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Cari Vescovi, vi supplichiamo, non tacete più, gridate dai tetti la Verità (5)

Ultimo Aggiornamento: 05/06/2017 00:46
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20/04/2017 09:38
 
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Ultima Cena, Duccio di Boninsegna
 

La corretta pastorale di indicare dei traguardi e porre dei limiti non può essere tacciata di rigorismo: è semplicemente fedeltà verso Gesù Cristo e onestà verso l’uomo, evitando di offrirgli una salvezza che non è tale. È anche misericordia, avviando l'uomo con la dottrina e la carità verso la salvezza vera. I limiti della partecipazione per la Chiesa non si basano mai unicamente su norme morali o consuetudini culturali: mettono in gioco e nel profondo l’Eucaristia stessa.

di Padre Riccardo Barile OP



In preparazione del Convegno internazionale di sabato 22 aprile ("Fare chiarezza - A un anno dalla Amoris Laetitia"), pubblichiamo alcuni articoli che affrontano i punti nodali che sono alla base delle opposte interpretazioni che si danno dell'Amoris Laetitia e soprattutto del capitolo VIII (dedicato alle situazione irregolari). Oggi completiamo le riflessioni sull'Eucaristia (qui la prima puntata).

Ultima cena Juan de Juanes

La lavanda dei piedi da parte della Chiesa a tutti gli uomini per accedere all’Eucaristia avviene con il battesimo, con la predicazione della penitenza, con la proposizione della sana dottrina, ecc.: in pratica con una costante e corretta pastorale.

Ma con materna severità anzitutto la Chiesa vieta - ha sempre vietato - di accedere all’Eucaristia in peccato grave o mortale. San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia ha scritto al riguardo: «Desidero ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ecc.» (n. 36). Sono parole pesanti che costringono la Chiesa di sempre a fare i conti con il Concilio di Trento su questo punto.

Il Concilio di Trento parla più volte dell’Eucaristia in relazione al peccato e con una dottrina molto ricca.

Anzitutto «la santità e la divinità di questo celeste sacramento» esigono di riceverlo con «una grande venerazione e santità» e i fedeli devono «accostarsi rivestiti dell’abito nuziale» (Decreto sul santissimo sacramento dell’Eucaristia dell’11.10.1551, capp. VII-VIII).

Considerando l’Eucaristia come cibo, questa è «l’antidoto con cui essere liberati dalle colpe d’ogni giorno e preservati dai peccati mortali» (Ivi, cap. II). Le colpe di ogni giorno sono le imperfezioni e i peccati lievi, secondo una sentenza di sant’Agostino: «Si adatti alla condotta quella lode che non dimentichi la necessità del perdono (Sic vita laudetur, ut venia postuletur)» (Sermone 19,2).

Considerando la condizione base per accedere all’Eucaristia, si esige un “esame di se stesso” (1Cor 11,28) perché «nessuno consapevole di essere in peccato mortale, per quanto possa ritenersi contrito, si accosti alla santa Eucaristia senza avere premesso la confessione sacramentale» (Ivi, cap. VII). Si condanna che la sola fede sia «preparazione sufficiente» (Ivi, can. 11). Ad oggi il CCC 1385 ribadisce la medesima dottrina.

Considerando l’Eucaristia come sacrificio, in essa «è contenuto e immolato in modo cruento lo stesso Cristo» che si offrì sulla Croce. In questo senso la Messa è il “propiziatorio” dove possiamo trovare grazia (Eb 4,16) e attraverso il quale il Signore «concedendo la grazia e il dono della penitenza, perdona i peccati e le colpe, anche le più gravi (crimina et peccata etiam ingentia dimittit)»(Dottrina e canoni su santissimo sacrificio della Messa del 17.9.1562, cap. II).

Abbiamo sempre iniziato con un “Considerando...” perché le affermazioni vivono nel contesto né è legittimo trasferirle altrove. Così, se è vero che l’Eucaristia rimette tutti i peccati anche gravi, ciò è detto in quanto è relativa al sacrificio di Cristo, mentre se si trasferisce la stessa affermazione alle condizioni per accedervi, si azzera il sacramento della Penitenza e si ammettono tutti alla comunione “così come sono”, mentre al riguardo il Concilio di Trento richiede la purificazione dal peccato grave. E questo trasferimento di contesti oggi talvolta lo si fa, con quali conseguenze ognuno lo può immaginare.

Per quali ragioni la Chiesa prescrive di non accostarsi all’Eucaristia in stato di peccato mortale non confessato?

1. Perché all’Eucaristia si arriva dopo un cammino di conversione.

Dopo l’annunzio del Vangelo, se la risposta è positiva, chi ascolta «si sente chiamato ad abbandonare il peccato» (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti 10) e ad entrare poi nel catecumenato, un itinerario «che implica un progressivo cambiamento di mentalità e di costume» (Ivi, 18,2). Solo avvenuta questa conversione si sarà ammessi all’Eucaristia. Per cui nel tempo successivo «se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione» (Amoris Laetitia 297) e a maggior ragione non può partecipare all’Eucaristia. Solo per ridere: a seguito di questo testo di Amoris Laetitia certi preti e certi vescovi potrebbero celebrare la Messa?

Nell’antichità (sec. III) La Tradizione apostolica (Ippolito) ai capitoli 15-16 dà suggerimenti per accogliere o meno coloro che si presentano per essere fatti cristiani. I suggerimenti concernono l’esame delle condizioni di vita, dei mestieri più o meno leciti e delle situazioni matrimoniali in particolare: i mariti si accontentino delle mogli e viceversa, chi ha una concubina la sposi regolarmente altrimenti sia rimandato, siano rimandati prostitute e invertiti (meretrix vel homo luxuriosus). È chiaro che a questo punto non si pongono più problemi per l’Eucaristia, in quanto vengono risolti molto prima. È chiaro che è storicamente miope chiedere alla Chiesa di oggi di non mettere dei paletti a certi rapporti uomo/donna (e il resto!) in vista dell’Eucaristia: la Chiesa lo faceva già dal III secolo e forse prima in una società dove, come oggi, culturalmente “queste cose” non apparivano poi così gravi.

2. Perché l’Eucaristia è l’incontro santo con il Dio santo.

La già citata Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003) è il più recente documento completo sull’Eucaristia, in cui san Giovanni Paolo II ne elenca le caratteristiche tenuto conto delle acquisizioni del passato e del presente. L’Eucaristia, con la proclamazione della Parola e sotto forma di convito rituale, «è il sacrificio della Croce che si perpetua dei secoli» e «questo sacrificio è talmente decisivo per la salvezza del genere umano che Cristo l’ha compiuto ed è tornato al Padre soltanto dopo averci lasciato il mezzo per parteciparvi come se vi fossimo stati presenti» (11-12). Con il sacrificio della Croce, l’Eucaristia rende presente «anche il mistero della Risurrezione, in cui il sacrificio trova il suo coronamento» (14). Tutto ciò implica una «specialissima presenza» (15) vera, reale, sostanziale di Cristo, che «attraverso la comunione al suo corpo e al suo sangue, ci comunica anche il suo Spirito» (17). E non bisogna dimenticare che l’Eucaristia, come e più del Padre nostro, ci pone in comunione con il Padre per Cristo e nello Spirito. Veramente l’Eucaristia è il nostro roveto ardente in cui incontriamo il Dio tre volte Santo tra gli angeli e i santi (Es 3,1-6; Is 6,1-7). Come non sentire l’esigenza di purificazione non solo dalle colpe quotidiane, ma prima ancora dal peccato grave?

3. Perché l’Eucaristia postula un retto rapporto tra ciò che essa è e ciò che noi siamo.

Rivolgendosi ai fedeli - la maggioranza analfabeti - sant’Agostino spiegava: «Se voi siete il Corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il vostro mistero, ricevete il vostro mistero. A ciò che siete rispondete: Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: “Il Corpo di Cristo” e tu rispondi: “Amen”. Sii membro del Corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen» (Sermones 272).

San Tommaso d’Aquino tira le conseguenze implicite del discorso agostiniano: «Chiunque riceve questo sacramento, pone un atto che significa di essere unito a Cristo e alla sue membra (la Chiesa). Ma ciò avviene attraverso la fede viva, che nessuno possiede mentre è in peccato mortale. Dunque è chiaro che chiunque assume questo sacramento mentre è in peccato mortale, provoca una falsità nel sacramento stesso (falsitatem in hoc sacramento committit) e anche un sacrilegio» (III, q 80, a 4).

Due frasi oggi correnti sembrano far saltare tutto in aria. La prima è citata molto spesso: «L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (EG 47, citato in AL 351). È vero: nessuno ha diritto all’Eucaristia come premio. Va però notato che il peccatore «intraprende il cammino della penitenza mosso dalla grazia di Dio misericordioso / mosso dallo Spirito Santo» (Rito della Penitenza 5-6) e dunque sotto l’influsso della misericordia di Dio che lo conduce all’Eucaristia: questa penitenza è il “rimedio” e “l’alimento per i deboli”, da accogliere consapevolmente. In questo senso va intesa la frase e non come un lasciapassare.

La seconda frase è di sant’Ambrogio ed è riportata in nota nel passo citato di EG 47: «Devo riceverlo sempre (il pane eucaristico), perché sempre perdoni i miei peccati. Io, che sempre pecco, sempre devo avere la medicina» (De Sacramentis IV,6,28). A questa si potrebbe aggiungere: «Ogni volta che tu bevi (il sangue di Cristo) ricevi la remissione dei peccati e ti inebri dello Spirito» (Ivi, V,3,17). Queste affermazioni fanno saltare il Concilio di Trento e tutto il resto e aprono oggi l’Eucaristia a chiunque? Assolutamente parlando sì; se sono contestualizzate no. Sant’Ambrogio parla dell’Eucaristia in relazione al sacrificio di Cristo e non alle condizioni esatte per riceverla. Tant’è vero che raccomanda la recezione quotidiana del pane eucaristico, ma aggiunge immediatamente: «Vivi in modo tale da poterlo ricevere ogni giorno» (Ivi, V,4,25). E poi sant’Ambrogio sapeva benissimo che, a fronte di un adulterio, bisognava entrare in tempi prolungati di penitenza.

Come sempre, san Tommaso d’Aquino offre una distinzione che permette di ben interpretare questa e altre frasi: mentre «il battesimo e la penitenza sono medicine purgative che vengono date per togliere la febbre del peccato» l’Eucaristia è «una medicina confortativa, che non si deve dare se non a quanti sono già stati liberati dal peccato» (III, q 80, a 4, ad 2um).

Tirando le fila, l’opera di purificazione che la Chiesa deve compiere per avviare a una degna recezione dell’Eucaristia, compreso lo stabilire dei limiti precisi quanto al peccato grave, è abbastanza e in genere ostacolata per il venire meno del senso della santità dell’Eucaristia, della sua qualità di essere il “roveto ardente” che ci avvicina al Dio tre volte santo. Onestamente va precisato che tale venir meno non può addebitarsi all’Eucaristia stessa, ma alla pastorale che si pone in atto, a come si parla dell’Eucaristia, a come la si celebra ecc.

A un livello più concreto, c’è il pericolo di una selezione indebita dei peccati gravi o mortali. No l’Eucaristia agli scafisti, ai mafiosi, ai profanatori ecologici, ai guerrafondai ecc., ma non solleviamo troppi problemi sui rapporti uomo/donna a oltre.

Quest’ultimo “indebolimento” di gravità dipende senz’altro dalla troppa accoglienza del dato culturale odierno che ha tolto molta rilevanza morale al problema. Per contro la Tradizione apostolica testimonia che nell’antichità la Chiesa sapeva andare controcorrente bloccando l’itinerario battesimale/eucaristico a quanti non avevano in animo di risolvere situazioni che pure il comune modo di vivere non riteneva troppo gravi.

La corretta pastorale di indicare dei traguardi e porre dei limiti non può essere tacciata di rigorismo: è semplicemente fedeltà verso Gesù Cristo e onestà verso l’uomo, evitando di offrirgli una salvezza che non è tale. Verso l’uomo è anche misericordia, avviandolo con la dottrina e la carità verso la salvezza vera.

Infine il lavoro di purificazione positiva per avviare all’Eucaristia e l’indicare i limiti della partecipazione, per la Chiesa non si basano mai unicamente su norme morali o consuetudini culturali: mettono in gioco e nel profondo l’Eucaristia stessa. Sì, perché, come annota san Tommaso d’Aquino, «In questo sacramento è contenuto tutto il mistero della nostra salvezza» (III, q 83, a 4) e di conseguenza «l’Eucaristia è il compendio e la somma della nostra fede: “Il nostro modo di pensare è conforme all’Eucaristia, e l’Eucaristia, a sua volta, si accorda con il nostro modo di pensare” (Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses 4,18,5)» (CCC 1327).




 

Rahner è stato di fatto presente al Sinodo sulla famiglia.
E' la tesi sostenuta dall'ultimo libro di Stefano Fontana La Nuova Chiesa di Rahner. Un'analisi dei semi del pensiero di Rahner nel dibattito sinodale. Che intaccano profondamente Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II. Il punto principale della presenza della "teologia" rahneriana riguarda l’accesso alla comunione dei divorziati risposati. 

di Stefano Fontana

I temi che verranno affrontati nel corso del Convegno internazionale organizzato da La Nuova BQ e Il Timone in programma domani hanno la loro origine nel Sinodo sulla famiglia del 2015. Per questo motivo pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un capitolo del libro scritto da Stefano Fontana in uscita in questi giorni La Nuova Chiesa di Karl Rahner edito da Fede e cultura.

Durante il lungo periodo sinodale sulla famiglia caratterizzato dal Sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e da quello ordinario dell’ottobre 2015 si sono potuti verificare molti elementi derivati da una impostazione rahneriana delle cose. Rahner, in altre parole, ancorché morto nel 1984, è stato presente al Sinodo. Si potrebbe anche dire che le notevoli contrapposizioni che sono emerse durante i due Sinodi derivano dallo scontro tra l’area della teologia rahneriana e la controparte.

Elementi fortemente rahneriani erano già emersi nella lezione introduttiva al Sinodo tenuta davanti ai Cardinali da parte del cardinale Walter Kasper nel febbraio 2014. Pensiamo per esempio all’idea che non si possa mai conoscere una situazione oggettiva e pubblica di peccato, quale è appunto quella dei divorziati risposati. La tesi espressa da Kasper era che non esistono i divorziati risposati, ma questo, quello, quell’altro divorziato risposato. La realtà, quindi, non mostra strutture portanti e universali, ma solo situazioni uniche individuali. Questo modo di vedere è di origine nominalistica dato che proprio questo diceva Guglielmo di Occham nel XIV secolo e divenne anche il modo di vedere di Lutero e della filosofia protestante in genere, in quanto è il modo migliore per separare la ragione dalla fede.

Se non esistono nella realtà strutture universali che la ragione possa conoscere con le proprie forze, essa non potrà salire naturalmente dalle cose a Dio, né la rivelazione potrà servirsi del linguaggio della ragione per farsi capire da tutti. La ragione sarà nominalista, ossia potrà fare esperienza di singole cose alle quali, per somiglianza tra loro, potrà poi anche assegnare un nome comune, ma solo un nome che non si riferisce a nessuna realtà oltre le singole cose. La fede sarà fideista. Dio è onnipotente, è il totalmente Altro, è volontà e non verità.
La Veritatis splendor di Giovanni Paolo II dice l’opposto di quanto affermato da Kasper, ma quella enciclica aveva alle spalle una diversa filosofia. Anche per Rahner ci sono solo casi particolari da affrontare uno per uno, perché la realtà del mondo è complessa, non c’è una dottrina che vi si possa applicare e non si può conoscere mai se si è o meno davanti ad una situazione di peccato. Davanti ad una coppia di divorziati risposati la Chiesa deva comprendere, accogliere ed accompagnare con un percorso da farsi caso per caso e adoperando il non ben precisato discernimento. Quanto appunto ha proposto il cardinale Kasper.

Durante la discussione sinodale molti vescovi dissero che anche in una relazione omosessuale è presente la grazia di Cristo. Prima, durante e dopo il Sinodo molti vescovi e cardinali si sono detti favorevoli ad affidare compiti ecclesiali agli omosessuali pur se perseveranti nella loro relazione, e ad appoggiare il riconoscimento delle unioni civili tra persone omosessuali da parte dell’autorità politica. E’ evidente che queste prese di posizione comportano l’abolizione del diritto naturale e della legge morale naturale e non tengono conto della necessità di rispettare la natura e le sue leggi se si vuole piacere alla soprannatura e alla grazia. Dire che la grazia è presente anche in una relazione omosessuale significa dire, con Karl Rahner, che la grazia è data sempre a tutti perché essa viene data al mondo, ove non esistono situazioni al di fuori della grazia di Dio.

A ben vedere, anche l’invito alla parresia fatto ai Padri sinodali presenta una accentuazione rahneriana. Essa significa l’accettazione del pluralismo dentro la Chiesa nel senso della moderna libertà di espressione. Questa concezione della libertà di espressione è però diversa dalla libertà in senso cattolico. La parresia consiste nel coraggio di annunciare la verità, senza timori umani o reverenziali o senza la preoccupazione di salvare il salvabile. Non può significare la libertà di esprimere, in un consesso ecclesiale tanto importante come un Sinodo, idee scandalose per i fedeli o sconcertanti o che insinuano dubbi su fondamentali verità di fede professata. Il mondo è senz’altro pluralista, ma la Chiesa non può esserlo. Ma se la Chiesa fa parte del mondo anche essa sarà pluralista come Rahner continuamente afferma.

Però il punto principale della presenza della teologia rahneriana al recente Sinodo sulla famiglia riguarda l’accesso alla comunione dei divorziati risposati, ossia di persone in stato di peccato pubblico e oggettivo. Se il peccato è visto come la morte ontologica (vale a dire del suo stesso essere) dell’anima, allora non si può pensare che sia possibile ricevere la comunione se prima l’anima non rinasce tramite il sacramento della confessione. Se però si vede la cosa non in senso ontologico ma esistenziale, tutto è reversibile nell’esistenza e quindi è possibile prevedere percorsi esistenziali per cui qualcuno possa accostarsi alla comunione pur rimanendo nella situazione oggettiva di peccato. Qui non c’è più la netta distinzione tra vita e morte, tra bene e male, tra grazia e peccato, tra dogma ed eresia, ma c’è una situazione esistenziale oggetto del nostro discernimento personale ed ecclesiale. Nell’esistenza tutto è convertibile, niente è irrevocabile. Tenuto anche conto di quanto si è già detto, ossia della impossibilità per Rahner di conoscere sia le situazioni oggettive e pubbliche di peccato sia quelle personali. Per lui ci sono le leggi di Dio, ma Dio – egli dice - non è il Dio delle leggi.

Non possiamo poi dimenticare che dal Sinodo sulla famiglia non è emersa nessuna indicazione sulla castità né alcuna indicazione se l’esercizio della sessualità fuori del matrimonio sia peccato. Giovanni Paolo II è stato ampiamente citato ma non lo è stato su due punti in particolare: il divieto di accedere all’eucarestia per i divorziati risposati e l’esercizio della sessualità fuori del matrimonio, punto ove si decide di accettare o di respingere l’eredità della Humanae Vitae di Paolo VI. Karl Rahner è tra i principali critici di quella enciclica di Paolo VI, anche se certamente non il solo, e per questo si capisce che al Sinodo sulla famiglia del 2014 e 2015 questa pluridecennale opposizione alla morale sessuale dell’enciclica di Paolo VI ha trovato un punto di condensazione importante. Secondo Rahner la Chiesa non deve “moralizzare”, ossia non deve dare precetti, norme, principi, regole, ma deve formare le coscienze. Che essa debba formare le coscienze è certamente vero, ma i precetti di Dio sono soavi e il suo giogo è leggero, ossia le leggi di Dio esprimono il bene dell’uomo e non si contrappongono alla coscienza. I precetti di Dio non sono astratti sicché la coscienza dovrebbe mediarli verso il concreto. Il precetto e la coscienza si corrispondono. La teologia morale di Rahner è diversa da quella della Vertitatis splendor di Giovanni Paolo II e nel Sinodo sulla famiglia è emersa con evidenza.






[Modificato da Caterina63 21/04/2017 09:46]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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