caso del nuovo art. 71 della Costituzione. Ecco perché.

Con l’intervento dell’avvocato Angelo Salvi prosegue la collaborazione del Centro studi Livatino (www.centrostudilivatino.it) tesa a illustrare i passaggi più significativi della riforma costituzionale e a sottolinearne i profili problematici, allo scopo di avvicinarsi alla scadenza del voto referendario, avendo consapevolezza dei contenuti delle modifiche, e lasciando da parte gli slogan.

 

La riforma operata con il disegno di legge del 12 aprile 2016 (in G.U. 15 aprile 2016 - c.d. disegno di legge Renzi-Boschi), nel quadro della più ampia ridefinizione del procedimento di formazione delle leggi, interessa anche l’art. 71 della Costituzione, la cui originaria stesura è ora arricchita da due nuovi commi e dalla riformulazione del testo del secondo comma (ora divenuto il terzo).

Preannunciata dal governo come strumento da offrire al Paese nell’ottica di allinearsi alle piùavanzate democrazie occidentali e salutata dalla maggioranza – all’indomani dell’approvazione alla Camera – quale ennesima conferma dei buoni propositi renziani di impostare un’Italia con più risorse e meno sprechi, la riforma si presenta, in realtà, frammentaria, contraddittoria ed in alcuni passi equivoca, come nel caso del nuovo art. 71 della Costituzione, ove il restyling degli istituti di partecipazione popolare al procedimento di formazione legislativa consegna al testo un volto che non ne rispecchia la vera anima.

Il volto è la disintermediazione. Lo stesso presidente del Consiglio è stato – verbis et factis – chiaronell’individuare proprio nella presenza di corpi intermedi spesso inutili una delle principali cause che hanno nel tempo rallentato la marcia del popolo italiano verso l’agognato progresso. Se l’intermediario non serve, occorre liberarsene. Sia esso il titolare di un’agenzia di viaggio, il libraio, il giornalista o, finanche, il partito politico. Meglio, se possibile, dar voce al cittadino, all’uomo qualunque. Ed il referendum diviene così la trasposizione istituzionale del web a cinque stelle.

Il popolo, dunque, non più comparsa nella scena politica, ma attore principale e protagonista. Inquesta direzione sembra collocarsi l’introduzione del nuovo quarto comma dell’art. 71, a mezzo del quale fa la sua comparsa nel nostro ordinamento lo strumento inedito del referendum popolare propositivo e d’indirizzo (cfr. «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali»). 

Così come ipotizzato nel nuovo testo costituzionale, l’istituto – almeno a una sommaria lettura –sembra offrire un’adeguata risposta a quella parte dell’elettorato che individua nel rapporto diretto tra il cittadino e lo Stato uno strumento valido a fronteggiare la crisi ormai conclamata e forse irreversibile delle forme tradizionali della rappresentanza politica in genere e dei partiti politici in specie. In questa direzione sembra, altresì, collocarsi anche il nuovo terzo comma dell’art. 71 (già secondo comma), anch’esso sottoposto a revisione dal legislatore.

Al di là dell’innalzamento del numero minimo di firme da raccogliere per la presentazione di unaproposta di legge di iniziativa popolare, portato da 50.000 a 150.000 e giustificabile con l’incremento della popolazione dal 1948 ad oggi, salta all’occhio che ora la Costituzione “impone” che «la discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari». Nel quadro della dialettica politica che sta segnando i giorni che precedono la consultazione popolare sulla riforma stessa, i nuovi commi terzo e quarto dell’art. 71 offrono dunque alla maggioranza un palliativo per lenire le critiche che le opposizioni tutte vanno sviluppando sugli effetti imprevedibili, che il sistema definito dalla riforma costituzionale in uno con la nuova legge elettorale (legge 6 maggio 2015, n. 52, c.d. Italicum) rischia di generare, in termini di esasperato centrismo e di assenza di contrappesi.

L’anima centralizzatrice della riforma. Certamente, centralizzazione e partecipazione popolare allafase legislativa viaggiano in direzioni opposte, sono di fatto inversamente proporzionali. E una riforma centralizzatrice non dovrebbe valorizzare la partecipazione popolare. È evidente, infatti, che laddove il Parlamento fosse “obbligato” ad esprimersi con tempi certi e stretti su una proposta di legge di iniziativa popolare, magari sostenuta da un adeguato numero di firme e da iniziative di piazza, la maggioranza sarebbe quantomeno costretta ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte innanzi l’opinione pubblica.

L’iniziativa legislativa popolare potrebbe, in tal caso, costituire un elemento di intralcio per l’azione di un governo accentratore, che con essa dovrebbe inevitabilmente confrontarsi. In questi termini, l’iniziativa legislativa popolare potrebbe, dunque, costituire un contrappeso utile a riequilibrare il sistema. Nei lavori preparatori alla stesura della Costituzione del 1948 vengono riportate sul tema le opinioni espresse da un autorevole costituzionalista, Costantino Mortati, secondo cui l’istituto «ha lo scopo di frenare e limitare l'arbitrio della maggioranza, perché non è detto che la maggioranza sia espressione sempre della volontà popolare». Perciò, «è opportuno concedere al popolo un mezzo concreto per esprimere efficacemente un proprio orientamento, anche in difformità con l'orientamento governativ»o.

Spiega Mortati che «le elezioni si svolgono ogni cinque anni; e si presume che lo schieramento che ne risulta rifletta durante tutto questo periodo la volontà espressa nel primo momento. Tuttavia non si tratta di una presunzione juris et de jure che non possa essere assoggettata a riprova, ed è utile e democratico consentire questa possibilità di controllare il grado di rispondenza tra la politica del Governo e gli orientamenti popolari». La storia repubblicana, d’altronde – proprio perché costellata di proposte di legge ferme per intere legislature – ci insegna che un tale effetto di verifica e di riequilibrio ha un senso solo se vi è certezza sui tempi di esame della proposta di legge di iniziativa popolare.

In tale prospettiva, il nuovo art. 71 della Costituzione può effettivamente costituire uno strumentoutile a controbilanciare l’eccessivo peso che la riforma, nel suo insieme, potrebbe attribuire ad una maggioranza che – seppur emersa dalle urne – non sia più tale nel Paese?  La risposta al quesito ora posto passa attraverso un più approfondito esame di quanto previsto dalle norme sopra passate in rassegna. Sotto questo profilo, la garanzia offerta dal rinvio a tempi, forme e limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari per l’esame delle proposte di legge di iniziativa popolare rappresenta uno strumento inadatto a dare sostanza alla norma, anche in considerazione del fatto che storicamente il principale punto critico incontrato dall’istituto partecipativo in questione è proprio l’assenza di garanzie circa l’effettivo esame di dette proposte di legge. 

Ma allora, non avrebbe avuto più senso introdurre – anche per la proposta di legge di iniziativapopolare – una garanzia del tipo di quella elaborata per i soli disegni di legge di matrice governativa e contenuta nel nuovo secondo comma dell’art. 71? In tal caso «il Senato della Repubblica può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, richiedere alla Camera dei deputati di procedere all’esame di un disegno di legge» e la Camera dei deputati «procede all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato della Repubblica». Se l’iniziativa è governativa, quindi, il termine è certo e fissato direttamente in Costituzione.

Il rinvio ai regolamenti parlamentari costituisce, per contro, una garanzia troppo blanda, perchériservata a una fonte normativa nella disponibilità della maggioranza e priva della garanzia costituzionale (detti regolamenti sono peraltro fonte normativa sottratta al giudizio di costituzionalità).  L’esperienza, anche recente (v. in proposito la nuova legge sulle unioni civili), ci mostra che i regolamenti parlamentari costituiscono un argine troppo sottile, per contenere i desiderata della maggioranza parlamentare – più o meno forte che sia – nell’accelerare o arenare l’iter di discussione di una proposta di legge.

D’altro canto, anche il nuovo istituto del referendum popolare propositivo e d’indirizzo soffre dieffettività, per l’ingiustificato rinvio a una legge di attuazione, prevista dalla norma istitutiva («con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione»), che rischia di trasformarlo in uno dei tanti istituti inattuati di cui il nostro ordinamento è pieno. A oggi, dunque, sembra difficile rintracciare segni di concretezza nella riforma degli strumenti di partecipazione popolare all’iter legislativo.

D’altro canto, la partecipazione popolare all’iter legislativo è solo uno dei momenti nei quali il popolo esercita la propria sovranità. E dai già citati lavori preparatori alla Costituzione del 1948 emerge come lo stesso non fosse neppure considerato indispensabile dai costituenti: «Nello Stato moderno vi sono molti altri mezzi attraverso i quali una corrente di opinione pubblica può trovare la sua espressione». Il principale tra questi è senz’altro l’elezione a suffragio universale e diretto dei rappresentanti che eserciteranno i poteri.

Ma allora, ci chiediamo, se si voleva riformare la Costituzione non sarebbe stato meglio pensare auna equilibrata ed organica ridefinizione degli istituti concernente la rappresentanza dei cittadini, piuttosto che gettare in pasto ai fanatici del peer to peer istituti incompiuti e di incerta attuazione?

* del Centro Studi Livatino - avvocato in Roma




TRA I SI E I NO UNA IMPOSSIBILE PAR CONDICIO  di Ruben Razzante

Mentre Renzi preannuncia un suo tour per spiegare agli italiani le ragioni del “Si” alla riforma costituzionale, il fronte del “No” grida allo scandalo per non essere stato consultato sulla data del voto. Ma le schermaglie riguardanti la fissazione di una data molto lontana sembrano ormai destinate a lasciare il posto alle discussioni sul merito della riforma. 

Riduzione dei costi della politica e del numero dei parlamentari,semplificazione dei meccanismi decisionali e legislativi, abolizione del Cnel tra gli argomenti “forti” di chi invita a votare “Si”. Riforma di facciata che non garantisce stabilità e non procura grandi risparmi alle casse dello Stato, riforma pasticciata che non elimina il Senato ma lo trasforma in un luogo di ritrovo di sindaci e amministratori locali, riforma che prepara grandi conflitti istituzionali e paralisi nel processo di emanazione delle leggi sono invece tra le ragioni che spingono in molti a votare e a far votare “No”.

La campagna referendaria sta già entrando nel vivo, i sondaggi si rincorrono e danno i “No” in leggero vantaggio, ma con un 30% di indecisi, platea verso la quale si indirizzano gli sforzi di persuasione del premier e dei suoi. Il ministro Maria Elena Boschi è volata addirittura a Buenos Aires per sponsorizzare la sua riforma presso gli italiani che vivono li’ e subito è divampata la polemica sui soldi pubblici utilizzati a fini di propaganda. Ma il prevedibile testa a testa fino al giorno del voto sarà amplificato dal clamore mediatico che inevitabilmente accompagnerà questi due mesi abbondanti che ci separano dall’appuntamento con le urne. 

D’altronde, non è in gioco solo la riforma Boschi ma anche la tenuta del governo e, secondo alcuni,perfino la vita della legislatura. Va da sé che i risvolti mediatici delle contrapposizioni saranno decisivi per la prevalenza dei “Si” o dei “No”. E qui si riapre la querelle sulla par condicio e sul pluralismo dei media durante i periodi pre-elettorali. Le incognite nell'applicazione della par condicio sono diverse. Quella legge è stata emanata nel duemila su input del centrosinistra, che governava a fatica e fiutava aria di sconfitta alle elezioni del 2001. Per frenare la presunta sovraesposizione mediatica di Berlusconi si inventò una legge ispirata certamente a un criterio democratico di eguaglianza sostanziale nella gestione degli spazi di propaganda politica, ma scritta in maniera contorta e dunque difficile da applicare e da far rispettare.

Oggi quelle difficoltà applicative si ripropongono in maniera vistosa, anche in ragione della dilaganteespansione della Rete, che mette in crisi il concetto di rigida ripartizione degli spazi di propaganda. Nel caso specifico del referendum, poi, ci sono anche delle particolarità che balzano nitidamente agli occhi degli attenti osservatori. Mentre il fronte del “Sì” appare più coerente e coeso, facendo capo all'universo governativo, il fronte del “No” è assai più variegato e disomogeneo, essendo composto da forze politiche che hanno molto poco in comune e si trovano temporaneamente dalla stessa parte della barricata solo per opporsi a una riforma che reputano sbagliata e a un governo che giudicano inadeguato e dannoso per il Paese.

Nella misurazione degli spazi di propaganda, però, chi sceglierà se a parlare per il fronte del “No”dovrà essere Brunetta o Di Maio, Salvini o D'Alema? Considerato che tutti i partiti anti-riforma, dai Cinque stelle alla Lega, puntano a intestarsi l'eventuale vittoria dei “No”, non risulterà impervio imbavagliare a turno l'uno o l'altro per evitare una sovraesposizione dello schieramento del “No”?

Altro problema: l'informazione cosiddetta istituzionale e di servizio, cioè quella mirata a spiegare aicittadini come si vota e per cosa si vota, si baserà sulla illustrazione del quesito referendario che, tuttavia, a detta dei sostenitori del “No”, è tendenzioso e sbilanciato in favore del “Sì”. Gli spazi di questa propaganda "istituzionale" non verranno formalmente conteggiati in quota fronte del “Sì”, ma certamente aiuteranno quest'ultimo. E c'è da scommettere che scoppierà la bagarre. Infine, la Rete. Impossibile far rispettare la par condicio in internet, tanto più sui social network, che sono più che mai il trionfo della libertà d’espressione. Chi ha  milioni di follower su twitter o di “amici” sui suoi vari profili di facebook certamente raggiungerà un maggior numero di persone rispetto a chi non ha grande familiarità con quegli strumenti.

Impossibile, quindi, evitare disparità in quell’ambito di notizie pubblicate dai giornali on line e poilinkate sui social network con commenti e interpretazioni. La propaganda referendaria, quindi, passerà soprattutto attraverso canali insondabili, incontrollabili e ingestibili sul piano della parità di trattamento. Questo rende decisamente più incerta la battaglia e ancora più ardua l’opera di vigilanza dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Non è difficile immaginare una coda di ricorsi e denunce per violazione delle norme della par condicio nel campo dei media tradizionali, mentre nella giungla di internet vincerà chi saprà essere più incisivo e persuasivo, capitalizzando l’ontologica “anarchia” dell’ambiente virtuale.

   


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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